di Claudio Vercelli
Articoli dal n° 1 al n° 9
Nota terminologica e lessicografica: per rendere più agevole il testo, a
tutt’oggi non sottoposto a revisioni di sorta, essendo costituito da una
successione di articoli redatti nel corso del tempo, alcuni termini la cui
natura etimologica – e il cui uso – implicherebbero differenziazioni e
precisazioni, sono invece stati usati come sinonimi.
Poniamo da subito una questione di
natura terminologica, che è in sé assai più complessa di quanto non possa apparire,
poiché denominando qualcosa lo si genera o comunque, vi si concorre a dargli un
senso e una posizione nell’ordine delle cose del mondo. Si tratta del
significato da attribuire a certe parole, il cui uso inflazionato fa sì che
esse rischiano di perdere di coerenza, congruenza e performatività. Ci stiamo
occupando dell’insieme dei fenomeni che rinviano alle turbolenze in atto nel
Medio Oriente e in parte dell’Africa, soprattutto quella mediterranea e
subsahariana. Ma non solo. Entriamo quindi nel merito dei termini in oggetto.
Definiamo con islamismo e islamista l’insieme dei movimenti politici che si
rifanno all’Islam politico contemporaneo, ossia adottano un’interpretazione
ideologica della religiosità, volta quindi a legittimare l’azione collettiva e
i rapporti con le strutture del potere attraverso i simboli e i valori che
rimandano ad aspetti della religione musulmana; la religiosità è invece un
complesso di credenze, mutevoli nel corso del tempo ma intese come permanenti
da chi le fa proprie e le rinnova nella prassi, che permeano la sua vita,
condizionandone le scelte, gli atteggiamenti, i pensieri, le idee e le
relazioni con la collettività nella quale; Islam («sottomissione a Dio») indica
sia il credo religioso monoteista musulmano che, più in generale, la comunità
dei credenti, a sua volta definita anche, più correttamente, con la parola
araba Umma; fondamentalismo, radicalismo e integralismo sono qui intesi, sia
pure impropriamente, o comunque con un certo grado di arbitrio, come sinonimi o
termini per più aspetti equivalenti, indicando tutti un diffuso stile di
condotta, di natura rigorosamente politica, basato sul rifarsi ad una
“tradizione” a fondamento religioso, che auspica o pratica la costituzione di
un «governo di dio». L’immaginario occidentale da sempre si alimenta di una
visione sospesa tra l’attrazione e la repulsione di ciò che sta a Levante. Una
via di mezzo tra il luogo paradisiaco e la minacciosità dello spettro
incombente. La stessa linea di divisione geografica, culturale e politica tra
Oriente ed Occidente è, alla prova dei fatti, mutevole, ponendosi storicamente
in funzione della tutela degli interessi che le circostanze, di volta in volta,
hanno fatto emergere. La sua arbitrarietà si alimenta poi del lascito delle
politiche coloniali, dei processi di modernizzazione che hanno attraversato
l’età contemporanea, dei rapporti di forza e di potere tra aree e regioni
continentali, della mutevolezza e delle fragilità che si accompagnano alla
globalizzazione socioculturale ed economica. Un insieme di fattori che sono,
nel medesimo tempo, ibridanti e divisivi, imponendo un confronto che in certi
casi si trasforma in scontro. Quanto meno nella percezione comune, nella
comunicazione veicolata dai mezzi di informazione, nei cascami di una concettualizzazione
del mondo ancora fortemente bipolare, quindi dicotomica, dove la complessità
delle relazioni e delle identità è dimensionata al fenomeno del cosiddetto
«scontro delle civiltà». Non di meno, trattandosi di una lettura esattamente
opposta alla precedente ma che con essa tuttavia intrattiene un rapporto di
specularità capovolta, il rapporto con l’«altro da sé» è stato molte volte
ricondotto al mero problema della politica dell’accoglienza e della tolleranza,
riducendo la complessità multiculturale ad un insieme di atti di buona volontà,
spesso espressi più in segno di riparazione per i trascorsi colonialisti che
non all’interno di una trama di analisi e ricomposizione delle differenze. La
comprensione dei mondo islamico, laddove predominano pluralismi e
differenziazioni non meno marcate di quelle che si possono registrare nelle
società che musulmane non sono, quindi del suo spazio, che abbraccia territori
immensi, dall’Atlantico alla Cina, e dei suoi tempi, almeno quattordici secoli
di storia, richiede uno sforzo di metodo che non si risolve con le semplice
formule, utili forse alla mobilitazione politica ma non al confronto sui grandi
assi della trasformazione che ci stanno chiamando in causa: economia,
demografia, rapporti di potere nel sistema delle relazioni internazionali. È
all’interno di questa complicata rete di tensioni, mutamenti e, a volte,
contrapposizioni, che il radicalismo islamista si inserisce, come soggetto
della politica, imponendosi non con la forza persuasiva delle sue argomentazioni
ma con le incontrovertibili argomentazioni del ricorso alla forza. Le vicende
in atto in molti paesi del Mediterraneo meridionale e del Medio Oriente non
presentano, peraltro, nulla di eccessivamente sorprendente per analisti,
osservatori e politici che da tempo si concentrano sulla comprensione dei
processi in corso. Semmai sono parte di una trama fitta, dove si susseguono
eventi solo in parte prevedibili ma comunque consequenziali. Se per certuni il
momento di rottura è costituito dal biennio 1978-1979, quando il regime di Reza
Pahlavi fu rovesciato e sostituito da un’inedita Repubblica islamica dell’Iran,
per altri l’evento spartiacque fu la Guerra dei sei giorni del 1967. Da allora
le alleanze in campo videro emergere il soggetto radicale, ossia quel
pulviscolo di movimenti accomunati dall’essere portatori di un «discorso
islamico contemporaneo» (così l’islamologo Mohammed Arkoun) che al contempo
costituisce l’ossatura ideologica delle lotte per la conquista del potere
politico, un elemento di mobilitazione e di organizzazione della società civile
e un sistema di valori e norme attraverso i quali trasformare, nel loro
profondo, le comunità locali. All’affermazione del radicalismo islamico si
accompagna il declino delle organizzazioni arabe di radice e natura laica. Si
tratta dei due capi di un fenomeno strettamente unitario. La riappropriazione
della sfera della politica – sottratta alla collettività da governanti che
hanno tradito le attese, da élite autoreferenziate, da individui che vengono di
volta in volta definiti, con linguaggio tipicamente morale e religioso, «empi»,
«apostati» se non Kùffar, ossia «miscredenti» e quindi «impuri» – passa
attraverso la religiosità, che deve informare di sé ogni aspetto della vita
quotidiana e, quindi, delle relazioni pubbliche così come dei poteri
collettivi. E tuttavia, la linea di separazione tra politico e religioso, che
costituisce un fattore determinante nella definizione delle culture
occidentali, è assente nel discorso islamista. Poiché l’islamismo è radicale in
quanto caldeggia la sintesi tra religiosità, – come forma permanente di
organizzazione delle società, composte non da cittadini ma da militanti – e
rivoluzione, più che tra la religione stessa e la politica. Il radicalismo
islamico, infatti, non si pensa solo come strumento di governo, attraverso la
reintroduzione del Califfato, ma anche e soprattutto come sovvertimento
continuo delle relazioni tra le comunità. Da questo punto di vista, una delle
sue carte vincenti è quella che gli deriva dall’avere riportato in auge lo
slogan, oramai decaduto, dopo le infinite vicissitudini che hanno accompagnato
il declino del socialismo reale, della «rivoluzione permanente». Il radicalismo
islamista si pensa come rivoluzione totale e persistente, alla fine della quale
non solo gli ordinamenti politici, oggi fondati sull’«empietà» poiché traditori
del verbo divino, saranno stati rivoltati come dei calzini ma la stessa linea
di separazione tra la sfera pubblica e quella privata verrà completamente
stravolta. Poiché nel regno della giustizia non c’è ragione di ritenere che
debba continuare a sussistere una differenziazione tra la prima e la seconda.
Così postulando, l’islamismo politico si presenta come un vero e proprio
movimento dai tratti totalitari. La sua convinzione di fondo, infatti, è che
l’individualità non esista, o che non abbia pari dignità rispetto ai diritti,
ai bisogni e alle esigenze, questi sì incontrovertibili, della comunità. Che –
quindi – viene per prima, poiché ogni soggettività è esclusivamente una mera
funzione dell’unione tra credenti. Non di meno esso mette in discussione gli
assunti che definiscono come “naturale” (ossia ovvio e per più aspetti
indiscutibile) ciò che è invece il prodotto di scelte politiche e di rapporti
di forza, a partire dalla marginalità decisionale di molti paesi nel sistema
delle relazioni internazionali e dal sottosviluppo che attanaglia una parte del
pianeta. Se per i teorici dell’Occidente, nelle formulazioni tradizionali e
quindi più affermate, l’una e l’altro sono il prodotto dei ritardi rispetto ad
un modello sostanzialmente univoco di evoluzione delle società, per gli
islamisti essi costituiscono il risultato della pedissequa imitazione di un
sistema errato, come tale da rifiutare e capovolgere. Ciò che per i primi è una
discrasia da superare, per i secondi è un obbrobrio da contrastare. In realtà,
come molti analisti hanno rilevato, il rifiuto della modernità che da ciò
deriva non è mai totale bensì selettivo. Il fondamentalismo religioso è
infatti, da almeno una trentina d’anni, un fenomeno globale e non chiama in
causa solo i paesi musulmani. La sua connotazione islamica è però eclatante per
il livello di consenso che è riuscito spesso a raccogliere, offrendosi come la
soluzione a problemi ritenuti altrimenti irrisolvibili. Nel suo messaggio
universalista, ossia rivolto a tutti quelli che intendano fare parte della
comunità dei «retti» e dei «giusti», entra in rotta di collisione con
l’ideologia dei diritti universali, creando una competizione nel medesimo campo.
Lo spazio conteso è, infatti, quello dei fini e dei valori ultimi. Il
fondamentalismo è essenzialmente un soggetto politico, che tuttavia si riveste
dei panni della religione proprio poiché ambisce a definire – e a delimitare –
il campo della legittimazione della convivenza civile, quell’insieme di norme
di fondo senza le quali la convivenza stessa diventa impraticabile. Cosa
istituisce il fondamentalismo? Come ha osservato uno studioso di vaglia, Bassam
Tibi, esso si fonda su un paradosso, ovvero l’opporsi strenuamente alla
modernità culturale scaturendo tuttavia dal suo contesto storico, di cui ne è
infatti un diretto prodotto. Non si tratta quindi di mera reazione ad essa, men
che meno di una semplice vocazione al rifiuto. Semmai è una opzione selettiva, che
ne privilegia alcuni aspetti rigettando il resto. Nelle società non occidentali
il fondamentalismo è ossessivamente orientato contro lo Stato laico, nazionale
e indipendente. È questa la matrice comune di fenomeni politici altrimenti
diversi. Poiché lo Stato, così inteso, è visto come una “creazione”
occidentale, originando dalla storia dell’Europa continentale ed essendone una
delle manifestazioni culturali più significative. Nel momento in cui si ascrive
all’egemonia occidentale la responsabilità della marginalità e della decadenza
della propria parte, tale diniego non può che articolarsi essenzialmente nel
rifiuto del modello di sviluppo che ha trovato nello Stato unitario il suo
punto terminale di realizzazione. Attribuendo a tale forma di organizzazione
politica e dei rapporti sociali i peggiori requisiti, a partire dalla natura
divisiva e artificiale che essa rivestirebbe. Quindi: «il fondamentalismo
rispecchia molto di più un’ideologia politica che non la rinascita del
religioso» (Tibi). Dopo di che, volere intendere il fondamentalismo solo come
esercizio cinico e spregiudicato, che camuffa i propri reali intendimenti
dietro la religiosità, è una lettura parziale e sostanzialmente errata dei
processi in atto. Il suo nocciolo duro, infatti, è comunque la convinzione che
alla crisi della politica, ovvero alla sua inefficacia decisionale, si possa
rispondere con la teocrazia. Il dissidio feroce contro la modernità si articola
pertanto su più piani, tra di loro vicendevolmente intersecati. Il primo di essi,
come si diceva, è il netto rifiuto dello Stato laico, inteso non solo come
esperienza fallimentare ma come soggetto della separazione, che divide la
grande comunità dei credenti all’interno di confini fittizi, contrapponendoli
gli uni agli altri e istituendo l’inconciliabilità tra la sfera del religioso e
quella del politico. Per il radicalismo, questo doppia divisione è
inaccettabile. Il secondo rinvia alla confutazione dell’ordine mondiale come
prodotto di una modernità deviata e corruttrice, dove dominerebbero i principi
occidentali della democrazia e dei diritti dell’uomo che, dal punto di vista
islamista, costituiscono un’impostura, sotto la quale si cela il potere dei
«nuovi crociati». Nell’uno e nell’altro caso il raccordo tra dimensione locale e
globale permette ai movimenti che si ispirano al fondamentalismo militante di
avere a cura la dimensione territoriale circoscritta, nella quale si trovano ad
operare, proiettandola sugli scenari globali. In tale modo, ed il terzo
passaggio rilevante, l’elezione del paradigma religioso a chiave di
interpretazione del processo storico, che viene in tale modo azzerato nei suoi
significati e ricondotto ad un’unica radice, quella della perversione morale e
del tradimento dei fondamenti, permette di istituire una sorta di perimetro
ideologico inconfutabile e incontrattabile, che non può essere messo in
discussione nel rapporto con gli avversari. Ai quali, semmai, deve essere
imposto con decisione. Poiché costoro vivono nell’«ignoranza», sinonimo di
disordine e di caos, che non è il mero prodotto della non conoscenza bensì del
rifiuto. Hanno ricevuto il verbo della verità ma lo hanno disatteso, offeso e
quindi calpestato. Un passaggio importante, quest’ultimo, nell’ideologia
radicale, perché non c’è fondamentalismo, inteso come narrazione del
“fondamento”, della radice di tutto, senza una retorica del suo tradimento. Se
questo non si fosse consumato, infatti, non occorrerebbe d’essere ripristinato.
