Le persone e le cose, di Roberto Esposito
….un tempo lontano, prima
della rivoluzione cognitiva, prima dell’inizio della cosiddetta civiltà, le
cose erano il filtro attraverso il quale uomini, non ancora modellati dal
dispositivo della persona, entravano in relazione tra loro, poi……
Le
persone
La nostra civiltà (Esposito
in questo saggio guarda esclusivamente alla cultura occidentale) si
basa sulla divisione netta fra persone e cose; questa divisione si è definita, consolidata,
cristallizzata, seguendo un percorso che prende avvio, nell’analisi
di Esposito, dalla cultura giuridica Romana
·
Il diritto romano fissa una netta
ripartizione fra azioni, persone, cose; la cultura dell’antica Roma, per quanto
concerne il possesso di cose, non diversamente dalle altre civiltà (occidentali)
antiche, poggia sull’atto, spesso violento, dell’impossessarsi di “cose” (terra
innanzitutto), queste cose si sottomettono a colui che se ne è impossessato; la
costruzione giuridica romana istituzionalizza questo atto fondativo del
rapporto con le cose
·
Il possesso non stabilisce soltanto un
rapporto persona-cosa ma, relativamente a chi possiede e chi no, traccia una
separazione netta fra le stesse persone, fino al punto, siamo nella Roma dei
patres, dei liberi e degli schiavi/servi, che una persona può essere talmente
priva di cose da essere ridotta essa stessa a cosa; gli schiavi romani sono considerati
nello jus romano sia persone, in quanto non cose, sia cosa, in quanto posseduti
come tali
·
Ma lo jus romano basato sul possesso di cose
va oltre ed applica alla persona un analogo rapporto di proprietà; i romani per
definirsi patres o liberi usavano la formula “personam habere” e cioè: persona
non si è ma persona si ha (è questa una forma mentis che si trascina in forme
più o meno evidenti lunga la storia intera (Maritain Jacques, filosofo
francese, fervente cattolico antimodernista, a metà del 1900 ancora definisce
degno del nome di persona colui che è padrone assoluto dell’animale che lo
abita!)
·
Sul ceppo del diritto romano, mai rigettato
ed anzi ripreso e mantenuto come riferimento base per molti ordinamenti
giuridici almeno fino alla metà dell’1.800, si innesta la dicotomia che il
cristianesimo applica alla persona; se è vero che per la teologia cristiana
ogni uomo è persona, è ancor più vero che la persona cristiana è divisa in due
nature: in analogia alla doppia natura del Cristo, Dio ed uomo, una corporea ed
una spirituale, e la prima è sottomessa alla seconda. Tutta la storia teologica
cristiana mantiene fermo ed inamovibile questo sdoppiamento
·
Ed un altro sdoppiamento si evidenzia, sin
dal primo medioevo, in una specifica persona; quella del Re. Anche qui in
analogia alla doppia natura del Cristo, il sovrano, la cui regalità discende
dal volere divino, è al tempo stesso corpo, quello dell’uomo che in quel
momento è Re, e sovranità personificata, l’essenza del potere regale che si
trasmette, immutata, da Re a Re; la storia, dai tempi del Medioevo in poi,
parla di Re uccisi, detronizzati e giustiziati, ma chi viene ucciso,
giustiziato è il corpo della persona che in quel momento è Re, non l’essenza
della Regalità
·
Non sembra che la filosofia moderna, dopo i
tanti secoli uniformati dalla teologia cristiana, elimini la sdoppiamento della
persona, semplicemente lo trasferisce dalla sfera trascendente a quella del
rapporto con se stessi, con la parte di noi, quella che più ci rappresenta, che
ci definisce in quanto persona indipendentemente dal nostro esser giovani o
vecchi, sani o malati. John Locke, nella seconda metà del 1600, definisce
persona colui che sa essere padrone dei propri pensieri, delle proprie azioni;
lo sdoppiamento della persona non solo non sparisce, ma si accentua perché per
essere giudici di se stessi occorre guardarsi dal di fuori come se in noi
esistesse davvero una seconda persona
·
Kant, cento anni dopo Locke, andrà oltre nel
riprendere la separazione da se stessi lockiana: l’io, il vero io, la vera
persona, è solo la parte di noi che giudica, la parte di noi che viene giudicata
è come se stesse fuori da noi, è una cosa come tutte le cose che ci circondano
·
Neanche tanto paradossalmente in Kant, nel
punto più alto della filosofia moderna, sembrano confluire i due sdoppiamenti
della persona originari, quello del jus romano e quello teologico cristiano.
