di Pierre Dardot e Christian Laval
Un saggio ormai assurto a testo fondamentale per capire il neo-liberismo, la sua capacità di governare globalmente economia e società, la strada da seguire per sconfiggere la sua razionalità
La nuova ragione del mondo
Pierre Dardot & Christian
Laval - 2009
Introduzione all’edizione italiana (2013)
·
La crisi del 2007-2008 ha indotto molti a
ritenere che il neoliberismo fosse con essa morto: così non è stato e così
tuttora non è
·
Questa errata previsione si è potuta
manifestare perché il neoliberismo è stato quasi
unanimamente inteso come un’ideologia, la riabilitazione del
classico laissez-faire, ed una politica economica da essa
derivata
·
In effetti il neoliberismo ha progressivamente
assunto la capacità di “produrre” un intero corpus di relazioni economiche,
sociali, politiche, di stili di vita, di nuove soggettività, tali da farlo
assurgere a “nuova ragione del
mondo”
·
Esso in sostanza, più che un’ideologia
sommata ad una politica economica, è una “razionalità” che uniforma l’azione di chi
governa e quella di chi è governato
·
Questa razionalità poggia su due pilastri: la concorrenza,
come modello di comportamento, e l’impresa, come modello di soggettivazione
·
Questo concetto di razionalità è stato
elaborato da Foucault nell’ambito delle
sue ricerche sul problema della governamentalità (riassunte nel saggio “Nascita della
biopolitica”), una concezione del governo inteso non come
istituzione ma come “attività”
·
Il ricorso ai concetti di razionalità e di
governamentalità, per analizzare l’assunzione del neoliberismo a nuova ragione
del mondo, si è reso necessario per i limiti che, in questo senso, hanno manifestato
le interpretazioni “classiche”, marxismo compreso
·
Il materialismo storico marxista pone la
logica del capitale, la “struttura”, come
motore della storia, il contrasto di classe ha assunto forme diverse nel corso
dello sviluppo storico sempre rimanendo però l’elemento centrale
e determinante; lo Stato, in questo scenario, resta un semplice
strumento nelle mani dei detentori di turno del potere economico, i quali sono
in grado di sviluppare strategie coscienti di indirizzo del corso degli eventi;
il motore della storia contemporanea è quindi l’eterna insopprimibile tendenza
del capitale ad autovalorizzarsi all’infinito attraverso l’estensione della
merce, inglobante in sé il lavoro, i lavoratori
·
Il neoliberismo altro non è, in questa lettura,
che l’attuale capacità del capitale di mercificare tutto il pianeta, tutte le
società (globalizzazione)
·
L’interpretazione marxista presenta tuttavia
alcune debolezze:
Ø la
concezione di una classe di capitalisti, preesistente all’affermarsi del
neoliberismo ed in grado di esserne il grande consapevole regista, urta con la
presenza di nuove borghesie scaturite dagli stessi apparati
comunisti (Cina) e post-comunisti (Russia)
Ø il
percorso concreto di affermazione su scala mondiale del neoliberismo non pare
aver assunto la forma di un grande complotto e neppure quella di un disegno
organico ambedue posseduti da gruppi chiaramente individuabili di potere; è stato al contrario un processo che si è formato a poco a poco strada
facendo
Ø questo
processo non ha determinato tanto un nuovo regime di accumulazione
capitalistica quanto una diversa idea complessiva di società;
Ø se
per il marxismo l’ordine giuridico-politico è deciso dal Capitale in relazione
alle sue necessità temporanee, ed il modo di produzione (struttura) precede
quindi sempre il diritto (sovrastruttura), il neoliberismo ha, al
contrario, dato alle istituzioni giuridico-politiche un ruolo centrale per la
stessa propria fondazione ed affermazione
Ø se,
come affermato in ispecie nel Primo libro del Capitale, il capitalismo risponde
unicamente alla legge generale dell’accumulazione capitalistica, e quindi rimane tale
indipendentemente dalle forme specifiche che esso assume, diventa difficile
spiegare le forme di capitalismo neoliberista che sono al contrario
il prodotto di regole giuridiche-istituzionali
Ø la
crisi degli anni sessanta-settanta del secolo scorso, dalla
quale ha preso avvio il percorso neoliberista, non è stata solo una crisi di
accumulazione, ma una crisi, estesa e profonda, della
capacità capitalistica di governare il mondo; il neoliberismo è
stata la risposta non solo sul piano dell’accumulazione ma anche, e
soprattutto, sul piano della governamentalità
·
La necessità di recuperare una più corretta
e completa analisi del neoliberismo è indispensabile anche per comprendere che
la crisi iniziata nel 2007-2008, che non è soltanto quella
della finanziarizzazione capitalistica, se non ha significato la morte del
neoliberismo certo ha evidenziato una sua profonda crisi, che però,
proprio per le caratteristche “nuove” che esso ha assunto, non è solo economica
ma è crisi della sua concezione di governamentalità
· In
ballo oggi, all’interno di questa crisi, non sono tanto tentativi di recupero
di competitività, di decisione fra austerità e crescita, piuttosto che di
ridimensionamento della finanziarizzazione, all’ordine del giorno deve esserci
la capacità di proporre una ragione del mondo alternativa a quella neoliberista
per la prima volta in crisi strutturale
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Prima parte – Dei limiti del governo
fondamenti teorici della governamentalità del liberismo classico
______________________________
Capitoli
1 e 2 _______________________________________
·
Il pensiero liberale classico che concezione
aveva del ruolo dello Stato nell’ambito del suo rapporto con il mercato? Per
rispondere occorre partire da alcuni dei concetti base del liberalismo classico
espressi, a partire dalla seconda metà del 1700, dai suoi maggiori pensatori: quelli della tradizione scozzese – David Hume (1711-1776)
- Adam Ferguson (1723-1816) - Adam Smith
(1723-1790) – e la Scuola Fisiocratica Francese della seconda metà del 1700
· Alla
base del liberalismo classico non vi sono solo considerazioni puramente
economiche, ma vi è una idea di “uomo nuovo”, un uomo spinto all’azione
dalla ricerca del proprio interesse, dalla soddisfazione dell’amor proprio, da
motivazioni passionali;
· Esiste
una evidente tensione, in tutte le opere degli autori fondatori del pensiero
liberale classico ed in questa idea di “uomo nuovo”, fra il principio morale
della simpatia verso gli altri ed il movente economico
dell’interesse;
· In
particolare Adam Smith, procedendo sulla strada aperta da Thomas
Hobbes (1588-1679), il filosofo della “meccanica dei
desideri”, ritiene che il desiderio innato di migliorare la
propria condizione,
visto soprattutto come manifestazione di “interesse”,
non è scindibile dalla ricerca dell’approvazione altrui,
e che gli scambi umani, economici e non, dipendono da questi principi inscritti
nella natura umana
· Per
Smith la tensione tra interesse, come piano
d’azione individuale, e morale, ricerca
dell’approvazione altrui, può trovare soluzione nel conciliare tra loro
gli interessi/piani d’azione individuali creando un ordine morale fonte e base del potere, del governo
· Questa
conciliazione avviene sulla base del principio della “interdipendenza degli interessi”,
fondato sull’utilità
reciproca nello scambio
· Storicamente
l’affermazione di questo principio si compenetra con il parallelo pieno
affermarsi, nel corso della seconda metà del 1700, della divisione del lavoro come base
dell’organizzazione produttiva e sociale
· Decisivo
è anche l’influsso del contemporaneo progresso scientifico; l’invenzione dell’economia (definizione di Serge
Latouche) come disciplina autonoma, fino al 1600 inesistente, è
figlia dell’intreccio fra pratiche commerciali/produttive e scienza fisica,
dell’applicazione alla società dei metodi di analisi delle forze propri della
meccanica newtoniana (Isaac Newton
1642-1727).
