domenica 20 novembre 2022

Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali), ed anche a quelli che, pur avendo partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno interessati, pubblichiamo il video della eccellente conferenza tenuta da Valter Coralluzzo (Docente di Relazioni Internazionali presso l’Università di Torino) con titolo:

L’Europa di fronte alla guerra in Ucraina:

analisi delle nuove prospettive geopolitiche

Per accedere al video cliccare quiConferenza Coralluzzo

Stante la complessità del quadro geopolitico affrontato pubblichiamo inoltre, qui di seguito, la traccia scritta con i passaggi fondamentali dell’intervento del Prof. Coralluzzo:

L’aggressione russa all’Ucraina:

genesi di una guerra annunciata

Valter Coralluzzo

Quella perpetrata dalla Russia di Putin attaccando in maniera massiccia e brutale l’Ucraina è una sfacciata e imperdonabile violazione del diritto internazionale e non c’è analisi geopolitica che possa revocare in dubbio la perentorietà del giudizio che inchioda i russi alle loro responsabilità di aggressori riconoscendo agli ucraini il diritto di difendersi (e si badi: non spetta ad altri che al popolo la cui libertà sia minacciata decidere se e fino a quando combattere per difenderla). Tuttavia, il fatto che siano chiaramente distinguibili un aggressore e un aggredito non ci esime dal cercare di capire come si è arrivati a questa tragica situazione, tenendo ben fermo un punto (tanto ovvio quanto generalmente trascurato), e cioè che indagare i motivi di certi comportamenti non significa affatto giustificarli. Con buona pace di quanti, frustrati nei loro tentativi di decifrare le reali intenzioni di Mosca, lo hanno rievocato nelle loro analisi, il noto aforisma di Churchill, che nel 1939 paragonò la Russia a «un indovinello racchiuso in un mistero avvolto in un enigma», non pare potersi applicare al conflitto in corso, che al contrario esibisce tutte le caratteristiche di una guerra annunciata, alla quale si può guardare come al prevedibile (ma provvisorio) capolinea di un percorso evolutivo della politica estera della Russia post-sovietica che qui di seguito si potrà ricapitolare soltanto nelle sue linee essenziali. Se, come scrive Benedetto Croce, «è lo storico che decide da dove far partire la narrazione dei fatti», allora, nel nostro caso, sarà bene partire dalla fine della Guerra fredda e porsi il seguente interrogativo: perché, nel corso dell’ultimo trentennio, la Russia ha progressivamente mutato il proprio atteggiamento nei confronti dell’Occidente e del cosiddetto “estero vicino”, orientandosi verso una politica estera sempre più assertiva ed aggressiva?