Così come lo jus romano giudicava cosa la persona posseduta, così Kant giudica
cosa la parte di noi giudicata, e come il cristianesimo poneva la persona
corporea sottomessa a quella spirituale, così Kant giudica la parte di noi
legata al corpo, ai fenomeni, sottomessa, in posizione inferiore, alla parte di
noi giudicante, pensante, al noumeno
·
Nei primi decenni del 1800 la critica mossa
da Hegel a Kant di non aver pensato la persona in termini universali non sembra
sciogliere lo sdoppiamento della persona stessa, nel momento in cui egli
sostiene che le persone si rapportano fra di loro unicamente in quanto
proprietari, ed ancor di più quando ritiene l’autoappropriazione fondamento di
ogni proprietà, altro non fa che riproporre il possesso di noi stessi, in
quanto cosa possedibile, come sdoppiamento della persona
·
E nulla ancora si muta con l’avvento del
pensiero liberale; John Stuart Mill, a metà del 1800, non pare distanziarsi
dalla logica kantiana, quando afferma che su se stesso, sul proprio corpo,
sulla propria mente, ogni individuo è sovrano, non pone solo le basi del
capitalismo concorrenziale, ma ancora una volta fa del corpo, che deve essere
venduto al miglior prezzo sul mercato, una cosa distinta dalla persona che può,
per l’appunto, farne merce
·
L’esasperazione mercantilistica e
concorrenziale dell’odierno neoliberismo giunge infine a delimitare l’arco di
vita umana in cui si ha diritto ad essere definiti persona, perfettamente
sdoppiata così come si è visto, ma almeno persona. Si è tali, guarda caso
quando la persona così delimitata può giocare un ruolo nel marcato, solo dopo
l’infanzia e parte dell’adolescenza e solo fino a quando non si è troppo vecchi
o troppo malati; queste sono le “non persone”
Le cose
·
Heidegger, in una conferenza del 1950
dedicata alla “cosa”, nega che essa possa coincidere con l’oggetto, la nostra
idea della “cosa coltello”, ad esempio, è un’astrazione che non può ridursi al
singolo “oggetto coltello”, al punto che…..la
cosa, in quanto cosa, rimane interdetta, nulla, e in tal senso annientata…..