· E
come le scienze fisiche del tempo che ancora riconoscono la necessità di un ordine
armonico superiore, “divino”, l’economia politica liberista individua, per
spiegare l’equilibrio fra agenti ed
fenomeni economici, nella “legge suprema del mercato”, nel libero dispiegarsi della concorrenza, una sorta di provvidenza, di autorità superiore che
impedisce il monopolio dei prezzi obbligando ognuno a vendere per comprare, e che
lascia allo Stato unicamente un ruolo di amministrazione delle
condizioni di concorrenza
·
Per Smith l’economia ha un corso armonioso
solo se si lascia che gli individui seguano la percezione immediata del loro
interesse, l’equilibrio è infatti garantito dalla “mano invisibile del mercato”
· Che
conseguenze sull’azione di governo? Smith afferma l’opportunità che
qualsiasi governo si astenga da un eccesso di interventismo sulle cose
economiche:
· Il
pensiero liberale classico si articola anche su di una lettura della
storia umana finalizzata alla conferma del ruolo centrale dell’interesse
individuato come motore della stessa
· Questo
avviene sulla base di una teoria antropologica, definita da Smith Four stages theory, che suddivide lo sviluppo storico
dell’uomo in quattro stadi: caccia – pastorizia – agricoltura – commercio
· (per
comprendere la continuità/discontinuità nel passaggio da uno stadio all’altro si è resa necessaria una ridefinizione del concetto di “società
civile”; Adam Ferguson è stato il
pensatore liberale che meglio ha operato tale ridefinizione, Foucault ne sintetizza
l’idea in quattro tratti essenziali:
Ø Costante
storico-naturale = non esiste storia dell’uomo che non sia
una storia di un legame sociale, di una società, la società è di per
se stessa storia ed aspetto “naturale” per l’uomo;
Ø Principio
di sintesi spontanea = non esiste nessuna coercizione esterna
all’uomo nella sua propensione al vivere sociale, l’uomo non crea la
società, l’uomo è società;
Ø Matrice
permanente del potere politico = l’associazione sociale
implica legami basati su ruoli determinati dai talenti individuali, ed è naturale e spontaneo che gli individui più talentuosi assumano un
ruolo di comando
Ø Motore
della storia = l’affermarsi nello stadio della pastorizia
del concetto di proprietà, innesca processi di cambiamento
sociali determinati da logiche di interesse individuale è il gioco
dell’interesse il motore della storia nella società civile)
· E’ notevole l’impulso al prevalere dell’interesse derivante dalla
progressione storica della divisione del lavoro e delle professioni;
fino alla sua esplosione con l’avvento della società mercantile
· Nei
primi pensatori liberali è da subito presente che tale processo
può rappresentare un grave rischio per la coesione sociale: Ferguson
denuncia il crescente prevalere dell’economia sulla politica, delle attenzioni
individuali travalicanti in sete di guadagno, con conseguenze rovinose sui
legami sociali
· Non
molto dissimile è, al riguardo, il pensiero di Smith che sottolinea però che la vera molla alla crescita sta unicamente nel desiderio di migliorare
la propria condizione; la ricerca dell’interesse individuale assume
in tal modo una caratteristica di profondo naturalismo (the economy of
natury);
· Non
esiste comunque, nel pensiero dei primo liberalismo, la visione utopistica di
una società civile in grado di divenire ideale grazie al progresso (una sorta
di fine della storia); l’interesse individuale può agire
in modo da creare un progresso indefinito sempre però tinto da inquietudini
morali e politiche
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Capitoli
3 e 4 _______________________________________
·
Attraverso quali modalità il pensiero
liberale classico ha storicamente influenzato la formazione degli Stati
moderni, la loro gestione dei diritti e del governo? Sono utili per avviare questa
analisi alcune idee-guida sviluppate da Michel Foucault
(1926-1984) nell’ambito della sua definizione/ricerca della “governamentalità” = i modi di pensare che guidano la filosofia di
governo
· Secondo
Foucault questo processo si è sviluppato con articolazioni varie a seconda dei
vari paesi, ma sono tutte riconducibili a due grandi vie:
Ø una
giuridico-deduttiva = quella della Rivoluzione Francese, che fissa i
diritti naturali (diritti dell’uomo), ne definisce alcuni “alienabili”, per consentire l’azione di
governo, altri non cedibili/non rinunciabil, del
tutto invalicabili per l’azione di governo che ha, quindi, dei limiti “esterni”
Ø una
radicale-utilitaristica = che sostiene che l’azione del governo ha dei
limiti “interni”
derivanti unicamente dalla ricaduta delle proprie scelte concrete, in termini
di utilità generale, sulla società
· storicamente
fra le due vie è intercorsa una continua commistione, tale da far percepire il
riferimento ai diritti naturali come fondamentale anche quando a prevalere,
così come è effettivamente avvenuto a partire dalla seconda metà del
1700 e fino alla prima Guerra Mondiale, è stata la via utilitaristica
·
La via giuridico-deduttiva ha il suo
fondamento nei diritti inalienabili dell’uomo così come affermati dalla Dichiarazione
d’indipendenza Americana del 1776: la vita, la libertà, il perseguimento della
felicità, e dalla Dichiarazione Francese dei Diritti dell’Uomo
del 1789: la libertà, la proprietà, la sicurezza, la resistenza
all’oppressione
·
Se Rousseau (1712-1778) si
limita ad affermare che questi diritti sono conferiti ad ogni singolo individuo
in quanto membro del corpo sovrano della società civile, cioè in quanto “cittadino”,
non esistendo anteriormente al farsi sociale, all’esistenza dello Stato,
alcun diritto naturale, John Locke
(1632-1704), punto di riferimento fondamentale per lo sviluppo della
via giuridico-deduttiva, formula una
teoria dei limiti del governo elaborata al contrario proprio sul versante
specifico del potere legislativo
·
Per Locke
i diritti dell’uomo sono una
diretta emanazione della volontà di Dio, (la ragione umana può solo
interpretarli) che impone all’uomo due obblighi di
conservazione: quello di se stesso e quello degli altri;
·
L’obbligo di autoconservazione ha comportato
la necessità di trasformare le cose, mediante il lavoro,
per renderle utilizzabili sottraendole però così dallo stato
di comunità iniziale: il lavoro, applicato alle cose comuni, è così diventa
il presupposto per il sorgere del diritto individuale esclusivo su una cosa (ad
es. la terra coltivata): l’azione stessa di lavorare porta a
far propria la cosa su cui si lavora. Locke vede l’uomo “proprietà di se stesso”, ed il lavoro come una protesi della persona: quindi,
se questa è proprietaria di se stessa, allora anche i risultati del lavoro sono
proprietà della persona che l’ha compiuto; se nessuno può vantare diritti
sulla singola persona allora nessuno può vantare diritti sulle cose che quella