Tutta la narrazione islamista ruota quindi intorno al binomio che esso stesso
istituisce tra storia e declino. La forza dei movimenti radicali è di
presentarsi come lo strumento che permetterà finalmente di raggiungere l’unico
legittimo fine, l’ovviare alla caduta in atto nell’umanità. In ciò sta il vero
atto di fede, prima ancora che nel riconoscersi in un dettato culturale,
teologico e ideologico rigorosamente islamico. Non a caso, quindi, la
distinzione tra Islam e islamismo ha la sua ragione d’essere, trattandosi, nel
secondo caso, di un discorso di mobilitazione e non di riflessione e
articolazione della complessità di una tradizione. (1/segue)
Il tempo, per il radicalismo
islamico, è una variabile fondamentale. Ben più dei luoghi dei quali, invece,
contesta la rilevanza. Se infatti esso si presenta come un movimento globalizzato
ed universalista, presente ovunque ma radicato in nessun luogo (si pensi ad
al-Qaeda), in sintonia con l’idea di massima mobilità che si accompagna alla
globalizzazione, ben diverso è il discorso per la funzione del tempo. Il quale
assume due significati: quando si fa storia è la dimensione, per definizione,
della decadenza, ossia del manifestarsi della perdita di una purezza che in
origine sarebbe invece esistita, ai tempi del Profeta, ovvero la purezza del
combattimento per la conquista; ma è anche il contesto in cui oggi si manifesta
lo sforzo per ovviare a questo declino. Il tempo, nella logica islamista, è un
eterno presente, nel quale si debbono recuperare i valori assoluti che sono
tramandati da un passato mitologico. Il che mette in relazione ascesa-caduta e
risollevamento, tre momenti della parabola umana in cui la storia viene
sostituita da una visione degli ordinamenti collettivi come elementi della
perversione, ai quali solo il radicalismo sa contrapporre una vera e propria
rigenerazione, una catarsi totale. Un ulteriore elemento va poi aggiunto. Il
fondamentalismo (benché ambisca a presentarsi al pubblico in maniera
apparentemente opposta), non è mai un recupero della tradizione religiosa in
quanto tale, che semmai tende a sovvertire se non addirittura a leggere come
luogo dell’empietà né, tanto meno, un’ortodossia che si realizza. Ciò perché ha
bisogno di crearsi una tradizione fungibile ai suoi scopi. Semmai, di quel che
è stato raccoglie solo alcuni aspetti, quelli che possono risultargli come
maggiormente funzionali al momento. Comunque, non si rivolge a quanto gli è
preesistito se non nel senso di farne un uso selettivo, in funzione delle
mutevoli occorrenze del proprio tempo. Non solo non è interessato a recuperare
una tradizione che vede come il suggello di un inaccettabile scorrimento del
tempo, ma recepisce la complessità e la stratificazione della ricostruzione
teologica come una contraddizione in termini rispetto alla linearità e
all’auto-evidenza dei principi che dice di volere ripristinare. Per tali
ragioni rompe anche con le catene dell’ortodossia, tanto più laddove queste
hanno dato sostanza e corpo a una qualche forma di sacerdozio e a dei
ritualismi che vengono letti come segno di quietismo. Il fondamentalismo,
quindi, è al medesimo tempo una frattura e una riconciliazione. Una frattura
rispetto alla “modernità traditrice” (nel senso che assolve il ruolo di
rivelare il dominio dell’empietà che accompagna la decadenza del mondo e
dell’uomo) e alla “tradizione occultatrice” (quella clericale, codificata nelle
religioni come culti: la sua stratificazione culturale e simbolica è il segno
indiscutibile, da tale punto di vista, di volere intorbidare le acque, rendendo
difficile, e quindi incomprensibile ai più, il disegno divino); una
ricomposizione perché accetta la sfida che la modernità detta sul piano non dei
fini bensì dei mezzi. Facendo quindi propri questi ultimi. Non esiste nessun
fondamentalismo, ancor meno quello islamico, che non si presenti allo sguardo
altrui attraverso i più recenti mezzi della comunicazione. Che gli sono
consustanziali, divenendo addirittura degli specchi identitari. Tratto precipuo
dei fondamentalismi è inoltre l’anti-individualismo (dal quale fanno poi
derivare l’avversione per la democrazia, vista come il regime politico per
eccellenza dell’individualità), ovvero l’affermazione che il soddisfacimento
dei bisogni collettivi non può avvenire che a scapito del riconoscimento
dell’autonomia della sfera individuale. Innervandosi e ramificandosi in società
in cui la loro espressione è impedita attraverso gli abituali percorsi della
rappresentanza politica, laddove la mobilità sociale è cristallizzata o semmai
discendente, i movimenti radicali su base religiosa si richiamano alla
tradizione delle fedi di riferimento reinventandone molti aspetti. In tale modo
circoscrivono una sorta di comunità di destino, dove l’identità individuale si
scioglie nell’appartenenza collettiva. Provvedono quindi a delimitarla, dandole
uno spessore ideologico e una presunta continuità nel tempo. Un tempo che non è
solo proiettato in avanti, ossia nel progetto in divenire, ma anche
all’indietro, in quanto il radicamento del fondamentalismo deve essere per
forza di cose “storico”, presentandosi, pur nella sua qualità di novità politica,
eminentemente come una sorta di ritorno di un passato tradito, solo ora
recuperato a migliore considerazione. In tale modo, stabiliscono una dialettica
tra individui ingroup ed outgroup, interni ed esterni, basata su una presunta
moralità, presente nei primi e invece assente nei secondi. L’essere «fedeli»,
da tale punto di vista, implica l’aderire alla forma e all’idea di religiosità
che il gruppo annette a sé, dichiarandosene depositario esclusivo: quindi al
gruppo medesimo, che incarna i valori supremi e del quale, in ragione di ciò,
si debbono fare proprie, a ricalco, tutte le proposizioni di principio. Non si
è quindi fedeli islamici a prescindere da un qualche gesto di sottomissione al
gruppo ma «buoni musulmani» solo ed esclusivamente se si fa propria la sua
precettistica e l’ortoprassi che da tale atto di subordinazione consegue. Sul
dominio del quotidiano, della sfera delle relazioni interpersonali, il
fondamentalismo costruisce d’altro canto buona parte delle sue fortune. Il caso
della centralità del corpo della donna, che non deve essere esposto al
pubblico, è un simbolismo così potente da richiamare l’intero universo di
significati che l’islamismo vuole attribuire all’incontro conflittuale che
intrattiene con il tempo corrente e con la modernità. Poiché il processo di
modernizzazione rimette in questione l’individuo essenzialmente in quanto
attore a sé sufficiente, ridisegnandone la fisionomia e le funzioni in chiave
autonoma, risulta chiaro come il modello di comportamento più pericoloso per la
sfera religiosa, anche privata e soprattutto domestica, si presenti nella
condizione femminile, laddove questa si caratterizza per la secolarizzazione
dei ruoli. Il substrato teocratico dell’islamismo ha come riferimento
un’ideologia della salvezza, la quale si scontra con il principio di laicità,
quindi con la democrazia e la morale internazionale, rivendicando per sé un
esclusivismo della rappresentanza che non ammette in alcun modo l’esistenza di
una pluralità di figure sociali e la negoziabilità dei conflitti. Come ogni
ideologia della salvezza, si tratta di un pensiero che si intende come
totalizzante e, in immediato riflesso, totalitario, sovrapponendosi alle
traiettorie di vita degli individui. Concretamente, il fondamentalismo islamico
rifiuta la democrazia in quanto «soluzione importata», così come lo Stato
nazionale laico, quest’ultimo poiché elemento di frattura nella coesione
dell’umma musulmana. Nel mondo islamico storicamente lo Stato nazionale laico
non si è dato come una creazione autoctona bensì come entità derivata dalla
progressiva dissoluzione dell’Impero ottomano e dal dissolvimento del
complesso, ancorché usurato, sistema di pesi e contrappesi politici che vi
vigevano. Non di meno, il sopravvenire e il consolidarsi di strutture universaliste
– a partire dai sistemi di garanzia sociale e di redistribuzione della
ricchezza – che, in realtà, del pluralismo hanno coltivato solo l’aspetto
formale, ossia nominalistico, è stato incentivato più dai processi di
globalizzazione intervenuti nel corso del XX secolo che non da un’evoluzione
propria, interna alle singole società arabo-musulmane. I fondamentalisti
respingono peraltro la modernità culturale, e le sue ricadute sociali e
politiche, ma non la sua dimensione istituzionale. Se il progetto culturale
della modernità si basa sull’investimento (nel futuro) e sul convincimento che
l’individuo possa plasmare il suo destino, per il tradizionalismo musulmano e
il fondamentalismo islamico a dovere essere messo in discussione non è il suo
respiro universale bensì la visione cartesiana del mondo, incentrata sull’uomo,
nonché la fiducia nelle capacità della ragione umana, quand’essa si determina a
spese della rivelazione divina. Non rigettano quindi i risultati
tecnico-scientifici, piuttosto li piegano ad una rilettura del presente
fortemente connotata su un piano valoriale. Il dilemma islamico nei confronti
della modernità è pertanto risolto attraverso l’adozione selettiva di alcune
sue componenti strumentali, rifiutandone invece in toto la razionalità e
il sistema normativo che l’accompagna, laddove l’una e l’altro incentivano
l’emancipazione individuale. Il razionalismo della scienza moderna – tuttavia –
è estraneo non già all’Islam ma al fondamentalismo islamico. Basti ricordare, a
tale riguardo, che del primo, in età medievale il razionalismo ellenistico era
una delle fondamentali componenti di pensiero. Vale ancora la pena, a questo
punto, di ritornare sulla questione della laicità. Poiché essa è uno degli
indici più importanti nei processi di mobilitazione messi in atto
dall’islamismo politico. Negli Stati nazionali mediorientali sorti a seguito
della decolonizzazione, il mutamento politico non si è accompagnato alla
differenziazione funzionale della società e ad una spiccata divisione del
lavoro. La laicità si è quindi caratterizzata soprattutto come ideologia
intellettuale, ossia come proposito normativo, patrimonio di circoli formatisi
in Occidente o all’ombra dei paesi europei e degli Stati Uniti. Di fatto essa,
tuttavia, ha difettato di basi strutturali, a partire da un ceto medio
autonomo, non dipendente dalla pubblica amministrazione, in grado di farsene
soggetto politico. I conflitti tra centro e periferia, tra città e campagna,
tra prepotente urbanizzazione e perdurante ruralità, tra diffusa scolarizzazione
e mancanza di sbocchi professionali sono quindi rimasti sospesi, durante i
decenni trascorsi, tra il richiamo dottrinario a modelli astratti e astrusi e
l’incoerenza delle politiche pubbliche. Il declino della sovranità nazionale,
dettato dagli esiti dei processi di globalizzazione, è quindi letteralmente
piombato su società incompiute, troppo avanzate per essere ritenute
arcaicizzanti ma ancora troppo frenate per definirsi secolarizzate. Il collasso
dei sistemi di Welfare State locali, fortemente legati al clientelismo e al
patrimonialismo dei gruppi di potere, ha innescato poi innumerevoli spinte
centrifughe, che hanno offerto all’islamismo spazi altrimenti insperati. Nella
contro-ideologia dei fondamentalisti il laicismo è quindi raffigurato e risolto
come elemento di una «congiura dell’Occidente» ai danni delle comunità
autoctone, in funzione di una perdurante colonizzazione culturale. La mistica
del complotto è una moneta comune nelle organizzazioni islamiste, che
interpretano la storia come una realtà capovolta, dove la ragione e
l’intelligenza dei fatti va cercata in ciò che rimarrebbe nascosto allo sguardo
abituale. La politica, infatti, viene ridotta a un terreno di contrapposizione
violenta tra inconfessabili alleanze, tra fazioni rivali inconciliabili per le
quali non esiste nessun spazio di mediazione. È stato osservato, al riguardo,
come la specificità delle società arabo-musulmane contemporanee, benché
estremamente diversificate tra di loro, stia nel fatto che esse presentino
un’estrema difficoltà a plasmarsi secondo la razionalità degli Stati nazionali
moderni, mentre le tendenze alla ricostruzione di comunità primordiali siano
dappertutto, se non le più forti, per lo meno quelle produttrici delle maggiori
tensioni identitarie. Nella dialettica negativa tra mancato radicamento
nazionale e sradicamento globale quello che resta, agli occhi dei più, è il
fallimento del primo e l’infelice successo del secondo, simboleggiato, anche
nelle primavere arabe, dal tema persistente dell’oppresso, mostazafin, il
derelitto come eletto, ossia come forza della storia. Peraltro, il problema del
fondamento del potere e, quindi, in immediato riflesso, della natura dello
Stato «giusto ed equo», poiché in accordo con il dettato coranico, accompagna
tutta la storia musulmana, a partire dalla frattura tra sciiti e sunniti, tra
imam e califfi, essendo l’epitome manifesta della contrapposizione sociale tra
interessi in persistente conflitto i quali, attraverso il linguaggio della
religiosità, già nel passato trovavano così il modo per esprimersi nello spazio
pubblico. Il fatto che questo elemento ritorni prepotentemente in auge non
indica la rivincita della religione ma la sconfitta dell’autonomia della
politica. Il che, segnatamente, non è un problema solo per l’Oriente ma anche
per l’Occidente, benché quest’ultimo lo risolva attribuendo oggi alla sfera
economica un ruolo ordinativo che non gli dovrebbe appartenere comunque. Questo
ed altro per affermare, ancora una volta, che il radicalismo islamista non è
residuale, non costituisce una riaffiorante vestigia di ciò che è stato,
riemergente in tempo di crisi, ma è il nuovo profilo che la politica nell’età
della globalizzazione sta assumendo. Populismo e fondamentalismo sono
compartecipi di molte avventure e condividono tratti culturali e ideologici ben
più accentuati di quanto non si sia disposti ad ammettere. (2/segue)
Dunque si dà un problema, non solo
formale, ovvero nominalistico, nella definizione dei movimenti radicali di
radice musulmana. Più che domandarsi quanto questi siano effettivamente
rappresentativi della volontà della popolazione nei luoghi in cui si trovano ad
operare, fatto che rimane una variabile dipendente da molti elementi, non
sempre computabili a priori, quello che si impone a noi come quesito è quanto
possano essere considerati espressione, più o meno autentica, dell’islamicità,
varcate le soglie del XXI secolo. Ovvero, se essi ne siano una forma verace
(così dicono di sé), o se vadano considerati come qualcosa d’altro. In altre
parole ancora, sono essi ciò che quattordici secoli e più di civilizzazione
arabo-musulmana ci consegnano definitivamente, quindi una sorta di destino
ineluttabile, uno sbocco obbligato, inscritto nel patrimonio costitutivo di
quelle società, e della loro evoluzione, oppure costituiscono una variabile a
sé, da considerare secondo criteri diversi, che tengano separato il discorso
sulla religione da quello di stretto merito riguardo alle condotte politiche?
Problema, quest’ultimo, assai difficile da affrontare se la premessa, più volte
richiamata anche in queste righe, è che l’una e le altre vengono rivendicate
come un tutt’uno dai protagonisti medesimi. Ma il modo in cui un soggetto
storico si racconta non è la sua storia in quanto tale. L’autonarrazione va
sempre distinta dalla valutazione sul suo concreto operato e sui costrutti
ideologici che lo connotano. Lo sguardo dall’esterno non deve coincidere con
quello dall’interno, altrimenti il fare storia, ma anche il raccontare la
cronaca spicciola, rischiano di diventare semplice cassa di risonanza dei loro
attori. Per meglio intenderci, se riteniamo che il modo in cui il
cosiddetto «Stato islamico», presente in Siria e nell’Iraq, sia l’esito
inevitabile delle trasformazioni in atto nel mondo musulmano, rischiamo di fare
il gioco stesso dei tagliagola che si celano dietro questa sigla, offrendogli,
nostro malgrado, una legittimazione non solo immeritata ma basata
esclusivamente su quello che vogliono che si pensi di loro. È evidente che
gli islamisti intervengono nel malessere diffuso che accompagna, non certo solo
da oggi, quelle terre e chi vi abita. E che di tale stato di cose ne siano
anche un prodotto. Ma è buona cosa fermarsi un attimo e raccogliere i pensieri
dinanzi alla loro pretesa di rappresentare, in tutto e per tutto, l’evoluzione
dell’Islam – dopo le sue presunte «corruzioni», derivanti dall’incontro
problematico con la modernità secolarizzante. E cercare di capire meglio le
cose, evitando i facili automatismi. Alla modernità laica e secolarizzante
attribuiscono ogni possibile disastro, contrapponendovi la loro “comunità
militante”, fatta di devoti ad una religiosità tanto politicizzata quanto
asfissiante.. Il radicalismo islamico, come forma contemporanea di
mobilitazione, nasce peraltro dai movimenti riformisti che, a cavallo tra il
XIX e il XX secolo, attraversarono il mondo arabo-musulmano nel suo insieme. Da
quei semi, e dalla pianta che ne fiorì, per transiti successivi si è arrivati
al pulviscolo turbinoso di gruppi, fazioni e organizzazioni così come le conosciamo
oggi. Il riformismo si interrogava sul rapporto con le nuovi configurazioni che
il mondo, non solo quello composito dell’Islam, andava sperimentando nell’età
della tecnica, del consolidamento della seconda rivoluzione industriale e del
colonialismo europeo. Riconoscendo l’impossibilità di chiudersi le porte alle
spalle, in un falso sogno di autosufficienza, si poneva quindi il problema
dell’adeguatezza (come, di riflesso, dell’inadeguatezza), delle società e delle
culture autoctone alla sfida del tempo corrente. E da ciò formulava una
proposta di riforma dell’Islam, inteso non come religione bensì in quanto vero
e proprio sistema di relazioni sociali – alternativo a quello capitalista prima
e comunista poi, in questo secondo caso dopo l’affermazione della Rivoluzione
d’Ottobre e la sua diffusione come modello d’azione anche in Asia e in Africa
-, che evitasse alle società locali di soccombere dinanzi alla preponderante
presenza occidentale. Non solo militare ma anche economica e civile. La nozione
di«imperialismo culturale», che sarebbe poi stata sostituita da quella più
moraleggiante di «regime dell’empietà», trova progressivamente il suo spazio in
tale dinamica storica. Posto per parte nostra il discorso in questi
termini, il radicalismo, in quanto filiazione di tali processi, non implica in
linea di principio un rifiuto totale della modernità bensì il diniego che essa
possa dettare in maniera esclusiva le condizioni alle quali vivere il proprio
presente. Si tratta per i fondamentalisti di islamizzarla in una sorta di
inversione delle polarità. Da queste premesse, i tempi sono tuttavia ancora
trascorsi, fino ad arrivare agli scenari odierni. L’evoluzione del radicalismo
può essere letta, sul piano storico, attraverso la cartina di tornasole del
movimento della Fratellanza musulmana, vero prototipo e pilota di un più ampio
insieme di soggetti, di protagonisti e di condotte che si sarebbero succedute
nel corso dei decenni, dal 1930 in avanti. La vicinanza con il potere, o
comunque con i centri di potere, è un aspetto importante di questa storia.