·
Parallelamente al percorso di sdoppiamento
della persona, della depersonalizzazione, si ha un analogo processo di
svuotamento della cosa; la stessa origine del termine, in tutti i ceppi
linguistici occidentali, non rimanda alla definizione di un oggetto, anzi: il
termine latino res, da cui
derivano l’italiano e spagnolo cosa,
il francese chose, deriva dal
greco eiro che significa, per
l’appunto, “parlare di qualcosa, di una questione; non diverso è il significato
del termine germanico ding, da
cui l’inglese thing, che sta
ad indicare una riunione per discutere di un problema; ed ancora, il termine,
di origine latina ens, da cui
deriva ente, ossia oggetto, si coniuga con ni-ente, nessun ente, nessun
oggetto; in sostanza quando la “cosa” viene riferita al singolo “ente” inevitabilmente
si coniuga con ni-ente, cioè in sostanza si annulla
·
Perché questo svuotamento della cosa se
riferita all’oggetto, al singolo ente? Perché, sin dagli albori del pensiero
filosofico greco, teso a rinvenire l’essenza del mondo, delle cose, la “cosa”
si annulla nel confronto con l’oggetto, con l’ente che rappresenta. Così pensa
Platone quando definisce un insormontabile dualismo tra la cosa e la sua idea,
e così Aristotele che per superare l’astrazione platonica riporta il concetto
di cosa alla sua essenza, e quindi in basso, all’interno dell’oggetto-cosa,
definendola un “composto” tra quello che è, l’oggetto, e quello che lo forma,
l’essenza di quella certa cosa, e mantiene così aperao, ed anzi la approfondisce,
la separazione tra cosa ed oggetto
·
L’avvento del pensiero cristiano sembra
spostare la questione su un piano diverso: le cose, la cosa, sono un ente
creato da Dio, ovvero prodotto dall’uomo che, a sua volta, ha ricevuto da Dio
la capacità di creare enti, oggetti, cose. Ma questo significa ancora una volta
che la cosa, in quanto tale, non esiste del suo, essa è solo un prodotto
·
Questa concezione teologica della cosa viene
ripresa in forma pressochè identica dal filosofo ritenuto fondatore del moderno
pensiero razionale, Descartes, il quale afferma che l’ente è tale solo in
quanto prodotto dall’uomo; si accentua la separazione ontologica fra la persona
e la cosa, l’una deve rendere l’oggetto dipendente dalla sua produzione l’altra
può esistere solo se prodotta, anche in questo caso la cosa, in quanto tale,
non può disporre di una propria specifica ed autonoma esistenza, la cosa, in
quanto tale, anche per Descartes non esiste
·
Uscendo dalle astrazioni filosofiche per
passare alla concretezza delle costruzioni giuridiche cambia questo scenario?
Certo il diritto affronta situazioni concrete: a chi appartiene una cosa,
quanto vale, e così via, ma per farlo deve compiere astrazioni non dissimili da
quelle filosofiche, deve definire parametri generali, e quindi astratti, utili
a dirimere le specifiche controversie, compiendo così, di fatto, un’operazione
che, non meno della filosofia, rende la cosa un concetto, annullandone il
rapporto con il mondo delle cose concrete, svuotandola di vita propria
·
Lo jus romano ha certamente alla sua base la
res, dirime tutte le questioni legate ai rapporti delle persone con essa, e,
come si è visto, definisce le persone proprio in relazione al loro possedere
cose; ma proprio perché punta a questa finalità ciò che interessa non è la sostanza della res, della
cosa, la sua materialità, ma la serie di rapporti tra persone che il suo
possesso definisce; anche in questo caso, con l’aggravante che lo jus romano
definisce soprattutto le cose in negativo, ossia quelle che non sono di
nessuno, la res, la cosa, è privata della sua materialità, del suo esistere in
quanto tale
·
Più ancora che lo jus romano o la filosofia
a negare la cosa è il linguaggio, tutte le lingue: se nella Genesi le cose
prendono vita in quanto nominate, la metafora della torre di Babele significa
che il legame fra le lingue, ormai diverse, e la cosa si allenta in mille
rivoli; le parole, il linguaggio iniziano a vivere di vita propria, sconfinando
nell’astratto, allontanandosi dalla realtà materiale che dovrebbero
rappresentare, fino al punto di totale separazione fra parola e cosa: per
definire quello specifico “oggetto coltello” non posso che usare la parola
coltello, la stessa che si deve usare per definire tutti gli oggetti coltello
per quanto tutti uno diverso dall’altro: la lingua, la parola, non è più in
grado di dare nome alla cosa in quanto tale, si limita a definire la sua
astrazione, la sua essenza. Nel momento in cui viene nominata la cosa perde la
sua materialità, la parola di fatto l’annienta.