persona ha prodotto con il proprio lavoro
·
Il pensiero liberistico classico si pone necessariamente
nella prospettiva di svincolare il diritto di proprietà dalla concezione, percepita
come eccessivamente rigida, di diritto teologico-naturale di Locke; ciò è
avvenuto con Benjamin Constant (1767-1830) per il
quale la proprietà non è nulla di più di una convenzione sociale,
il modo migliore definito dalla società per far godere ai suoi membri i beni
disponibili; ma anche per Constant, seppure ogni riferimento a diritti naturali
è scomparso, la proprietà mantiene comunque una sua sacralità e
inviolabilità
·
Quali sono le ricadute sulla natura del
governo e sulla governamentalità derivanti da tali concezioni della proprietà? Secondo
Locke gli individui portatori di interessi (proprietari) sono per natura in
grado di contrarre patti sociali, ma ciò non è sufficiente a
garantire la difesa della proprietà e l’ordine sociale, occorre l’azione di
Stato; la nascita del potere statale poggia quindi sulla rinuncia,
fatta sulla base dell’interesse a realizzare l’azione di governo, della
gestione di una parte dei propri diritti naturali; questo atto del singolo
rimette alle decisioni della maggioranza della comunità il potere politico, è il consenso del popolo che legittima il governo
·
Foucault individua, in questo quadro
lockiano, due soggetti: un soggetto di diritto ed un soggetto di interesse:
il primo rinuncia, in favore del potere al fine di consentire la gestione
sociale, ad una parte dei propri diritti naturali, il secondo fa la stessa cosa,
ma lo fa per una valutazione puramente di interesse, di convenienza; tra queste
due figure, seppure coincidenti nello stesso individuo, si crea quindi,
nell’atto stesso della rinuncia, una contraddizione insanabile: ne consegue che
se il patto sociale fondativo del governo poggia in prevalenza sulla
reciprocità degli interessi, l’obbligo dell’obbedienza alle
leggi del governo decade quando queste entrino in contrasto con gli interessi,
con il mercato, con il soggetto di interesse
·
Locke chiarisce inoltre che da questo patto,
se lasciato solo a sé stante, non deriva automaticamente una buona azione di
governo, la quale deve avere la capacità di calarlo nella specificità storica
di ogni singolo paese
·
Ed è proprio lo sviluppo impetuoso del
mercato, che si realizza nella seconda metà del 1700, a mettere in crisi la stessa
concezione lockiana del governo; i vari governi liberali in tutti gli Stati
occidentali non riescono a sviluppare un’azione di governo adeguata alla
gestione dei crescenti problemi (crescita della popolazione, organizzazione
della produzione e degli scambi, aumento delle funzioni affidate allo Stato)
che tale sviluppo impone
·
La concezione dell’azione di governo basata unicamente
sui diritti naturali, ridotta alla sola promozione dei
diritti individuali , specialmente quello della proprietà, non regge
in effetti alla prova della concretezza; la contraddizione individuata da
Foucault esplode apertamente, il mercato, nel suo percorso di crescita
impetuosa, fa decadere una governamentalità basata sulla affermazione di
principi naturali non suffragata da adeguate politiche concrete
· Nella
prima metà dell’800, la via lockiana della subordinazione dell’azione di
governo all’esistenza di Leggi naturali, la prima delle due vie individuate da
Foucault, quella giuridico-deduttiva, si arena e svanisce, lascando così spazio
all’affermarsi della seconda via, quella radicale-utilitaristica, ma
a prezzo di una governamentalità, quasi per reazione, molto spesso cieca verso gli stessi diritti “naturali”
·
Se l’opera di Locke delinea le idee guida
della via giuridico-deduttiva, quella di Jeremy Bentham
(1748-1832) svolge un ruolo analogo per la via
radical-utilitaristica; alla base del suo pensiero vi è la considerazione che i limiti all’azione di governo non derivano da principi “esterni” ma
dalle valutazioni sull’efficacia dell’azione stessa in termini di “utilità”
dei provvedimenti governativi, legando più strettamente la dimensione economica (liberismo) a quella politica (liberalismo)
·
Il pensiero di Bentham prende forma come
critica ai principi della Rivoluzione Francese, che esalterebbe un’idea
di uomo del tutto astratta trascurandone le vere pulsioni: la ricerca del
piacere e della soddisfazione individuale, che nulla hanno a che
vedere con i dogmi dell’uguaglianza e della fratellanza;
·
Afferma inoltre che ritenere che i limiti
dell’azione di governo risiedano nell’inviolabilità di principi esterni di
fatto potrebbe condurre, come estrema ratio, ad impedire qualunque azione di
qualunque governo, proprio perché, così facendo, si legittimano ostacoli non
sindacabili in quanto consegnati alla sfera del dogma
·
Secondo Bentham la libertà, l’uguaglianza, la sicurezza non
vengono prima dell’azione di governo ma, al contrario, sono figlie delle leggi
che il governo produce
·
Il principio di utilità viene innalzato da
Bentham a principio, morale e politico, fondamentale; anche l’ambito della
produzione della ricchezza materiale ne è sottomesso, anche in economia occorre
quindi capire in cosa consiste l’utilità generale
·
L’attività di governo deve mirare a tenere
insieme gli interessi privati, la materia prima sulla quale muoversi, e gli interessi
generali, intervenendo, se del caso, sui primi ma entro il limite invalicabile
di un conseguente ritorno positivo sui secondi
·
Lontano dall’idea di Smith del mercato come
“mano invisibile” Bentham ritiene che la spontaneità delle azioni di mercato
deve essere accompagnata da una scienza economica,basata più sulla politica economica che sulla economia politica, che sempre conduca, per evitare
errori e conseguenze negative, ad un’azione di governo ispirata dalla cautela – il motto del governo è be quiet
·
L’azione di governo, infatti, deve garantire
le condizioni che consentano lo sviluppo della spontaneità del
mercato, considerando che non vi è nulla di naturale nell’ordine
economico se non l’impulso individuale ad accrescere il proprio interesse
·
Se quindi il governo non può, e non deve,
se non a fronte di una evidente utilità generale, intervenire sull’economia,
molto può però fare indirettamente agendo su tutti gli aspetti
economici e sociali che sostengono il mercato, l’economia privata
· Se
da una parte la via utilitaristica è stata quella che si è concretamente
affermata, nel corso di tutto il 1800, dopo la fine delle grandi illusioni
aperte dalla Rivoluzione Francese, dall’altra il pensiero di
Bentham, che sta alla base di questa via, apre, proprio per le sue
caratteristiche, la strada alla crisi del pensiero liberale classico
·
In nuce l’opera di Betham contiene, là dove
consegna all’azione di governo il compito di intervenire, seppure nell’ambito
del principio di utilità, su vari campi della società, i presupposti per
