giovedì 10 novembre 2022

L'alba di tutto - Libro di David Graeber e David Wengrow

 

Leonard Mazzone, apprezzato relatore nella nostra conferenza del 27 Ottobre scorso, citò, rispondendo ad una domanda del pubblico, un saggio definendolo “il miglior libro che ho letto ultimamente”. Il saggio in questione è:

Si tratta di un testo, edito in Italia da Rizzoli a Febbraio di quest’anno, sicuramente ambizioso, il suo sottotitolo cita infatti “una nuova storia dell’umanità”, che non ha, finora, ricevuto qui da noi la stessa attenzione raccolta in molti altri paesi (per molte settimane in testa alle classifiche di saggistica in diversi paesi, USA in primis) forse perché le sue dimensioni (752 pagine) ed il suo spessore intellettuale hanno ulteriormente scoraggiato i lettori italiani già del loro non poco pigri verso questo genere di testi. Premesso che meriterebbe una specifica riflessione il fatto che negli ultimi anni siano usciti (a partire da quello famosissimo di Noah Harari “Sapiens, da animali a dei, breve storia dell’umanità”) diversi saggi che ripercorrono l’intera storia umana (in questo nostro blog abbiamo pubblicato a Giugno 2022 la sintesi di quello di Oded Galor con titoloIl viaggio dell’umanità”). Forse che le attuali epocali scelte (in tema di ambiente, clima, giustizia sociale, equilibri geo-politici, accelerazione tecnologica, modello di sviluppo economico) stiano imponendo uno sguardo storico molto più lungo di quelli soliti proprio per meglio capire come e perché si sia arrivati a questo punto? Va detto che al successo di “L’alba di tutto” non poco ha contribuito la fama già consolidata di uno dei suoi due autori, di molto poi accresciuta dalla sua improvvisa scomparsa a soli cinquantanove anni. Parliamo di David Graeber (1961–2020, antropologo accademico, attivista anarchico statunitense)

David Graeber. è stato, soprattutto negli USA e nel Regno Unito, uno dei più amati e citati studiosi degli ultimi anni. Esploratore iconoclasta della società contemporanea, dichiaratamente anarchico, tra i fondatori del movimento “Occupy Wall Street”, ha lasciato una decina di libri dalle tesi sempre provocatorie, scritti con uno stile tanto dissacrante nei toni quanto solido nell’argomentazione. La sua improvvisa morte per infarto, avvenuta nel 2020 proprio in Italia, a Venezia, non poteva non sorprendere e amareggiare i suoi moltissimi estimatori.  Se da una parte questo lutto può quindi aver creato un di più di attenzione verso questa sua ultima opera dall’altra va detto che ha scompaginato un progetto di ben altre dimensioni. L’idea originaria di Graeber, condivisa con il coautore di “L’alba di tutto”, David Wengrow (1972,  archeologo britannico, professore di archeologia comparata presso l'Institute of Archaeology, University College London)

