martedì 30 dicembre 2014

La nuova ragione del mondo

La nuova ragione del mondo
di Pierre Dardot e Christian Laval

Un saggio ormai assurto a testo fondamentale per capire il neo-liberismo, la sua capacità di governare globalmente economia e società, la strada da seguire per sconfiggere la sua razionalità


La nuova ragione del mondo
Pierre Dardot & Christian Laval - 2009

Introduzione all’edizione italiana (2013)

·         La crisi del 2007-2008 ha indotto molti a ritenere che il neoliberismo fosse con essa morto: così non è stato e così tuttora non è

·         Questa errata previsione si è potuta manifestare perché il neoliberismo è stato quasi unanimamente inteso come un’ideologia, la riabilitazione del classico laissez-faire, ed una politica economica da essa derivata

·         In effetti il neoliberismo ha progressivamente assunto la capacità di “produrre” un intero corpus di relazioni economiche, sociali, politiche, di stili di vita, di nuove soggettività, tali da farlo assurgere a “nuova ragione del mondo

·         Esso in sostanza, più che un’ideologia sommata ad una politica economica, è una “razionalità” che uniforma l’azione di chi governa e quella di chi è governato

·         Questa razionalità poggia su due pilastri: la concorrenza, come modello di comportamento, e l’impresa, come modello di soggettivazione

·         Questo concetto di razionalità è stato elaborato da Foucault  nell’ambito delle sue ricerche sul problema della governamentalità (riassunte nel saggio “Nascita della biopolitica”), una concezione del governo inteso non come istituzione ma come “attività”

·         Il ricorso ai concetti di razionalità e di governamentalità, per analizzare l’assunzione del neoliberismo a nuova ragione del mondo, si è reso necessario per i limiti che, in questo senso, hanno manifestato le interpretazioni “classiche”, marxismo compreso

·         Il materialismo storico marxista pone la logica del capitale, la “struttura”, come motore della storia, il contrasto di classe  ha assunto forme diverse nel corso dello sviluppo storico sempre rimanendo però l’elemento centrale e determinante; lo Stato, in questo scenario, resta un semplice strumento nelle mani dei detentori di turno del potere economico, i quali sono in grado di sviluppare strategie coscienti di indirizzo del corso degli eventi; il motore della storia contemporanea è quindi l’eterna insopprimibile tendenza del capitale ad autovalorizzarsi all’infinito attraverso l’estensione della merce, inglobante in sé il lavoro, i lavoratori

·         Il neoliberismo altro non è, in questa lettura, che l’attuale capacità del capitale di mercificare tutto il pianeta, tutte le società (globalizzazione)

·         L’interpretazione marxista presenta tuttavia alcune debolezze:

Ø la concezione di una classe di capitalisti, preesistente all’affermarsi del neoliberismo ed in grado di esserne il grande consapevole regista, urta con la presenza di nuove borghesie scaturite dagli stessi apparati comunisti (Cina) e post-comunisti (Russia)

Ø il percorso concreto di affermazione su scala mondiale del neoliberismo non pare aver assunto la forma di un grande complotto e neppure quella di un disegno organico ambedue posseduti da gruppi chiaramente individuabili di potere; è stato al contrario un processo che si è formato a poco a poco strada facendo

Ø questo processo non ha determinato tanto un nuovo regime di accumulazione capitalistica quanto una diversa idea complessiva di società;

Ø se per il marxismo l’ordine giuridico-politico è deciso dal Capitale in relazione alle sue necessità temporanee, ed il modo di produzione (struttura) precede quindi sempre il diritto (sovrastruttura), il neoliberismo ha, al contrario, dato alle istituzioni giuridico-politiche un ruolo centrale per la stessa propria fondazione ed affermazione

Ø se, come affermato in ispecie nel Primo libro del Capitale, il capitalismo risponde unicamente alla legge generale dell’accumulazione capitalistica, e quindi rimane tale indipendentemente dalle forme specifiche che esso assume, diventa difficile spiegare le forme di capitalismo neoliberista che sono al contrario il prodotto di regole giuridiche-istituzionali

Ø la crisi degli anni sessanta-settanta del secolo scorso, dalla quale ha preso avvio il percorso neoliberista, non è stata solo una crisi di accumulazione, ma una crisi, estesa e profonda, della capacità capitalistica di governare il mondo; il neoliberismo è stata la risposta non solo sul piano dell’accumulazione ma anche, e soprattutto, sul piano della governamentalità

·      La necessità di recuperare una più corretta e completa analisi del neoliberismo è indispensabile anche per comprendere che la crisi iniziata nel 2007-2008, che non è soltanto quella della finanziarizzazione capitalistica, se non ha significato la morte del neoliberismo certo ha evidenziato una sua profonda crisi, che però, proprio per le caratteristche “nuove” che esso ha assunto, non è solo economica ma è crisi della sua concezione di governamentalità

·      In ballo oggi, all’interno di questa crisi, non sono tanto tentativi di recupero di competitività, di decisione fra austerità e crescita, piuttosto che di ridimensionamento della finanziarizzazione, all’ordine del giorno deve esserci la capacità di proporre una ragione del mondo alternativa a quella neoliberista per la prima volta in crisi strutturale

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Prima parte – Dei limiti del governo

fondamenti teorici della governamentalità del liberismo classico

______________________________ Capitoli 1 e 2 _______________________________________

·      Il pensiero liberale classico che concezione aveva del ruolo dello Stato nell’ambito del suo rapporto con il mercato? Per rispondere occorre partire da alcuni dei concetti base del liberalismo classico espressi, a partire dalla seconda metà del 1700, dai suoi maggiori pensatori: quelli della tradizione scozzese – David Hume (1711-1776) - Adam Ferguson (1723-1816) -  Adam Smith (1723-1790) – e la Scuola Fisiocratica Francese della seconda metà del 1700

·      Alla base del liberalismo classico non vi sono solo considerazioni puramente economiche, ma vi è una idea di “uomo nuovo”, un uomo spinto all’azione dalla ricerca del proprio interesse, dalla soddisfazione dell’amor proprio, da motivazioni passionali;

·      Esiste una evidente tensione, in tutte le opere degli autori fondatori del pensiero liberale classico ed in questa idea di “uomo nuovo”, fra il principio morale della simpatia verso gli altri ed il movente economico dell’interesse;

·      In particolare Adam Smith, procedendo sulla strada aperta da Thomas Hobbes (1588-1679), il filosofo della “meccanica dei desideri”, ritiene che il desiderio innato di migliorare la propria condizione, visto soprattutto come manifestazione di “interesse”, non è scindibile dalla ricerca dell’approvazione altrui, e che gli scambi umani, economici e non, dipendono da questi principi inscritti nella natura umana

·      Per Smith la tensione tra interesse, come piano d’azione individuale, e morale, ricerca dell’approvazione altrui, può trovare soluzione nel conciliare tra loro gli interessi/piani d’azione individuali creando un ordine morale fonte e base del potere, del governo

·      Questa conciliazione avviene sulla base del principio della “interdipendenza degli interessi, fondato sull’utilità reciproca nello scambio

·      Storicamente l’affermazione di questo principio si compenetra con il parallelo pieno affermarsi, nel corso della seconda metà del 1700, della divisione del lavoro come base dell’organizzazione produttiva e sociale

·      Decisivo è anche l’influsso del contemporaneo progresso scientifico; l’invenzione dell’economia (definizione di Serge Latouche) come disciplina autonoma, fino al 1600 inesistente, è figlia dell’intreccio fra pratiche commerciali/produttive e scienza fisica, dell’applicazione alla società dei metodi di analisi delle forze propri della meccanica newtoniana (Isaac Newton 1642-1727).

·      E come le scienze fisiche del tempo che ancora riconoscono la necessità di un ordine armonico superiore, “divino”, l’economia politica liberista individua, per spiegare l’equilibrio fra agenti ed  fenomeni economici,  nella “legge suprema del mercato”, nel libero dispiegarsi della concorrenza, una sorta di provvidenza, di autorità superiore che impedisce il monopolio dei prezzi obbligando ognuno a vendere per comprare, e che lascia allo Stato unicamente un ruolo di amministrazione delle condizioni di concorrenza

·      Per Smith l’economia ha un corso armonioso solo se si lascia che gli individui seguano la percezione immediata del loro interesse, l’equilibrio è infatti garantito dalla “mano invisibile del mercato”

·      Che conseguenze sull’azione di governo? Smith afferma l’opportunità che qualsiasi governo si astenga da un eccesso di interventismo sulle cose economiche:

·      Il pensiero liberale classico si articola anche su di una lettura della storia umana finalizzata alla conferma del ruolo centrale dell’interesse individuato come motore della stessa

·      Questo avviene sulla base di una teoria antropologica, definita da Smith Four stages theory, che suddivide lo sviluppo storico dell’uomo in quattro stadi: caccia – pastorizia – agricoltura – commercio

·       (per comprendere la continuità/discontinuità nel passaggio da uno stadio all’altro si è resa necessaria una ridefinizione del concetto di “società civile”; Adam Ferguson è stato il pensatore liberale che meglio ha operato tale ridefinizione, Foucault ne sintetizza l’idea in quattro tratti essenziali:

Ø  Costante storico-naturale = non esiste storia dell’uomo che non sia una storia di un legame sociale, di una società, la società è di per se stessa storia ed aspetto “naturale” per l’uomo;

Ø  Principio di sintesi spontanea = non esiste nessuna coercizione esterna all’uomo nella sua propensione al vivere sociale, l’uomo non crea la società, l’uomo è società;

Ø  Matrice permanente del potere politico = l’associazione sociale implica legami basati su ruoli determinati dai talenti individuali, ed è naturale e spontaneo che gli individui più talentuosi assumano un ruolo di comando