1. Molti, anche tra i più accreditati studiosi di relazioni internazionali, pensano che l’allargamento a Est della Nato sia stato il fattore decisivo, o almeno una concausa rilevante, nel determinare il deterioramento dei rapporti tra Russia e paesi occidentali. Del resto, già nel 1998, invitato a pronunciarsi sul prossimo ingresso nell’Alleanza atlantica di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, George Kennan non aveva celato le sue preoccupazioni: «Credo sia l’inizio di una nuova Guerra fredda. Credo che i russi reagiranno gradualmente in modo alquanto avverso e che questo cambierà le loro politiche. Credo sia un tragico errore» («New York Times», 2 maggio 1998). In realtà, la questione dell’allargamento della Nato non ha pesato sempre allo stesso modo nelle relazioni della Russia con l’Occidente. Durante gli anni Novanta, sotto la presidenza di Boris Eltsin, una Russia debole, confusa, declassata internazionalmente al rango di semplice comprimario ma ancora fiduciosa di poter risollevare le sue sorti emulando il modello occidentale (democrazia liberale ed economia di mercato), evitò di opporsi apertamente ai piani di espansione dell’Alleanza atlantica, con la quale anzi firmò una serie di importanti accordi di cooperazione, dalla Partnership for Peace (1994) al Nato-Russia Founding Act (1997), in cui Nato e Russia ribadivano di non considerarsi avversarie e si impegnavano a «costruire un’Europa stabile, pacifica e indivisa, intera e libera, a beneficio di tutti i suoi popoli». Certo, la nomina di Evgenij Primakov a ministro degli Esteri (1996) e poi a primo ministro (1998) comportò, da parte di Mosca, una presa di distanza dall’iniziale postura filoccidentale in favore di un orientamento (riassunto nella cosiddetta “dottrina Primakov”) più sbilanciato in senso eurasiatista e volto, senza però antagonizzare gli Stati Uniti e pregiudicare i rapporti con l’Occidente, all’edificazione di un sistema internazionale multipolare, nel quale gli specifici interessi nazionali della Russia (a partire dal consolidamento della sua influenza nello spazio ex sovietico) fossero debitamente salvaguardati. Ma quando nel 1999 la Nato, allo scopo di far cessare le violenze etniche dei serbi contro gli albanesi del Kosovo, condusse, non autorizzata dall’Onu, un’intensa campagna di bombardamenti contro la Jugoslavia (composta ormai soltanto da Serbia e Montenegro), la Russia si guardò bene dall’intervenire in difesa della Serbia, sua tradizionale alleata, e di fatto parve adattarsi a una situazione che sanciva la sua impotenza (pur covando una frustrazione e un risentimento che più tardi non avrebbero mancato di far sentire i loro effetti). Fu soltanto dopo l’avvento al potere di Vladimir Putin che il cambio di passo della politica estera russa, nel segno di una maggiore assertività e durezza di toni nei confronti dei paesi occidentali e post-comunisti, si appalesò con chiarezza. Non subito però: durante il suo primo mandato presidenziale (2000-2004) Putin, che aveva detto che chiunque non rimpiangesse l’Urss «non aveva cuore» ma chi voleva ricostruirla «non aveva cervello», fece mostra di un notevole pragmatismo, rifuggendo da ogni eccesso retorico antioccidentale e concentrandosi sulla ricostruzione di uno stato forte e di un’economia efficiente, precondizioni indispensabili per far riguadagnare alla Russia un ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale. In questo periodo, egli non rinunciò a muoversi in direzioni eurasiatiche, si pensi alla trasformazione di una precedente unione doganale con Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan in Comunità economica eurasiatica (maggio 2001) e alla nascita (giugno 2001) dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai, che a quegli stessi paesi (Bielorussia esclusa) aggiungeva Uzbekistan e Cina. Il principale obiettivo del Cremlino, tuttavia, rimaneva quello di integrare sempre più strettamente la Russia nella comunità euroatlantica (gorbaciovianamente concepita come estendentesi da Vancouver a Vladivostok), ma certo non in veste di ininfluente socio di minoranza dell’impero americano (come invece si auspicava a Washington), bensì su una base di parità che implicasse il riconoscimento del rango della Russia (non riducibile, per ovvie ragioni geopolitiche, a quello di semplice “potenza regionale”), il rispetto dei suoi legittimi interessi (anche nell’“estero vicino”) e la non ingerenza nei suoi affari interni. Coerentemente con questa impostazione, Putin non soltanto sottoscrisse (maggio 2002) a Pratica di Mare, auspice Berlusconi, l’accordo istitutivo del Consiglio congiunto permanente Nato-Russia (dove però, in sostanza, erano gli Stati Uniti a dare preventivamente la linea ai soci atlantici per assicurarsi che la Russia restasse isolata), ma arrivò addirittura a ipotizzare un futuro ingresso della Russia nell’Alleanza atlantica («Perché no? Faccio fatica a pensare alla Nato come a un nemico»): ipotesi non così peregrina se ancora nel 2010 Charles Kupchan la rilanciava con forza dalle pagine di «Foreign Affairs».  A ciò si aggiunga che Putin, il quale sul finire del 1999, come primo ministro, aveva dato il via a un secondo conflitto in Cecenia (segnato da massacri e crimini di guerra), usando il pugno di ferro contro i separatisti cui era stata attribuita, con sospetta sollecitudine, la responsabilità di una serie di attentati che avevano insanguinato Mosca e altre città russe (memorabile il suo annuncio: «Ammazzeremo i terroristi anche nel cesso»), fu lesto nel cogliere l’occasione offerta dagli attentati dell’11 settembre 2001 per solidarizzare (primo fra i leader mondiali) con il governo di Washington e per proporre agli Stati Uniti un’alleanza strategica in nome della comune lotta contro il terrorismo. Benché viziata da un evidente opportunismo, suggerito dalla ricerca di una legittimazione internazionale per la feroce repressione militare esercitata in Cecenia, l’approccio collaborativo del Cremlino (concretizzatosi nella messa a disposizione della coalizione a guida statunitense diretta in Afghanistan dello spazio aereo e dell’intelligence russi, nonché nella rinuncia a contrastare il dispiegamento delle forze americane nei paesi dell’Asia centrale ex sovietica) fu salutato con entusiasmo in Occidente, dove la fiducia nei confronti della Russia ricevette nuovo impulso dalle parole rivolte da Putin al Parlamento tedesco (25 settembre 2001): «La Russia è una nazione europea amichevole. Una pace stabile sul continente è per la nostra nazione un obiettivo prioritario». D’altro canto, dopo il loro primo incontro ufficiale (giugno 2001), lo stesso George W. Bush non aveva forse detto di Putin: «L’ho guardato negli occhi. L’ho trovato molto diretto e affidabile. Sono riuscito a farmi un’idea della sua anima»? Nulla di più distante dall’opinione espressa da Joe Biden durante un’intervista (16 marzo 2021) nella quale ha ammesso di considerare Putin un assassino e ha ricordato che già nel 2011, quand’era vice di Obama, aveva incontrato il leader russo e gli aveva detto di non credere ch’egli avesse un’anima (al che Putin aveva gelidamente replicato: «Noi ci capiamo l’uno con l’altro»). Come si spiega un ribaltamento di giudizio così radicale?