Raramente i movimenti radicali nascono per sola spinta dal basso, producendosi
semmai nel contatto tra malessere derivante da ciò che essi
chiamano «Fitna» e membri delle élite culturali e sociali, che raccolgono
tale diffuso “grido di dolore”, facendosene interpreti. Storicamente la parola,
il cui etimo rimanda a significati ampi, dalla «prova», difficile e
sofferta, alla contrapposizione di petto, che può sfociare in una vera e
propria guerra civile interna al mondo islamico, indica il conflitto sulla
legittimazione delle linee di potere che portò, nel volgere di due secoli, alla
spaccatura tra sunniti e sciiti. Ancora una volta tale tema di fondo, ossia di
chi abbia il vero diritto al governo della sfera pubblica, ritorna come una
sorta di tallone d’Achille. Basti pensare che la Fitna è una condizione di
contesa persistente sulle linee di successione al potere, e su chi ad esse sia
giustamente chiamato, nell’esercizio di una volontà che non deve essere quella
popolare bensì esclusivamente divina. Il potere bene «informato», quello che si
esercita con «equità» e «giustizia», non promana dalla collettività bensì
dall’ultraterreno. In una inversione di ruoli, è ciò che sta sopra a
legittimare quello che si pone sotto (e non viceversa). La Fitna, oggi, non è
solo l’insieme delle perduranti contese interne al mondo musulmano ma la secca
contrapposizione tra due civiltà, quella corrotta dell’Occidente (inteso come
una sorta di categoria dello spirito) e la «Casa dell’Islam». Si proietta
dentro quest’ultima – argomento strategico per gli islamisti odierni – laddove
il primo finanzia e sostiene gli individui empi che governano illegittimamente
i paesi musulmani, alimentando artificiose contrapposizioni, deviazioni e
corruzioni sulla strada verso l’ottemperanza alla volontà divina. Il
radicalismo islamista si pone quindi ossessivamente il problema del potere. I
suoi esponenti contestano radicalmente i regimi vigenti poiché ne conoscono le
articolazioni; a volte ne sono essi stessi parte integrante, ancorché
insoddisfatta. Oppure colgono le opportunità che si dischiudono dinanzi alla
cristallizzazione delle vecchie politiche, nel momento del loro cadere come
delle foglie secche, come è avvenuto con gli esiti delle diverse «primavere
arabe» dove, invece che l’ipotesi di nuove democrazie, è subentrato l’autunno
delle vecchie oligarchie. Il radicalismo islamista, quindi, coniuga la critica,
intollerante e apocalittica, della modernità al problema della trasformazione
alla radice delle relazioni sociali. In questo senso ha una carica
rivoluzionaria, nella misura in cui esplode, come una violenta spallata, in
società al medesimo tempo intrinsecamente instabili, nei loro equilibri sociali
ed economici, ma apparentemente immutabili sul piano delle configurazioni di
potere. Ancora una volta, la natura politica del fondamentalismo a matrice
religiosa viene così confermata, rafforzandosi grazie alla più assoluta
mancanza di dialettica che sta alla base non della sua interna organizzazione
ma di quella dei regimi di cui contesta la legittimità. La religione è quindi
un vettore, un linguaggio condiviso, di comune uso, per più aspetti pretestuoso
ma immediatamente capitalizzabile in termini di consenso, per manifestare
quella domanda di politica che i movimenti raccolgono, organizzano e avanzano.
Più che islamizzare la politica, quindi, avviene l’esatto opposto, ossia la
politicizzazione della sfera della religione. Il caso iraniano, nel biennio
1977-1978, con la nascita dell’autonominatasi «Repubblica islamica», è un
esempio significativo in tal senso. La qual cosa, per bene intendersi, non
implica il coinvolgimento effettivo della collettività nell’ambito del processo
di formazione delle decisioni. Come tutti i movimenti e le fazioni che vantano
(o millantano) una vocazione rivoluzionaria, dicendo di praticarla
nell’interesse esclusivo della comunità di riferimento, l’islamismo si guarda
bene dal chiamare poi concretamente in causa quest’ultima in quei percorsi che
vadano oltre il riconoscimento dell’esclusività della sua rappresentanza. La
passivizzazione della società è infatti un altro aspetto importante nell’agire
radicale, che assume su se stesso il ruolo di decisore totale. L’esatto opposto
della prospettiva democratica che, per esistere, necessita invece della
presenza attiva e consapevole di coloro che considera «cittadini». La
religiosità, da tale punto di vista, torna allora ad essere di nuovo un
elemento quietistico, ossia lo strumento con il quale definire, legittimare e
imporre la subalternità ai credenti, dopo averli in un primo tempo mobilitati
nel ribaltamento degli equilibri esistenti. Ma è una religione sottratta ai
suoi tutori tradizionali, chierici di ogni genere (intellettuali, clero,
politici), defenestrati adesso dalla capacità che il movimento ha sprigionato
di farsi soggetto unico, totalizzante, della politica medesima. Anche qui
aspetti significativi dell’esperienza dei partiti rivoluzionari di potere, a
partire dalla propensione alle soluzioni oligarchiche, nel nome del “bene comune”,
si ripetono nel sentire e nell’agire islamista. Che, in tal senso, a modo suo è
“moderno”, ossia congruente ai meccanismi di selezione e riproduzione delle
élite laddove non vi sia alcuna libera intercambiabilità. Il punto che va
sottolineato, in questo groviglio di elementi e considerazioni, è che l’esito
dei processi di globalizzazione è spesso in sintonia con questo tipo di
soluzione. Non siamo in presenza di deviazioni da una strada altrimenti
spianata verso la democratizzazione di paesi che, fino ad oggi, non avevano
conosciuto tale possibilità, bensì alla riproduzione della politica in forma di
circuito ristretto, ascritto ad un gruppo circoscritto, autoselezionatosi. Cosa
cambia, allora, rispetto a prima? Senz’altro mutano i detentori materiali del
potere. Ma muta anche la forma di questo potere che, nel caso dell’islamismo,
vuole avere poco o nulla a che fare con l’ormai superato concetto di sovranità
nazionale, rinviando semmai ad appartenenze comunitarie e a fedeltà tribali che
tornano così in auge. (3/segue)
Che il radicalismo islamista si nutra di una concezione totalitaria delle relazioni sociali, dei rapporti tra esseri umani, è un dato incontrovertibile. Cosa implica questa affermazione? Che esso ritiene gli individui dei meri prolungamenti della propria “comunità”, di un organismo collettivo al quale tutto va ricondotto e, se necessario, nell’eventualità, sacrificato. Se lo intendiamo come un regime politico, allora il riferimento è ai fascismi e al nazismo; se lo vediamo come movimento, allora il rimando è ad una concezione del comunismo che trovava nel bolscevismo il suo completamento. Laddove, però, alla ferrea dialettica tra avanguardie e collettività quest’ultimo assommava il discorso sulla “rivoluzione” come atto perennemente incompiuto. Non si tratta di progenitori diretti, né di precedenti storici, ma modelli antesignani di una qualche rilevanza, sia pure nelle infinite diversità delle traiettorie concrete. Torniamo su questo punto, poiché l’intera costruzione ideologica del radicalismo si basa sul ricorso ad un duplice binario: da una parte, l’enfatizzazione del movimento organizzato – comunque esso si chiami, qualsiasi forma assuma (si pensi ad Hamas o a Hezbollah, due partiti che si pensano e sono vissuti in quanto comunità politiche autosufficienti) – nella sua natura di superamento dello Stato, luogo di corruzione per definizione, trattandosi di una forma di organizzazione che “divide” la comunità musulmana, mentre questa può realizzarsi solo se divelle tutti gli ostacoli, materiali e simbolici, che incontra nel suo cammino; dall’altra, il tema di una “purezza” da raggiungere che si dà solo nella milizia, nel combattimento, nella lotta armata, comunque nell’azione. Due suggestioni non nuove, nel panorama politico ma che, dinanzi al declino della politica partecipata nei paesi a sviluppo avanzato, trovano adesso nuovo respiro, raccogliendo qualche assenso anche in una parte dei cittadini occidentali, attratti da qualcosa in cui credere non solo sul piano ideologico ma attraverso il ricorso attivistico alle vie di fatto. Il proselitismo, infatti, ne è un riscontro che stiamo osservando, sia pure in forme piuttosto contenute, tra le file degli “scontenti” presenti non solo nelle innumerevoli periferie dei nostri paesi. Il fondamentalismo islamista rende dicotomico il rapporto tra le persone, da una parte escludendo dal diritto stesso alla vita gli «infedeli» (così come le dottrine in materia predicano, legittimando la licenza sistematica all’assassinio) ma, nel medesimo tempo, adoperandosi sulla via della conversione, forzata o meno che sia, di chiunque non si opponga attivamente ad esso. Conversione al proprio credo, sia ben chiaro, non alla religione islamica in quanto tale. Non è un caso, infatti, se la natura del suo operare sia quello tipico al fomentatore sistematico di una guerra civile perpetua in campo arabo-musulmano. Con effetti a volte bizzarri, oltre che tragici, poiché l’islamismo si esercita in prima battuta contro le stesse popolazioni musulmane. In una sorta di guerra mediorientale totale e permanente. Sul piano dei parallelismi storici si può obiettare che il rinvio ai totalitarismi europei sia un azzardo, se non una torsione ideologica bella e buona. Non solo poiché ogni esperienza politica è un caso a sé, per tanti aspetti irripetibile, a partire dalla condizioni materiali che la generano, ma anche perché la stessa categoria di «totalitarismo» risulta assai poco fungibile su un piano analitico. E tuttavia, c’è un legittimo ambito, quello della riflessione politica, che invece reclama analogie, ricorsività ma anche discontinuità, per meglio intendere cosa stia avvenendo e avere quindi degli strumenti di valutazione. Il ricorso alla religiosità, in quanto visione complessiva del mondo, in sé conchiusa, funge da collante ad un progetto politico che vorrebbe coniugare il ribaltamento degli equilibri costituiti, quelli generatisi attraverso le sovranità nazionali e il sistema internazionale degli Stati, al rifiuto della modernità socioculturale laddove essa si trovi in disaccordo con la precettistica islamista. L’edificazione di una società islamica “globale”, sull’intero pianeta, in accordo con la morale religiosa rimane per gli islamisti, quindi, l’esclusivo percorso di civilizzazione possibile. La radicalità, da questo punto di vista, indica etimologicamente il rifarsi ad un’unica radice possibile, l’Islam medesimo nelle sue origini più “pure”. Il quale è presentato come entità unitaria benché storicamente sia stato, invece, variamente declinato, anche in modi tra di loro apertamente contraddittori. Comunque sempre competitivi. Poiché la posta in gioco non è mai l’interpretazione ma chi sia legittimano a costituirne la fonte ultima. Non a caso si può parlare di fondamentalismo, al di là della sua dimensione sociologica, storica, politica e sociale, rifacendosi al problema del fondamento di chi decide cosa sia giusto e cosa invece non lo debba essere. L’islamismo radicale ruota intorno a queste sfide, operando in società che non hanno elaborato la separazione – sempre incerta, peraltro – tra la sfera della politica e quella della religione nel processo di produzione di una morale pubblica. E la sua forza, nelle sue molteplici manifestazioni, è tanto più enfatizzata dal momento che i tentativi di dare corpo nelle società arabo-musulmane a un moderno sistema di Stati nazionali, efficacemente inserito nel circuito delle relazioni internazionali, di fatto va oggi fallendo. L’idea radicale sta nella sfida all’egemonia dell’interpretazione, ossia contro le figure che sono tradizionalmente chiamate ad esercitarla, poiché le rivolte dei dominati continuano comunque ad avvenire all’interno di un quadro cognitivo e culturale di riferimento condiviso con il sistema di dominio, al quale si contesta tuttavia la legittimità di continuare a dirsi interprete della realtà. In gioco non è la necessità di un sistema di legittimazione bensì il chi sia deputato a farsene interprete. Non possono essere i chierici di “regime” (gli intellettuali); men che meno le figure istituzionali emerse dallo sviluppo degli apparati della pubblica amministrazione; per non parlare delle élite politiche, descritte come corrotte a prescindere da qualsiasi riscontro effettivo. Così come neanche i sapienti della tradizione ancestrale. Poiché la sovranità dell’interpretazione riposa in Allah stesso, che ne fa però dono a chi riesca nell’intento di meglio cogliere il suo disegno provvidenzialistico, raccordandolo ai bisogni della collettività. In ciò si manifesta, inoltre, la dimensione populista del radicalismo contemporaneo, che dice che a comprendere il messaggio possa essere solo il «popolo», se governato da chi sia «ben ispirato». L’islamismo, infatti, invoca il ritorno alla fede primigenia ma è essenzialmente un moderno movimento di mobilitazione. Di fatto reinventa la tradizione rinviando permanentemente all’ossessione per la sua autenticità. Il suo dispositivo normativo, infatti, è duplice: da un lato rimanda alla ricerca di un passato mitologico da ripristinare in toto; dall’altro dichiara come inesaurita qualsiasi ricerca, definendola insufficiente o inadeguata, a prescindere dagli esiti concretamente ottenuti, di volta in volta. Ragion per cui da ciò deriva la persistente mobilitazione dei militanti e degli aderenti, ai quali è richiesta una spasmodica partecipazione verso un “obiettivo finale” che ancora non è stato raggiunto. E che mai lo sarà, perché la purezza è una sorta di ispirazione, non una dimensione concreta, Il nocciolo del fondamentalismo, quindi, non sta in ciò che promette ma nella capacità di indurre gli affiliati a cercare di tenere fede a tale promessa, convincendoli della necessità di ripetersi negli sforzi, per adempiere veracemente a tale impegno. Che, come tale, è totalizzante, occupando di sé ogni aspetto della loro esistenza. A conti fatti, nel conflitto tra religione e politica, benché il fondamentalismo si renda interprete della prima come tramite della seconda, ribadendone l’apparente primato e facendosi promotore di una idea di Stato totale a fondamento etico, di fatto ribalta i ruoli e le relazioni di primazia, portando alla politicizzazione totale della religiosità. Detto questo, va aggiunto che la modernità dell’islamismo la si misura non solo nelle istanze ideologiche che lo connotano ma anche nei quadri militanti che ad esso vi prendono parte. Le sue schiere sono spesso composte da giovani di estrazione sottoproletaria, urbana, di fatto vittime dei processi di modernizzazione incompiuta. Le élite dirigenti sono costituite da altrettanti giovani, perlopiù di estrazione sociale piccolo o medio borghese, spesso però in fase di retrocessione nella scala sociale. Per gli uni e per gli altri il dato generazionale si coniuga alla marginalizzazione economica, d’origine, poiché trasmessa dalla famiglia, o acquisita, in quanto derivata dall’avere perso ruoli, status e capacità contrattuali nel mercato del lavoro. Per molti di essi, la formazione religiosa, in origine, è un elemento secondario se non irrilevante. Chi ha studiato ha seguito soprattutto un percorso umanistico o scientifico, ma comunque nella quasi totalità dei casi ispirato ai saperi laici o secolarizzanti. Solo successivamente avviene l’incontro con la mobilitazione politico-sociale di matrice islamista. Anche da ciò nasce quel movimento contro la tradizione che è parte integrante del radicalismo. Il quale, per potersi legittimare, ha bisogno prima di contendere e quindi di sottrarre il potere normativo e di giudizio alle fonti tradizionali dell’Islam, autonominandosi, sul campo, soggetto del cambiamento e convalidandosi autonomamente come autentico interprete della dottrina. Durante la guerra fredda l’islamismo è stato un soggetto relativamente marginale nella scena politica, occupata invece dal confronto tra i modelli di sviluppo promossi dall’Occidente liberaldemocratico e l’utopia reale del comunismo. Neanche all’interno del vasto magma “terzomondista”, per come era venutosi costituendo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, il ricorso alla religiosità come veicolo di produzione e promozione della politica aveva trovato sufficiente riscontro. Semmai, lo sforzo di istituire Stati nazionali, sulle ceneri dei processi di colonizzazione, si era orientato nel senso di trovare nuovi baricentri e nuove fonti di legittimazione oltre la religione in quanto tale, intesa da molti come un elemento non solo tradizionalista, e quindi non in linea con l’idea di movimento collettivo di quegli anni, ma anche quietista, nel senso di acquiescente ai vecchi ordinamenti costituiti. Che erano, perlopiù, di derivazione coloniale. Il progressivo fallimento di questo tentativo ha invece aperto varchi, altrimenti impensabili, per il fondamentalismo islamista. La sua natura è, oggi, quella di pensarsi e di offrirsi come ideologia universalista, in grado di contrastare la globalizzazione mercatista, l’omologazione culturale e il liberismo senza freni delle classi dirigenti internazionali. Ciò facendo, si alimenta di paradossi, che sono alla sua stessa radice: parla un linguaggio inclusivo quando però non contempera in alcun modo il pluralismo culturale, ritenendolo semmai un segno di decadenza; rinvia alla tradizione quando di essa ne mina, per necessità propria, le fondamenta stesse; è innervato dentro i processi di globalizzazione universalista, dei quali ne è per più aspetti uno specchio capovolto, ma pratica, all’atto concreto, politiche fortemente particolariste, ossia concentrate sulla dimensione locale in cui si trova ad operare e sugli interessi che vi sono raccolti (essendo l’Islam un universo di realtà locali, accomunate da un rimando religioso condiviso ma, in buona sostanza, fortemente diversificate al loro interno). Di fatto promuove un modello plurale, cioè rivolto a gruppi, società, comunità tra di loro differenti, ma tutto fuorché pluralista. Ciò che l’islamismo contesta è la separazione tra politico e religioso nei termini di una profonda crisi di legittimità in atto. La quale indica la frattura tra umma, la comunità dei credenti, e Allah, ossia il legame tra giustizia e legittimità, due parole chiave nella definizione del potere. Il governo è «giusto» se ispirato dalla parola divina, la quale si innerva nella Legge religiosa. Mentre storicamente, laddove si celebra la decadenza, il fondamento del governante diventa il potere medesimo. Con un capovolgimento di senso, inteso come catastrofico dagli islamisti. Il potere mal governato è quello empio. L’empietà si basa sull’assenza di legittimazione divina (che conduce alla mancanza di giustizia terrena) ma anche sul quietismo dei governati, che riconoscono come immutabile il potere costituito. Il radicalismo si pone pertanto in rotta di collisione contro questa situazione. Afferma che lo stato delle cose va radicalmente mutato, ristabilendo l’ordine “naturale”, ossia ultraterreno, dei fattori umani. La qual cosa implica l’attivismo dei governati, il loro impegno concreto nel mutamento. Non come atto di libera scelta bensì di servo arbitrio nei riguardi di Allah, ovvero nei confronti dei suoi sinceri servitori raccoltisi nel movimento islamista. All’idea di ordine, quindi, viene sostituita quella di conflitto permanente. Dentro il quale si riannoda il nesso tra legittimità e giustizia. Il riscontro di tale condizione è offerto dall’affermazione militante (e combattente) del movimento. La forza non è un prodotto umano ma un dono che viene dall’alto. Se il movimento vince è perché rappresenta Allah, essendone parte del disegno universale. Mentre il governante empio basa se stesso sul potere-potenza, quello che promana dall’uomo, l’autorità legittima si fonda sul potere-autorità che deriva dall’ultraterreno. Sono questi i tratti comuni in un universo di correnti e gruppi altrimenti non solo diversificati ma anche tra di loro perennemente conflittuali. Così per il Wahhabismo, corrente sunnita ultraradicale, costituitasi nel XVIII secolo per opera di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, con l’obiettivo di ripulire la religiosità islamica dalle “incrostazioni” subentrate dopo la morte di Maometto, come il culto locale dei santi, l’abitudine a tagliarsi la barba, l’uso del tabacco, la diffusione della musica. Da questo insieme di prescrizione deriva e subentra un’ortoprassi che rinvia all’osservanza dogmatica del Corano, che delegittima politicamente i regimi vigenti, che si incentra ideologicamente sul nesso tra purezza individuale e lotta alla corruzione collettiva. La sua diffusione nella penisola arabica giunge fino ad oggi, impegnando la monarchia saudita in una sorta di gioco delle due carte, tra lotta contro le componenti più radicali e accettazione di un tradizionalismo rigidissimo. Il movimento degli «studenti coranici», meglio conosciuti come Talebani, che ha agitato le acque nel decennio trascorso, si innerva invece nella scuola indiana Deobandi, di filiazione wahhabita-saudita, così come i salafiti, anch’essi componente purista dell’Islam sunnita, e i takfiri. E via discorrendo. Infatti, se il radicalismo rifiuta ogni forma di pluralismo civile e morale, intendendoli come fumo negli occhi, è per sua stessa natura plurale dal punto di vista organizzativo. Il suo iperconflittualismo gli deriva anche dal fatto che sulla sedia della ragione vorrebbero essere in molti ad accomodarsi. Per questo non pochi tra di essi, periodicamente, cascano per terra. Con effetti rovinosi. (4/segue)