un’estensione indefinita dell’intervento statale E’ su questa base
che si innesta la crisi del liberalismo classico
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Capitolo
5
_________________________________________
· Ancora
una volta è lo stesso impetuoso sviluppo del mercato a mandare in crisi
irreversibile il pensiero liberale classico in tutte le sue coniugazioni; nel corso del 1800 appare chiaro che il mercato non è il semplice ed
equilibrato punto di incontro di piccoli produttori, le tendenze sempre
più evidenti a concentrazioni industriali e finanziarie dimostrano ben altra
realtà; la complessità dei problemi che lo sviluppo del capitalismo pone
mandano in crisi proprio l’idea del governo liberale, dei suoi compiti, dei
suoi limiti, dei suoi margini di intervento; va in crisi l’idea
di governamentalità liberale; è’ a cavallo di inizio novecento,
accentuata dalla prima guerra, che esplode questa crisi
· L’ideologia
liberale, basata su una ideale società di self made man, non comprende un
mercato con al centro la moderna impresa; la mano invisibile di manager,
finanzieri, politici al loro servizio sconvolge la mano invisibile del mercato;
anche i rapporti salariali smettono di essere quelli idealizzati di
una libera contrattazione fra due volontà indipendenti; sindacati, partiti dei
lavoratori, l’affermazione del pensiero marxista nella seconda metà dell’800,
impongono scenari differenti; lo stesso mito del libero scambio vacilla,
politiche protezionistiche, barriere doganali sorgono in quasi tutti gli stati
industrializzati
·
Una prima reazione al manifestarsi evidente
di questa crisi si indirizza proprio contro il pensiero benthaniano e la via
utilitaristica; alla base di questo filone sta l’opera di Herbert
Spencer (1820-1903)
·
Spencer rifiuta la concezione utilitaristica
per la quale i diritti sono semplicemente quelli creati/riconosciuti dallo Stato
in quanto già presenti di fatto nell’ambito della società civile; egli sostiene
che i diritti non sono mera consuetudine ma hanno fonte
nella natura umana
·
Le condizioni di vita individuali e le
condizioni di vita sociale condividono la stessa necessità vitale: i diritti dell’uomo hanno un fondamento biologico, insito nella natura
stessa dell’uomo. L’individuo possiede il diritto di esercitare le
attività necessarie alla propria vita, e ciò implica una conseguenza positiva:
la libertà di muoversi, che è una legge di vita,
ed una conseguenza negativa: la limitazione reciproca alla sfera
di movimento, che è una legge sociale
·
Cosa intende Spencer per legge sociale?
Strettamente collegata alla visione evoluzionistica (Charles
Darwin 1809-1882), che si sta affermando in contemporanea, la visione
di Spencer vede la società umana come un innegabile vantaggio evoluzionistico;
ma se vivere in gruppo presuppone comunque la definizione di
regole/contratti; man mano che questa la cooperazione di gruppo si sviluppa,
e con il mutare delle condizioni ambientali di esistenza umana, queste regole assumono valenza di Leggi vincolanti l’azione
individuale, ed in questo sta la causa della crisi del liberalismo
classico e la necessità di ridare più spazio alla libertà di muoversi
· Spencer,
inoltre, sposta il motore dell’economia dalla specializzazione
(divisione del lavoro) propugnata come strumento evolutivo dal
liberismo classico alla selezione, alla lotta di tutti
contro tutti; il progresso economico e sociale, secondo Spencer
implica, inevitabilmente, la sconfitta, la distruzione di alcune componenti
· August Comte (1798-1857) ed
Emile
Durkheim (1858-1917) riprendono, per smentire Spencer, il più
autentico pensiero darwiniano che, a loro avviso, non applica automaticamente
al campo sociale i principi naturali dell’evoluzionismo, in
quanto lo spirito della cooperazione sociale umana sa affiancarsi e correggere
la lotta individuale per la sopravvivenza, il gruppo, la società modificano,
evoluzionisticamente parlando, l’individuo
· L’evoluzionismo
sociale spenceriano, al di là delle critiche da sinistra, verrà in breve abbandonato
già nei primi decenni del novecento dalla stessa destra, di fatto per la sua
inapplicabilità operativa, ma la mitologia della
concorrenza/selezione resterà come forma mentis e sarà recuperata da lì a poco
dal neo-liberismo
· La
crisi dei dogmi del liberismo classico viene definitivamente fatta esplodere dallo
sconvolgimento, politico ed economico, successivo alla prima guerra mondiale,
in un contesto politico mondiale stravolto dalla nascita della Russia
Sovietica, fino al drammatica depressione del 1929
· Le
due contrapposte scuole di revisione critica del liberismo classico della mano
invisibile del mercato e del laissez faire, quella utilitaristica benthaniana e
quella concorrenziale spinta spenceriana, si fronteggiano sulle rovine della
“grande crisi” dando origine ad una loro radicale innovazione ed evoluzione
· I
nuovi scenari teorici liberali hanno negli States il loro primo compiuto
delinearsi con l’affermazione della scuola di pensiero, il “New Deal”, inscrivibile, sotto alcuni punti di vista nel
filone utilitaristico, ma con evidente profonde innovazioni (al punto che negli Usa la stessa
denominazione “liberal” giunge,
con una giravolta completa a “sinistra”, a denominare idee e protagonisti di
una totale revisione del liberismo/liberalismo classico di destra)
· Al
centro di questo pensiero economico e sociale (Raynard
Keynes 1883-1946) sta la constatazione dell’incapacità del liberismo
classico di fornire risposte alle domande poste dalla grande crisi; Keynes in
effetti non rimette in discussione il liberismo nel suo complesso, ma ne
attacca la deriva dogmatica del rifiuto al ruolo attivo dello Stato; al quale spettano, invece, interventi in tutti quei campi, settori,
problemi, che l’iniziativa privata non affronta
· Occorre
puntare ad un controllo delle forze economiche presenti sul mercato proprio per
scongiurarne l’esplosione; lo Stato non solo può intervenire nella sfera
economica, ma deve farlo per sorreggere l’azione del mercato; la libertà di
commercio e di proprietà smettono di essere un fine per divenire dei mezzi tra
gli altri
·
La constatazione che il progresso economico
ha cancellato l’utopico gioco concorrenziale fra liberi individui di smithiana
memoria implica la necessità di azioni riequiibrative della
molteplicità di relazioni contrattuali, economiche e sociali, che si sono
create con lo sviluppo capitalistico
· Keynes
con Leonard Hobhouse (1864-1929) - John
Dewey (1859-1952) ed il movimento inglese dei “fabiani”
(tra gli altri J.B. Shaw-Virginia Wolf-H.G. Wells) sono i
rappresentanti più eminenti di un movimento, interno al liberismo, che nella
prima metà del novecento pone quindi lo Stato, l’azione di governo, al centro
dell’economia, del mercato, della società.