2. Molteplici furono i fattori che durante il secondo mandato presidenziale di Putin (2004-2008) contribuirono a incrinare le relazioni tra Russia e Occidente. Sul piano interno, la progressiva autocratizzazione del regime putiniano, in cui giocarono un ruolo centrale i concetti di “verticale del potere” e “democrazia sovrana”, creò un ambiente favorevole all’adozione, da parte di un esecutivo ormai libero dal condizionamento esercitato nel decennio precedente da una pluralità di gruppi di interesse pubblici e privati, di una politica estera più assertiva e “muscolare”, non più soltanto difensiva ma anche offensiva. Sul piano internazionale, tre eventi in particolare spinsero la Russia verso un irrigidimento delle proprie posizioni di politica estera: la guerra in Iraq del 2003, le rivoluzioni colorate (“delle rose”, “arancione” e “dei tulipani”) scoppiate tra il 2003 e il 2005 in Georgia, Ucraina e Kirghizistan (paesi nei quali, sull’onda di massicce manifestazioni di protesta, i presidenti in carica, accusati di brogli elettorali e di essere autoritari e filorussi, furono sostituiti da politici di orientamento liberale e filoccidentale) e l’ulteriore allargamento a Est della Nato (a seguito dell’ammissione nel 2004 di altri sette paesi: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia). Da questi eventi la Russia trasse una duplice lezione. Da un lato, di fronte alla crescente propensione unilateralista ed eccezionalista della politica estera americana e all’acclarata indisponibilità degli Stati Uniti ad abdicare al ruolo di “gendarmi del mondo” e garanti dell’ordine internazionale liberale, Mosca andò persuadendosi dell’illusorietà della prospettiva di una transizione guidata e consensuale dall’unipolarismo al multipolarismo e della necessità di imboccare una strada diversa da quella che gli Stati Uniti, assertori convinti del carattere tutt’altro che effimero del “momento unipolare” e della natura “benevola” della loro egemonia, avevano tentato di farle seguire dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dall’altro, il reiterato ricorso, da parte occidentale, alla pratica dell’ingerenza negli affari interni di altri paesi e dell’imposizione forzosa ad altri popoli di un modello politico-culturale irrispettoso della loro identità e del loro diritto a scegliere un proprio autonomo percorso di sviluppo (è così che al Cremlino furono interpretate le rivoluzioni colorate, ritenute il frutto di macchinazioni ordite da poteri stranieri, in particolare americani, statali e/o privati) indusse Mosca a una difesa sempre più energica e intransigente dei propri interessi e di quelli di un “mondo russo” (russkij mir) di cui essa voleva continuare ad essere il centro di gravità, a costo di rinverdire la tradizione sovietica degli interventi militari “su richiesta” di popoli fratelli, o in risposta alla presunta oppressione esercitata in certi paesi sulle minoranze russofone. Tocca infine accennare al fatto che, giustificando la guerra in Iraq sulla base di false informazioni sulle armi di distruzione di massa di Saddam Hussein, l’amministrazione Bush finì per confermare l’opinione di quanti, in Russia, ritenevano che gli Stati Uniti fossero un paese sleale, ipocrita e inaffidabile.  Date queste premesse, non stupisce che i segnali di crescente divaricazione tra Russia e Occidente abbiano cominciato a moltiplicarsi. Uno dei più importanti fu certamente quello offerto dal celebre discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco (11 febbraio 2007). In quella occasione Putin (che già in un discorso del 2006 alla Duma aveva paragonato l’America a «un lupo che continua a mangiarsi quello che trova sulla propria strada senza prestare ascolto a nessuno») non si limitò a denunciare il modello unipolare americano, cioè l’esistenza di un «mondo in mano a uno solo», per giunta incline a un «uso eccessivo della forza nelle relazioni internazionali», ma accusò anche l’Occidente di aver tradito l’impegno, assunto dopo la riunificazione della Germania e lo scioglimento del Patto di Varsavia, a non espandere a Est la Nato (ma su questo punto si tornerà più avanti). Il significato di questo discorso venne subito colto dall’analista politico Dmitri Trenin: «La Russia, prima una sorta di Plutone nel sistema solare occidentale, è uscita dalla sua orbita spinta dalla determinazione di trovarsi un proprio sistema» (cfr. I. Krastev, Che cosa pensa la Russia, in «Italianieuropei», n. 1, 2008, p. 233). Non a caso, alla fine del 2007, la Russia sospese la sua partecipazione al Trattato sulle forze convenzionali in Europa. Tuttavia, la svolta decisiva verso il definitivo peggioramento dei rapporti russo-occidentali giunse nel 2008: prima (17 febbraio) con la proclamazione (giudicata da Putin un atto illegale e immorale) dell’indipendenza del Kosovo; poi (3 aprile) con il vertice della Nato a Bucarest, che si concluse con un comunicato di compromesso in cui, rinviando a un futuro imprecisato la soluzione definitiva del problema, ci si limitava a dare «il benvenuto alle aspirazioni euroatlantiche di Ucraina e Georgia di ingresso nella Nato», suscitando in tal modo la dura reazione di Putin e del ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, i quali avvertirono l’Occidente che l’ammissione di questi due paesi, rappresentando una «minaccia diretta alla Russia», era «un errore strategico terribile», che avrebbe avuto «conseguenze pesanti sulla sicurezza dell’Europa»; infine (8 agosto) con l’intervento militare russo in Georgia a sostegno delle repubbliche separatiste dell’Ossezia del sud e dell’Abkhazia, che l’esercito georgiano stava tentando di riportare con la forza sotto il controllo di Tbilisi. A proposito della “guerra d’agosto”, Robert Kagan in quei giorni scrisse parole che suonano attualissime anche oggi: «L’attacco russo contro lo stato sovrano della Georgia ha segnato il ritorno ufficiale della storia allo stile ottocentesco dei grandi scontri di potere, con tanto di virulenza nazionalistica, battaglie per le  risorse, lotte per sfere d’influenza e territori, e persino ‒ anche se questo può urtare le nostre sensibilità da ventunesimo secolo ‒ l’impiego della forza militare per assicurare obiettivi geopolitici» («Corriere della Sera», 21 agosto 2008). Non parve, dunque, un mero esercizio retorico parlare, come fece Edward Lucas in un libro pubblicato proprio nel 2008, di “nuova Guerra fredda” e dei rischi e che il putinismo comportava per la comunità internazionale e per lo stesso popolo russo