Che il radicalismo islamista si nutra di una concezione totalitaria delle relazioni sociali, dei rapporti tra esseri umani, è un dato incontrovertibile. Cosa implica questa affermazione? Che esso ritiene gli individui dei meri prolungamenti della propria “comunità”, di un organismo collettivo al quale tutto va ricondotto e, se necessario, nell’eventualità, sacrificato. Se lo intendiamo come un regime politico, allora il riferimento è ai fascismi e al nazismo; se lo vediamo come movimento, allora il rimando è ad una concezione del comunismo che trovava nel bolscevismo il suo completamento. Laddove, però, alla ferrea dialettica tra avanguardie e collettività quest’ultimo assommava il discorso sulla “rivoluzione” come atto perennemente incompiuto. Non si tratta di progenitori diretti, né di precedenti storici, ma modelli antesignani di una qualche rilevanza, sia pure nelle infinite diversità delle traiettorie concrete. Torniamo su questo punto, poiché l’intera costruzione ideologica del radicalismo si basa sul ricorso ad un duplice binario: da una parte, l’enfatizzazione del movimento organizzato – comunque esso si chiami, qualsiasi forma assuma (si pensi ad Hamas o a Hezbollah, due partiti che si pensano e sono vissuti in quanto comunità politiche autosufficienti) – nella sua natura di superamento dello Stato, luogo di corruzione per definizione, trattandosi di una forma di organizzazione che “divide” la comunità musulmana, mentre questa può realizzarsi solo se divelle tutti gli ostacoli, materiali e simbolici, che incontra nel suo cammino; dall’altra, il tema di una “purezza” da raggiungere che si dà solo nella milizia, nel combattimento, nella lotta armata, comunque nell’azione. Due suggestioni non nuove, nel panorama politico ma che, dinanzi al declino della politica partecipata nei paesi a sviluppo avanzato, trovano adesso nuovo respiro, raccogliendo qualche assenso anche in una parte dei cittadini occidentali, attratti da qualcosa in cui credere non solo sul piano ideologico ma attraverso il ricorso attivistico alle vie di fatto. Il proselitismo, infatti, ne è un riscontro che stiamo osservando, sia pure in forme piuttosto contenute, tra le file degli “scontenti” presenti non solo nelle innumerevoli periferie dei nostri paesi. Il fondamentalismo islamista rende dicotomico il rapporto tra le persone, da una parte escludendo dal diritto stesso alla vita gli «infedeli» (così come le dottrine in materia predicano, legittimando la licenza sistematica all’assassinio) ma, nel medesimo tempo, adoperandosi sulla via della conversione, forzata o meno che sia, di chiunque non si opponga attivamente ad esso. Conversione al proprio credo, sia ben chiaro, non alla religione islamica in quanto tale. Non è un caso, infatti, se la natura del suo operare sia quello tipico al fomentatore sistematico di una guerra civile perpetua in campo arabo-musulmano. Con effetti a volte bizzarri, oltre che tragici, poiché l’islamismo si esercita in prima battuta contro le stesse popolazioni musulmane. In una sorta di guerra mediorientale totale e permanente. Sul piano dei parallelismi storici si può obiettare che il rinvio ai totalitarismi europei sia un azzardo, se non una torsione ideologica bella e buona. Non solo poiché ogni esperienza politica è un caso a sé, per tanti aspetti irripetibile, a partire dalla condizioni materiali che la generano, ma anche perché la stessa categoria di «totalitarismo» risulta assai poco fungibile su un piano analitico. E tuttavia, c’è un legittimo ambito, quello della riflessione politica, che invece reclama analogie, ricorsività ma anche discontinuità, per meglio intendere cosa stia avvenendo e avere quindi degli strumenti di valutazione. Il ricorso alla religiosità, in quanto visione complessiva del mondo, in sé conchiusa, funge da collante ad un progetto politico che vorrebbe coniugare il ribaltamento degli equilibri costituiti, quelli generatisi attraverso le sovranità nazionali e il sistema internazionale degli Stati, al rifiuto della modernità socioculturale laddove essa si trovi in disaccordo con la precettistica islamista. L’edificazione di una società islamica “globale”, sull’intero pianeta, in accordo con la morale religiosa rimane per gli islamisti, quindi, l’esclusivo percorso di civilizzazione possibile. La radicalità, da questo punto di vista, indica etimologicamente il rifarsi ad un’unica radice possibile, l’Islam medesimo nelle sue origini più “pure”. Il quale è presentato come entità unitaria benché storicamente sia stato, invece, variamente declinato, anche in modi tra di loro apertamente contraddittori. Comunque sempre competitivi. Poiché la posta in gioco non è mai l’interpretazione ma chi sia legittimano a costituirne la fonte ultima. Non a caso si può parlare di fondamentalismo, al di là della sua dimensione sociologica, storica, politica e sociale, rifacendosi al problema del fondamento di chi decide cosa sia giusto e cosa invece non lo debba essere. L’islamismo radicale ruota intorno a queste sfide, operando in società che non hanno elaborato la separazione – sempre incerta, peraltro – tra la sfera della politica e quella della religione nel processo di produzione di una morale pubblica. E la sua forza, nelle sue molteplici manifestazioni, è tanto più enfatizzata dal momento che i tentativi di dare corpo nelle società arabo-musulmane a un moderno sistema di Stati nazionali, efficacemente inserito nel circuito delle relazioni internazionali, di fatto va oggi fallendo. L’idea radicale sta nella sfida all’egemonia dell’interpretazione, ossia contro le figure che sono tradizionalmente chiamate ad esercitarla, poiché le rivolte dei dominati continuano comunque ad avvenire all’interno di un quadro cognitivo e culturale di riferimento condiviso con il sistema di dominio, al quale si contesta tuttavia la legittimità di continuare a dirsi interprete della realtà. In gioco non è la necessità di un sistema di legittimazione bensì il chi sia deputato a farsene interprete. Non possono essere i chierici di “regime” (gli intellettuali); men che meno le figure istituzionali emerse dallo sviluppo degli apparati della pubblica amministrazione; per non parlare delle élite politiche, descritte come corrotte a prescindere da qualsiasi riscontro effettivo. Così come neanche i sapienti della tradizione ancestrale. Poiché la sovranità dell’interpretazione riposa in Allah stesso, che ne fa però dono a chi riesca nell’intento di meglio cogliere il suo disegno provvidenzialistico, raccordandolo ai bisogni della collettività. In ciò si manifesta, inoltre, la dimensione populista del radicalismo contemporaneo, che dice che a comprendere il messaggio possa essere solo il «popolo», se governato da chi sia «ben ispirato». L’islamismo, infatti, invoca il ritorno alla fede primigenia ma è essenzialmente un moderno movimento di mobilitazione. Di fatto reinventa la tradizione rinviando permanentemente all’ossessione per la sua autenticità. Il suo dispositivo normativo, infatti, è duplice: da un lato rimanda alla ricerca di un passato mitologico da ripristinare in toto; dall’altro dichiara come inesaurita qualsiasi ricerca, definendola insufficiente o inadeguata, a prescindere dagli esiti concretamente ottenuti, di volta in volta. Ragion per cui da ciò deriva la persistente mobilitazione dei militanti e degli aderenti, ai quali è richiesta una spasmodica partecipazione verso un “obiettivo finale” che ancora non è stato raggiunto. E che mai lo sarà, perché la purezza è una sorta di ispirazione, non una dimensione concreta, Il nocciolo del fondamentalismo, quindi, non sta in ciò che promette ma nella capacità di indurre gli affiliati a cercare di tenere fede a tale promessa, convincendoli della necessità di ripetersi negli sforzi, per adempiere veracemente a tale impegno. Che, come tale, è totalizzante, occupando di sé ogni aspetto della loro esistenza. A conti fatti, nel conflitto tra religione e politica, benché il fondamentalismo si renda interprete della prima come tramite della seconda, ribadendone l’apparente primato e facendosi promotore di una idea di Stato totale a fondamento etico, di fatto ribalta i ruoli e le relazioni di primazia, portando alla politicizzazione totale della religiosità. Detto questo, va aggiunto che la modernità dell’islamismo la si misura non solo nelle istanze ideologiche che lo connotano ma anche nei quadri militanti che ad esso vi prendono parte. Le sue schiere sono spesso composte da giovani di estrazione sottoproletaria, urbana, di fatto vittime dei processi di modernizzazione incompiuta. Le élite dirigenti sono costituite da altrettanti giovani, perlopiù di estrazione sociale piccolo o medio borghese, spesso però in fase di retrocessione nella scala sociale. Per gli uni e per gli altri il dato generazionale si coniuga alla marginalizzazione economica, d’origine, poiché trasmessa dalla famiglia, o acquisita, in quanto derivata dall’avere perso ruoli, status e capacità contrattuali nel mercato del lavoro. Per molti di essi, la formazione religiosa, in origine, è un elemento secondario se non irrilevante. Chi ha studiato ha seguito soprattutto un percorso umanistico o scientifico, ma comunque nella quasi totalità dei casi ispirato ai saperi laici o secolarizzanti. Solo successivamente avviene l’incontro con la mobilitazione politico-sociale di matrice islamista. Anche da ciò nasce quel movimento contro la tradizione che è parte integrante del radicalismo. Il quale, per potersi legittimare, ha bisogno prima di contendere e quindi di sottrarre il potere normativo e di giudizio alle fonti tradizionali dell’Islam, autonominandosi, sul campo, soggetto del cambiamento e convalidandosi autonomamente come autentico interprete della dottrina. Durante la guerra fredda l’islamismo è stato un soggetto relativamente marginale nella scena politica, occupata invece dal confronto tra i modelli di sviluppo promossi dall’Occidente liberaldemocratico e l’utopia reale del comunismo. Neanche all’interno del vasto magma “terzomondista”, per come era venutosi costituendo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, il ricorso alla religiosità come veicolo di produzione e promozione della politica aveva trovato sufficiente riscontro. Semmai, lo sforzo di istituire Stati nazionali, sulle ceneri dei processi di colonizzazione, si era orientato nel senso di trovare nuovi baricentri e nuove fonti di legittimazione oltre la religione in quanto tale, intesa da molti come un elemento non solo tradizionalista, e quindi non in linea con l’idea di movimento collettivo di quegli anni, ma anche quietista, nel senso di acquiescente ai vecchi ordinamenti costituiti. Che erano, perlopiù, di derivazione coloniale. Il progressivo fallimento di questo tentativo ha invece aperto varchi, altrimenti impensabili, per il fondamentalismo islamista. La sua natura è, oggi, quella di pensarsi e di offrirsi come ideologia universalista, in grado di contrastare la globalizzazione mercatista, l’omologazione culturale e il liberismo senza freni delle classi dirigenti internazionali. Ciò facendo, si alimenta di paradossi, che sono alla sua stessa radice: parla un linguaggio inclusivo quando però non contempera in alcun modo il pluralismo culturale, ritenendolo semmai un segno di decadenza; rinvia alla tradizione quando di essa ne mina, per necessità propria, le fondamenta stesse; è innervato dentro i processi di globalizzazione universalista, dei quali ne è per più aspetti uno specchio capovolto, ma pratica, all’atto concreto, politiche fortemente particolariste, ossia concentrate sulla dimensione locale in cui si trova ad operare e sugli interessi che vi sono raccolti (essendo l’Islam un universo di realtà locali, accomunate da un rimando religioso condiviso ma, in buona sostanza, fortemente diversificate al loro interno). Di fatto promuove un modello plurale, cioè rivolto a gruppi, società, comunità tra di loro differenti, ma tutto fuorché pluralista. Ciò che l’islamismo contesta è la separazione tra politico e religioso nei termini di una profonda crisi di legittimità in atto. La quale indica la frattura tra umma, la comunità dei credenti, e Allah, ossia il legame tra giustizia e legittimità, due parole chiave nella definizione del potere. Il governo è «giusto» se ispirato dalla parola divina, la quale si innerva nella Legge religiosa. Mentre storicamente, laddove si celebra la decadenza, il fondamento del governante diventa il potere medesimo. Con un capovolgimento di senso, inteso come catastrofico dagli islamisti. Il potere mal governato è quello empio. L’empietà si basa sull’assenza di legittimazione divina (che conduce alla mancanza di giustizia terrena) ma anche sul quietismo dei governati, che riconoscono come immutabile il potere costituito. Il radicalismo si pone pertanto in rotta di collisione contro questa situazione. Afferma che lo stato delle cose va radicalmente mutato, ristabilendo l’ordine “naturale”, ossia ultraterreno, dei fattori umani. La qual cosa implica l’attivismo dei governati, il loro impegno concreto nel mutamento. Non come atto di libera scelta bensì di servo arbitrio nei riguardi di Allah, ovvero nei confronti dei suoi sinceri servitori raccoltisi nel movimento islamista. All’idea di ordine, quindi, viene sostituita quella di conflitto permanente. Dentro il quale si riannoda il nesso tra legittimità e giustizia. Il riscontro di tale condizione è offerto dall’affermazione militante (e combattente) del movimento. La forza non è un prodotto umano ma un dono che viene dall’alto. Se il movimento vince è perché rappresenta Allah, essendone parte del disegno universale. Mentre il governante empio basa se stesso sul potere-potenza, quello che promana dall’uomo, l’autorità legittima si fonda sul potere-autorità che deriva dall’ultraterreno. Sono questi i tratti comuni in un universo di correnti e gruppi altrimenti non solo diversificati ma anche tra di loro perennemente conflittuali. Così per il Wahhabismo, corrente sunnita ultraradicale, costituitasi nel XVIII secolo per opera di Muhammad ibn Abd al-Wahhab, con l’obiettivo di ripulire la religiosità islamica dalle “incrostazioni” subentrate dopo la morte di Maometto, come il culto locale dei santi, l’abitudine a tagliarsi la barba, l’uso del tabacco, la diffusione della musica. Da questo insieme di prescrizione deriva e subentra un’ortoprassi che rinvia all’osservanza dogmatica del Corano, che delegittima politicamente i regimi vigenti, che si incentra ideologicamente sul nesso tra purezza individuale e lotta alla corruzione collettiva. La sua diffusione nella penisola arabica giunge fino ad oggi, impegnando la monarchia saudita in una sorta di gioco delle due carte, tra lotta contro le componenti più radicali e accettazione di un tradizionalismo rigidissimo. Il movimento degli «studenti coranici», meglio conosciuti come Talebani, che ha agitato le acque nel decennio trascorso, si innerva invece nella scuola indiana Deobandi, di filiazione wahhabita-saudita, così come i salafiti, anch’essi componente purista dell’Islam sunnita, e i takfiri. E via discorrendo. Infatti, se il radicalismo rifiuta ogni forma di pluralismo civile e morale, intendendoli come fumo negli occhi, è per sua stessa natura plurale dal punto di vista organizzativo. Il suo iperconflittualismo gli deriva anche dal fatto che sulla sedia della ragione vorrebbero essere in molti ad accomodarsi. Per questo non pochi tra di essi, periodicamente, cascano per terra. Con effetti rovinosi. (4/segue)
I Fratelli musulmani sono l’epicentro
ideologico e storico di questa svolta attivista che connota l’islamismo
radicale. Non a caso nascono nel 1928, quando il riscontro che il Califfato
ottomano era definitivamente tramontato diventa disagio insopportabile, alla
ricerca quindi di un qualche sbocco politico. Il programma che avanzano è di ribaltare
la sfida della modernità, intendendo la pratica islamica non come un culto
bensì come una totalità. Si ha uno Stato islamico quando esso coincide in tutto
e per tutto con la comunità dei «perfetti credenti», che si ispira alla
piattaforma della Fratellanza: «Dio è il nostro programma; il Corano è la
nostra Costituzione; il Profeta il nostro leader; il combattimento sulla via di
Dio la nostra strada; la morte per la gloria di Dio la più grande delle nostre
aspirazioni». Centrale, nel messaggio del movimento, è il richiamo
interclassista, che rimuove integralmente la contrapposizione tra gli interessi
materiali e i conflitti che ad essi si accompagnano. Gli uni e gli altri sono
presentati come fratture inaccettabili rispetto all’obiettivo di unificare
l’umma, che saprà da sé dare delle risposte alle tensioni della modernità. Si
tratta, per l’appunto, di islamizzare la modernità, soprattutto dal momento in
cui quest’ultima ha dato fuoco alle polveri di tensioni sociali per le quali
sembra non avere concrete risposte da offrire. Con la Fratellanza si manifesta
la natura combattente dell’islamismo radicale, che sfocerà poi nello jihadismo.