· In
parziale contrapposizione a questo movimento si muove Karl
Polanyi (1886-1964) per il quale, evidenziando come gli Stati
liberali, nel corso di tutto il 1800, siano oscillati fra interventi che
creavano spazi al mercato ed altri che lo limitavano , la problematica
del ruolo dello stato deve essere distinta dal confine fra Stato e mercato,
· Polanyi
ritiene che il mercato si sia affermato quando è riuscito a creare una serie di
fattori economici, innanzitutto uomini che per sfamarsi sono costretti a
vendersi come lavoratori, piuttosto che elementi della natura (minerali, acqua
come forza, etc.)
·
Ma tale affermazione si è concretizzata
solo quando lo Stato ha definito un quadro legislativo e di potere, e ciò è
avvenuto nella fase del liberismo classico di Smith
· Tali
interventi a favore del mercato hanno, inevitabilmente, dato origine ad una più
ampia azione dello Stato fino a vederlo come regolatore dello stesso; ma con l’assurdità che se il primo ruolo di creatore del laissez-faire
era studiato e voluto, il secondo ruolo di limitatore del mercato è invece avvenuto
con un percorso spesso spontaneo e inconsapevole
· Le
stesse politiche del New Deal vanno quindi, a suo avviso, viste come la replica,
molti decenni dopo Smith, del ruolo di ri-creazione del mercato, ormai soffocato
dalle tendenze monopolistiche nate con il grande sviluppo economico;
· Questa
distinzione teorica all’interno del New Deal non pare abbia inciso in modo
significativo, in quanto non esistono solo interventi dello Stato per creare
mercato o per proteggere la società dagli eccessi di mercato, esistono gli
interventi per il “funzionamento del mercato”, di fatto quelli
concretamente messi in atto dalle politiche keynesiane, la rivalutazione del
ruolo dello Stato, al quale sono affidati interventi nel cuore dei meccanismi
economici e produttivi: politiche salariali, politiche industriali, sostegni
diretti ed indiretti ai settori privati, settori pubblici (armamenti,
infrastrutture, etc.) motori in proprio di sviluppo economico.
· Ma
sono comunque aspetti di una governamentalità che non incide sulla natura
profonda del mercato capitalistico per quanto affianchi a quello del privato un
ruolo attivo del pubblico, dello Stato
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Seconda parte – La rifondazione intellettuale
prime manifestazioni della svolta neoliberista
______________________________
Capitolo
6
_______________________________________
·
Crisi del 29, New Deal, ruolo attivo dello
Stato nelle economie occidentali, riformismo sociale, socialismo, e poi
comunismo, fascismo e nazismo, eredità geopolitiche del secondo conflitto
mondiale, allargamento planetario dei mercati: sono queste le sfide storiche
che impongono al liberalismo di reinventarsi verso la metà del Novecento; la
risposta a queste sfide matura in campo intellettuale attraverso due passaggi
topici: il convegno Walter Lippmann tenuto a Parigi il 1938 e
la fondazione delle Società del Monte Pellegrino avvenuta nel 1947;
non solo due distinte tappe, ma due diversi modi di concepire il rilancio del
liberalismo
·
Il convegno Lippmann raduna le maggiori
figure intellettuali liberali per discutere delle prospettive del liberalismo;
lo spunto è offerto dalla pubblicazione del libro “La giusta società” di Walter Lippmann (1889-1974); è
organizzato da Louis Rougier (1889-1982)
·
Si innesta fra i presenti al convegno una
netta divergenza sulle prospettive da seguire che deriva da una altrettanto
netta diversa individuazione delle cause della “crisi del
capitalismo” avvenuta fra le due guerre mondiali ; da una parte coloro che,
vedendo la causa della crisi nel tradimento dei principi del liberalismo,
propongono un rilancio del laissez-faire contro ogni ingerenza dello Stato,
dall’altra quelli, Lippmann in testa, che, individuando la causa della crisi
proprio in alcuni fondamenti errati del liberalismo classico, ne propongono una
profonda revisione in nome dell’interventismo liberale dello
Stato
·
Per Rougier il liberalismo classico sbaglia
nel ritenere l’economia un piano a sè e nello scambiare le regole di funzionamento
del sistema sociale come regole naturali intangibili, con il conseguente
primato dell’economia sul politico; immagina quindi un liberalismo attivo che
sappia creare un ordine politico/legale in grado di favorire la libera
concorrenza
·
Lippmann condivide questa impostazione;
precisa che le idee classiche del liberalismo, si siano presto trasformate in
rigidi dogmi, fino al punto di ritenere l’economia di mercato una
zona franca rispetto
all’azione legislativa
·
Ambedue ritengono che l’illusione naturalistica
abbia portato il liberalismo classico a rifiutare ogni interferenza dello Stato
sull’economia, sottovalutando il ruolo della azione giuridica proprio nella
creazione e difesa del mercato ed oppongono una rivalutazione del ruolo
legislativo, con un conseguente interventismo giuridico da non
confondersi con l’interventismo amministrativo
·
Lo Stato non deve temere di intervenire
anche per “oliare” gli ingranaggi dell’economia, il capitalismo di
concorrenza non è un prodotto naturale ma una creazione che richiede una
regolazione costante; l’unico criterio che divide interventi
legittimi, e necessari, da quelli illegittimi è il rispetto assoluto della
concorrenza; si recupera quindi l’utilitarismo benthaniano
ma inserito nella parte più sana del concorrenzialismo spenceriano
·
La parola fondamentale che Lippmann
attribuisce al liberalismo è “adattamento” ad un ordine
economico in continua evoluzione, ad una concorrenza, ineliminabile, spietata e
generalizzata; all’adattamento in campo economico deve far seguito quello dei
modi di vita e di mentalità;
·
L’adattamento obbliga lo Stato ad un
intervento continuo, perché era un’illusione, quella del
liberalismo classico, di ritenere che a ciò provvedesse la mano invisibile del
mercato, perché se il capitalismo impone cambiamenti permanenti
nell’economia, gli uomini non si adattano, né spontaneamente né immediatamente,
a tali mutamenti
·
La politica del nuovo liberismo deve
quindi puntare a modificare l’uomo stesso; al quale devono
essere destinate politiche specifiche di modernizzazione e
adeguamento/adattamento, politiche di riforme sociali, dall’istruzione, che
deve preparare le masse allo spirito concorrenziale capitalistico, all’eugenetica, alla
difesa delle relazioni sociali di comunità
·
Lippmann considera la Legge in modo
pragmatico, come una regola generale per governare i rapporti tra gli
individui, una modalità di organizzazione sociale in grado di conciliare i
diritti individuali; il punto centrale in Lippmann è proprio la sua idea dello
stretto rapporto tra fattori economici e sistema legislativo, in cui è
quest’ultimo a svolgere il ruolo decisivo
·
Lippmann aggiunge inoltre che solo un
Governo forte può assolvere l’impegnativo compito legislativo così concepito; ed