consisteva in un’opera di ampissimo respiro articolata su diversi volumi e costruita su una mole impressionante di dati - relativi a storia, sociologia, antropologia, filosofia, economia e scienze politiche - raccolti dai due autori nell’arco di molti anni a formare una ricostruzione  della storia, e della preistoria, pluri-millenaria dell’umanità. Il cui scopo ultimo era quello di rispondere ad alcune fondamentali domande: la storia dell’umanità, fin dalle sue più lontane origini, può davvero essere concepita come un avanzamento lineare che non poteva avere altro esito che gli attuali modi di concepire e gestire la società, l’economia, l’intera cultura? è possibile che la sua ricostruzione classica sia in effetti la storia di un “mito” più o meno strumentalmente costruito proprio per sostenere l’idea di un progresso lineare dall’esito scontato? Quanto ha pesato il fatto che questa idea del procedere umano sia sostanzialmente maturata nell’ambito della cultura occidentale anche grazie alla totale dimenticanza di altre idee, di altre concezioni della storia umana? Il concetto stesso di diseguaglianza, la cui accettazione come fattore fondante delle società umane, come “fatto naturale”, non ne è forse il prodotto inevitabile? Non diventa allora importante recuperare altri punti di vista, altre narrazioni, altri miti capaci di spiegare diversamente quanto sin qui successo? Sono tutte, va da sé, classiche domande “da far tremare vene e polsi”, ma erano esattamente quelle che hanno motivato Graeber e Wengrow a costruire una loro analisi storica multidisciplinare ad ampissimo raggio, sinceramente mossi dalla convinzione che “qualcosa è andato storto” nella storia dell’umanità se oggi le evidenze esterne parlano di un futuro segnato in senso negativo. Come si è detto la scomparsa di Graeber ha bloccato questo ambizioso progetto obbligando Wengrow, anche come omaggio postumo all’amico e collega, a sistematizzare per quanto possibile in un solo volume, “L’alba di tutto, il comune lavoro sin lì svolto. Ne è così nato un saggio provocatoriamente ponderoso, ma scritto con un accattivante stile narrativo (tipico della saggistica americana, a differenza di quello della saggistica europea non di rado inutilmente ricercato), capace comunque nel suo insieme di mettere in atto una critica feroce di non poche ricostruzioni storiche forzate e di comodo e di mettere sul banco degli imputati la convinzione culturale europea di essere la depositaria del vero e del giusto. Si coglie anche, ed era comunque prevedibile, una costruzione ancora solo accennata di possibili alternative adeguatamente chiare e praticabili. L’alba di tutto resta, pur nella sua incompletezza, un testo di riferimento nell’ambito della revisione critica delle idee che hanno giustificato e motivato il mito dello sviluppo/crescita infinito e della presunzione culturale occidentale ed europea in particolare. 

Per offrire uno spaccato più articolato delle tesi sviluppate nel saggio presentiamo il seguente “collage” di commenti e recensioni apparsi in diversi siti (fra gli altri quello di Fabio Malagnini in Pulplibri.it e quello di Dario Inglese in Istitutoeuroarabo.it):