3. Il prosieguo degli eventi ha decisamente confermato la fondatezza dei timori di Lucas e, in particolare, della tesi centrale sulla Russia esposta nel suo libro: «repressione verso l’interno e aggressione verso l’estero a fronte di una risposta dell’Occidente debole in modo allarmante» (E. Lucas, La Nuova Guerra Fredda, Egea, Milano 2009, p. XXIII). È un punto, questo, sovente trascurato, ma che merita di essere ben fermato: è l’involuzione autoritaria del regime putiniano (accelerata dalla crisi economica globale del 2008, che accrebbe in Putin la consapevolezza che la sua enorme popolarità interna sarebbe stata erosa dall’impossibilità di garantire una crescita come quella precedente alla crisi) la prima causa del risorgente imperialismo e della proiezione internazionale viepiù “muscolare” del Cremlino. Fatta salva la naturale propensione aggressiva in politica estera dei regimi autocratici, nel nostro caso entra in gioco anche il fatto che connotando in senso conservatore, revanscista e revisionista il proprio regime Putin sperava di riuscire a puntellare il proprio consenso interno, distogliendo l’attenzione pubblica dal fallimento dei suoi tentativi di riformare e modernizzare la società e l’economia russe. Ancora più importante è però l’altro punto richiamato da Lucas, relativo alla preoccupante inadeguatezza delle risposte fornite dall’Occidente alle sfide della Russia; sfide che, insieme a quelle poste da altre potenze autocratiche, sembrano proiettare il mondo in un’era che sarà dominata dalla competizione globale fra governi democratici e autocratici. In effetti, non si può non rimanere colpiti dal fatto che ogni segno di debolezza dell’Occidente è stato interpretato come un via libera per un’ulteriore escalation da parte di Mosca. Due esempi su tutti: in Siria l’America di Barack Obama perde credibilità per aver fissato delle “linee rosse” che il regime di Bashar al-Assad viola ripetutamente senza pagare dazio, e pochi mesi dopo la Russia si riprende la Crimea e destabilizza il Donbass; in Afghanistan le truppe occidentali abbandonano disordinatamente il paese riconsegnandolo nelle mani dei Talebani, e pochi mesi la Russia aggredisce l’Ucraina. E gli esempi potrebbero continuare. La lezione che se ne ricava è questa: non mostrarsi determinati significa lasciare campo libero a Putin; di conseguenza, dobbiamo comportarci in maniera tale che Mosca, ogni volta che si domanda se potrà conseguire i suoi fini impunemente, si veda costretta a rispondere “no”.   Dal conflitto russo-georgiano ai giorni nostri, quello apparecchiato dal Cremlino è stato, in effetti, un crescendo di azioni e dichiarazioni sempre più ostili ed aggressive (seppur inframmezzate da momenti di apparente distensione) nei confronti di Stati Uniti, Nato, Unione europea, ma anche (forse soprattutto) di quei paesi che, pur facendo parte del “mondo russo”, hanno cercato di sottrarsi, attraverso sollevazioni popolari più o meno riuscite e il rafforzamento dei propri apparati di difesa, ai pesanti condizionamenti di Mosca, preferendo abbracciare una prospettiva di integrazione (sperabilmente celere) nel sistema euroatlantico. È questo il caso dell’Ucraina, sulla quale, a partire dal 2014, si è abbattuta un’ondata di eventi drammatici (dalle violente manifestazioni filoeuropee di piazza Maidan all’annessione della Crimea alla Russia, dal conflitto fomentato nel Donbass dai secessionisti delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk al fallimento degli accordi di Minsk, fino all’attacco sferrato da Putin nel febbraio scorso) davvero impressionante. Non è però all’analisi di tali eventi, peraltro ben noti e indagati, che si intende dedicare il residuo spazio del presente articolo, bensì a una succinta disamina dei principali argomenti utilizzati dal regime di Putin per giustificare l’aggressione all’Ucraina. Sgomberato il campo dagli argomenti palesemente inconsistenti (russi e ucraini fanno parte della stessa nazione, Euromaidan è stata un colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti e dalla Nato, l’Ucraina ha un governo nazista, in Donbass c’è stato o è in atto un genocidio), rimane sul tavolo uno dei temi ricorrenti della narrazione putiniana sull’“operazione militare speciale” avviata in Ucraina, quello che chiama in causa l’allargamento della Nato e, più precisamente, il presunto tradimento, da parte occidentale, della promessa di non espandere l’Alleanza atlantica in direzione dei confini della Russia. Se si tratti di un’accusa fondata o campata per aria è una vexata quaestio, che non si può qui approfondire: l’opinione di chi scrive, comunque, collima con quella formulata in un libro recente (Not One Inch; America, Russia, and the Making of the Post-Cold War stalemate, Yale University Press, 2022) dalla storica Mary E. Sarotte, per la quale l’accusa di “tradimento” rivolta alla Nato, benché tecnicamente falsa (perché