Solo chi è pronto al sacrificio di sé, divenendo un «martire» (shahid), può
accedere alla piena comprensione della radicalità dell’islamismo. Fatto che
chiama in causa il jihad come sforzo attivo. Un errore comune è il ritenere
questi movimenti privi di una loro “moralità”, ossia di una sorta di codice
etico intrinseco, confondendo la brutalità deliberata con la quale agiscono, in
voluto spregio ai diritti più elementari, a partire da quelli comunemente
riconosciuti dalla comunità internazionale, con la loro essenza. Ma qualsiasi
organizzazione totalitaria, e l’islamismo – come già abbiamo visto – non sfugge
a tale definizione, fonda se stessa, le sue pretese, la sua visione del mondo,
i criteri del suo proselitismo, le modalità della sua autoriproduzione nel
corso del tempo a ciò che potrebbe essere definita come “ipermoralità”. Tale
condizione indica, infatti, da un lato il rifiuto della “morale tradizionale”,
quella dettata dalle istituzioni laiche e dal sistema delle relazioni
internazionali tra gli Stati, contro la quale il radicalismo dice di volere
condurre una lotta senza quartiere in quanto depositaria dei germi della
corruzione; dall’altro istituisce un’etica che presenta come superiore, e come
tale indiscutibile, alla quale occorre sottomettersi. Ogni gesto, a partire da
quello violenti, viene ricondotto a tale obiettivo e, quindi, giustificato a
prescindere. L’ipermoralità deve informare di sé ogni aspetto della vita
quotidiana, ogni condotta, al limite ogni pensiero. E trova il suo fondamento
primo e ultimo nella convinzione che al di fuori di essa ci sia solo la
decadenza: dei corpi collettivi, la società; di quelli individuali, le persone.
Il fanatismo, come atteggiamento e condotta abituali nelle relazioni sociali,
trova proprio in questo costrutto il suo fondamento elementare e basilare. Ai
maestri e agli esegeti della tradizione viene invece contestato la lettura
formalistica e quietista dell’identità musulmana. La differenza nei confronti
degli ulema, i dottori della Legge, i giurisperiti, si fa diffidenza e poi
rifiuto integrale. Nella loro lettura del Corano riposa la deviazione contro la
quale si deve combattere. L’egiziano Sayyid Qutb (1906-1966) è il vero
sistematizzatore dell’ideologia radicale quando si concentra su alcuni concetti
cardine come jahiliyya («ignoranza»), fitna («disordine»), hakimiyya
(«sovranità»), ‘ubudiyya («adorazione»), hijra («rottura»), umma («comunità»),
jihad («combattimento sulla via di Dio»), haraka («movimento»), fiqh haraki
(«diritto dinamico»). Si tratta di un reticolo di concetti su cui lo studioso e
militante egiziano ricostruisce integralmente il pensiero politico islamico,
trasformandolo in fattore di mobilitazione islamista. Alla tradizionale
dicotomia georeligiosa tra Dar al-Islam (la «casa dell’Islam», laddove il
potere è detenuto dai musulmani) e Dar al-harb (la «casa della guerra», abitata
dai non musulmani) Qutb, dichiarando tale divisione superata nei fatti,
antepone la pressante denuncia del fatto che il nemico sia già in “casa”, tra i
musulmani, costituendo una sorta di “occidente interno”. È questo un passaggio
ideologico capitale, poiché introduce, legittimandolo una volta per sempre, il
tema di fondo della necessità di purificare il corpo della società affinché si
pervenga alla «verità». L’umma può essere ovunque e in nessun luogo. È abitata
solo da chi è transitato verso uno stadio di purificazione dalle scorie dell’ibridazione.
Tema suggestivo, estremamente militante poiché richiede a qualsiasi «buon
musulmano» di interrogarsi permanentemente sulla propria condizione di
inadeguatezza, sulla necessità di votarsi costantemente alla “causa”, di
seguitare nello sforzo di donarsi ad essa, pena la propria incompiutezza. E la
causa coincide con chi dà ad essa un nome, ossia con le élite politiche del
movimento radicale. Di fatto la comunità dei credenti coincide, in tal modo,
con quella dei militanti. Il jihad, lo «sforzo, il combattimento sulla strada
di Dio» si nutre quindi di questa continua tensione, diventandone il
completamento. I regimi empi vanno affrontati non solo con la predicazione del
Libro ma con la soluzione della spada. Non si tratta più di difendere qualcosa
si esistente; semmai si tratta di costruire quel che ancora non esiste o si dà
in forma incompiuta. L’idea di jihad in Qutb si articola, dunque, come forma
definitiva, compiuta della guerra civile di religione che sarebbe in corso a
livello planetario, e quindi anche nei paesi che si vogliono musulmani, e che
trova nell’Islam radicale il suo partito combattente. È guerra civile quella
che si combatte al tempo della jahiliyya, ossia dell’ignoranza e della
malafede. La codificazione sunnita, esauritasi con il X secolo, non è più
sufficiente poiché, nei suoi anacronismi, si rivolge a qualcosa che non c’è
ancora e, nel medesimo tempo, non c’è più: lo Stato delle rettitudine. Si
impone semmai un diritto dinamico, il fiqh haraki, dal carattere tanto transitorio
quanto aggressivo, che risponda all’empietà e che faccia piazza pulita del
disordine. Qualcosa che rimanda alle licenze del diritto rivoluzionario, come
era stato tematizzato cento e più anni fa, dove la liceità dei gesti la si
costruisce sulla canna del fucile. E con esso necessita il riconoscimento della
necessità di un permanente stato di emergenza, dove la figura cardine diventa
il combattente per la fede. Più che al passato il militante-miliziano guarda
peraltro al futuro. Non sono le sentenze dei giureconsulti e dei dotti a fare
l’Islam; sono semmai i combattenti, dalle cui azioni sgorga il diritto dinamico
in quanto tale. Qui si dispiega il radicalismo: non in un rimando alla
tradizione che, per più aspetti, viene invece stravolta, bensì nella sospensione
dello stato di diritto islamico e nella sua sostituzione con la norma
“creativa” di un movimento che si vuole al passo con il tempo presente perché
rivoluzionario. Da questa sospensione, che per gli islamisti è dettata dalla
cogenza della necessità, derivano le licenze di condotta che portano anche a
gesti eclatanti ed estremi. La responsabilità non è di chi li commette ma di
chi mette i credenti nella condizione di doverli commettere. Per il radicalismo
l’islamizzazione, delle società così come degli individui, è quindi il prodotto
essenzialmente di un atto politico, ossia della conquista del potere. La
politica, in questo caso, ha una triplice matrice. Non è funzione di
rappresentanza, ovvero non si pone il problema di raccogliere e organizzare il
consenso, poiché per l’islamismo questo non è il prodotto di una persuasione
bensì il risultato di un riconoscimento, quello che è implicato dal fatto che
la religiosità radicale sia l’unica e possibile forma di Islam praticabile; non
esiste quindi nessun pluralismo, essendo semmai questo indice di corruzione
dell’idealità e della moralità. Inoltre, il campo politico viene fatto
coincidere, almeno in un primo momento, con l’azione del movimento che si
adopera nella conquista del potere e poi, una volta raggiunto questo obiettivo,
con il “nuovo” Stato, emendato della presenza delle scorie dei vecchi regimi.
La sovrapposizione tra fazione militante e apparato pubblico ricalca, per
alcuni aspetti, l’esperienza dei partiti comunisti del Novecento. Il terzo elemento
è l’estensione, pressoché infinita, del campo della conflittualità e, insieme
ad esso, della contrapposizione amico/nemico. Il fattore coercitivo è
strategico: solo l’intervento dall’alto, fortemente prescrittivo, può mettere
ordine in società “infettate” dall’ignoranza, dall’incoscienza e dalla
penetrazione dei falsi valori occidentali. Si impone perché queste comunità
sono realtà oramai atomizzate, parzialmente o completamente aliene dal disegno
olistico islamico, dove invece le parti debbono coincidere armoniosamente nel
tutto. La scelta neotradizionalista di intervenire invece dal basso,
islamizzando progressivamente la comunità per poi porsi il problema della
conquista del potere, è intesa dai radicali non solo come inefficace bensì
erronea, contribuendo semmai a potenziare il caos dominante. Per il
fondamentalismo l’opzione della forza non è una delle diverse possibili ma il
nocciolo della propria posizione. Ricorre la suggestione, in questo caso, della
violenza come levatrice della storia, in quanto luogo di incubazione del
mutamento. Il jihad, nella lettura che viene in tale modo valorizzata, è un
combattimento non solo morale e spirituale ma militare e missionario verso
l’affermazione dell’Islam e della sovranità di Dio. Se sul piano della teologia
musulmana il jihad indica soprattutto i limiti di ciò che è consentito per la
difesa integrale dell’islamicità, nella lettura radicale, sovversiva, stravolta
è invece un mezzo che si fa fine, diventando a tutti gli effetti la difesa non
di qualcosa, e neanche di qualcuno, bensì di Dio stesso. L’assolutezza
apocalittica di questo approccio coniuga l’idea di una guerra civile permanente
con la necessità per il combattente di depurarsi dalle scorie di un falso
pietismo; rinnova la contrapposizione tra Male assoluto e Bene totale;
enfatizza il nesso tra violenza e spiritualità, laddove lo spirito missionario
si esprime non nella parola ma nel gesto, non nella persuasione bensì nella
coercizione, non nella predica ma nell’esempio eclatante. È ancora una volta la
tematizzazione della guerra rivoluzionaria, dove però il movimento diventa il
fine assoluto e la militanza l’unica forma di fede possibile, al di fuori della
quale c’è solo l’oscurità dei tempi dell’ignoranza. La concezione aggressiva ed
offensiva dello jihad trova il suo punto di massima espressione, una sorta di
epitome totale, nel cosiddetto «martirio». Se nell’Islam il suicidio è
proibito, la morte sulla «via di Dio», il sacrificio di sé nel nome di Allah,
ovvero per la realizzazione del suo disegno, è invece degno della sua
considerazione. Shahid è la parola araba con la quale si definisce che si
incammina sulla strada di Allah immolandosi. La radice etimologica rimanda a
«testimone», che a sua volta rinvia al più complesso concetto di jihad, il cui significato
non può essere letto in chiave univoca. Raccogliendo e legittimando sia gesti
offensivi così come atti difensivi. Se nella pubblicistica occidentale
l’immediato accostamento è agli attentati suicidi, ossia ai cosiddetti
«kamikaze», nella logica islamica, invece, vi è una più articolata
stratificazione di significati, per l’appunto legati alla variabilità con la
quale si intende il jihad. Lo shahid è colui che per definizione porta avanti
l’«impegno sacro e doveroso» di lottare per l’affermazione della fede. Un
impegno che può prefigurarsi talvolta come una guerra dovuta (mai però «santa»,
espressione estranea alla dottrina giuridica islamica tradizionale). Tuttavia,
le divergenze sull’interpretazione (e quindi sull’estensione) della funzione
testimoniale attiva non mancano. Anche in ambito musulmano c’è chi discute
circa la liceità del ricorso alla forza, essendo assai labili i confini tra una
lecita azione di jihad, anche quando essa sia nel concreto estremamente
rischiosa per la propria vita, e il suicidio, assolutamente vietato invece fin
dall’epoca del Profeta Maometto. Il radicalismo islamico, tuttavia, salta a piè
pari le disquisizioni in materia. Così come piega ad una concezione univoca il
termine, altrimenti in sé polisemico, di jihad, che si raccoglie invece sotto
l’ampia radice che deriva da ğ-h-d, ossia «esercitare il massimo sforzo» nel
perfezionamento della propria fede così come nella sua imposizione ad altri.
Benché abbia sempre un significato militante, tuttavia non va necessariamente
inteso nell’accezione militare. Durante il periodo della rivelazione coranica,
quando Maometto si trovava a La Mecca, il jihad rinviava all’esercizio
interiore indispensabile per accedere alla comprensione del significato di Dio.
Solo con il trasferimento da La Mecca a Medina, l’Egira, e con la fondazione di
uno Stato islamico si addivenne al combattimento difensivo. Il Corano, nelle
sue Sure, fa diversi rimandi al qital, lo «stato di guerra». Che tuttavia, a
sua volta, può essere inteso con significati alternativi. Per certuni è
autodifesa, per altri è riconoscimento della condizione di violenza che vige
contro l’Islam (senza che ciò implichi necessariamente una risposta di identica
natura), per altri ancora è invece la legittimazione piena alla lotta armata.