.............. C’è una storia che viene raccontata ogni giorno. Una storia di progresso lineare che, dall’alba dell’ominazione, narra come gli esseri umani siano diventati quel che sono oggi. Nei testi scolastici e nella divulgazione scientifica, l’epopea della nostra specie su questo pianeta sembra quasi un percorso obbligato che, al netto di inevitabili deviazioni e vicoli ciechi, si impone con una accecante autoevidenza. La storia suona pressappoco così: all’inizio di tutto, durante il Paleolitico, gli esseri umani vivevano in piccole bande nomadi dedite alla caccia e alla raccolta. I membri di questi gruppi erano sostanzialmente tutti uguali, senza differenze di status politico-economico o di genere. Poi, nel corso del Neolitico, queste bande hanno iniziato ad ingrandirsi e, soprattutto, a stabilirsi in villaggi e città e ad organizzarsi in domini e Stati. A provocare questo mutamento una scoperta rivoluzionaria: l’invenzione dell’agricoltura ………… Ma è andata davvero così? Questo racconto è storia o piuttosto mito? Già Claude Lévi-Strauss (1908-2009, antropologo francese, considerato il padre della moderna antropologia) in “Mito e significato “sosteneva che il grandioso racconto sulle origini dell’uomo e della civiltà tenda a riprodursi acriticamente proprio come un mito che, per definizione, è sempre uguale a sé stesso. Non diversamente Graeber e Wengrow (G/W) affermano perentoriamente che è proprio attraverso la forza del mito che tale racconto si è imposto come unico e ineluttabile ………. Nel far ciò, si confrontano con i divulgatori che continuano a reiterare il racconto mitico delle origini (Jared Diamond, Francis Fukuyama, Yuval Noah Harari, Steven Pinker, per citarne alcuni) e, mettendo in fila dati su dati, offrono una nuova interpretazione delle stesse e, soprattutto, pongono nuove domande ………  Affermare, ad esempio,  che l’invenzione dell’agricoltura abbia innescato un irreversibile processo a cascata che ha condotto direttamente fino a noi è vero solo se: a) distorciamo o ignoriamo i dati in nostro possesso; b) proiettiamo la nostra incapacità di immaginare un altro modo di vivere agli albori della storia; c) non ci facciamo le domande giuste e diamo per scontata l’idea che le società umane si possano catalogare “secondo fasi di sviluppo, ciascuna con le sue tecnologie e forme di organizzazione caratteristiche” …………. Per tracciare una diversa ricostruzione G/W scelgono innanzitutto di afferrare subito per le corna il toro filosofico, a loro avviso non tanto rappresentato dal Leviatano di Hobbes quanto dal suo apparente opposto speculativo: il “mito del buon selvaggio”, germogliato in seno al pensiero del ‘700 e codificato da Jean Jacques Rousseau nel Discorso sull’origine e i fondamenti della diseguaglianza tra gli uomini”. Questo mito (strettamente intrecciato con la visione della storia come mito di cui si è detto) tuttora avvolto da un’aura benevola e progressista nel senso comune, avrebbe offerto all’Illuminismo, e in particolare a economisti come Turgot e Smith, la piattaforma teorica per descrivere il cammino “storico” della civiltà occidentale come una specie di sviluppo per fasi, con un’unica direzione di marcia. Ma le cose non sono andate esattamente così: l’illuminismo, con il suo corollario di tolleranza, di uguaglianza e di riforme sociali, in realtà non nasce nella testa di alcuni intellettuali bianchi particolarmente brillanti. O, meglio, vi nasce sì, ma solo dall’incontro con filosofi di un tipo completamente diverso. Ai primi del Settecento infatti i voluminosi resoconti e i libri di viaggio di missionari ed esploratori dal nuovo continente, riportavano dialoghi e conversazioni con “filosofi nativi americani” che molto hanno influenzato la nascente moderna cultura europea. G/W ricostruiscono il pensiero di uno di loro, Kandiaronk (“Topo muschiato”), appartenente al popolo Wendat (Uroni), filosofo americano approdato in Europa nel ‘600. (episodio espressamente citato da Leonard Mazzone nella sua conferenza)  che delle società europee ricavò un’impressione particolarmente negativa, ma non nei termini di “diseguaglianza” ma di assenza di libertà e di solidarietà. Kandiaronk era stupito che gli europei avessero rinunciato alle tre libertà che lui considerava irrinunciabili: la libertà di muoversi e spostarsi in altre collettività; la libertà di non ubbidire agli ordini sgraditi; e quella di dare vita a nuove relazioni sociali. E si stupiva ancora di più che in Europa la gente, invece di adottare le misure collettive necessarie per realizzarle, fosse propensa a vivere in un mondo dove ognuno pensava a sè stesso inseguendo cose futili …... Parte da qui la ricostruzione del cammino dell’umanità visto non come una marcia trionfale verso lo sviluppo, ma come un’interminabile passeggiata sperimentale, un’avanti e indietro a zig zag ……….. G/W guidano il lettore lungo un maestoso itinerario nello spazio e nel tempo (dal Medio Oriente all’Asia all’Oceania; dall’Europa all’America; dal Paleolitico ai nostri giorni) alla ricerca di reperti e tracce in grado di sostenere una diversa interpretazione dei fatti …….. Scopriamo, ad esempio, che nel Paleolitico superiore (50.000-15.000 a.C.) l’uguaglianza assoluta all’interno delle bande non era affatto la norma e che la ricerca archeologica ha restituito sepolture sfarzose con inequivocabili segni di stratificazione sociale (i siti di Sungir in Russia e di Dolnì Vìstonice in Repubblica Ceca, la sepoltura del Giovane Principe in Liguria, etc.) …………Oppure che non tutte le bande praticavano un rigido nomadismo: come testimoniano i resti di strutture architettoniche monumentali (ad es. i templi in pietra dei monti Germus o i recinti megalitici di Göbekli Tepe in Turchia), pare proprio che certi gruppi si stabilissero in determinate aree per periodi di tempo più o meno prolungati raggiungendo anche dimensioni ragguardevoli ……. A testimoniare una grande variabilità di soluzioni politico-sociali che i nostri progenitori sono stati in grado di adottare secondo le circostanze e i bisogni e con il concetto di “stagionalità(ovvero la concentrazione di tante persone nello stesso spazio in un dato periodo, con possibile sviluppo di gerarchia, seguita da una dispersione, con possibile dissolvimento del precedente ordinamento basato sulle differenze di status) ……. E con il concetto di stagionalità prende corpo l’ipotesi che le scelte di quegli esseri umani fossero autocoscienti e consapevoli esattamente come le nostre e non certo meccaniche e/o passive come spesso tendiamo a immaginarle …….. altre prove archeologiche degli ultimi 30 anni offrono molti solidi indizi in questo senso. I siti come quelli di Poverty Point (Louisiana) o di Nebelivka (Ucraina) comprovano l’esistenza di grandi comunità preistoriche, e non solo di piccoli gruppi di cacciatori-raccoglitori.