Ø  Motore della storia = l’affermarsi nello stadio della pastorizia del concetto di proprietà, innesca processi di cambiamento sociali determinati da logiche di interesse individuale è il gioco dell’interesse il motore della storia nella società civile)

·      E’ notevole l’impulso al prevalere dell’interesse derivante dalla progressione storica della divisione del lavoro e delle professioni; fino alla sua esplosione con l’avvento della società mercantile

·      Nei primi pensatori liberali è da subito presente che tale processo può rappresentare un grave rischio per la coesione sociale: Ferguson denuncia il crescente prevalere dell’economia sulla politica, delle attenzioni individuali travalicanti in sete di guadagno, con conseguenze rovinose sui legami sociali

·      Non molto dissimile è, al riguardo, il pensiero di Smith che sottolinea però che la vera molla alla crescita sta unicamente nel desiderio di migliorare la propria condizione; la ricerca dell’interesse individuale assume in tal modo una caratteristica di profondo naturalismo (the economy of natury);

·      Non esiste comunque, nel pensiero dei primo liberalismo, la visione utopistica di una società civile in grado di divenire ideale grazie al progresso (una sorta di fine della storia); l’interesse individuale può agire in modo da creare un progresso indefinito sempre però tinto da inquietudini morali e politiche

______________________________ Capitoli 3 e 4 _______________________________________

·      Attraverso quali modalità il pensiero liberale classico ha storicamente influenzato la formazione degli Stati moderni, la loro gestione dei diritti e del governo? Sono utili per avviare questa analisi alcune idee-guida sviluppate da Michel Foucault (1926-1984) nell’ambito della sua definizione/ricerca della “governamentalità” = i modi di pensare che guidano la filosofia di governo

·      Secondo Foucault questo processo si è sviluppato con articolazioni varie a seconda dei vari paesi, ma sono tutte riconducibili a due grandi vie:

Ø  una giuridico-deduttiva = quella della Rivoluzione Francese, che fissa i diritti naturali (diritti dell’uomo), ne definisce alcuni “alienabili”, per consentire l’azione di governo, altri non cedibili/non rinunciabil, del tutto invalicabili per l’azione di governo che ha, quindi, dei limiti “esterni”

Ø  una radicale-utilitaristica = che sostiene che l’azione del governo ha dei limiti “interni” derivanti unicamente dalla ricaduta delle proprie scelte concrete, in termini di utilità generale, sulla società

·      storicamente fra le due vie è intercorsa una continua commistione, tale da far percepire il riferimento ai diritti naturali come fondamentale anche quando a prevalere, così come è effettivamente avvenuto a partire dalla seconda  metà  del 1700 e fino alla prima Guerra Mondiale, è stata la via utilitaristica

·         La via giuridico-deduttiva ha il suo fondamento nei diritti inalienabili dell’uomo  così come affermati dalla Dichiarazione d’indipendenza Americana del 1776:  la vita, la libertà, il perseguimento della felicità, e dalla Dichiarazione Francese dei Diritti dell’Uomo del 1789: la libertà, la proprietà, la sicurezza, la resistenza all’oppressione

·         Se Rousseau (1712-1778) si limita ad affermare che questi diritti sono conferiti ad ogni singolo individuo in quanto membro del corpo sovrano della società civile, cioè in quanto “cittadino”, non esistendo anteriormente al farsi sociale, all’esistenza dello Stato, alcun diritto naturale, John Locke (1632-1704), punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo della via giuridico-deduttiva,  formula una teoria dei limiti del governo elaborata al contrario proprio sul versante specifico del potere legislativo

·         Per Locke i diritti dell’uomo sono una diretta emanazione della volontà di Dio, (la ragione umana può solo interpretarli) che impone all’uomo due obblighi di conservazione: quello di se stesso e quello degli altri;

·         L’obbligo di autoconservazione ha comportato la necessità di trasformare le cose, mediante il lavoro, per renderle utilizzabili sottraendole però così dallo stato di comunità iniziale: il lavoro, applicato alle cose comuni, è così diventa il presupposto per il sorgere del diritto individuale esclusivo su una cosa (ad es. la terra coltivata): l’azione stessa di lavorare porta a far propria la cosa su cui si lavora. Locke vede l’uomo “proprietà di se stesso”,  ed il lavoro come una protesi della persona: quindi, se questa è proprietaria di se stessa, allora anche i risultati del lavoro sono proprietà della persona che l’ha compiuto; se nessuno può vantare diritti sulla singola persona allora nessuno può vantare diritti sulle cose che quella persona ha prodotto con il proprio lavoro

·         Il pensiero liberistico classico si pone necessariamente nella prospettiva di svincolare il diritto di proprietà dalla concezione, percepita come eccessivamente rigida, di diritto teologico-naturale di Locke; ciò è avvenuto con Benjamin Constant (1767-1830) per il quale la proprietà non è nulla di più di una convenzione sociale, il modo migliore definito dalla società per far godere ai suoi membri i beni disponibili; ma anche per Constant, seppure ogni riferimento a diritti naturali è scomparso, la proprietà mantiene comunque una sua sacralità e inviolabilità

·         Quali sono le ricadute sulla natura del governo e sulla governamentalità derivanti da tali concezioni della proprietà? Secondo Locke gli individui portatori di interessi (proprietari) sono per natura in grado di contrarre patti sociali, ma ciò non è sufficiente a garantire la difesa della proprietà e l’ordine sociale, occorre l’azione di Stato; la nascita del potere statale poggia quindi sulla rinuncia, fatta sulla base dell’interesse a realizzare l’azione di governo, della gestione di una parte dei propri diritti naturali; questo atto del singolo rimette alle decisioni della maggioranza della comunità il potere politico, è il consenso del popolo che legittima il governo

·         Foucault individua, in questo quadro lockiano,  due soggetti: un soggetto di diritto ed un soggetto di interesse: il primo rinuncia, in favore del potere al fine di consentire la gestione sociale, ad una parte dei propri diritti naturali, il secondo fa la stessa cosa, ma lo fa per una valutazione puramente di interesse, di convenienza; tra queste due figure, seppure coincidenti nello stesso individuo, si crea quindi, nell’atto stesso della rinuncia, una contraddizione insanabile: ne consegue che se il patto sociale fondativo del governo poggia in prevalenza sulla reciprocità degli interessi, l’obbligo dell’obbedienza alle leggi del governo decade quando queste entrino in contrasto con gli interessi, con il mercato, con il soggetto di interesse

·         Locke chiarisce inoltre che da questo patto, se lasciato solo a sé stante, non deriva automaticamente una buona azione di governo, la quale deve avere la capacità di calarlo nella specificità storica di ogni singolo paese

·         Ed è proprio lo sviluppo impetuoso del mercato, che si realizza nella seconda metà del 1700, a mettere in crisi la stessa concezione lockiana del governo; i vari governi liberali in tutti gli Stati occidentali non riescono a sviluppare un’azione di governo adeguata alla gestione dei crescenti problemi (crescita della popolazione, organizzazione della produzione e degli scambi, aumento delle funzioni affidate allo Stato) che tale sviluppo impone

·         La concezione dell’azione di governo basata unicamente sui diritti naturali, ridotta alla sola promozione dei diritti individuali , specialmente quello della proprietà, non regge in effetti alla prova della concretezza; la contraddizione individuata da Foucault esplode apertamente, il mercato, nel suo percorso di crescita impetuosa, fa decadere una governamentalità basata sulla affermazione di principi naturali non suffragata da adeguate politiche concrete

·       Nella prima metà dell’800, la via lockiana della subordinazione dell’azione di governo all’esistenza di Leggi naturali, la prima delle due vie individuate da Foucault, quella giuridico-deduttiva, si arena e svanisce, lascando così spazio all’affermarsi della seconda via, quella radicale-utilitaristica, ma a prezzo di una governamentalità, quasi per reazione, molto spesso cieca verso  gli stessi diritti  “naturali”

·         Se l’opera di Locke delinea le idee guida della via giuridico-deduttiva, quella di Jeremy Bentham (1748-1832) svolge un ruolo analogo per la via radical-utilitaristica; alla base del suo pensiero vi è la considerazione che i limiti all’azione di governo non derivano da principi “esterni” ma dalle valutazioni sull’efficacia dell’azione stessa in termini di “utilità” dei provvedimenti governativi, legando più strettamente la dimensione economica (liberismo) a quella politica (liberalismo)  

·         Il pensiero di Bentham prende forma come critica ai principi della Rivoluzione Francese, che esalterebbe un’idea di uomo del tutto astratta trascurandone le vere pulsioni: la ricerca del piacere e della soddisfazione individuale, che nulla hanno a che vedere con i dogmi dell’uguaglianza e della fratellanza;

·         Afferma inoltre che ritenere che i limiti dell’azione di governo risiedano nell’inviolabilità di principi esterni di fatto potrebbe condurre, come estrema ratio, ad impedire qualunque azione di qualunque governo, proprio perché, così facendo, si legittimano ostacoli non sindacabili in quanto consegnati alla sfera del dogma

·         Secondo Bentham  la libertà, l’uguaglianza, la sicurezza non vengono prima dell’azione di governo ma, al contrario, sono figlie delle leggi che il governo produce

·         Il principio di utilità viene innalzato da Bentham a principio, morale e politico, fondamentale; anche l’ambito della produzione della ricchezza materiale ne è sottomesso, anche in economia occorre quindi capire in cosa consiste l’utilità generale

·         L’attività di governo deve mirare a tenere insieme gli interessi privati, la materia prima sulla quale muoversi, e gli interessi generali, intervenendo, se del caso, sui primi ma entro il limite invalicabile di un conseguente ritorno positivo sui secondi