Di tradizione si richiama il grande jihad interiore, che si rivolge alla
dimensione individuale, dove alla persona è richiesto l’impegno continuo per
purificarsi, seguendo la via maestra dell’insegnamento divino. Vi è poi il
piccolo jihad, che rimanda alla guerra legale, ovvero legittimata dalle
condizioni di aggressione, nel quale il combattimento armato è invece previsto
ma prevalentemente a scopi difensivi. Ed è qui che, per l’appunto, si
inserisce, con significative torsioni di significato, il radicalismo islamista.
(5/segue)
Il nesso tra purificazione e
combattimento è una delle radici più importanti della dottrina del radicalismo
islamista. Che è, come già si è avuto modo di notare, dottrina di
mobilitazione, di militanza, di partecipazione e, quindi, di sacrificio,
qualora ciò occorra. La morigeratezza nei costumi imposta alla collettività
civile, la coazione alla «modestia», se viene presentata come vincolo obbligato
in ottemperanza alla volontà di Allah risponde, nei fatti, all’affermazione della
supremazia civile e culturale del movimento politico. Il controllo del corpo
(altrui) è l’indice della costruzione di una egemonia sulla vita quotidiana non
solo di chi è parte attiva ai combattimenti ma anche e soprattutto di chi ne è
subalterno, vivendo i tempi del fondamentalismo al potere non come il prodotto
della propria scelta bensì come il risultato dell’evoluzione di forze
collettive che esulano dalla sua capacità di incidere sul corso degli eventi.
La sharia, il complesso delle norme conosciute come Legge islamica, si lega
così all’applicazione del jihad come comandamento occulto, ossia non
esplicitato nei cinque pilastri dell’Islam. Se la religione dell’Islam consiste
nella fede (al-iman) e nella pratica (al-din) la traduzione di entrambe
in atti concreti, infatti, impone che ogni autentico fedeli si adoperi per
l’ottemperanza a cinque precetti inderogabili: la professione di fede, shahada,
la quale implica l’accettazione dell’unicità di Allah attraverso la
testimonianza verbale (nella quale si dichiara la proprio adesione al
monoteismo e, nel medesimo tempo, si riconosce la missione profetica di
Maometto), spesso ripetuta nelle preghiere di ogni dì; l’assolvimento della
preghiera rituale, salat, che diventano cinque in una giornata, tutte recitate
in arabo e a memoria; la corresponsione di una parte della propria ricchezza ai
bisognosi e ai meno facoltosi, la zakat, che se molti traducono come
«elemosina» in realtà è, o costituirebbe, un vero atto di redistribuzione delle
risorse tra la collettività musulmana, nel nome della sua coesione sociale e
morale; il digiuno nel mese di Ramadan, sawm, che implica l’astensione non solo
dall’alimentarsi ma da tutta una serie di pratiche quotidiane, nel nome della
disciplina, dell’autocontrollo e della purificazione interiore; lo hajj, il
pellegrinaggio alla Mecca, da farsi nel mese del calendario lunare di Dhu
l-Hijja, almeno una volta nell’esistenza del fedele. Più il generale, il
termine jihad, all’interno di questo corpus di disposizioni normative e di ortoprassi,
è comunque evocativo di «sforzo», ossia di qualcosa che demanda all’impegno
persistente verso l’adempimento integrale dei propri obblighi. La sua
concezione è dinamica poiché dinamico è il quadro di riferimento in cui la
religione musulmana si inserisce. Le dottrine concordano sulla legittimità di
un jihad difensivo laddove esso consista nella difesa militare della comunità
islamica quand’essa sia assediata oppure offesa dal nemico. Così in epoca
coloniale, quando le popolazioni musulmane insorsero contro la presenza degli
occupanti. Per più aspetti questa condotta può, a rigore di logica e di diritto
internazionale, essere ricondotta al diritto di resistenza armata contro
l’occupazione. Così nel caso dell’Afghanistan del 1979, invaso dall’Unione Sovietica,
quando un’argomentata fatwa, ossia il pronunciamento autorevole di un
giureconsulto, a ciò legittimato e quindi autorizzato, emessa da Abd Allah
Yusuf al-Azzam (destinato a condizionare il pensiero e le scelte di militanti
del radicalismo islamico come Ayman al-Zawahiri e Osama bin Laden), dichiarava
necessaria l’azione contro i kuffar, i miscredenti. In terra afghana ma anche,
ed è quest’ultimo un aspetto non secondario, contro Israele. L’asse tra la
lotta contro le singole «occupazioni» e quella della Palestina storica,
quest’ultima intesa come la madre di tutte le battaglie, è la saldatura
ideologica più preziosa per giustificare i gesti del presente. In questo quadro
si posiziona infatti il jihad offensivo, laddove esso indica non più la difesa di
qualcosa di già esistente bensì l’aggressione e la conquista in chiave
espansiva. Anche qui dottrine e, soprattutto, interpretazioni divergono.
L’Islam sunnita lo può contemplare ma non come obbligo per il singolo fedele
(fard’ayn) bensì come vincolo religioso per l’intera comunità (fard kifaya). In
realtà, il vero passaggio critico è costituito non dalla dimensione dottrinale
bensì dalla legittimità della pronuncia. Qui si innerva, ancora una volta,
l’azione del radicalismo islamico, alla ricerca continua di uno spazio di
autolegittimazione. Poiché in società dove l’elemento religioso è immanente
alla sfera pubblica ma non esiste una chiara linea di trasmissione gerarchica,
chi riesce a ricavarsi un ruolo in tal senso è destinato ad esercitare un potere
rilevante. A causa della mancanza di un’organizzazione ecclesiastica
all’interno della vasta maggioranza dei musulmani, qualsiasi aderente potrebbe,
quanto meno in linea di principio, autoproclamarsi esperto in materia di
religione e dichiarare un jihad difensivo per mezzo di un pronunciamento. Il
cui riconoscimento di validità, e gli impegni che da esso così deriverebbero,
rimangono comunque a discrezione di coloro che ricevono il messaggio. La
scomparsa del Califfato come istituzione unitaria nel 1924 (titolo che gli
Ottomani detenevano dal 1517) ha accentuato, sul piano politico, tale
condizione. Gli Stati nazionali, che in via teorica sarebbero gli unici a
potere vantare una funzione di questo genere, sono considerati dall’islamismo
radicale come entità destituite di legittimazione, ossia non rappresentative
dell’Islam. In tale vuoto non di potere-potenza ma di riconoscimento del
potere-autorità, i movimenti militanti si sono ricavati una nicchia importante,
quella che gli deriva dall’essersi assunti la status di detentori di
un’autorità di fatto. E questa autorità ruota intorno alla pronuncia del jihad
e alla sua traduzione in atti concreti, ovvero militanti. Concretamente, la
teologia del martirio ha trovato campo fertile laddove ha rappresentato un sicuro
corrispettivo ideologico all’agire politico e, in immediato riflesso, della
legittimazione di quei poteri che nell’azione permanente trovano il loro
fondamento. Lo sciismo rivoluzionario (a fondamento del quale c’è la tradizione
del sacrificio del terzo imam a Kerbala), rompendo con la tradizione quietista,
nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso inizia a presentarsi
pubblicamente come religione della lotta contro l’ingiustizia. Ciò facendo
incentiva la mobilitazione che, a sua volta, porta con sé l’idea che la
giustizia sia il prodotto non dell’attesa bensì dello scontro. In questa
dinamica, ciò che conta non è mai l’uno, il singolo, il pio credente ma, ancora
una volta, secondo quella che diventa una costante nella logica radicale, la comunità.
Il sacrificio individuale verrà compensato non solo nell’ultraterreno musulmano
ma dal successo in questo mondo del gruppo per il quale si dona se stessi,
ossia dal raggiungimento dei suoi obiettivi. La soggettività del fedele si
invera nell’aderenza alla prassi dell’organizzazione, che detta i valori
fondamentali e il modo di trasfonderli in prassi. La dialettica tra
individualità e comunità sta quindi alla base della valorizzazione del
martirio. E diventa una delle chiavi fondamentali nel successo del regime
khomeinista, prima con la rivoluzione contro lo shah e poi nella lotta, tra il
1980 e il 1988, contro l’Iraq di Saddam Hussein. Ad imprimere una svolta in tal
senso è la nascita dell’Organizzazione per la mobilitazione dei diseredati, la
Bassidjé Mostazafin, costola delle Guardie rivoluzionarie sciite. Si tratta di
un movimento connotato sia dal punto di vista sociale (raccogliendo perlopiù
elementi provenienti dagli strati più modesti della società iraniana) sia
generazionale (con una forte prevalenza degli adolescenti). È lo specchio della
potente, tumultuosa e violenta politicizzazione che tra il 1975 e i primi anni
Ottanta ha travolto l’intera società. Ad una generazione di giovanissimi si
chiede di diventare protagonisti della scena collettiva, immolandosi contro le
truppe irachene. Ed il risultato è irresistibile, rompendo gli argini del
tradizionalismo musulmano, svellendo le difese delle famiglie – che si vedono
sottrarre i figli, volenterosi miliziani della nuova formazione da combattimento
-, capovolgendo le gerarchie sociali consolidate a favore di un potere che si
presenta come rivoluzione in cammino. Dietro la mistica della lotta (e della
morte), della ricerca della purezza attraverso il sacrificio della propria
persona, del «soldato politico», del giovane come autentico detentore di un
sapere esclusivo, quello che gli deriva dal non essere stato contaminato dal
vecchio regime, ma anche della «comunità del fronte», dell’unione tra coloro
che hanno vissuto le medesime esperienze, tornano i temi dell’avanguardismo,
dell’arditismo e del combattimento come fine in sé che in Europa già i fascismi
avevano fatto propri con profitto. All’esercito si sostituisce in tale modo la
milizia, alla guerra la militanza armata, allo scontro il sacrificio, alle
istituzioni cristallizzate il movimento giovanile. Mentre l’esercito ragiona di
strategie i basidji si immolano. Questa meccanica si riproduce da subito anche
nel conflitto libanese del 1982, quando dalla valle della Beka’a la presenza
militante sciita si espande verso il sud del paese. Hezbollah, il «partito di
Dio», destinato a egemonizzare il Libano meridionale, si struttura in quei
frangenti, diventando poi un attore politico di primaria grandezza. Sarà
proprio l’anno successivo che gli shahid locali attaccheranno, con una serie di
attentati suicidi, i presidi americani e francesi, oltre a quelli dei propri
avversari interni. Negli anni seguenti il medesimo fenomeno inizia a proporsi
anche tra i sunniti. L’epicentro è la lotta contro l’«entità sionista» condotta
da gruppi come Hamas e Jihad islamica, a Gaza come in Cisgiordania. Una lunga
stagione di uomini-bomba, che si fanno esplodere nelle città israeliane,
diventa il suggello del fatto che la lotta politica non è più quella voluta dei
vecchi gruppi raccoltisi sotto l’ombrello dell’Organizzazione per la
liberazione della Palestina. Tanto più dal momento che essa sta conducendo un
lungo e complesso negoziato con Gerusalemme. Di fatto, con l’esplosione della
seconda intifada, a partire dal 2000, molto più violenta e militarizzata di
quella precedente, conclusasi nel 1993, il ruolo degli uomini-bomba diventa
rilevante nella conduzione delle diverse operazioni terroristiche.
Significativa è l’adozione di una forma di comunicazione delle proprie ultime
volontà basata sul testamento mediatico. Ogni candidato al «sacrificio»
registra un video dove spiega le motivazioni del suo gesto a venire, attraverso
la recitazioni di brani del Corano e il lancio di invettive, che viene poi
diffuso non solo all’interno della comunità palestinese ma anche nel circuito
dell’informazione occidentale. Ancora una volta il nesso tra apparente
arcaicità del comportamento (il morire uccidendo barbaramente negli innocenti)
e la modernità dei mezzi con i quali lo si veicola e lo si enfatizza, conferma
la saldatura che nel radicalismo islamista si dà tra ricorso alla violenza e
sua diffusione mediatica in funzione promozionale dell’organizzazione
militante. Quello che il radicalismo ha pienamente inteso è che in situazioni
sociali e politiche immobili, dove i gruppi di interesse sono, a loro volta,
inamovibili e una parte consistente della popolazione, soprattutto se giovane,
vive un’insopportabile marginalità, lo sbocco al comune senso d’impotenza è il
ricorso alla forza. Improponibile per il singolo, destinato nel qual caso a
rimanere isolato e a pagarne il prezzo. Ma del tutto plausibile e lecito, agli
occhi di molti, se perpetuato attraverso la corresponsabilizzazione, il senso
di identità e la condivisione che l’appartenenza ad una organizzazione
politica, che si presenta come contropotere totale, offre a chi ne è parte. A
tale impostazione si coniuga una visione apocalittica dello scontro politico,
letto con categorie teologiche e dicotomiche: si tratta del conflitto tra il bene
e il male, laddove nessuno può tirarsi fuori, dichiarando una propria innocenza
a prescindere. Non esistono individui innocenti ma solo soggetti corrotti,
destinati ad essere estinti, e fedeli alla ricerca della purificazione
attraverso l’impegno quotidiano. Anche per questo il radicalismo si rivolge non
solo in opposizione agli «empi» e gli «infedeli», quelli che non hanno
abbracciato il verbo del profeta, ma anche e soprattutto contro coloro che
considera «apostati», traditori della causa islamica, che fingono di difendere
e promuovere quando invece si adopererebbero concretamente contro di essa. Ne
consegue che il regime politico-militare più congruo ad una parte del
radicalismo islamico sia la guerra civile permanente, dove tutta la
collettività è costantemente sottoposta a continui movimenti tellurici, a
persistenti richiami alla militanza, ad una sorta di plebiscito continuo. In
tale stato di “abituale emergenza”, dove il diritto sgorga dalla prassi
rivoluzionaria, essendo quindi il prodotto dei rapporti di forza stabiliti sul
campo; dove ad ognuno, indipendentemente dalla sua identità personale e dal suo
ruolo sociale, è chiesto di manifestare con continuità la sua fedeltà ai
principi del credo vigente; dove le élite dirigenti sono quelle del movimento,
sostituendosi alla successione legale prevista invece dagli ordinamenti
statali, le quali fondano su base carismatica il proprio potere, l’arbitrio si
fa legge, senza che ciò comporti necessariamente il venire meno della necessità
dell’esistenza delle norme e del loro rispetto. Che, semmai, ne escono
rafforzate, per la puntigliosità con la quale queste, in quanto prodotto di una
“morale rivoluzionaria”, vengono definite e applicate; ma al di fuori di
qualsiasi nesso con quella dimensione pluralista che è, invece, alla base dei
poteri democratici. Il fondamentalismo religioso e ideologico, in altre parole,
del pari al suo corrispettivo occidentale, il populismo, concorre
all’estinzione di quella ricchezza sociale, culturale, morale e civile che è il
vero, autentico prodotto dell’evoluzione dell’etica collettiva. (6/segue)
Gli approcci radicali,
onnicomprensivi, totalizzanti alla religiosità islamica sono vecchi quanto la
sua stessa origine, quattordici secoli fa, ma l’islamismo più recente, come già
abbiamo avuto modo di dire, si genera in quanto filiazione oppositiva al
movimento della «rinascita araba», al-Nahda. Di quest’ultimo, in buona
sostanza, coglie alcuni aspetti, a partire dall’urgenza di un confronto diretto
tra Islam e modernizzazione socioculturale. Ma se per i riformisti fondamentale
era una revisione del primo alla luce della seconda, per i radicali, invece,
valeva il principio esattamente opposto. Già con un pensatore come il libanese
Muhammad Rachid Rida (1865-1935), il maggiore esponente dell’attivismo politico
della cosiddetta «restaurazione», che si rifaceva ad un’epoca d’oro dell’Islam,
questo elemento emerse con indiscutibile nettezza. Prossimo al movimento
dell’hanbalismo, una delle quattro scuole giuridico-religiose sunnite, quella che
ha maggiormente influenzato il salafismo, dinanzi alla progressiva dissoluzione
dell’Impero ottomano divenne il sostenitore di una posizione che auspicava
l’emergere di un’unica nazione arabo-musulmana, con il ritorno del Califfato,
l’istituto universale “tradito dai turchi”. In tale chiave, Rida sostenne la
superiorità delle comunità arabe su quelle sì islamiche ma di altra lingua,
affermando che la rinascita islamica sarebbe passata inevitabilmente attraverso
la guida degli arabi stessi. Dopo la costituzione dell’egemonia dei Saud sulla
Mecca, egli divenne il difensore di questa linea dinastica, ritenendo che il
modello di stato islamico instaurato sull’Arabia costituisse un esempio da
seguire un po’ ovunque. Dei Fratelli musulmani, nati ad Ismailia, in Egitto,
nel 1928, e devoti al principio per cui «il Corano è la nostra Costituzione»,
già si è avuto modo di dire. Significativo è comunque il fatto che il vero
tornate storico rimanga per tutti l’abolizione del Califfato da parte dei
turchi nel 1924. Poiché è a partire da quella data che il radicalismo islamista
inizia a prendere corpo in quanto movimento politico moderno, ovvero inserito
all’interno dei processi che investono l’intero Mediterraneo, l’Africa
Sahariana e subsahariana e l’Asia musulmana. Laddove vi è la presenza
occidentale, o un qualche robusto riflesso di essa, si innescano fenomeni di
trasformazione che investono la sfera politica, le danno forma e sostanza e
trovano nella reazione integrista uno dei possibili approdi. Che poi i modi di
essere radicali, sul versante islamista, mutino nel corso del tempo è non meno
vero. Radicalismo, da questo punto di vista, non è necessariamente immediato
sinonimo di terrorismo, come invece ci siamo abituati a pensare. Ma di certo
rimane il fatto che la radicalità invita all’opposizione e l’opposizione è
sempre e comunque una forma di militanza attiva, nella quale sono compresi
anche gli atti di ostilità dichiarata. Chi è allora, ai giorni nostri, un
islamista? Senz’altro colui che ritiene che esista una sola strada praticabile
nell’esistenza collettiva, ossia nella sfera pubblica, quella politica e
amministrativa ma anche dei costumi sociali e delle abitudini culturali,
attribuendola all’islamicità che in sé conterrebbe tutti i valori, i
significati e le condotte necessitanti all’uomo contemporaneo. In questa
definizione sono compresi un vasto insieme di comportamenti, non
necessariamente coincidenti tra di loro, dalla predicazione persuasiva all’atto
violento, ma tutti accomunati dal convincimento teocratico dell’unicità della
fede, della superiorità assoluta di quella islamica, della inaccettabilità di
un ordinamento politico che non sia informato a rigidi criteri religiosi.