…….. Per diversi millenni le comunità sembrano privilegiare negli stili di vita e nelle culture l’alternanza dei cicli stagionali, con stagioni dedicate alla caccia e altre alle attività sedentarie, senza apparentemente aderire alla rigida dicotomia che opporrebbe popolazioni nomadi e stanziali ……… La stessa “rivoluzione agricola”, nel mito illuminista assurta a decisiva svolta radicale verso la presunta “civiltà”, fu tutto fuorché una rivoluzione. Non solo essa impiegò millenni per diffondersi capillarmente (anche nella sua conclamata culla, la Mezzaluna Fertile), ma gli stessi gruppi che iniziarono a servirsene lo fecero, soprattutto all’inizio, con noncurante indifferenza ……..gli esseri umani del Neolitico, affermano  G/W, sembrano essersi serviti dell’agricoltura quasi “per gioco” . Soprattutto sembrano essere stati davvero molto attenti ad evitarne i pesanti effetti collaterali (sfruttando a lungo, ad esempio, i meno impegnativi terreni alluvionali della valle del Giordano o dell’Eufrate, rispetto ai campi fissi; oppure, come in Amazzonia, indugiando a lungo «dentro e fuori dall’agricoltura) ……….. Ad uno sguardo storico più attento, e quindi meno stereotipato,  alcune delle implicazioni derivanti dalla invenzione della agricoltura (sedentarietà, urbanizzazione, burocrazia, gerarchia, patriarcato), non sembrano essere state così automatiche: l’aumento della popolazione e la necessità di coordinare i lavori in spazi sempre più grandi non hanno prodotto immediatamente e ovunque disuguaglianze e segregazione femminile ……… Resti di “città egualitarie sono stati portati alla luce in varie parti del mondo (ad es. i megasiti in Ucraina e Moldavia risalenti al IV millennio a.C., le "democrazie primitive" nei centri urbani mesopotamici tra la fine del IV e l’inizio del III millennio a.C., i ritrovamenti nella Valle dell’Indo e in Cina, i casi repubblicani di Teotihuacan e Tlaxcala in Messico, etc.), a testimonianza del fatto che non c’è mai stata alcuna rigidità automatica dietro l’adozione, la domesticazione, la conservazione e l’uso delle sementi, né alcun rapporto causale tra dimensioni e disuguaglianza nelle società umane …... Pare quindi che dal Neolitico la storia non abbia preso una piega obbligata e che gli esseri umani non siano diventati immediatamente, e ovunque, schiavi del lavoro e della gerarchia salutando definitivamente un originario “stato di natura” ……….. Le crescenti evidenze archeologiche, insomma, scaricano l’onere della prova sui teorici che parlano di legami causali tra le origini delle città e l’ascesa di Stati stratificati, sebbene essi, incantati dalla forza della loro stessa narrazione mitica, non se ne curino ………… G/W continuano con una serrata argomentazione sul perché fare storia attraverso la “ricerca delle origini” conduca a letture teleologiche e ideologiche del passato sganciate da prove archeologiche ed etnografiche ………….. Data la fluidità con cui per millenni gli esseri umani sono passati da un sistema socioeconomico all’altro e la creatività con cui hanno plasmato e riplasmato le loro identità culturali ha poco senso andare alla ricerca di fittizie “entità pure e originarie”.  E’ allora molto più utile osservare come la sfera politica si sia di volta in volta sviluppata secondo tratti differenti ……… G/W individuano, come possibili basi del potere sociale,  tre forme elementari di dominazione: controllo della violenza, controllo delle informazioni e carisma personale,  che, nel tempo e nello spazio, si sono associate in forma variabile con le tre libertà fondamentali citate da Kandiaronk:  libertà di circolare, di disobbedire agli ordini e di riorganizzare i rapporti sociali ………..Nello Stato moderno, sostengono G/W queste tre forme di dominazione si sono fuse fino a rendersi indistinguibili e a generare un potentissimo dispositivo