·         Lontano dall’idea di Smith del mercato come “mano invisibile” Bentham ritiene che la spontaneità delle azioni di mercato deve essere accompagnata da una scienza economica,basata più sulla politica economica che sulla economia politica,  che sempre conduca, per evitare errori e conseguenze negative, ad un’azione di governo ispirata dalla cautela – il motto del governo è be quiet

·         L’azione di governo, infatti, deve garantire le condizioni che consentano lo sviluppo della spontaneità del mercato, considerando che non vi è nulla di naturale nell’ordine economico se non l’impulso individuale ad accrescere il proprio interesse

·         Se quindi il governo non può, e non deve, se non a fronte di una evidente utilità generale, intervenire sull’economia, molto può però fare indirettamente agendo su tutti gli aspetti economici e sociali che sostengono il mercato, l’economia privata

·      Se da una parte la via utilitaristica è stata quella che si è concretamente affermata, nel corso di tutto il 1800, dopo la fine delle grandi illusioni aperte dalla Rivoluzione Francese, dall’altra il pensiero di Bentham, che sta alla base di questa via, apre, proprio per le sue caratteristiche, la strada alla crisi del pensiero liberale classico

·      In nuce l’opera di Betham contiene, là dove consegna all’azione di governo il compito di intervenire, seppure nell’ambito del principio di utilità, su vari campi della società, i presupposti per un’estensione indefinita dell’intervento statale E’ su questa base che si innesta la crisi del liberalismo classico

______________________________ Capitolo 5  _________________________________________

·      Ancora una volta è lo stesso impetuoso sviluppo del mercato a mandare in crisi irreversibile il pensiero liberale classico in tutte le sue coniugazioni; nel corso del 1800 appare chiaro che il mercato non è il semplice ed equilibrato punto di incontro di piccoli produttori, le tendenze sempre più evidenti a concentrazioni industriali e finanziarie dimostrano ben altra realtà; la complessità dei problemi che lo sviluppo del capitalismo pone mandano in crisi proprio l’idea del governo liberale, dei suoi compiti, dei suoi limiti, dei suoi margini di intervento; va in crisi l’idea di governamentalità liberale; è’ a cavallo di inizio novecento, accentuata dalla prima guerra, che esplode questa crisi

·      L’ideologia liberale, basata su una ideale società di self made man, non comprende un mercato con al centro la moderna impresa; la mano invisibile di manager, finanzieri, politici al loro servizio sconvolge la mano invisibile del mercato; anche i rapporti salariali smettono di essere quelli idealizzati di una libera contrattazione fra due volontà indipendenti; sindacati, partiti dei lavoratori, l’affermazione del pensiero marxista nella seconda metà dell’800, impongono scenari differenti; lo stesso mito del libero scambio vacilla, politiche protezionistiche, barriere doganali sorgono in quasi tutti gli stati industrializzati

·      Una prima reazione al manifestarsi evidente di questa crisi si indirizza proprio contro il pensiero benthaniano e la via utilitaristica; alla base di questo filone sta l’opera di Herbert Spencer (1820-1903)

·         Spencer rifiuta la concezione utilitaristica per la quale i diritti sono semplicemente quelli creati/riconosciuti dallo Stato in quanto già presenti di fatto nell’ambito della società civile; egli sostiene che i diritti non sono mera consuetudine ma hanno fonte nella natura umana

·         Le condizioni di vita individuali e le condizioni di vita sociale condividono la stessa necessità vitale: i diritti dell’uomo hanno un fondamento biologico, insito nella natura stessa dell’uomo. L’individuo possiede il diritto di esercitare le attività necessarie alla propria vita, e ciò implica una conseguenza positiva: la libertà di muoversi, che è una legge di vita, ed una conseguenza negativa: la limitazione reciproca alla sfera di movimento, che è una legge sociale

·         Cosa intende Spencer per legge sociale? Strettamente collegata alla visione evoluzionistica (Charles Darwin 1809-1882), che si sta affermando in contemporanea, la visione di Spencer vede la società umana come un innegabile vantaggio evoluzionistico; ma se vivere in gruppo presuppone comunque la definizione di regole/contratti; man mano che questa la cooperazione di gruppo si sviluppa, e con il mutare delle condizioni ambientali di esistenza umana, queste regole assumono valenza di Leggi vincolanti l’azione individuale, ed in questo sta la causa della crisi del liberalismo classico e la necessità di ridare più spazio alla libertà di muoversi

·      Spencer, inoltre, sposta il motore dell’economia dalla specializzazione (divisione del lavoro) propugnata come strumento evolutivo dal liberismo classico alla selezione, alla lotta di tutti contro tutti; il progresso economico e sociale, secondo Spencer implica, inevitabilmente, la sconfitta, la distruzione di alcune componenti

·      August Comte (1798-1857) ed Emile Durkheim (1858-1917) riprendono, per smentire Spencer, il più autentico pensiero darwiniano che, a loro avviso, non applica automaticamente al campo sociale i principi naturali dell’evoluzionismo, in quanto lo spirito della cooperazione sociale umana sa affiancarsi e correggere la lotta individuale per la sopravvivenza, il gruppo, la società modificano, evoluzionisticamente parlando, l’individuo

·      L’evoluzionismo sociale spenceriano, al di là delle critiche da sinistra, verrà in breve abbandonato già nei primi decenni del novecento dalla stessa destra, di fatto per la sua inapplicabilità operativa, ma la mitologia della concorrenza/selezione resterà come forma mentis e sarà recuperata da lì a poco dal neo-liberismo

·      La crisi dei dogmi del liberismo classico viene definitivamente fatta esplodere dallo sconvolgimento, politico ed economico, successivo alla prima guerra mondiale, in un contesto politico mondiale stravolto dalla nascita della Russia Sovietica, fino al drammatica depressione del 1929

·      Le due contrapposte scuole di revisione critica del liberismo classico della mano invisibile del mercato e del laissez faire, quella utilitaristica benthaniana e quella concorrenziale spinta spenceriana, si fronteggiano sulle rovine della “grande crisi” dando origine ad una loro radicale innovazione ed evoluzione

·      I nuovi scenari teorici liberali hanno negli States il loro primo compiuto delinearsi con l’affermazione della scuola di pensiero, il “New Deal”, inscrivibile, sotto alcuni punti di vista nel filone utilitaristico, ma con evidente profonde innovazioni (al punto che negli Usa la stessa denominazione “liberal” giunge, con una giravolta completa a “sinistra”, a denominare idee e protagonisti di una totale revisione del liberismo/liberalismo classico di destra)

·      Al centro di questo pensiero economico e sociale (Raynard Keynes 1883-1946) sta la constatazione dell’incapacità del liberismo classico di fornire risposte alle domande poste dalla grande crisi; Keynes in effetti non rimette in discussione il liberismo nel suo complesso, ma ne attacca la deriva dogmatica del rifiuto al ruolo attivo dello Stato; al quale spettano, invece, interventi in tutti quei campi, settori, problemi, che l’iniziativa privata non affronta

·      Occorre puntare ad un controllo delle forze economiche presenti sul mercato proprio per scongiurarne l’esplosione; lo Stato non solo può intervenire nella sfera economica, ma deve farlo per sorreggere l’azione del mercato; la libertà di commercio e di proprietà smettono di essere un fine per divenire dei mezzi tra gli altri

·      La constatazione che il progresso economico ha cancellato l’utopico gioco concorrenziale fra liberi individui di smithiana memoria implica la necessità di azioni riequiibrative della molteplicità di relazioni contrattuali, economiche e sociali, che si sono create con lo sviluppo capitalistico

·      Keynes con Leonard Hobhouse (1864-1929) - John Dewey (1859-1952) ed il movimento inglese dei “fabiani” (tra gli altri J.B. Shaw-Virginia Wolf-H.G. Wells) sono i rappresentanti più eminenti di un movimento, interno al liberismo, che nella prima metà del novecento pone quindi lo Stato, l’azione di governo, al centro dell’economia, del mercato, della società.

·      In parziale contrapposizione a questo movimento si muove Karl Polanyi (1886-1964) per il quale, evidenziando come gli Stati liberali, nel corso di tutto il 1800, siano oscillati fra interventi che creavano spazi al mercato ed altri che lo limitavano , la problematica del ruolo dello stato deve essere distinta dal confine fra Stato e mercato,

·      Polanyi ritiene che il mercato si sia affermato quando è riuscito a creare una serie di fattori economici, innanzitutto uomini che per sfamarsi sono costretti a vendersi come lavoratori, piuttosto che elementi della natura (minerali, acqua come forza, etc.)

·      Ma tale affermazione si è concretizzata solo quando lo Stato ha definito un quadro legislativo e di potere, e ciò è avvenuto nella fase del liberismo classico di Smith

·      Tali interventi a favore del mercato hanno, inevitabilmente, dato origine ad una più ampia azione dello Stato fino a vederlo come regolatore dello stesso; ma con l’assurdità che se il primo ruolo di creatore del laissez-faire era studiato e voluto, il secondo ruolo di limitatore del mercato è invece avvenuto con un percorso spesso spontaneo e inconsapevole

·      Le stesse politiche del New Deal vanno quindi, a suo avviso, viste come la replica, molti decenni dopo Smith, del ruolo di ri-creazione del mercato, ormai soffocato dalle tendenze monopolistiche nate con il grande sviluppo economico;

·      Questa distinzione teorica all’interno del New Deal non pare abbia inciso in modo significativo, in quanto non esistono solo interventi dello Stato per creare mercato o per proteggere la società dagli eccessi di mercato, esistono gli interventi per il “funzionamento del mercato”, di fatto quelli concretamente messi in atto dalle politiche keynesiane, la rivalutazione del ruolo dello Stato, al quale sono affidati interventi nel cuore dei meccanismi economici e produttivi: politiche salariali, politiche industriali, sostegni diretti ed indiretti ai settori privati, settori pubblici (armamenti, infrastrutture, etc.) motori in proprio di sviluppo economico.