·
Lo sviluppo mercantilistico e capitalistico
ha poi ingigantito il peso del valore delle cose, assurto a unico metro per
misurarle; Marx ha definito al riguardo una distinzione fondamentale: una cosa
possiede un valore d’uso ed un valore di scambio, non è detto che i due valori
coincidano, una cosa può essere usata molto e valere poco, e viceversa (precisa
comunque che il valore delle cose altro non è che il rapporto sociale che esse
contengono)
·
Ma è sempre nell’analisi marxiana che si
conferma la scissione fra persone e cose, il mercato del lavoro condanna, anche
come frutto di coercizioni violente in tal senso (l’accumulazione originaria),
le persone a vendersi come merci, con una divaricazione aleatoria fra il loro
valore d’uso e quello di scambio
·
L’analisi delle merci di Marx è stata
ripresa e sviluppata con accenti diversi, ma senza porre in discussione
l’assunto base del lavoro (persona) diventato merce (cosa); interessante è la
considerazione che Walter Benjamin, partendo dal concetto marxiano del
feticismo delle merci (ciò che giustifica alcuni valori di scambio esagerati,
specie per le opere d’arte), discute del valore di scambio delle opere d’arte
nell’epoca della loro riproducibilità infinita; sostiene che quando un’opera
può essere riprodotta (stampe, fotocopie, etc.) diventa eterna, ma così
proiettata in un futuro senza fine perde il rapporto con il passato e non
testimonia più il presente, perde la sua intima consistenza
·
Heidegger, al contrario, vede nelle
riproducibilità seriale delle cose non la loro estensione in un futuro senza
fine, ma la loro sostituibilità avendo perso la sua specificità, anche in
questo caso, la cosa viene svuotata, annullata
·
La recente esplosione consumistica che ha
riempito l’umano di una quantità inverosimile di cose ha di fatto tolto alla
cosa ogni residuo valore simbolico, le cose sono diventate nude, oggetti privi
di essenza, pura realizzazione del valore di scambio; questa iper-realismo
delle cose non solo ha confermato la spersonalizzazione delle persone e la
dereificazione delle cose ma ha aperto ulteriori scenari psicologici nel nostro rapporto con le cose; Freud,
Lacan, Zizek, hanno in progressione elaborativa evidenziato che il reale delle
cose si è volatizzato nel virtuale, che al desiderio, umanamente indirizzabile
verso l’Altro (persona) si è sostituito il godimento (possesso di cose svuotate della loro essenza
e ridotte a simboli)
Il
Corpo
· Il
corpo è stato a lungo trascurato dal diritto, non essendo né persona né cosa
non sembrava richiedere attenzioni specifiche, quando le circostanze
obbligavano a trattarlo veniva, con non pochi distinguo, assimilato alla
persona
· Eppure
se il corpo viene situato nel tempo e nello spazio sembra rientrare nel novero
delle cose: un cadavere, un corpo che ha finito il tempo di vita, è considerata
una cosa, che nerita particolari attenzioni ma una cosa, ed un embrione, ossia
un corpo in divenire, quando può rientrare nella definizione di persona? ma
qualunque sia il momento in cui tale lo si definisce resta di fatto fino ad
allora cosa; e che dire delle singole parti del corpo, ancorchè identificato
come persona? che stato giuridico ha una parte del corpo che da esso si stacca,
ad esempio capelli, unghie, persino organi donati da un corpo vivente, ad
esempio un rene? Diventano inevitabilmente cose
· Nel
corso degli ultimi decenni poi, con lo sviluppo delle tecnologie, si sono
succedute decisioni non meno contraddittorie: il sangue considerato elemento
bios (vivo), gli organi espiantati da cadaveri giudicati, in assenza di una