fondato sulla dialettica tra assistenza e controllo e sulla limitazione delle libertà (o meglio sullo svuotamento delle tre libertà fondamentali e sulla sacralizzazione di un concetto astratto di libertà) …….. Ciò, tuttavia, non implica una discendenza diretta dai primi “sistemi statali “ in quanto le tre forme elementari di dominazione hanno avuto origini differenti e soprattutto, per buona parte della storia, hanno prodotto apparati amministrativi “ con un raggio d’azione piuttosto limitato cui non era poi così difficile sottrarsi, nulla di paragonabile all’odierno controllo burocratico ….. All’ alba della storia umana non troviamo quindi bande, clan e tribù, né troviamo accampamenti, villaggi, città, domini, Stati, Imperi. Perché allora dare la caccia a questi “fantasmi” quando le prove scientifiche ci restituiscono semmai la creatività tutta umana di pensare e costruire mondi possibili? ……. Emerge quindi sempre di più, che la ragione per cui i vecchi paradigmi hanno ancora tanto successo non sta nel loro valore probatorio, bensì nella “difficoltà di immaginare una storia che non sottintenda che gli assetti attuali siano inevitabili” …….. Da questa prospettiva, affermano risolutamente G/W, dovremmo chiederci non già quale sia l’origine della disuguaglianza (o della civiltà o dello Stato), ma “come abbiamo fatto a restare bloccati”, e cioè perchè ad a un certo punto della nostra storia non siamo più stati capaci di passare facilmente da una forma di organizzazione all’altra, perché abbiamo smesso di concepire nuovi modi, diversi e flessibili, di fare società, perché, in definitiva, un modo di vivere concepito in Europa in età moderna, quello fondato sulla stratificazione sociale, il patriarcato e forme più o meno accentuate di violenza strutturale, sia divenuto il destino ineluttabile per quasi ogni angolo del globo ……. Lungo la rotta tracciata da G/W archeologia ed etnografia assolvono due compiti fondamentali. Il primo è ovviamente scientifico e ha a che fare con la produzione di una nuova sintesi teorica su Homo Sapiens (e la sua capacità di creare universi sociali, politici, economici, simbolici) più fedele possibile ai fatti, anti-teleologica e rispettosa delle specificità geografiche e culturali. Il secondo è invece apertamente politico: guardare alle tracce del passato e agli spazi di alterità del presente per vedere ciò che oggi non riusciamo più a notare; per concepire nuove forme di socialità lontane tanto da un’acritica nostalgia primitivista, quanto dallo strisciante evoluzionismo sociale che continua a permeare (più o meno consciamente) il nostro sguardo …… C’è un aforisma di dubbia paternità (recentemente attribuito da Mark Fisher a Slavoj Žižek) che recita così “è più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo” …….. L’alba di tutto fornisce una possibile chiave interpretativa per questo paradosso e lo fa mostrandoci come l’ineluttabilità dello stile di vita occidentale sia uno degli ultimi grandi miti rimasti.  Il mito, com’è noto, è uno strumento potente in grado non solo di conferire ordine e significato all’esperienza, ma anche di orientare e guidare l’azione. Riconoscere che dietro il racconto del passato si cela anche una sottostruttura mitica, inevitabilmente costruita a partire dal presente, può servire allora a “non restare bloccati” e a formulare nuovi interrogativi e ad immaginare altre strade.

N.B. = Per meglio comprendere la lunga genesi de “L’alba di tutto” è interessante una lunga intervista (che qui non riproduciamo per ovvie ragioni di spazio) di David Graeber del 2018 (e quindi di tre anni precedente questo saggio) reperibile (anche on-line) riportata nel n° 1277 de L’Internazionale, nella quale sono dettagliatamente anticipati molti dei temi poi sviluppati nel saggio 




 

Nessun commento:

Posta un commento