·      Ma sono comunque aspetti di una governamentalità che non incide sulla natura profonda del mercato capitalistico per quanto affianchi a quello del privato un ruolo attivo del pubblico, dello Stato

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Seconda parte – La rifondazione intellettuale

prime manifestazioni della svolta neoliberista

______________________________ Capitolo 6  _______________________________________

·         Crisi del 29, New Deal, ruolo attivo dello Stato nelle economie occidentali, riformismo sociale, socialismo, e poi comunismo, fascismo e nazismo, eredità geopolitiche del secondo conflitto mondiale, allargamento planetario dei mercati: sono queste le sfide storiche che impongono al liberalismo di reinventarsi verso la metà del Novecento; la risposta a queste sfide matura in campo intellettuale attraverso due passaggi topici: il convegno Walter Lippmann tenuto a Parigi il 1938 e la fondazione delle Società del Monte Pellegrino avvenuta nel 1947; non solo due distinte tappe, ma due diversi modi di concepire il rilancio del liberalismo

·         Il convegno Lippmann raduna le maggiori figure intellettuali liberali per discutere delle prospettive del liberalismo; lo spunto è offerto dalla pubblicazione del libro “La giusta società” di Walter Lippmann (1889-1974); è organizzato da Louis Rougier (1889-1982)

·         Si innesta fra i presenti al convegno una netta divergenza sulle prospettive da seguire che deriva da una altrettanto netta diversa individuazione delle cause della “crisi del capitalismo” avvenuta fra le due guerre mondiali ; da una parte coloro che, vedendo la causa della crisi nel tradimento dei principi del liberalismo, propongono un rilancio del laissez-faire contro ogni ingerenza dello Stato, dall’altra quelli, Lippmann in testa, che, individuando la causa della crisi proprio in alcuni fondamenti errati del liberalismo classico, ne propongono una profonda revisione in nome dell’interventismo liberale dello Stato

·         Per Rougier il liberalismo classico sbaglia nel ritenere l’economia un piano a sè e nello scambiare le regole di funzionamento del sistema sociale come regole naturali intangibili, con il conseguente primato dell’economia sul politico; immagina quindi un liberalismo attivo che sappia creare un ordine politico/legale in grado di favorire la libera concorrenza

·         Lippmann condivide questa impostazione; precisa che le idee classiche del liberalismo, si siano presto trasformate in rigidi dogmi, fino al punto di ritenere l’economia di mercato una zona franca rispetto all’azione legislativa

·         Ambedue ritengono che l’illusione naturalistica abbia portato il liberalismo classico a rifiutare ogni interferenza dello Stato sull’economia, sottovalutando il ruolo della azione giuridica proprio nella creazione e difesa del mercato ed  oppongono una rivalutazione del ruolo legislativo, con un conseguente interventismo giuridico da non confondersi con l’interventismo amministrativo

·         Lo Stato non deve temere di intervenire anche per “oliare” gli ingranaggi dell’economia, il capitalismo di concorrenza non è un prodotto naturale ma una creazione che richiede una regolazione costante; l’unico criterio che divide interventi legittimi, e necessari, da quelli illegittimi è il rispetto assoluto della concorrenza; si recupera quindi l’utilitarismo benthaniano ma inserito nella parte più sana del concorrenzialismo spenceriano

·         La parola fondamentale che Lippmann attribuisce al liberalismo è “adattamento” ad un ordine economico in continua evoluzione, ad una concorrenza, ineliminabile, spietata e generalizzata; all’adattamento in campo economico deve far seguito quello dei modi di vita e di mentalità;

·         L’adattamento obbliga lo Stato ad un intervento continuo, perché era un’illusione, quella del liberalismo classico, di ritenere che a ciò provvedesse la mano invisibile del mercato, perché se il capitalismo impone cambiamenti permanenti nell’economia, gli uomini non si adattano, né spontaneamente né immediatamente, a tali mutamenti

·         La politica del nuovo liberismo deve quindi puntare a modificare l’uomo stesso; al quale devono essere destinate politiche specifiche di modernizzazione e adeguamento/adattamento, politiche di riforme sociali, dall’istruzione, che deve preparare le masse allo spirito concorrenziale capitalistico, all’eugenetica, alla difesa delle relazioni sociali di comunità

·         Lippmann considera la Legge in modo pragmatico, come una regola generale per governare i rapporti tra gli individui, una modalità di organizzazione sociale in grado di conciliare i diritti individuali; il punto centrale in Lippmann è proprio la sua idea dello stretto rapporto tra fattori economici e sistema legislativo, in cui è quest’ultimo a svolgere il ruolo decisivo

·         Lippmann aggiunge inoltre che solo un Governo forte può assolvere l’impegnativo compito legislativo così concepito; ed il Governo può essere affidato solo ad una elite altrettanto forte ed al di sopra degli istinti impazienti delle masse, capace quindi di sfidare l’eccesso di influenza del voto popolare

______________________________ Capitolo 7  _______________________________________

·      La componente tedesca, che al convegno Lippmann condivide la critica al dogmatismo del liberalismo classico e che svilupperà idee in grado di indirizzare le politiche economiche della Germania del secondo dopoguerra, prende il nome di ordoliberalismo = liberalismo+ordine costituzionale e procedurale (scuola di Friburgo = Walter Eicken 1891-1950 – Franz Bohm 1895-1977)

·      Per loro la necessità tedesca di ricostruire dopo il nazismo l’economia di mercato si coniuga con l’obiettivo di ricreare uno Stato di diritto, sulla base dell’assunto che l’economia di mercato e la democrazia politica non hanno nulla di naturale, come riteneva il liberalismo classico, ma sono frutto di un artificio, di un quadro giuridico-politico; da qui deriva la loro grande attenzione all’ordine, alle regole del gioco istituzionali

·      Resta ferma la convinzione, maturata anche per gli eccessi statalisti del nazismo, che alla base dell’economia di mercato debba esserci la libera scelta di ogni individuo, garantita da una corretta politica statale; il libero gioco economico a sua volta crea e legittima il diritto pubblico

·      Il solo supporto all’economia non è sufficiente a definire il ruolo dello Stato che deve porsi una chiara missione sociale, sulla base del principio di sussidiarietà (principio cattolico rispettoso delle gerarchie sociali e promotore di politiche assistenziali)

·      L’economia di mercato resta ovviamente la forma economica ideale, ma è un mercato basato non più sul libero scambio ma sulla libera concorrenza e, tramontata ogni illusione naturalistica, istituzionalizzato all’interno dello Stato

·      L’ordoliberalismo è tutt’altro che ostile all’interventismo statale, questi interventi devono però essere rispettosi della libera concorrenza ed al tempo stesso finalizzati a realizzare l’ordine costituzionale, non regolamentatori ma ordinatori, non invasivi sul libero gioco dei prezzi  (in questo senso sono critici verso l’interventismo keynesiano)

·      Questo libero gioco della concorrenza e dei prezzi portano al centro della scena economica il consumatore, i cui interessi, di fatto contrapposti a quelli protezionistici dei produttori, regolano il libero svolgimento del mercato

·      Lo Stato di diritto prefigurato dall’ordoliberismo si fonda proprio sulla figura del consumatore, definendo così l’aspetto sociale del mercato, fino a sintetizzarsi proprio nella formula di un’economia sociale di mercato

·      Lo Stato, interventista nei termini suindicati, deve avere al centro della propria azione la difesa del consumatore, al fine di renderlo capace di esercitare sempre il suo ruolo regolatore del mercato, anche mediante politiche che lo tutelino dal crescente gigantismo del capitalismo

·      In questo sta il limite interno dell’ordoliberlismo troppo oscillante tra opposizione alle logiche oligopolistiche del mercato e  idealizzazione  della figura del consumatore –microimpresa, realizzata proprio dallo/nello stesso mercato, da una parte improntato al darwinismo sociale della libera concorrenza, base del mercato, dall’altra ipotizzante uno Stato sociale che si prende cura dell’individuo dalla culla alla tomba

 

______________________________ Capitoli 8 e 9 _______________________________________

·      In una posizione solo inizialmente vicina a quella del nuovo liberalismo di Lippmann e Rougier e dell’ordoliberismo tedesco si pone l’opera di Ludwig Von Mises (1881-1973) per molti versi il primo vero teorico del neoliberismo contemporaneo e della concezione dell’uomo imprenditoriale

·      Già al convegno Lippmann Von Mises si era schierato contro ogni ipotesi di interventismo statale, ritenendo che più lo Stato interviene più crea problemi, per risolvere i quali accentua il suo interventismo fino ad avviare una spirale ingestibile

·      Questa posizione radicale poggia sull’idea di due processi di senso opposto: l’intervento dello Stato che crea individui “viziati” – il mercato che crea imprenditori creativi, lo Stato in sostanza non può pretendere di sapere meglio degli individui ciò che è bene per loro

·      Si affina con Von Mises l’idea del mercato inteso, diversamente dall’equilibrio ideale del liberismo classico, come un processo di modifica costante che trasforma continuamente le condizioni economiche e con esse la natura dei soggetti economici

·      L’istinto umano è di avere uno scopo, cioè un piano individuale di azione, degli obiettivi, esattamente come se fosse un’impresa, ed il mercato agisce su di esso come processo di formazione esattamente in questa direzione

·      In questo quadro la limitazione al ruolo dello Stato non poggia più né sui diritti individuali naturali né sulla prosperità generale creata dall’iniziativa individuale ma sulla indispensabile necessità di non rovinare il corretto svolgersi di tale processo