Ripetiamo ancora alcuni concetti, poiché è importante metterli a fuoco. Nel suo
insieme l’islamismo radicale, o se si preferisce il fondamentalismo musulmano,
è un’ideologia politica, fondata sul ricorso – come strumento di
autolegittimazione – alla religiosità, che afferma di mirare ad instaurare
ovunque un unico Stato a matrice islamica, governato per il tramite
dell’applicazione della Sharia. Attraverso esso intende unificare l’umma, la
comunità dei credenti, ossia di quanti hanno ricevuto e accolto il verbo divino
per il tramite della figura del profeta Maometto. Detto questo si aprono le
infinite strade dell’interpretazione. La nozione stessa di Sharia, parola araba
tradizionalmente tradotta come «legge coranica», in realtà presenta molteplici
accezioni, spesso tra di loro anche in contrasto. Così come in competizione è
la considerazione sul grado di effettiva applicabilità di un’ortoprassi a
società contemporanee basate sulla mobilità, lo scambio e l’ibridazione. Il
radicalismo islamico, nel suo ossessivo rifarsi ad un’unica, possibile via,
quella da esso stesso dettata, rivela la sua intima natura di movimento avverso
al tradizionalismo religioso, che rifiuta per contrapporvi, invece, l’idea di
militanza. È Sharia, nell’accezione comune tra i musulmani, ciò che costituisce
«Legge» (per meglio dire, sul piano dei significati, la «giusta strada»),
derivante dal fiqh, la scienza della giurisprudenza islamica, che costituisce
lo sforzo concreto di accordare alla volontà di Allah l’agire umano. Ma lo è
anche, su un piano ben più ideale, se non strettamente metafisico, il
convincimento che la Legge divina sia in sé non conoscibile, e quindi ben poco,
o per nulla, traducibile in un corpo di norme di diritto positivo. In paesi
come l’Iran e l’Arabia Saudita prevale tuttavia l’impostazione che ritiene la
Sharia come un vero e proprio codice di disposizioni destinate a regolare
dettagliatamente la vita degli individui. Tartufescamente, i movimenti radicali
si inseriscono nel solco di questo secondo approccio. Ad essi infatti giova,
dinanzi alle sfide della globalizzazione, presentarsi come i depositari di
istanze identitarie, basate sulla contestazione a sfondo religioso. Alle sfide
dei tempi presenti si risponde indicando nel ritorno ad una “moralità”
assoluta, fondata sui principi religiosi, l’unico percorso presentato come
concretamente attuabile. Benché i movimenti radicali siano a loro agio
nell’agone internazionale, e si presentino sempre e comunque come l’espressione
“autentica” di un processo universale, la totalità di essi è portatrice di
interessi particolari, ovvero legati a gruppi di pressione e a rapporti di
forza collocati territorialmente in ambiti estremamente circoscritti. La Libia
di questi anni, dopo la scomparsa del rais Gheddafi, garante di alleanze tra
tribù preesistenti alla fondazione della cosiddetta «Grande Jamāhīriyya araba,
libica, popolare e socialista», il regime dittatoriale da lui istituito dopo il
colpo di stato del 1969, ne è un esempio in controluce, attraverso il suo spezzettamento
clanico, dove ognuno rivendica a sé la palma della legittimazione nel
rappresentare l’intera collettività dei credenti. Questo cortocircuito,
l’ennesimo, non deve stupire poiché tutto il fenomeno islamista si gioca sul
paradosso tra rimando ad una dimensione condivisa (l’identità filtrata
attraverso l’appartenenza religiosa, intesa come una sorta di sfera assoluta,
non contrattabile) e pragmatismo degli interessi in gioco. Anche per questa
ragione il radicalismo islamico alimenta una guerra civile permanente
inframusulmana. La questione del conflitto israelo-palestinese attraversa, da
questo punto di vista, tutte le vicende legate all’evoluzione del milieu
islamista. Se è vero che il bersaglio specifico di buona parte dei gruppi
militanti rimangono i gruppi dirigenti nazionali dei paesi musulmani, la lunga
durata del confronto tra la comunità arabo-palestinese e quella ebraica prima e
israeliana poi, è una sorta di suggello nel medesimo tempo simbolico,
ideologico e teleologico delle ragioni del radicalismo. In sé raccoglie, come
una sorta di precipitato onnicomprensivo, tutte le dinamiche perverse dei
conflitti mediorientali. A partire dall’investimento di significati – molto
spesso impropri – che su di esso sono stati fatti nel corso del tempo. È per
eccellenza, dal punto di vista islamista, la sintesi dell’«empietà». E diventa
un vero e proprio campo semiologico, ossia un circuito di simboli potenti,
pervicaci, ripetuti indefinitamente – oltre che terreno concreto di scontro –
su cui costruire le proprie narrazioni. Ma è anche lo strumento attraverso il
quale riproporre la bandiera della lotta anticoloniale, dopo i fasti trascorsi
degli anni Cinquanta e Sessanta, quand’essa era stata invece assunta dalle
élite laicizzanti del Terzo Mondo. Poiché tutto l’immaginario islamista e, in
immediato riflesso, orientale, si nutre del rapporto di contrapposizione al
«colonialismo» del passato come di quello presente. D’altro canto, i movimenti
politici dell’area musulmana si sono costituiti in un rapporto di filiazione,
che fosse da intendersi come osmosi così come rifiuto, con le spinte innescate
dalla presenza occidentale. Già durante la Prima guerra mondiale l’azione delle
due grandi potenze regionali, la Francia e la Gran Bretagna, aveva segnato i
destini dei territori abitati, a grande maggioranza, dalle popolazioni
musulmane. Erano anni dove, con l’eccezione dell’Egitto, dell’Iran e della
Turchia (insieme, per certi aspetti, al Marocco), era difficile dire dove si
ponessero le frontiere e quali fosse le autorità in grado di governare i
territori. La pressione occidentale si tradusse invece nella divisione e nella
ripartizione di questi ultimi, inaugurando la stagione degli Stati nazionali.
Sempre più spesso, quindi, il termine «colonialismo» (così come poi, successivamente,
la parola «imperialismo») divenne sinonimo non solo di indebita ingerenza, di
politica di intromissione e di spoliazione, ma anche di prassi di divisione tra
gruppi e comunità che si idealizzavano come i figli di una trascorsa, grande fratellanza.
L’elemento galvanizzante di questa rilettura, per lo più del tutto
immaginifica, del proprio passato (siamo comuni discendenti da una medesima
radice; gli «altri» sono qui solo per distruggerla), è ciò che a tutt’oggi
contribuisce a rendere accettabile, agli occhi di molti osservatori,
l’intrinseca violenza che pervade l’azione dei movimenti radicali. Non è solo
il fattore che permette di esercitare quella condiscendenza di giudizio che
invita a pensare che, in fondo, la violenza propria è esclusivamente una
risposta alla forza illegittima altrui, ma anche lo strumento che induce a
ritenere che sia solo il ricorso ad essa a potere generare la propria storia.
La qual cosa viene intesa non esclusivamente come un necessario pareggiamento
dei conti per il passato ma anche il viatico decisivo per la costruzione del
futuro. Senza violenza, infatti, il radicalismo non potrebbe darsi come
movimento collettivo. (7/segue)
Le
correnti islamiste, presenti un po' ovunque sul pianeta, e non solo in Medio
Oriente, oscillano all'interno di un campo di idee, atteggiamenti e
comportamenti delimitato, da un lato, dalla rivendicata fedeltà letterale alla
tradizione, sia pure riletta secondo gli occhiali del presente (una tradizione
non è mai tale se non si ibrida, piaccia o meno tale constatazione) e,
dall'altro, dal rimando alla strategia politica del ribaltamento degli
ordinamenti costituiti. Con l'affermarsi, a partire dagli anni Settanta, dei
movimenti di mobilitazione religiosa, non solo in campo musulmano, si aggiunge
ai due fattori precedenti un terzo elemento, quello per cui una tipologia di
militanza che per un lungo periodo sembrava essere una mera specificità della
religiosità islamica si diffonde, oggi, anche in altri ambiti. Il radicalismo
trova infatti addentellati in luoghi che, per abitudine e diffusione, fino a
qualche decennio fa, non gli erano propri. Il caso più lampante, al riguardo, è
la capacità di fare proselitismo in Occidente, non solo tra i figli e i nipoti
degli immigrati, quindi le cosiddette seconde e terze generazioni, ma anche in
contesti che in origine avevano poco o nulla a che spartire con l'Islam. Il
caso delle conversioni di cristiani al jihadismo – e non alla religione
musulmana - sono un tragico riscontro in tale senso. Nel suo denotarsi come una
reazione identitaria allo scontornamento, allo svellamento dei confini dati,
che la globalizzazione ha introdotto con decisione, il radicalismo musulmano si
presenta sotto le vesti seducenti di una ricomposizione dello specchio
infranto, di una ricostruzione di un ordine basato sulla sequenzialità, sulla
prevedibilità, su una gerarchia di significati condivisibile. Non va confuso
con i movimenti millenaristici, e neanche con quelli che predicano l'Avvento.
Poiché il suo messaggio sta già in se stesso, ossia nell'idea che
interiorizzando un'ortoprassi militante, agendo come prescritto, si sia giunti
sulla soglia della giustizia ultraterrena. La pervasività del richiamo
militante sta, infatti, nel rimandare continuamente alla condizione di assenza di
giustizia che connoterebbe il mondo contemporaneo, e con esso la modernità. E
nella necessità, inderogabile, non più rinviabile, di provvedere a
ripristinarla. Per meglio dire, a generarla una volta per sempre. Ancora una
volta, va sottolineato come la reviviscenza dell'islamismo sia consustanziale
al declino della partecipazione politica di matrice laica. Le due cose
interagiscono tra di loro, si nutrono vicendevolmente, sono compartecipi del
medesimo processo storico, politico e culturale, benché si pongano per più
aspetti agli antipodi l'una dell'altra. Se, ancora una volta, si deve trovare
una radice, risalendo a ritroso nel tempo, l'humus ideologico è quello offerto
dalla Salafiyya, altrimenti detto salafismo, una corrente di pensiero di
estrazione sunnita che rinvia agli antenati musulmani, per meglio dire
Salafal-salihin, i «pii antenati», espressione che raccoglie le prime tre
generazioni succedutesi alla predicazione militante del Profeta. Con esse si
intendono i Sahabi, i «compagni» di Maometto, suoi contemporanei; i Tabiʿun, i
«seguaci», succedutigli dopo la morte; infine, i Tabiʿ
al-Tabiʿiyyin, «quanti sono succeduti ai seguaci». Per la salafia, questa
vicinanza cronologico-temporale alla fonte profetica è la garanzia di una
esemplarietà nella condotta religiosa. L'impianto ideologico è stato costruito,
nel corso del tempo, da alcuni studiosi della Sunna (termine che indica
«consuetudine», «abitudine», così come per estensione anche «costume di vita»,
non meno che «codice di comportamento»; è un corpus che raccoglie gli atti e i
detti di Maometto, trasmessi nel corso del tempo con gli hadith, dei brevi
resoconti, molto numerosi, del suo operato; l'insieme degli hadith, con il
Corano, sono la fonte della legge islamica e concorrono a dare corpo e sostanza
alla sharia). Tra gli eminenti pensatori vanno annoverate le figure di Ahmad
ibn Hanbal (780-855); di Ibn Taymiyya (1263-1328), che proclamò il dovere del
jihad offensivo, armato, contro i mongoli; di Muhammad ibn Abd al-Wahhab
(1703-1792), quest'ultimo padre del wahhabismo, oggi diffuso soprattutto nella
Penisola arabica. A stretto senso, il salafismo indica tuttavia anche e
soprattutto un fenomeno di revivalismo manifestatosi nella seconda metà
dell'Ottocento, a partire dall'Egitto, ancora una volta come reazione alla
presenza “straniera”, con l'obiettivo – in sé per nulla conservatore – di
identificare le radici islamiche dei processi di modernizzazione. Il
trascorrere del tempo ha introdotto nuove accezioni e deviato il senso
originario che riposava nella parola. Se in un primo momento quanti si
riconoscevano in questa corrente di pensiero erano disponibili al confronto con
le sollecitazioni provenienti dall'Occidente, ritenendolo semmai un atto
ineludibile, con il Ventesimo secolo le correnti della salafia sempre di più si
sono identificate con i rigidi dettami del wahhabismo. Prioritario è allora
divenuto il discorso sulla «purezza delle fonti», a detta degli apologeti
inquinate dall'ibridazione con la modernità coloniale ed imperialista e, nel medesimo
tempo, la denuncia ossessiva di una totale sudditanza morale, politica e
civile, nei confronti del dominatore euro-americano. In realtà la Salafiyya
rimane, nel suo nocciolo duro, un criterio di lettura del Corano, e di vita
nell'Islam, incline a enfatizzarne l'approccio non intellettualistico,
a-teologico, senza ricorso all'esegesi. Se in un primo momento ciò si
esercitava contro l'allegorismo mistico dei gruppi sufi, così come contro il
letterarismo senza vita di certi ripetitori mnemorici, il fuoco polemico si è
poi spostato verso altri obiettivi. Recuperando la natura increata del Sacro
Testo, donato da Allah agli uomini per il tramite del Profeta, il salafismo,
come si argomentava, si è incontrato e mischiato alla rigidità del wahhabismo,
dando alla Sunna un valore dichiaratamente anti-modernista. Il movimento della
Salafiyya è quindi venuto predicando, in anni a noi più prossimi, la necessità
di ricreare ex novo le condizioni in cui visse Maometto nel VII secolo dell'era
volgare. Del suo operato, oltre ovviamente alla natura profetica, alla funzione
di emissario umano della volontà divina, si richiama anche la dimensione
comunitaria, militante e combattente, che condivise con i suoi seguaci e
sostenitori. Con questo imprinting il salafismo ha però ridato corda
all'attività di «interpretazione», l'ijtihad, dinanzi agli innumerevoli quesiti
imposti dal confronto con la globalizzazione. Ancora una volta il radicalismo
islamico è costretto ad una sorta di moto pendolare, tra la rigidità di un
dottrinarismo apparentemente immodificabile ed impermeabile al confronto con lo
stesso principio di realtà e una flessibilità dettata dalle occorrenze tipiche
dei movimenti politici, dove ad ogni sollecitazione deve seguire una reazione
di intensità uguale ma di segno contrario. Il robusto intreccio con il
radicalismo politico a base religiosa è forse però ascrivibile già ad una
ottantina di anni fa quando, in Tunisia, andarono costituendosi scuole,
diffondendosi pubblicazione e articolandosi reti capillari di predicatori che
rinviavano al wahhabismo. La centralità della Tunisia sta soprattutto nel fatto
che quella società si era invece, nel suo insieme, già da molto tempo aperta
alle diverse correnti islamiche, essendo peraltro anche un luogo di incontro
tra la cultura musulmana e quella europea. La lotta contro il sufismo mistico e
il marabuttismo (quest'ultima è la pratica del culto dei santi locali, fatti
oggetto di venerazione popolare, e come tale intesa dai suoi detrattori come
un'inaudita infrazione del principio di «unicità», al-tawhid, di Allah), in
quella come in altre parti del Maghreb arabo, divenne una battaglia di
principio. Il salafismo tunisino, negli anni Trenta, impresse alla discussione
pubblica una fortissima curvatura moralistica, imputando al rapporto con la
modernità tutte le disgrazie correnti. I tempi vigenti erano presentati come
intossicati dai «vizi» - l'alcolismo, la sessuomania, lo scetticismo culturale,
il razionalismo intellettuale, la perdita dei legami ancestrali, la
prostituzione, le rivendicazioni di autonomia da parte delle donne e così via –
leggendo nel presente, e nelle sue trasformazioni, il segno della disgregazione
delle autorità tradizionali, a partire dalla famiglia, in quanto precipitato
della caduta collettiva negli abissi più cupi e profondi. Nello stesso arco di
tempo, non a caso, in Egitto andava diffondendosi la Fratellanza musulmana,
meglio conosciuta poi come espressione di una neo-salafiyya. La differenza,
rispetto all'esperienza tunisina, quest'ultima maggiormente legata ad una
islamizzazione “dall'alto”, ossia rivolta ad influenzare le élite, è che nel
caso egiziano il pubblico al quale rivolgersi è stato immediatamente
identificato con la grande maggioranza della popolazione, che stava vivendo
sulla propria pelle il cambiamento in atto in quei decenni. Per i Fratelli
musulmani si trattava di adoperarsi nella da'wa, l'«appello», ovvero il
proselitismo, inteso soprattutto come recupero delle fede in termini ortodossi,
in chiave anti-intellettualistica, in un'ottica fortemente conservatrice. Nel
suo complesso, quindi, il salafismo a tutt'oggi, tanto più se inteso come
corpus ideologico e dottrinario radicale, non è un movimento unitario bensì un
habitat socio-culturale. La Salafiyya si è diffusa, negli ultimi decenni, in
tutto il mondo musulmano attraverso le Pondoks, scuole coraniche indonesiane, e
poi tra la gioventù immigrata presente nelle grandi periferie europee. Di fatto
è un insieme di cupe correnti neofondamentaliste che riverniciano di nobiltà
intellettualistica il passaggio verso il jihadismo, la violenza pura e dura.