volontà contraria depositata, bene collettivo, e quindi cosa, e con
l’esplosione delle bio-tecnologie le parti del corpo trapiantabili non sono già
cose ma non sono più persona
· L’inadeguatezza
del diritto, basato su persone e cose, nel definire e trattare il corpo, che si
situa a metà dei due, trova un suo corrispondente limite nella filosofia; per
molto tempo, a partire da Platone per giungere a Cartesio, quando la filosofia
ne parla è per definirlo un oggetto al di fuori della vera essenza della
persona: l’anima platonica piuttosto che la res cogitans (la mente) cartesiana;
il corpo rientra nel mondo della res extensa, delle cose
· Spinoza
ribalta questa concezione: non esiste conoscenza che non sia mediata dal corpo,
la res cogitans e la res extensa sono riunificate nel corpo, nella potenza
infinita della vita; la strada aperta da Spinoza, proseguita nel pensiero di
Vico, trova in Nietzsche il suo epilogo là dove afferma (Così parlò Zarathustra)
“vi è più ragione nel tuo corpo che nella tua migliore sapienza”; Nietzsche,
anticipato da Darwin ricollega la storia dell’uomo a quella della natura, e
tale riunificazione si realizza nel corpo, l’uomo è tale proprio perché è
corpo, ed il corpo quindi è l’uomo (la persona)
· Ancora
Sartre riprende questa valorizzazione del corpo: non può essere un oggetto
esterno (res extensa) all’individuo (res cogitans), in quanto che, se con tutti
gli oggetti il rapporto si può interrompere, così non è con il corpo: dice
Sartre….io non ho il mio corpo, io sono
il mio corpo….io esisto il mio corpo; ed inoltre è solo tramite il corpo
che la persona può conoscere le cose
Seppure
in forma sospesa, quasi neutra nello stile di esposizione, si innesta a questo
punto del saggio, attraverso l’esposizione di pensieri altrui (Esposito non
scrive mai…io la penso così….), l’adesione di Esposito alla concezione
innovativa del corpo come strumento vivo ed attivo per superare la separazione
fra “persona” e cosa”, fra le “persone” e le “cose”
· Appare infatti evidente, come sostiene
Merleau-Ponty (filosofo francese della prima metà del 1.900) che per conoscere
le cose il corpo deve andare verso di esse, non appena se ne allontana le cose
scompaiono ai nostri sensi, esse pertanto esistono proprio perché scompaiono,
fossero solo un concetto astratto non svanirebbero mai. La stessa coscienza, se
così è, diventa la tensione verso le cose mediante il corpo
· Ciò
che lega uomo (persona) e cosa è dunque il corpo, fuori dalla connessione che
esso assicura essi si separano, l’una diventa subordinata all’altro; questa
considerazione è stata ripresa e sviluppata dalla corrente filosofica
fenomelogica del novecento (Husserl)
· Sufficiente
al definitivo rilancio del corpo? Non propriamente perché se la persona per
incontrare le cose deve muovere il corpo verso di esse allora la cosa esiste
comunque ancora totalmente fuori dalla persona. Ma quando è la cosa che entra
nella persona? cosa pensa la persona alla quale è stato trapiantato un organo
di quella cosa diventata parte del suo corpo? Riflessione sviluppata da
Jean-Luc Nancy, filosofo francese trapiantato di cuore….uno straniero dentro di me…..ossia una persona, un pezzo di essa,
entrata nella mia persona, quella cosa, quel cuore è una persona, quella cosa
ha un suo cuore
· Ma
allora attribuire alle cose un cuore è forse la strada verso la ricomposizione?
Le cose quando entrano nelle nostra casa, quando sono in costante contatto con
il nostro corpo, non è come se acquistassero un nome proprio, una loro vita?