·      Le idee di Von Mises sono riprese ad ampliate da Friedrich Von Hayek (1899-1992), che precisa innanzitutto il ruolo fondamentale della conoscenza per i processi economici: nessuno può sapere tutto, e lo Stato non può, anche volendo, garantire a tutti le stesse conoscenze, nel mercato vincono gli individui che sanno utilizzare meglio degli altri le conoscenze, seppur parziali, di cui dispongono

·      La limitazione all’intervento dello Stato trova quindi in Von Hayek una più specifica ragione: ogni individuo si muove, per utilizzare le conoscenze che ha, come un libero imprenditore, uno Stato interventista diventa di fatto un limite autoritario alla libertà di movimento dell’individuo/imprenditore

·      Il libero processo di mercato non è nient’altro che una serie continua di scoperte che fanno uscire dall’ignoranza l’individuo/imprenditore; queste scoperte avvengono in modo casuale, spontaneo, non sono pianificabili come presuppone la concezione pianificatrice statale; la battaglia diventa quindi quella di eliminare ogni interferenza statale nel libero percorso di scoperta fatto dall’individuo/imprenditore; non si tratta quindi soltanto di valorizzare la funzione economica dell’imprenditore ma di garantire la piena espressione della sua soggettiva facoltà imprenditoriale

·      Sia Von Mises che Von Hayek non si muovono pertanto solo sul piano strettamente economico, ma spostano la battaglia sul piano ideologico, rifondano l’ideologia liberistica su basi adattate all’evoluzione del mercato capitalistico moderno

·      La valorizzazione teorica dell’individuo/imprenditore trova un parallelo riscontro nelle  idee di Joseph Schumpeter (1883-1950) espresse nella sua opera “Teoria dell’evoluzione economica”: il mercato si sviluppa con un processo di continue discontinuità create dal crescere delle conoscenze e delle tecniche che solo alcuni individui/imprenditori sanno comprendere ed utilizzare

·      Deve essere però chiaro che il limite posto all’interventismo statale, delineato dalla somma delle teorie di Von Mises, Von Hayek e Schumpeter, che si affermano compiutamente negli anni sessanta-settanta del secolo scorso, non punta all’aspetto quantitativo delle pubbliche attività ma alla loro natura; la comune opposizione al ruolo sociale dello Stato  trova specie in Von Hayek una fine precisazione: lo Stato, e gli economisti alla Keynes, ritengono possibile un suo ruolo in quanto giudicano il mercato un ordine sociale artificiale, ossia il risultato dell’azione umana, contrapponendosi alla precedente idea del liberismo classico del mercato come fatto naturale, Von Hayek lo reputa invece un ordine spontaneo, né artificiale né naturale, in quanto frutto di azioni non guidate da uno specifico disegno umano

·      L’ordine spontaneo del mercato si porta dietro tre precise conseguenze:

Ø  esso ha una valenza generale =non è l’economia in senso stretto che è mossa dagli interessi individuali, ma l’intero contesto sociale

Ø  esso può funzionare perché poggia su regole formali che valgono proprio perché generali

Ø  la società tutta va intesa come un ordine spontaneo

·      Von Hayek precisa che le regole formali che reggono l’ordine spontaneo sono regole di condotta, che si sono progressivamente incorporate nella tradizione e nei costumi ancor prima che nelle Leggi, mentre quelle che reggono il diritto pubblico sono regole di organizzazione; il limite al diritto pubblico, e quindi al ruolo dello Stato, trova anche in questo una sua ragione

·      Siamo lontani dalla classica concezione della via giuridico-deduttiva dei diritti naturali, ma anche da quella della via radicale-utilitaristica in quanto la questione in discussione non è l’efficienza, l’efficacia utilitaristica dell’intervento statale, ma la sua legittimità; ne consegue che i diritti dell’individuo/imprenditore non derivano da una idea del legislatore/Stato, al contrario il legislatore/Stato deve accettare di muoversi come un singolo nell’ambito di un sistema giuridico governato dal Diritto Privato, esso può quindi ledere la sfera privata dell’individuo/imprenditore solo questi viola le regole generali della buona condotta

·      Resta comunque affidato allo Stato, se gli sono quindi negate azioni coercitive verso l’individuo/imprenditore, il diritto/dovere di azioni non coercitive, quali la fornitura dei servizi, sempre che non invadano sfere di competenza attribuibili anche all’individuo/imprenditore

·      Una particolare conseguenza del ritiro dello Stato dal libero gioco del mercato è la possibilità che crescano i conflitti fra individui/imprenditori; lo Stato torna allora in gioco come arbitro di regole del gioco pre-concordate e condivise; più arretra l’azione amministrativa statale più può quindi crescere quella giudiziaria; in questo senso nel pensiero di Von Hayek lo Stato deve essere un organo “forte”, lontano dal laissez-faire esso può al limite scavalcare alcuni comuni limiti della democrazia liberale

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Terza parte – La nuova razionalità

la governamentalità neoliberista

______________________________ Capitolo 10  _______________________________________

·      Gli anni ottanta segnano la grande svolta, è il trionfo del neoliberismo; si afferma una strategia complessiva che affida allo Stato il ruolo disciplinare di attore e guardiano della piena applicazione dei valori neoliberisti

·      Questa strategia non ha, al suo nascere, una cabina di regia, è lo stesso insieme delle scelte che man mano si affermano ad imprimere una direzione globale

·      Al riguardo esistono due fraintendimenti: vedere la grande svolta solo come trasformazione dell’economia piuttosto che solo come applicazione di una organica teoria economica

·      In effetti il programma politico della Thatcher e di Reagan, poi imitato su scala mondiale e adottato come linea guida da FMI e Banca Mondiale, parte come risposta ad una situazione di crisi nel ciclo economico che si manifesta a metà anni settanta; l’onda lunga delle rivendicazioni degli anni sessanta creano un clima giudicato da destra come un “eccesso di democrazia” , un timore che si collega con la fine della capacità innovativa della produzione fordsta; un forte tasso di inflazione e un elevato livello di disoccupazione, che interessano tutte le economie occidentali, mettono in crisi le politiche keynesiane e servono da prima giustificazione al cambiamento

·      La svolta inizia nell’ambito delle politiche monetarie con fortissimi aumenti dei tassi di interesse (antiinflazionistici) ed in breve si espande con l’abbandono dell’indicizzazione dei salari ed un vasta compagna di privatizzazioni volta a ridurre, se non eliminare, il ruolo sociale dello Stato

·      Si afferma in modo quasi strisciante, ma via via sempre più marcato e sempre più diffuso, anche per le imposizioni sugli Stati deboli attuate da FMI e Banca Mondiale, fino ad essere adottata da Partiti storicamente di sinistra, una deregolamentazione dell’economia basata sul principio della concorrenza , in sintesi, così articolata:

Ø  liberalizzazione finanziaria

Ø  globalizzazione della tecnologia

Ø  completa liberalizzazione dei cambi valutari

Ø  privatizzazione settore bancario

Ø  creazione moneta unica europea

Ø  modifica delle regole di controllo delle imprese (fine capitalismo familiare, avvento potere management più legato ai risultati azionari che alla produttività)

·      Il risultato, più correttamente, non può essere definito come deregolamentazione ma come nuovo ordinamento delle attività economiche, così come non è corretto definire questo nuovo capitalismo semplicemente come capitalismo finanziario

·      Favorito dall’indebolimento delle dottrine di sinistra, e dal crollo di ogni alternativa al capitalismo (1989 fine del blocco sovietico) ha svolto un ruolo fondamentale il consolidamento progressivo di una ideologia neoliberista con al suo centro la lotta ideologica contro lo Stato (celebre è lo slogan coniato da Reagan “il governo non è la soluzione, è il problema”) e l’apologia senza riserve del capitalismo più sfrenato; alle opere ed al pensiero dei Von Mises e Von Hayek si è aggiunto il ruolo di George  Stigler (1911-1991) e Milton Friedman (1912-2006), creando a cavallo degli anni ottanta/novanta una organica scuola di pensiero che ha colonizzato l’intero dibattito economico in tutto l’occidente

·      La vittoria (senza avversari) della ideologia neoliberista trova terreno fertile per affermarsi nella diffusa, e trasversale, avversione verso lo Stato cresciuta per i limiti crescenti incontrati dalle politiche keynesiane, per l’incapacità dei vari governi (e della politica in generale) di gestire in modo efficiente lo stato sociale, per la conseguente avversione tout-court verso la fiscalità pubblica

·      L’attacco frontale contro il ruolo dello Stato non poggia solo sugli aspetti contabili/fiscali, Friedman e soci ne denunciano soprattutto le conseguenze morali: lo Stato sociale distrugge le virtù della società civile: il senso del lavoro ben fatto e l’impegno personale; non è il mercato che divora la società con “l’avidità del guadagno” ma è lo Stato che smorza la moralità individuale; questa critica neoliberista poggia sul postulato che i meccanismi di solidarietà e sostegno propri del Welfare deresponsabilizzano l’individuo  che si adagia sulla certezza della sopravvivenza sociale ed economica; occorre quindi rimettere in moto i meccanismi del calcolo individuale, della lotta concorrenziale, del rischio come standard di vita

·      In questa fase di avvento della scuola neoliberista non sono quindi tanto i problemi di deficit statale a muovere la lotta allo Stato ma proprio questa rivalutazione ideologica del rischio, della concorrenza di tutti con tutti

·      Con una progressiva definizione teorica, andando quindi oltre Von Mises e Von Hayek,  il pensiero neoliberista estende l’analisi economica (costi-benefici), usata per valutare la convenienza dell’intervento statale, e la  trasferisce al comportamento individuale; questo è il presupposto fondamentale sul quale sono state create, a partire dagli anni ottanta, dispositivi organizzati per plasmare la condotta individuale