Qualcosa, quindi, di molto diverso dall'originario tentativo di cogliere il
senso dell'«innovazione», bida'a, che ispirava un tempo i pensatori.
Sommariamente, il salafismo dei giorni nostri si divide in tre grandi
raggruppamenti. Il primo di essi, quello “litterarista”, ovvero legato alla
lettura rigidamente ortodossa e a-teologica del Corano, rimanda al wahhabismo
saudita e agli insediamenti presenti nello Yemen e in Giordania. La sua prima
preoccupazione è di vivere in stretta simbiosi con le prescrizioni coraniche,
aspirando, quando già ciò non sia successo, alla migrazione – l'egira – verso
quei paesi considerati come più e meglio conformi alla propria idea di
religiosità. Si tratta di una corrente quietista, che vuole incidere sui
costumi sociali ma che non necessariamente ricorre alla politica. Il secondo
nucleo è quello, invece, più politico, che ha trovato spazio grazie anche alle
due guerre del Golfo, tra il 1990 e il 2003. La presenza americana sul suolo
islamico ha fatto da detonatore ad un movimento di “risveglio”, volto a
islamizzare le proteste che da ciò sono seguite un po' in tutte quelle parti
del mondo in cui cospicue comunità musulmane sono stabilmente insediate. La
terza tendenza è quella più strettamente jihadista, involucro intellettuale del
terrorismo e degli attentati suicidi. Si rifà all'insegnamento dell'egiziano
Sayyd Qutb e del giordano Abu Muhammad al-Maqdissi. Secondo quest'ultima
corrente, ciò che conta è la guerra contro il nemico, ovvero l'obbligo al jihad
offensivo. Il fondamento storico di questi gruppi è l'esperienza della guerra
in Afghnistan contro la presenza sovietica prima e, nel decennio successivo, in
Bosnia e in Cecenia. Con una particolare attenzione, e militanza, nell'Algeria
della guerra civile dei primi anni Novanta. Il conflitto afghano, tra il 1979 e
il 1989, ha costituito un'autentica fucina nella formazione di gruppi e criteri di combattimento. È questa la vera matrice
del terrorismo, da quello del Jemaah Islamiyah (la «Congregazione islamica»)
indonesiano al Gicm, il Gruppo islamico combattente marocchino. In tali casi
l'elemento aggregante è l'idea di un jihad planetario, di cui al-Qaeda, Abu
Mussab e al-Zarkawi sono state le diverse vestali. Le ricadute si sono misurate
nel tempo in svariati scenari di guerra civile, dall'Africa all'Asia: basti
pensare alla già citata Cecenia, all'Iraq e alla Siria, ai Territori
dell'autonomia palestinese ma anche agli Stati Uniti dell'11 settembre 2001,
seguiti a ruota, nella strategia terroristica globale, dai fatti di Bali del
2002, di Madrid nel 2004 e di Londra nell'anno successivo. (8/segue)
Non
si comprende il radicalismo politico-religioso islamista se non si sposta
l’attenzione su quella che rimane, a tutt’oggi, la sua organizzazione più
longeva e diffusa, i Fratelli musulmani, ovvero Jama’at al-Ihwan al-muslimin
(«Associazione dei fratelli musulmani»). Presenti in Egitto, oggi soprattutto
per il tramite del loro braccio politico, costituito dal Partito libertà e
giustizia, che nelle elezioni del 2012 è riuscito a fare eleggere il suo più
importante esponente, Mohamed Morsi, a Presidente della Repubblica, vantano un
solido insediamento anche nei Territori palestinesi, ed in particolare a Gaza,
con Hamas. La Fratellanza è a tutt’oggi ritenuta un’organizzazione terroristica
da parte dei governi della Russia, del Bahrain, dell’Arabia Saudita, degli
Emirati Arabi Uniti, dalla Siria, mentre continua ad essere sostenuta
finanziariamente e politicamente dal Qatar. Nonostante la vicende che in questi
ultimi due anni hanno portato alla defenestrazione di Morsi, bruscamente
sostituito al potere con il colpo di stato guidato dal generale Abd al-Fattah
al-Sisi, e alla seguente repressione dell’organizzazione, nel corso della quale
si sono susseguiti arresti, perlopiù arbitrari, torture e anche assassinii, non
si può dire che il suo ciclo vitale si sia esaurito. Già la vittoria ottenuta
nelle elezioni legislative egiziane del 2005, quando il movimento si assicurò
88 dei 444 seggi in palio, risultava tanto più rilevante dal momento che
interveniva in un contesto, quello per l’appunto cairota, nel quale formalmente
la Fratellanza era e rimaneva fuorilegge. In altre parole, tutti i candidati
avevano corso in qualità di indipendenti. Era un segreto di Pulcinella il fatto
che costituissero espressione di un’organizzazione non legale. Ma ciò non solo
non aveva impedito che si fossero candidati, semmai favorendone il voto
popolare. Il passaggio elettorale sanciva comunque un passo importante nel
percorso di neo-islamizzazione che in questi ultimi decenni ha attraversato le
società maghrebine e mediorientali. Gli eventi politici successivi, nella loro
tumultuosità, si sono quindi incaricati di marcare ancora di più questo
processo. L’esito impolitico delle «primavere arabe», dettato, nel medesimo
tempo, dall’incapacità delle élite al potere di dare una qualche risposta alle
domande economiche e di partecipazione provenienti dalla società civile e
dall’impotenza dei protagonisti medesimi, ha rafforzato le spinte
fondamentaliste. L’intervento, in Egitto, del generale al-Sisi, ha
temporaneamente cristallizzato i rapporti di forza ma non potrà, in prospettiva
incidere più di tanto negli equilibri a venire, dinanzi ad una società
bloccata, ad una popolazione in maggioranza sulla soglia della povertà, quando
non del tutto in miseria, una pubblica amministrazione la cui ossatura rimane
quella prescrittagli e garantitagli dall’esercito, l’inconsistenza di
un’economia che gira nel vuoto. Il vero elemento di forza dei Fratelli
musulmani rimane peraltro la denuncia della corruzione delle istituzioni, della
condizione di iniquità in cui versa l’intero mondo arabo, dell’irriformabilità
dello Stato così come si presentano lapalissianamente agli occhi dei più. Un
concentrato di consorterie, clientele e nepotismi che esclude, al Cairo come in
tutti i grandi centri del Medio Oriente, buona parte della popolazione da
qualsiasi forma di partecipazione attiva. Già alcuni anni dopo la loro
fondazione, avvenuta nel 1928 ad Ismailia, la Fratellanza era riuscita ad
aprire sezioni e rappresentanze in buona parte del mondo arabo sunnita, da
Occidente ad Oriente, partendo dal Marocco per arrivare all’attuale Giordania.
Il fondatore del movimento, Hasan al-Banna (1906-1949), un giovane insegnante,
definiva così i suoi fini: «liberare la patria [watan] islamica da ogni potere
straniero. È questo un diritto naturale di ogni uomo, e può negarlo solo il
perverso, l’ingiusto e il sopraffattore». Inoltre, «istituire, nella patria
liberata, uno Stato islamico libero che operi secondo le direttive dell’Islam e
ne applichi l’ordinamento sociale». Per raggiungere tali obiettivi, era
ritenuto imprescindibile «formare l’uomo musulmano» poiché «quando si sarà
costituito il nucleo familiare islamico, verrà in esistenza anche la società
musulmana che diffonderà al suo interno e attorno a sé l’appello al bene e alla
lotta contro i vizi e le turpitudini; promuoverà la virtù, il lavoro e la
produzione, la sicurezza, la generosità e l’altruismo». Solo una volta datasi
una società musulmana, retta a conforme ai principi morali più profondi, potrà
derivarne il vero Stato islamico, «che implicherà l’applicazione della Legge di
Allah [Sharia]». In una concezione delle cose che si ispirava, nello stesso
tempo, ad un approccio organicistico (dove le parti corrispondevano al tutto) e
deterministico (ritenendo che l’evoluzione verso una soluzione islamica stesse
nei fatti medesimi, nel loro susseguirsi dinamico, nel concatenarsi tra di
loro), al-Banna celebrava la completezza del pensiero islamista, inteso come in
grado di contemperare tutti i punti di vista, di riconoscere e mediare tra i
diversi interessi, di coronare obiettivi diversi, superando e lasciandosi alle
spalle lo scetticismo e il nichilismo che venivano attribuiti all’Occidente.
Allo spirito di fazione, alle logiche di divisione sarebbe così subentrata
l’azione di ricomposizione che, dalla comunità, si sarebbe traslata nella
dimensione pubblica, in un percorso di re-islamizzazione dal basso verso
l’alto. Peraltro, l’intera esperienza di al-Banna rinviava a rapporto che aveva
intrattenuto con i lavoratori arabi della zona del Canale di Suez, dove si
trovava ad operare, registrandone la condizione di sofferenza che i più
vivevano quotidianamente. In tale modo, all’interno di una costruzione
ideologica che coniugava appello agli ultimi con il rimando ad una severa
precettistica, raccogliendo le spinte che provenivano, sia pure spesso in
maniera molto disordinata, un po’ da tutte le realtà locali, i Fratelli
musulmani si sono da subito candidati a costituire la matrice più autentica del
neotradizionalismo islamista. Questo aspetto di natura tendenzialmente
anti-istituzionale, perché giocato, nell’agone pubblico, contro i gruppi al
potere, non impediva tuttavia ad una parte dei loro esponenti di ibridarsi con
le élite di governo, in un irrisolto rapporto di scambio. Nella loro vicenda
storica, infatti, la capacità di interagire con le dinamiche di governo, pur
dichiarandosi in linea di principio contro un «potere» iniquo perché in mano a
governanti empi ed apostati, rimane un tratto peculiare del modo di essere dei
Fratelli musulmani. In opposizione quel tanto che occorre per presentarsi come
alternativa globale ma, nel medesimo tempo, capaci di intessere rapporti
profittevoli, quando se ne dava l’occasione, con chi stava assiso ai vertici
dello Stato. Liquidare questa condotta come mero opportunismo costituisce una
semplificazione inaccettabile nell’analisi del quadro politico mediorientale,
riguardo al passato come nel presente. Piuttosto, va colto l’elemento
strategico dell’interazione con ciò che si dice di volere abbattere. Fatto che
ha sempre comportato la loro lunga estraneità dai luoghi di rappresentanza
formale ed istituzionale ma non di certo dagli snodi decisionali, quando essi
si sono messi in movimento. Durante gli anni del panarabismo, del socialismo di
Nasser, del nazionalismo arabo, durati due decenni, dal secondo dopoguerra fino
almeno al 1967, l’insieme delle organizzazioni islamiche, e tra esse la stessa
Fratellanza, rimasero oscurate dal secolarismo trionfante. Così con il
nasserismo come con il baathismo, varianti mediterranee e mediorientali di un
sogno terzomondista che di lì a non molto sarebbe ripiegato su di sé,
spegnendosi velocemente dopo la Guerra dei sei giorni, autentico tornante
collettivo di una pluralità di trasformazioni. A conti fatti quell’anno
rappresentò per il Medio Oriente ciò che sarebbe stato il 1989 per le relazioni
tra Est ed Ovest del pianeta. Il rais cairota fu peraltro uno dei più accesi
avversari del movimento, mandando a morte anche Sayyid Qutb (1906-1966),
insieme ad al-Banna l’altro pilastro dell’organizzazione, benché su posizioni
molto più radicali del secondo. Dopo la sonora sconfitta egiziana del 1967 e la
conquista, da parte di Israele, di una gigantesca porzione di territori arabi,
le sorti – infatti – volsero diversamente per i protagonisti in campo. La
radicalizzazione dell’islamismo seguì quindi di pari passo la sua
legittimazione tra la popolazione. Non si trattava più di dare respiro alla
«nazione araba», sulla quale avevano investito tutte le loro carte le
fallimentari élite modernizzanti, prendendo a modello i processi occidentali,
bensì sull’«umma islamica», in una secca inversione di priorità. I Fratelli
musulmani, in questa congerie di trasformazioni, hanno giocato abilmente le
loro carte. Lo stesso nuovo presidente egiziano, Anwar al-Sadat, riformulando
gli indirizzi politici cairoti, a quel punto avrebbe scelto una strada più
calcolata, nel tentativo di isolare le organizzazioni studentesche della
sinistra. Condotta, quest’ultima, che sarebbe divenuta una costante nei
rapporti con i movimenti di re-islamizzazione, confidando che essi possano
fungere da filtro, se non addirittura da barriera, contro le componenti
militanti della società laicizzata, ora delusa dal fallimento dei poteri
pubblici e sempre più proclive allo scontro di piazza. Il risultato sarà una
spaccatura in seno agli stessi Fratelli musulmani, quando un segmento
estremista parteciperà all’assassinio di Sadat, nel 1981. La qual cosa non
generò tuttavia una crisi del regime cairota ma la scelta, effettuata dal
successore, Hosni Mubarak, di attuare alcune caute aperture, tra le quali, nel
1984, la concessione all’organizzazione di concorrere alle elezioni, sia pure
non con liste proprie ma in consorzio e alleanza con i partiti
dell’opposizione. Più che altro un gioco delle parti, con l’obiettivo di
garantire al potere centrale un’altrimenti incerta stabilità, cercando di
governare dividendo gli avversari. Da quel momento i Fratelli musulmani si
sarebbero quindi divisi in due, tra una componente maggiormente esacerbata e
propensa al ricorso alla violenza, e una parte maggioritaria decisamente
orientata alla promozione del proselitismo, la da’wa, ossia la «chiamata»
all’Islam rivolta alla società civile. Non è un caso, quindi, se nel corso
delle gigantesche proteste popolari del 2011, che porteranno alla rovinosa
caduta di Mubarak, il corpo centrale della Fratellanza si troverà defilato, se
non estraneo, dalle manifestazioni, non riuscendo a cavalcare il moto degli
eventi. Ma il tempo sembra essere una variabile dipendente a favore del
movimento, che conta sulla fidelizzazione di un grande numero di persone.
Laddove esso si è sostituito ad uno Stato che non c’è e che, perdurando
l’insieme delle cose, mai riuscirà ad esserci. Ciò che per i Fratelli musulmani
conta, infatti, non è il conquistare le casematte di un potere che ha già
dimostrato di non sapere come gestire, ma di procedere ad una islamizzazione
sistematica della popolazione. In attesa che il sogno di un nuovo califfato
possa tradursi in atti e fatti. (9/segue)
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