il Governo può essere affidato solo ad una elite altrettanto forte ed al di
sopra degli istinti impazienti delle masse, capace quindi di sfidare l’eccesso
di influenza del voto popolare
______________________________
Capitolo
7
_______________________________________
· La
componente tedesca, che al convegno Lippmann condivide la critica al dogmatismo
del liberalismo classico e che svilupperà idee in grado di indirizzare le
politiche economiche della Germania del secondo dopoguerra, prende il nome di ordoliberalismo = liberalismo+ordine costituzionale e procedurale (scuola di Friburgo = Walter Eicken 1891-1950 – Franz Bohm 1895-1977)
· Per
loro la necessità tedesca di ricostruire dopo il nazismo l’economia di mercato
si coniuga con l’obiettivo di ricreare uno Stato di diritto, sulla base
dell’assunto che l’economia di mercato e la democrazia politica non
hanno nulla di naturale, come riteneva il liberalismo classico, ma sono frutto di un artificio, di un quadro giuridico-politico;
da qui deriva la loro grande attenzione all’ordine, alle
regole del gioco istituzionali
· Resta
ferma la convinzione, maturata anche per gli eccessi statalisti del nazismo, che alla base dell’economia di mercato debba esserci la libera scelta
di ogni individuo, garantita da una corretta politica statale; il
libero gioco economico a sua volta crea e legittima il diritto pubblico
· Il
solo supporto all’economia non è sufficiente a definire il ruolo dello Stato
che deve porsi una chiara missione sociale, sulla base del principio di sussidiarietà (principio cattolico
rispettoso delle gerarchie sociali e promotore di politiche assistenziali)
· L’economia
di mercato resta ovviamente la forma economica ideale, ma è un mercato basato non più sul libero scambio ma sulla libera concorrenza
e, tramontata ogni illusione naturalistica, istituzionalizzato all’interno
dello Stato
· L’ordoliberalismo
è tutt’altro che ostile all’interventismo statale,
questi interventi devono però essere rispettosi della libera concorrenza ed al
tempo stesso finalizzati a realizzare l’ordine costituzionale, non regolamentatori ma ordinatori, non invasivi sul libero gioco dei
prezzi (in questo senso sono critici verso
l’interventismo keynesiano)
· Questo
libero gioco della concorrenza e dei prezzi portano al centro della scena
economica il consumatore, i cui interessi, di fatto contrapposti a
quelli protezionistici dei produttori, regolano il libero svolgimento del
mercato
·
Lo Stato di diritto prefigurato
dall’ordoliberismo si fonda proprio sulla figura del consumatore, definendo
così l’aspetto sociale del mercato, fino a sintetizzarsi proprio nella
formula di un’economia sociale di
mercato
· Lo
Stato, interventista nei termini suindicati, deve avere al centro della propria
azione la difesa del consumatore, al fine di renderlo capace di esercitare sempre
il suo ruolo regolatore del mercato, anche mediante politiche che lo tutelino
dal crescente gigantismo del capitalismo
· In
questo sta il limite interno dell’ordoliberlismo troppo oscillante tra opposizione
alle logiche oligopolistiche del mercato e
idealizzazione della figura del
consumatore –microimpresa, realizzata proprio dallo/nello stesso mercato, da
una parte improntato al darwinismo sociale della libera concorrenza, base del
mercato, dall’altra ipotizzante uno Stato sociale che si prende cura
dell’individuo dalla culla alla tomba
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Capitoli
8 e 9 _______________________________________
· In
una posizione solo inizialmente vicina a quella del nuovo liberalismo di
Lippmann e Rougier e dell’ordoliberismo tedesco si pone l’opera di Ludwig Von Mises (1881-1973) per
molti versi il primo vero teorico del neoliberismo
contemporaneo e
della concezione dell’uomo imprenditoriale
· Già
al convegno Lippmann Von Mises si era schierato contro ogni ipotesi di
interventismo statale, ritenendo che più lo Stato interviene più crea
problemi, per risolvere i quali accentua il suo interventismo fino
ad avviare una spirale ingestibile
· Questa
posizione radicale poggia sull’idea di due processi di senso opposto: l’intervento dello Stato che crea individui “viziati” – il mercato
che crea imprenditori creativi, lo Stato in sostanza non può
pretendere di sapere meglio degli individui ciò che è bene per loro
· Si
affina con Von Mises l’idea del mercato inteso,
diversamente dall’equilibrio ideale del liberismo classico, come un processo di modifica costante che trasforma
continuamente le condizioni economiche e con esse la natura dei soggetti
economici
·
L’istinto umano è di avere uno scopo, cioè
un piano individuale di azione, degli obiettivi, esattamente come se fosse
un’impresa, ed il mercato agisce su di esso come processo di
formazione esattamente in questa direzione
· In
questo quadro la limitazione al ruolo dello Stato non poggia più né sui diritti
individuali naturali né sulla prosperità generale creata dall’iniziativa
individuale ma sulla indispensabile necessità di non rovinare il corretto
svolgersi di tale processo
· Le
idee di Von Mises sono riprese ad ampliate da Friedrich
Von Hayek (1899-1992), che precisa innanzitutto il ruolo fondamentale della conoscenza per i processi economici: nessuno può sapere
tutto, e lo Stato non può, anche volendo, garantire a tutti le stesse
conoscenze, nel mercato vincono gli individui che sanno utilizzare
meglio degli altri le conoscenze, seppur parziali, di cui dispongono
· La
limitazione all’intervento dello Stato trova quindi in Von Hayek una più
specifica ragione: ogni individuo si muove, per
utilizzare le conoscenze che ha, come un libero imprenditore, uno
Stato interventista diventa di fatto un limite autoritario alla libertà di
movimento dell’individuo/imprenditore
· Il
libero processo di mercato non è nient’altro che una serie continua di scoperte
che fanno uscire dall’ignoranza l’individuo/imprenditore;
queste scoperte avvengono in modo casuale, spontaneo, non sono pianificabili
come presuppone la concezione pianificatrice statale; la battaglia diventa
quindi quella di eliminare ogni interferenza statale nel libero percorso di
scoperta fatto dall’individuo/imprenditore; non si tratta quindi soltanto di
valorizzare la funzione economica dell’imprenditore ma di garantire la piena
espressione della sua soggettiva facoltà imprenditoriale
· Sia
Von Mises che Von Hayek non
si muovono pertanto solo sul piano strettamente economico, ma spostano la
battaglia sul piano ideologico, rifondano l’ideologia
liberistica su basi adattate all’evoluzione del mercato capitalistico moderno
·
La valorizzazione teorica dell’individuo/imprenditore
trova un parallelo riscontro nelle idee
di Joseph Schumpeter (1883-1950) espresse
nella sua opera “Teoria dell’evoluzione economica”: il mercato si
sviluppa con un processo di continue discontinuità create dal crescere delle