·      Il concetto di governamentalità diventa decisivo per comprendere il senso delle azioni sulle sfere individuali (condotta delle condotte) messe in atto, in questo quadro, dal neoliberismo; il cambiamento così radicale, prefigurato in modo sempre più lucido dal neoliberismo, non poteva avvenire solo per costrizione, occorreva riprendere il controllo dei desideri individuali per orientarli in una precisa direzione: la logica del mercato

·      Queste azioni, definibili come “discipline”, prevedono e richiedono tre aspetti

Ø  quadro stabile di mercato: il calcolo individuale deve poter contare su una stabilità

Ø  estensione delle situazioni di mercato: ciò implica per l’individuo l’obbligo di scegliere

Ø  mercato come unica regola del gioco

·      Milton Friedman, capofila della scuola di Chicago (i Boys), fondatore del monetarismo (le politiche monetarie attive sono inefficaci), Nobel per l’economia, è il principale pensatore di questo insieme di discipline, che ha alla sua base l’introduzione di vincoli di mercato che forzino gli individui ad adattarsi ad esse

·      La stessa critica alla “eccessiva rigidità del mercato del lavoro”, cavallo di battaglia del neoliberismo, non punta solo a creare un nuovo controllo del mercato del lavoro, ma contemporaneamente mira ad accrescere la concorrenza fra lavoratori proprio per piegarli, adattarli, alle nuove discipline

·      Il principio della massima concorrenza diventa un totem, e si accompagna alla collegata, celebrata, “libertà di scegliere”;  sul mercato ogni individuo è solo, la sua unica arma è di saper scegliere, e lo Stato deve assumere come fine fondamentale l’estensione della concorrenza

·      Non meno importante, in questo quadro crescente di principi teorici e poltiche concrete, è stata l’attenzione alle logiche produttive, la massima ottimizzazione di ogni centro di lavoro, la creazione di sistemi di incentivazione e sanzione, mediante forme raffinate di autocontrollo  auto-attivate da ogni singolo lavoratore; la leva della precarietà e della disoccupazione sono gli strumenti principali usati per raggiungere questi scopi e per introdurre la forma mentis che l’individuo deve muoversi nel mercato concorrenziale usando al meglio il capitale umano che possiede

______________________________ Capitolo 11   _______________________________________

·      Il crescente successo planetario di queste discipline neoliberiste è agevolato dalla loro assunzione da parte della sinistra in molti paesi occidentali: rinnegando i valori storici dell’interventismo sociale statale Delors e Raymond Barre in Francia, Tony Blair e Anthony Giddens in Gran Bretagna, Gerhard Schroeder in Germania, fanno propria la razionalità neoliberista, spingono la sinistra a muoversi nel quadro imposto dal neoliberismo giudicato irreversibile

·      E non regge l’affermazione della sinistra europea di una presunta eccezione europea all’avanzata del neoliberismo, di una sua capacità di attuarlo e gestirlo con finalità “di sinistra”; alla base della costruzione dell’Europa si ritrovano infatti le teorie ordoliberali strettamente connesse, come si è visto, al neoliberismo; tutti i Trattati costituenti l’Europa sono indubitabilmente protesi a creare le condizioni per il pieno affermarsi del concorrenzialismo, con l’aggiunta di linee-guida per un programma di riforme mirato alla flessibilizzazione di prezzi e salari, alla riforma delle pensioni, alla promozione dello spirito d’impresa, allo smantellamento del welfare; basti pensare all’Art. 3 della Costituzione Europea che formula l’obiettivo apertamente dichiarato di creare un’economia sociale di mercato, parola d’ordine base fondamentale nella concezione ordoliberalista,  sussidiata da una Banca Centrale preposta a garantire la stabilità dei prezzi

·      Dagli anni ottanta in poi è la Germania il motore della costruzione europea su basi ordoliberali; una Germania che presenta al suo interno un quadro complesso, da una parte l’adesione convinta dei due partiti maggiori all’economia sociale di mercato, la CdU fin dai primi anni cinquanta, l’SpD a partire dal Congresso di Bad-Godesberg del 1959, dall’altra la persistenza di un modello capitalistico, cosiddetto “renano”, che poggia su una politica di cooperazione tra padronato e sindacato e che ha radici più antiche nello statalismo bismarckiano; questo tratto caratteristico mantiene un suo equilibrio grazie alla sostanziale adesione ai principi dell’ordoliberismo non solo da parte dell’SpD ma anche da parte dei maggiori sindacati, in primis la DgB

·      Nell’ultimo decennio, andando oltre l’inflessibilità tedesca nell’applicazione delle regole di disciplina che limitano le politiche di budget degli Stati membri, si è addirittura affermata una concezione oltranzista rispetto ai principi ordoliberali dell’economia sociale di mercato recepita da Trattati e Costituzione: sembra prendere forma una concorrenza fra gli stessi sistemi istituzionali, il principio base della concorrenza, nato nell’ottica dei mercati interni, si è evoluto, nell’ambito del mercato comune europeo, nella concorrenza fra Stati, che, pur aderente ad una visione potenzialmente unificante il mercato europeo, adottano politiche fiscali, comprensive di varie agevolazioni, per attirare investitori a danno degli altri Stati membri

·      Non è più, in questa evoluzione, la legislazione europea che crea e diffonde la concorrenza, ma al contrario è la concorrenza, ormai padrona completa del campo, che modella la legislazione; sullo sfondo si è a lungo intravista una convergenza tra ordoliberismo di matrice tedesca e neoliberismo americano; ma non è un processo completato, anzi, la crisi del 2007-2008 sta ridando fiato all’ordoliberismo di prima maniera, quello che affida alla legislazione il ruolo primario di realizzazione, ma anche di controllo della libera concorrenza, contro la de-regulation totale neoliberista che affiderebbe alle istituzioni esclusivamente un ruolo sanzionatorio verso quegli Stati membri non allineati ai principi della totale libera concorrenza; e la sinistra europea di governo sembra essersi realizzata unicamente con l’adesione a questa visione

______________________________ Capitolo 12   _______________________________________

·      Si è già visto che anche nella sua versione più estrema il neoliberismo non proclama la totale assenza dello Stato nel mercato, ma si distingue per la sua concezione della natura del ruolo dello Stato e dei suoi margini di intervento

·      Partendo dalla critica di mancanza di efficacia rivolta allo Stato il neoliberismo pone ad esso l’obiettivo di mantenere una presenza nel mercato, quando questa non sia in contrasto concorrenziale con il privato, improntata alla efficacia manageriale: se lo Stato intende riformare la società in senso concorrenziale deve egli stesso piegarsi alle regole di efficienza delle aziende private, siamo quindi molto lontani dal semplice parametro bethaniano della utilità dell’azione statale, in gioco è la piena applicazione della governamentalità neoliberista allo Stato così come ai singoli individui

·      Il termine, di recente adozione, che misura l’efficienza dell’intervento statale, è diventato la sua capacità di esercitare una adeguata governance nei settori in cui è ancora chiamato ad intervenire; lo Stato non viene più giudicato per la sua efficacia nell’esercizio della sovranità, così come prevedeva la concezione classica, ma per la sua good governance

·      Così come i manager delle aziende sono sorvegliati e valutati dagli azionisti, allo stesso modo gli Stati sono sottoposti al controllo della comunità finanziaria internazionale tramite le agenzie di rating, i veri “padroni” degli Stati diventano in questo modo i cosiddetti “stakeholders” (azionisti portatori di interessi) ossia creditori/investitori interni ed esterni

·      Se la governance si concretizza nella capacità di governare i vari fattori/attori che agiscono in un determinato contesto economico/produttivo appare evidente che, abbinando questo aspetto al ritiro dello Stato dai settori appetiti dal privato, la good governance dello Stato consiste nell’essere più stratega che produttore diretto di servizi, ed ovviamente gli ambiti nei quali è chiamato ad esercitarla sono tutti quelli funzionali a creare supporto al libero mercato (ricerca, trasporti, urbanizzazioni, educazione, etc.)

·      In generale si può dire che la governance dello Stato neoliberista, misurata nei termini di costi-benefici, è applicata, e valutata in termini di good/bad, nella trasformazione di tutti i settori nei quali è chiamato ad operare, come risorse aggiuntive per le imprese

·      Lo Stato neo liberista quindi non si ritira, ma si piega alle condizioni concorrenziali che ha contribuito a creare; non ha quindi fondamento la presunta refrattarietà degli Stati ad accettare le indicazioni di organismi quali il FMI, il WTO, la Banca Mondiale, la stessa Commissione Europea; sono tutti organismi creati e sostenuti dagli stessi Stati

·      Si tratta in effetti di un vero e proprio (auto)trasferimento di potere dal singolo Stato a questi centri di potere ibridi, in parte privati in parte pubblici, nei quali tuttavia il privato vince, non perché in possesso di quote maggioritarie, ma perché è totale l’adesione, anche della componente pubblica, ai principi neoliberisti della governamentalità

·      Ovvio quindi che il management privato sia per definizione migliore dell’amministrazione pubblica, che il privato sia più reattivo, più innovatore, più efficace, più specializzato, non fosse altro che per il fatto che non deve dipendere dal gioco dell’opinione pubblica; la battaglia contro gli sprechi della spesa pubblica è stata, in questo quadro la testa di ponte, anche all’interno della stessa opinione pubblica, per uniformare il pubblico al privato

·      Uniformazione che si è articolata, anche riprendendo concetti e proposte dell’utilitarismo benthaniano, lungo le due direttrici già usate per imporre la governamentalità nel settore privato: pratiche di misura, ossia di contenimento e repressione, e pratiche di incentivazione, ossia di coinvolgimento attivo