Così come dicono sia Locke che Borges? E più ancora Pasolini quando sostiene
che….l’educazione data ad un ragazzo dagli oggetti…..rende quel ragazzo
quello che è e quello che sarà…ad essere educata è la sua carne come il suo
spirito
· Non
diversamente dicono Wittgenstein e Bergson (filosofi europei del 1900) al punto
che le cose sembrano vivere solo con noi, così come noi non possiamo vivere
senza di loro, e questo vale anche nella nostra epoca che sembra basata sulla
distruttibilità continua della cose che ci circondano: tante cose infatti
restano, le vogliamo con noi per tutta la vita, perché di noi parlano, così
dicono in prosa ed in versi Benjamin, Rilke e Montale
· La
pratica del dono, universalmente diffusa (qui
Esposito guarda, ed è l’univa volta, anche verso culture non occidentali)
cosa altro è se non la personificazione delle cose? Quello che viene donato non è un freddo
oggetto, ma una relazione; in quel gesto la cosa acquista un’anima, un pezzo
dell’anima della persona che dona entra, tramite il corpo che riceve la cosa
donata, nell’anima di chi riceve il dono
· E
nulla sembra mutare, nello scambio di doni, anche oggi nell’epoca degli
“oggetti tecnici”, cose che contengono il risultato di intelligenze che le
hanno prodotte, sono intelligenze (persone) che si concretizzate in cose; addirittura
alcuni sostengono che in questo incontro, al tempo stesso arcaico e
postmoderno, sempre e soltanto realizzabile tramite il corpo, fra persone non
più tali e cose non più tali si può realizzare il superamento fra persone e
cose tramite il corpo
· Facendo
proprie riflessioni di Sloterdijk, Esposito sembra nutrire fiducia che
l’evoluzione delle cose in oggetti tecnici possa consentire il superamento della divisione imposta fra
persone e cose…..per la prima volta dalla
scomparsa delle civiltà arcaiche le cose tornano ad interpellarci in modo
diretto….
· Nelle
ultime pagine del saggio, chiuse le riflessioni sull’individualità del rapporto
con le cose, Esposito affronta la sua valenza collettiva:
Ø Diverso
dal diritto e dalla filosofia è il rapporto della politica con il corpo, non lo
nega, non lo rifiuta, storicamente è giunta a definire “corpo politico”
l’intero popolo, certo un corpo in cui è la testa, la mente, che dispone, ma
esso comunque esiste, ha il suo riconoscimento
Ø La
metafora del “corpo politico” ha di recente conosciuto una evoluzione: la
metafora ha assunto consistenza, ciò è avvenuto nel momento in cui la politica,
la mente, è scesa verso gli aspetti concreti del vivere umano, verso il corpo;
Foucault cita ad esempio di questa trasformazione le politiche sanitarie
prussiane, là dove afferma che esse non guardavano alla salute dei singoli
corpi ma a quella del corpo complessivo, alla salute dello Stato formato
dall’unione di tutti i suoi corpi, di fatto testimonia della politica che
diventa governo della vita
Ø Ma
nel momento in cui il corpo, non più politico in senso metaforico, diventa
l’oggetto della politica che succede a quella testa finora separata dal corpo?
Il contrasto rimane ed assume la connotazione del contrasto fra una politica sulla vita ed una politica della vita, ed il corpo è al centro di
questo contrasto; lo testimonia lo stesso recente (ma già valeva negli anni
trenta) prevalere della figura di un leader, di fatto un corpo fisico, sul
corpo politico dei partiti, a lungo gli ingranaggi fondamentali del funzionamento
della politica
Ø Come
contraltare alla figura del leader sembra cresciuta la indipendenza dei “corpi”
che formano il “corpo politico”, il loro progressivo staccarsi dalle forme di
rappresentanza; eppure la politica può esistere solo se gli spazi che essa
reclama sono riempiti da corpi, la stessa Rete può essere luogo di
mobilitazione ma se non chiama a raccolta i corpi non può essere il motore di
trasformazioni; se vuole svolgere un ruolo reale di governo del mondo, delle
vite, la politica deve muovere i corpi
· ….il corpo vivente di moltitudini chiede alla
politica, al diritto, alla filosofia un rinnovamento radicale (dei loro
lessici)……
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