conoscenze e delle tecniche che solo alcuni individui/imprenditori sanno
comprendere ed utilizzare
· Deve
essere però chiaro che il limite posto all’interventismo statale, delineato
dalla somma delle teorie di Von Mises, Von Hayek e Schumpeter, che si affermano
compiutamente negli anni sessanta-settanta del secolo scorso, non punta
all’aspetto quantitativo delle pubbliche attività ma alla loro natura; la comune opposizione al ruolo sociale dello Stato trova specie in Von Hayek una fine
precisazione: lo Stato, e gli economisti alla Keynes, ritengono possibile un
suo ruolo in quanto giudicano il mercato un ordine
sociale artificiale, ossia il risultato dell’azione umana, contrapponendosi
alla precedente idea del liberismo classico del mercato come fatto
naturale, Von Hayek lo reputa invece un ordine spontaneo, né
artificiale né naturale, in quanto frutto di azioni non guidate da uno
specifico disegno umano
·
L’ordine spontaneo del mercato si porta
dietro tre precise conseguenze:
Ø esso
ha una valenza generale =non è l’economia in senso stretto che è mossa
dagli interessi individuali, ma l’intero contesto sociale
Ø esso
può funzionare perché poggia su regole formali che valgono proprio perché
generali
Ø la
società tutta va intesa come un ordine spontaneo
· Von
Hayek precisa che le regole formali che reggono l’ordine spontaneo sono regole di condotta, che si sono progressivamente incorporate nella tradizione e
nei costumi ancor prima che nelle Leggi, mentre quelle che reggono
il diritto pubblico sono regole di organizzazione; il limite al
diritto pubblico, e quindi al ruolo dello Stato, trova anche in questo una sua
ragione
· Siamo
lontani dalla classica concezione della via giuridico-deduttiva dei diritti
naturali, ma anche da quella della via radicale-utilitaristica in quanto la
questione in discussione non è l’efficienza, l’efficacia utilitaristica
dell’intervento statale, ma la sua legittimità; ne consegue che i diritti dell’individuo/imprenditore non derivano da una idea del
legislatore/Stato, al contrario il legislatore/Stato deve accettare di muoversi
come un singolo nell’ambito di un sistema giuridico governato dal Diritto
Privato, esso può quindi ledere la sfera privata
dell’individuo/imprenditore solo questi viola le regole generali della buona
condotta
· Resta
comunque affidato allo Stato, se gli sono quindi negate azioni coercitive verso
l’individuo/imprenditore, il diritto/dovere di azioni non coercitive, quali la
fornitura dei servizi, sempre che non invadano sfere di competenza attribuibili
anche all’individuo/imprenditore
· Una
particolare conseguenza del ritiro dello Stato dal libero gioco del mercato è la
possibilità che crescano i conflitti fra individui/imprenditori; lo Stato torna
allora in gioco come arbitro di regole del gioco pre-concordate e condivise; più arretra l’azione amministrativa statale più può quindi crescere
quella giudiziaria;
in questo senso nel pensiero di Von Hayek lo Stato deve essere un
organo “forte”, lontano
dal laissez-faire esso può al limite scavalcare alcuni comuni limiti della
democrazia liberale
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Terza parte – La nuova razionalità
la governamentalità neoliberista
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Capitolo
10 _______________________________________
· Gli
anni ottanta segnano la grande svolta, è il trionfo del
neoliberismo; si afferma una strategia complessiva che affida allo Stato il
ruolo disciplinare di attore e guardiano della piena applicazione dei valori
neoliberisti
· Questa
strategia non ha, al suo nascere, una cabina di regia, è lo stesso insieme
delle scelte che man mano si affermano ad imprimere una direzione globale
· Al
riguardo esistono due fraintendimenti: vedere la grande svolta solo come
trasformazione dell’economia piuttosto che solo come applicazione di una
organica teoria economica
·
In effetti il programma politico
della Thatcher e di Reagan, poi imitato su scala mondiale e adottato
come linea guida da FMI e Banca Mondiale, parte come risposta ad una situazione
di crisi nel ciclo economico che si manifesta a metà anni settanta; l’onda
lunga delle rivendicazioni degli anni sessanta creano un clima giudicato da destra
come un “eccesso di democrazia” , un timore che si collega
con la fine della capacità innovativa della produzione fordsta;
un forte tasso di inflazione e un elevato livello di disoccupazione,
che interessano tutte le economie occidentali, mettono in crisi le politiche
keynesiane e servono da prima giustificazione al cambiamento
· La
svolta inizia nell’ambito delle politiche monetarie con fortissimi aumenti dei
tassi di interesse (antiinflazionistici) ed in breve si espande con l’abbandono
dell’indicizzazione dei salari ed un vasta compagna di privatizzazioni volta a
ridurre, se non eliminare, il ruolo sociale dello Stato
· Si
afferma in modo quasi strisciante, ma via via sempre più marcato e sempre più
diffuso, anche per le imposizioni sugli Stati deboli attuate da FMI e Banca
Mondiale, fino ad essere adottata da Partiti storicamente di sinistra, una deregolamentazione
dell’economia basata sul principio della concorrenza , in
sintesi, così articolata:
Ø liberalizzazione
finanziaria
Ø globalizzazione
della tecnologia
Ø completa
liberalizzazione dei cambi valutari
Ø privatizzazione
settore bancario
Ø creazione
moneta unica europea
Ø modifica
delle regole di controllo delle imprese (fine capitalismo familiare, avvento
potere management più legato ai risultati azionari che alla produttività)
·
Il risultato, più correttamente, non può
essere definito come deregolamentazione ma
come nuovo ordinamento delle attività
economiche, così come non è corretto definire questo nuovo capitalismo semplicemente come capitalismo
finanziario
·
Favorito dall’indebolimento delle dottrine
di sinistra, e dal crollo di ogni alternativa al capitalismo (1989 fine del
blocco sovietico) ha svolto un ruolo fondamentale il consolidamento progressivo
di una ideologia neoliberista con al suo centro la lotta ideologica contro lo Stato (celebre è lo slogan coniato da Reagan “il governo non è la soluzione, è il problema”) e l’apologia senza riserve
del capitalismo più sfrenato; alle opere ed al pensiero dei Von Mises e Von
Hayek si è aggiunto il ruolo di George Stigler (1911-1991) e Milton Friedman (1912-2006), creando a
cavallo degli anni ottanta/novanta una organica scuola di pensiero che ha
colonizzato l’intero dibattito economico in tutto l’occidente
·
La vittoria (senza avversari) della
ideologia neoliberista trova terreno fertile per affermarsi nella diffusa, e
trasversale, avversione verso lo Stato cresciuta per i limiti
crescenti incontrati dalle politiche keynesiane, per l’incapacità dei vari
governi (e della politica in generale) di gestire in modo efficiente lo stato
sociale, per la conseguente avversione tout-court verso la fiscalità pubblica
·
L’attacco frontale contro il ruolo dello