·      Un contributo, importante, nel processo di omologazione neoliberista dell’azione statale è venuto dalla scuola del Public Choice (linea d’azione pubblica), con sede nella University of Virginia e con capifila James Buchanan (1919-2013) e Gordon Tullock (1922-2014), che sostiene l’uniformità del comportamento umano e quindi, su questa base, l’omogeneizzazione, teorica e pratica, del funzionamento dello Stato e del mercato

·      La Public Choice, peraltro confortata dalla diffusa approvazione alla sua denuncia dei danni innegabili provocati dalla burocratizzazione e soprattutto dalla rivolta fiscale (il rifiuto degli strati benestanti, ma non solo, di livelli di prelievo atti a sostenere la spesa pubblica), idealizza  il funzionario pubblico che agisce con la stessa mentalità e gli stessi valori di un operatore privato; le politiche riformiste dell’azione pubblica devono tendere a realizzare questo obiettivo scontrandosi con l’alleanza elettorale (c’è in questo una profonda avversione, simile a quella di Von Hayek, per la democrazia rappresentativa) tra burocrati, beneficiati e politici

·      I due binari lungo i quali si è snodata la riforma neoliberista della pubblica amministrazione sono quindi da una parte la privatizzazione dei settori appetibili dalle imprese private, sulla base della loro presunta efficienza, dall’altra l’applicazione di logiche e metodi imprenditoriali nei settori rimasti, magari provvisoriamente, a gestione pubblica

·      Il libro che ha meglio sintetizzato l’insieme delle nuove pratiche governamentali applicate al settore pubblico è “Reinventing Governement” di David Osborne (1964) e Ted Gaebler (1959): il minor prelievo fiscale, la conseguente riduzione delle risorse, obbligano il pubblico ad agire concorrenzialmente vedendo l’utente come consumatore da conquistare; su questa base essi definiscono i criteri che guidano il nuovo modo di agire del pubblico il governo imprenditoriale

·      La retorica dell’efficientamento della macchina statale, ovvero l’applicazione della concorrenza anche allo Stato, è, a partire dagli ultimi decenni del 1900, patrimonio comune della destra e della sinistra, della Tatcher piuttosto che di Blair, di Reagan ma anche di Clinton

·      Provvedimenti legislativi varati in tutti i paesi dell’Occidente, da governi di destra e di sinistra, hanno applicato i criteri del governo imprenditoriale trasformando scuole, ospedali, tribunali e commissariati, università e scuole, in “imprese” che devono rispondere alle regole dell’efficienza concorrenziale

·      La cultura del risultato, applicati in tutti questi settori pubblici, implica di fatto la sostituzione delle finalità sociali con il risultato economico, applica semplicemente una forma di razionalità concorrenziale importata dall’economia

______________________________ Capitolo 13   _______________________________________

·      Quanto hanno inciso tre secoli di capitalismo sulla natura umana? Che uomo si viene prefigurando con l’avvento del neoliberismo? In cosa si concretizza l’uomo competitivo, l’uomo fatto impresa?

·      Agli albori del capitalismo nell’individuo occidentale coesistevano tre dimensioni: quella del retaggio culturale, rurale e in gran misura cristianizzato, dei secoli precedenti, quella della identificazione negli Stati nazionali, e quella che gli veniva fornita dal mercato del lavoro e della produzione

·      Le democrazie liberali hanno in estrema sintesi garantito, protetto questa eterogeneità, muovendosi tra due spinte: la democrazia politica ed il capitalismo con la progressiva prevalenza della seconda ed il formarsi di una logica dei rapporti umani sottomessa al principio del profitto

·      La forma assunta da questa logica è la contrattualizzazione dei rapporti umani, il contratto, in primis quello di lavoro, di vendita di sé stessi, è la forma di tutte le relazioni umane, il nocciolo dell’individualismo moderno, del soggetto produttivo

·      A questo non si è pervenuti con una semplice adesione al principio del mercato, ma con la creazione di un sistema di norme che ha coinvolto tutti gli aspetti dell’umano vivere, dal lavoro allo svago, dal riposo all’abitare, dall’educazione dello spirito al controllo del corpo; Foucault definisce questo sistema “dispositivo d’efficienza”,

·      Questo dispositivo, partito dalla pluralità delle tre dimensioni di cui sopra, si è scontrato strada facendo con l’incidenza delle spinte nazionalistiche, il concetto di patria, piuttosto che delle opposizioni sociali, uscendone però sostanzialmente immutato e vincitore; nel loro progressivo definirsi le regole della democrazia politica hanno comunque quantomeno consentito un minimo di equilibro nei confronti dell’efficientismo capitalistico

·      Il neoliberismo interviene per ultimo su questo equilibrio, riprende il sistema del dispositivo d’efficienza per orientarlo in via definitiva e totale, anche grazie al fatto di non avere più alcuna opposizione ed alternativa, all’omogeneizzazione dell’uomo attorno alla figura dell’impresa

·      L’uomo, nella concezione neoliberista, è infatti un individuo che si identifica pienamente nell’attività professionale, che lavora per l’impresa come se lavorasse per sé stesso, che fa confluire nella motivazione professionale la sua attività desiderante, l’intera sfera del desiderio si concentra e si annulla nella professione

·      L’individuo deve quindi tendere alla sua completa realizzazione, accettando che i modi per ottenerla siano quelli della competizione, della concorrenza con gli altri individui, con i rischi connessi di fallimento, la cui responsabilità, inevitabilmente, non può che ricadere unicamente sui suoi personali limiti

·      Si crea così un effetto a catena in base al quale gli individui intraprendenti riproducono a loro volta i rapporti di competizione, innescando un adattamento soggettivo crescente a condizioni che questa stessa mentalità contribuisce costantemente ad inasprire

·      Questa sottomissione individuale al dogma delle concorrenza non è prodotta da una astratta adesione alla ideologia che la sostiene ma è il risultato di tecniche diffuse di controllo, di forzatura delle scelte individuali, di politiche, a partire dagli anni ottanta, mirate a “buttare” l’individuo sul mercato

·      Chi non aderisce alla logica neoliberista, chi non entra nei meccanismi dell’adattamento soggettivo crescente semplicemente paga il prezzo di licenziamenti, riduzioni di salario, rallentamenti di carriera, estromissione totale dal mercato del lavoro

·      Il primo comandamento diventa “aiutati da solo” (self-help); si crea così un collegamento diretto fra la maniera di governare gli uomini, la società, e la maniera dell’individuo di governare sé stesso

·      L’impresa di sé stessi diventa allora la razionalizzazione del desiderio, l’etica di impresa fa del lavoro il veicolo privilegiato per la realizzazione di sé, del personale bagaglio di desideri

·      E l’impresa vera e propria altro non diventa, altro non è, se non un’entità composta dalle piccole imprese individuali dei suoi addetti, annullando così la stessa concezione di lavoratore dipendente; si lavora su sé stessi, sulla padronanza di sé, sul proprio adattamento alle regole della concorrenza per il lavoro, per potenziare, così facendo, quelle dell’impresa; si afferma in modo strisciante ma inarrestabile la convinzione che se il mercato globalizzato appare immodificabile, l’individuo può solo più modificare sé stesso

·      La creazione neoliberista dell’individuo imprenditore di sé stesso, da una parte ottenuta anche grazie ad esse, fornisce al contempo una giustificazione condivisa alle politiche di smantellamento dello stato sociale,

·      Essere imprenditori di sé stessi comporta in primo luogo l’accettazione del concetto base di “rischio”, l’impresa rischia, l’individuo impresa rischia allo stesso modo; Ulrich Beck (1944), constata che il neoliberismo, così facendo, ha demolito la dimensione collettiva delle esistenze, e che le crisi sociali sono pertanto percepite come crisi individuali, fino al punto di rendere inopportune, se non inesistenti, le soluzioni collettive

·      La costruzione, progressivamente sempre più cosciente, dell’uomo imprenditore è passata attraverso diversi canali, non necessariamente nati con questa finalità, ma sempre più sapientemente adottati e utilizzati dalla governamentalità neoliberista per incidere sugli orientamenti individuali; lo sport, ed il collegato dispositivo di prestazione e la pubblicità, ed il collegato dispositivo del godimento  sono un esempio fondamentale

·      Il culto dello sport nasce agli inizi del 1900, diventa funzionale al controllo di massa del fascismo, del comunismo, del fordismo, e cresce a dismisura, fino a permeare lo stesso lessico diffuso, con la svolta neoliberista degli anni ottanta imponendo il dogma della prestazione a tutte le dimensioni umane, sesso compreso

·      Questo modello di prestazione, ben più di quello della competitività economica, ha reso possibile l’adozione, diffusa ed inconscia, della concorrenza individuale; l’associazione fra dovere della prestazione, simile a quella sportiva, ed il parallelo discorso pubblicitario dellimperativo al godimento, annulla ogni residuo concetto del fare ciò di cui si è capaci e di consumare ciò di cui si ha bisogno; bisogna, come i miti dello sport, spostare sempre più in là i propri limiti e, come invitano le sirene pubblicitarie, consumare tutto il possibile; l’inno dell’uomo imprenditoriale, non a caso derivato dallo sport dove è stato ampiamente adottato , è We are the champions, nel cui testo compare la frase no time for losers, non è tempo per perdenti

·      Il connubio fra dispositivi psicologici e meccanismi economici, fondamentale per l’affermarsi dell’ideologia neoliberista, ha in parte avuto una sorta di iniziale viatico dal mito della libera scelta affermatosi negli anni sessanta come mito di “sinistra”, secondo il quale nulla doveva opporsi alla realizzazione dei desideri, ma ha certamente conosciuto, con il neoliberismo una strumentale accelerazione: dal principio di piacere, freudianamente sempre riconducibile al principio di realtà, si è andati ben  oltre, si è entrati nella sfera infinita del superamento continuo dei limiti