alla Russia sono state fornite assicurazioni verbali sui limiti dell’espansione della Nato, ma nessuna garanzia scritta), possiede una sua verità psicologica. Detto altrimenti: reale o meno che fosse, quello di non allargare a Est i confini della Nato venne inteso da Mosca come un impegno vincolante. Discorso analogo può farsi anche rispetto ad altre due percezioni largamente condivise dai russi (e alimentate ad arte dalla propaganda di regime): da un lato, quella di essere stati umiliati e trattati come sconfitti dopo la fine della Guerra fredda; dall’altro, quella di essere accerchiati e minacciati dall’Occidente. Da entrambe queste percezioni ha tratto linfa la richiesta sempre più pressante di un nuovo corso politico, che archivi definitivamente l’epoca della ricerca da parte della Russia del suo posto nell’ordine mondiale centrato su un Occidente che per cecità o per scelta ha sistematicamente ignorato le preoccupazioni e le richieste di Mosca, e inauguri finalmente una fase di «distruzione costruttiva» di quest’ordine (S. Karaganov) e di «espansione selettiva basata sugli interessi della Russia» (D. Trenin): espansione che non può non cominciare dall’Ucraina, la cui importanza risiede nel fatto che senza Kiev l’“impero” che Putin sogna di ricostruire non sarebbe un vero impero. Ora, si potrà anche pensare, insieme a Bernard Henri-Lévy, che quella dell’umiliazione russa sia solo una leggenda, un mito, «l’ultimo tranello in cui dobbiamo evitare di cadere», giacché in realtà non è facile trovare «altri esempi di un impero decaduto che abbia beneficiato di tante premure» («Repubblica», 26 febbraio 2022). Allo stesso modo, si potrà ironizzare su quella vera e propria sindrome da cittadella assediata che secondo Paul Berman «potrebbe suggerire che la Russia è assai più traballante di quanto non voglia dare a intendere» («Corriere della Sera», 28 agosto 2008). Ma non ci insegna forse il costruttivismo che ci sono dei “fatti” che, pur non esistendo materialmente, esistono perché noi crediamo che esistano e ad essi vincoliamo scelte e comportamenti? Detto ciò, e per concludere, alcune riflessioni ulteriori si impongono, a completamento di questa sommaria analisi delle cause della guerra in corso. Anzitutto, è bene osservare che l’allargamento a Est della Nato non ha mai rappresentato una minaccia reale alla sicurezza russa. A parte il fatto che non si capisce bene per quale motivo le esigenze di sicurezza della Russia debbano valere di più di quelle dei paesi limitrofi visto che il dilemma della sicurezza funziona per tutti allo stesso modo (o meglio lo si capisce, ma solo a patto di fare propria la logica realista di John Mearsheimer), il vero problema è un altro e ha a che fare con la lotta per il riconoscimento del poprio status di grande potenza condotta dalla Russia, nel senso che al Cremlino si è sempre pensato che l’espansione a Est della Nato, piuttosto che attentare alla sicurezza militare russa (ampiamente garantita da un imponente sistema di deterrenza nucleare), rappresentasse un segnale rivolto a Mosca il cui senso (tutt’altro che criptico) era questo: non siamo in alcun modo disponibili a prendere in considerazione i vostri interessi e le vostre richieste e a riconoscervi il rango a cui aspirate. Ci si potrebbe domandare, a questo punto, se sia proprio vero che i paesi occidentali hanno sempre escluso l’integrazione della Russia nel loro sistema. Secondo Fabio Bettanin, essi «l’hanno piuttosto rimandata a un domani indefinito, quando il consolidamento dei sistemi di alleanza occidentali avrebbe consentito di avviare il processo da posizioni di forza» (F. Bettanin, Putin e il mondo che verrà, Viella, Roma 2018, pp. 10-11). O, più probabilmente, essi si sono cullati nell’illusione che la transizione democratica in Russia fosse parte di un processo globale e inarrestabile di democratizzazione del mondo (la “fine della storia” di cui parla Francis Fukuyama) che non richiedeva sforzi o interventi particolari, anche in ragione del fatto che in un’economia globalizzata la necessità di competere sui mercati avrebbe prodotto la liberalizzazione economica e questa, a sua volta, avrebbe portato alla liberalizzazione anche in campo politico. Ma è proprio a quest’ultima che la Russia di Putin risolutamente si oppone. E siccome i membri della Nato devono soddisfare requisiti istituzionali e valoriali di tipo occidentale, è chiaro (e il discorso vale anche per l’allargamento a Est dell’Unione europea) che a preoccupare la Russia è soprattutto l’effetto di “contagio democratico” che la vicinanza di tali paesi potrebbe innescare. In altri termini: un’Ucraina membro della Nato e/o dell’Ue non costituirebbe una minaccia in sé ma per l’esempio di democrazia che offrirebbe: tale esempio dimostrerebbe che anche in Russia la democrazia è possibile, cosa assolutamente inaccettabile per Mosca.


Nessun commento:

Posta un commento