·      L’individuo impresa che ha posto il principio della prestazione al centro della propria esistenza ha inevitabilmente sviluppato evidenti distorsioni psicologiche:

Ø  sofferenze sul lavoro e disagio dell’autonomia = stress – mobbing – indebolimento dei gruppi di lavoro – sensazione di fallimento personale e collegata vergogna sociale – delegittimazione del conflitto (i vincoli ed i problemi sul lavoro sembrano non avere un autore identificabile presentandosi come oggettivi)

Ø  erosione della personalità = la flessibilità istituzionalizzata destabilizza l’individuo, annulla legami stabili, cancella tempi ed orari stabili di vita valorizza solo le competenze spendibili, in un determinato momento, sul mercato cancellando il sapere complessivo dell’individuo e portando inesorabilmente ai margini gli “anziani”

Ø  demoralizzazione = l’obbligo ad atteggiamenti emozionalmente sempre e solo positivi di fatto implica una strisciante insicurezza nella capacità reale del loro mantenimento

Ø  depressione generalizzata = il culto della prestazione genera su larga scala patologie depressive non appena scatta la percezione di non esserne all’altezza; è una sorta di malattia della responsabilità spesso affrontata con il ricorso al vero e proprio doping

Ø  desimbolizzazione = Lacan ha evidenziato l’affermarsi di un discorso capitalista  neoliberista che ha cancellato i tradizionali simboli della precedente capitalismo classico (quello studiato dalla psicanalisi freudiana, oggi cancellata dal neoliberismo); l’identificazione con l’impresa sul piano delle prestazioni e con  i  modelli e logos pubblicitari sul piano del consumo ha cancellato ruoli sociali, parentali, di sesso

Ø  perversione ordinaria = questa sostituzione di simboli crea, per molti psicanalisti, una relazione perversa con l’oggetto; in un mercato globale tutto è merce, tutto si compra, tutto diventa “oggetto”, anche le relazioni, gli altri (la scuola di Francoforte ha definito questo processo “cosificazione”) al punto che l’individuo- impresa quando perde va in depressione quando vince, ossia quando compra, impone su cosa o chi ha comprato il suo diritto di godere senza limiti delle cose e/o di far soffrire gli altri

·      l’umanità neoliberista è così entrata  in un regime di godimento di sé  inteso come aspirazione, irrealizzabile, ad una pienezza totale di successo e consumo, come se tutti fossero padroni o almeno come se tutti pensassero di esserlo; nel mondo basato sulla concorrenza non è più possibile concepire, accettare, di perdere, ma se la perdita è in partenza negata, rifiutata, non esistono più, di conseguenza, limiti al godimento

·      nel capitalismo classico tutti perdevano qualcosa, il padrone la certezza di godere della propria ricchezza messa in gioco nel rischio d’impresa, il lavoratore il proprio tempo e le proprie doti per avere un salario; l’individuo-impresa neoliberista non può più perdere perché è al tempo stesso il lavoratore che accumula il capitale e l’azionista che ne gode

·      performare senza limiti le proprie prestazioni, godere senza limiti dei loro frutti è l’immaginario della condizione umana neoliberista, in sostanza, su ambedue i versanti fra loro collegati,  il delirante godimento di sé

·      è fondamentale capire che non reggono, in questo quadro, le critiche conservatrici,  nostalgiche della vecchia morale capitalistica, all’individuo moderno visto solo come individualista – edonista – narcisista;  il neosoggetto è interamente governato dalla mentalità neoliberista mediante il dispositivo prestazione/godimento, all’interno del quale la prestazione incide alla pari del godimento; il moralismo di destra nostalgico dei bei tempi andati dimentica troppo in fretta questo aspetto

·      non è più sufficiente, di conseguenza, deplorare la crisi di istituzioni sociali (scuola, famiglia, sindacati e partiti) e di valori (cultura, democrazia) occorre invece capire come queste istituzioni, questi valori siano state integrate nel dispositivo prestazione/godimento attraverso vere e proprie tecnologie di controllo (la rete, medicalizzazione, registrazione dei comportamenti) finalizzate alla programmazione degli individui, anche per evitare che il superamento illimitato di sé del neosoggetto neoliberista debordi in comportamenti sociali ingestibili (di cui peraltro abbondano le quotidiane cronache)

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 Conclusioni

·      In sintesi la ragione (la nuova ragione del mondo) neoliberista poggia su quattro cardini:

Ø  il mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, richiede un ruolo attivo dello Stato per la costruzione di un sistema specifico di Diritto

Ø  l’essenza del mercato non è lo scambio, ma la concorrenza, lo Stato ne deve attuare e garantire la piena applicazione

Ø  lo Stato stesso deve essere sottoposto alla concorrenza, il Diritto Pubblico deve essere soppiantato dal Diritto Privato

Ø  il principio della concorrenza vale, oltre che per Imprese e Stato, per ogni individuo, lo Stato deve attuare politiche che realizzino pienamente questa condizione trasformando il singolo in Individuo-Impresa

·      Viene così cancellata ogni separazione tra sfera pubblica e sfera privata fondamento della democrazia liberale; è il rapporto tra governanti e governati ad essere radicalmente sovvertito

·      L’accesso ai servizi pubblici non si basa più sul possesso dello statuto di cittadino titolare in quanto tale di determinati diritti, ma si è trasformato in una normale transazione di mercato dove per avere occorre dare; all’individuo, non più cittadino, la società non deve nulla

·      La “cittadinanza civile” del 1700, arricchita nel 1800 dei requisiti della “cittadinanza politica”, e completata nel 1900 da quelli della “cittadinanza sociale”, sono così totalmente annullate

·      Non esistono più, in un quadro di totale omologazione, differenze fra i vari regimi politici, l’idea stessa che la “democrazia” si identifichi con la sovranità del popolo è messa in discussione; il valore supremo è la libertà individuale intesa come diritto dell’individuo (impresa) di crearsi un proprio autonomo spazio di “proprietà”, la partecipazione diventa ininfluente e la democrazia ridotta ad una procedura di selezione di “dirigenti scelti sulla base di risultati concreti e non di un bagaglio di idee e valori

·      Nell’involucro vuoto della democrazia liberale il neoliberismo è diventato la razionalità dominante, imposta e realizzata tramite la realizzazione progressiva di un dispositivo di controllo totale e strategico (istituzionale, politico, giuridico, economico, morale, psicologico, biologico) in gran parte immune da influenze ideologiche pure al punto che esso può accompagnarsi al neoconservatorismo di destra americano piuttosto che al mito della modernità della sinistra europea

·      La crisi del 2007/2008, lungi dal riproporre il ritorno ad un capitalismo buono, può sancire per la prima volta una necessità di riaggiustamento del dispositivo neoliberista; è possibile che si stia entrando in una nuova fase del neoliberismo, nella quale incidano maggiormente le riflessioni teoriche dell’ordoliberalismo

·      In questa crisi può inserirsi un ruolo di una sinistra degna del nome, a condizione che sappia articolare una proposta politica all’altezza del dispositivo di controllo neoliberista, una governamentalità alternativa a quella neoliberista

·      Occorre uno sforzo notevole, non sono più sufficienti, se mai lo sono stati, appelli a “ritorni”: alla democrazia formale, ad una maggiore impronta sociale, ad una governamentalità socialista di fatto mai esistita; centrale in questo senso è la ridefinizione del concetto di governo; la creazione di una nuova governamentalità alternativa a quella neoliberista richiede un governo degli uomini, attento a non porsi contro il mondo delle cose, ed una amministrazione delle cose, che miri alla libertà degli uomini

·      La storia della concezione di governo propria della sinistra, specie marxista, denota una propensione (mutuata dalle riflessioni svolte al riguardo da Rousseau, da Saint-Simon, da Engels, tutte miranti a fissare una netta separazione fra governo e amministrazione) a privilegiare l’azione amministrativa, legislativa, alla gestione delle cose, come se di per sè stesse fossero in grado di “governare”, su quella di governo degli uomini, delle loro mentalità, in molti casi affidata ad azioni coercitive e di comando; il risultato è stata, finora, la mancanza di una definita governamentalità di sinistra, la quale si è spesso ridotta a “prendere in prestito” quella liberale

·      E non sarebbe comunque sufficiente una ridefinizione di sinistra del governo degli altri, il nemico da battere è la capacità del neoliberismo di creare una governamentalità che agisce in primis sul governo di sé come punto di partenza per il governo degli altri

·      Così come sarebbe un errore immaginare, vedendo nel neoliberismo non questa governamentalità ma un semplice revival del liberismo di prima maniera, di replicare auspicando un ritorno a politiche keynesiane, di rilancio puro e semplice del ruolo dello Stato; azione di per sé già fallimentare vista la natura “imprenditoriale” ormai assunta dallo Stato con caratteristiche, su scala globale, pressochè irreversibili

·      Si delinea un percorso lungo e complesso, è più facile evadere da una prigione che uscire da una razionalità, ma è questa la scommessa di fronte alla sinistra; non saranno sufficienti, per quanto auspicabili e necessari, cambiamenti di governo quando la partita si gioca sulla capacità di creare nuova razionalità, nuova soggettività, in questo senso etica e politica diventano inseparabili, non si farà strada insistendo solo sulla seconda piuttosto che invocando la prima.

·      Forse il primo passo è partire dalla consapevolezza che il capitalismo neoliberista, la governamentalità neoliberista, la sua ragione del mondo, non cadranno come frutti maturi per via delle contraddizioni interne; lo stesso Marx affermava con chiarezza che ”la storia (da sola) non fa niente”, quelli che contano, quelli che fanno, sono gli uomini

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