Stato non poggia solo sugli aspetti contabili/fiscali, Friedman e soci ne denunciano
soprattutto le conseguenze morali: lo Stato sociale distrugge le
virtù della società civile: il senso del lavoro ben fatto e
l’impegno personale; non è il mercato che divora la società con “l’avidità del guadagno” ma è lo Stato che
smorza la moralità individuale; questa critica neoliberista poggia sul
postulato che i meccanismi di solidarietà e sostegno propri del
Welfare deresponsabilizzano l’individuo che
si adagia sulla certezza della sopravvivenza sociale ed economica; occorre
quindi rimettere in moto i meccanismi del calcolo individuale, della lotta
concorrenziale, del rischio come standard di vita
·
In questa fase di avvento della scuola
neoliberista non sono quindi tanto i problemi di deficit statale a muovere la
lotta allo Stato ma proprio questa rivalutazione ideologica del rischio, della
concorrenza di tutti con tutti
· Con
una progressiva definizione teorica, andando quindi oltre Von Mises e Von Hayek,
il pensiero neoliberista estende l’analisi economica (costi-benefici), usata per valutare la convenienza
dell’intervento statale, e la trasferisce al comportamento individuale; questo è il
presupposto fondamentale sul quale sono state create, a partire dagli anni
ottanta, dispositivi
organizzati per plasmare la condotta individuale
·
Il concetto di governamentalità diventa
decisivo per comprendere il senso delle azioni sulle sfere individuali (condotta delle condotte) messe in atto, in questo quadro, dal
neoliberismo; il cambiamento così radicale, prefigurato in modo sempre più
lucido dal neoliberismo, non poteva avvenire solo per
costrizione, occorreva riprendere il controllo dei
desideri individuali
per orientarli in una precisa direzione: la logica del
mercato
·
Queste azioni, definibili come “discipline”, prevedono e richiedono tre
aspetti
Ø quadro
stabile di mercato: il calcolo individuale deve poter contare
su una stabilità
Ø estensione
delle situazioni di mercato: ciò implica per l’individuo l’obbligo
di scegliere
Ø mercato
come unica regola del gioco
· Milton
Friedman, capofila della scuola di Chicago (i Boys), fondatore del monetarismo
(le politiche monetarie attive sono inefficaci), Nobel per l’economia, è il
principale pensatore di questo insieme di discipline, che ha alla sua base l’introduzione di vincoli di
mercato che forzino gli individui ad adattarsi ad esse
·
La stessa critica alla “eccessiva rigidità
del mercato del lavoro”, cavallo di battaglia del neoliberismo, non punta solo a creare
un nuovo controllo del mercato del lavoro, ma contemporaneamente mira ad
accrescere la concorrenza fra
lavoratori proprio
per piegarli, adattarli, alle nuove discipline
·
Il principio della massima concorrenza
diventa un totem, e si accompagna alla collegata, celebrata, “libertà di
scegliere”; sul mercato ogni individuo è solo, la
sua unica arma è di saper scegliere, e lo Stato deve assumere come fine
fondamentale l’estensione della concorrenza
· Non
meno importante, in questo quadro crescente di principi teorici e poltiche
concrete, è stata l’attenzione alle logiche produttive, la massima
ottimizzazione di ogni centro di lavoro, la creazione di sistemi di
incentivazione e sanzione, mediante forme raffinate di autocontrollo auto-attivate da ogni singolo
lavoratore; la leva della precarietà e della disoccupazione sono gli strumenti principali
usati per raggiungere questi scopi e per introdurre la forma mentis che
l’individuo deve muoversi nel mercato concorrenziale usando al meglio il capitale umano che possiede
______________________________
Capitolo
11
_______________________________________
·
Il crescente successo planetario di queste
discipline neoliberiste è agevolato dalla loro assunzione da parte della
sinistra in molti paesi occidentali: rinnegando i valori storici
dell’interventismo sociale statale Delors e Raymond Barre in Francia,
Tony Blair e Anthony Giddens in Gran Bretagna, Gerhard Schroeder in Germania,
fanno propria la razionalità neoliberista, spingono la sinistra a muoversi nel
quadro imposto dal neoliberismo giudicato irreversibile
·
E non regge l’affermazione della sinistra
europea di una presunta eccezione europea all’avanzata del neoliberismo, di una
sua capacità di attuarlo e gestirlo con finalità “di sinistra”; alla base della
costruzione dell’Europa si ritrovano infatti le teorie ordoliberali
strettamente connesse, come si è visto, al neoliberismo; tutti i Trattati
costituenti l’Europa sono indubitabilmente protesi a creare le condizioni per
il pieno affermarsi del concorrenzialismo, con l’aggiunta di
linee-guida per un programma di riforme mirato alla flessibilizzazione di
prezzi e salari, alla riforma delle pensioni, alla promozione dello spirito
d’impresa, allo smantellamento del welfare; basti pensare all’Art. 3 della
Costituzione Europea che formula l’obiettivo apertamente dichiarato di creare un’economia sociale di mercato, parola
d’ordine base fondamentale nella concezione ordoliberalista, sussidiata da una Banca Centrale
preposta a garantire la stabilità dei prezzi
·
Dagli anni ottanta in poi è la Germania il
motore della costruzione europea su basi ordoliberali; una Germania che
presenta al suo interno un quadro complesso, da una parte l’adesione
convinta dei due partiti maggiori all’economia sociale di mercato, la CdU fin
dai primi anni cinquanta, l’SpD a partire dal Congresso di Bad-Godesberg
del 1959, dall’altra la persistenza di un modello
capitalistico, cosiddetto “renano”, che poggia su una politica di
cooperazione tra padronato e sindacato e che ha radici più antiche nello
statalismo bismarckiano; questo tratto caratteristico mantiene un suo
equilibrio grazie alla sostanziale adesione ai principi dell’ordoliberismo non
solo da parte dell’SpD ma anche da parte dei maggiori sindacati, in primis la
DgB
·
Nell’ultimo decennio, andando oltre l’inflessibilità
tedesca nell’applicazione delle regole di disciplina che limitano le politiche
di budget degli Stati membri, si è addirittura affermata una concezione
oltranzista rispetto ai principi ordoliberali dell’economia sociale di mercato
recepita da Trattati e Costituzione: sembra prendere forma una concorrenza fra gli stessi
sistemi istituzionali, il principio base della concorrenza, nato
nell’ottica dei mercati interni, si è evoluto, nell’ambito del mercato comune
europeo, nella concorrenza fra Stati, che, pur aderente ad una visione potenzialmente
unificante il mercato europeo, adottano politiche fiscali, comprensive di varie
agevolazioni, per attirare investitori a danno degli altri Stati membri
· Non
è più, in questa evoluzione, la legislazione europea che crea e diffonde la
concorrenza, ma al
contrario è la concorrenza, ormai padrona completa del campo, che modella la
legislazione; sullo sfondo si è a lungo intravista una convergenza
tra ordoliberismo di matrice tedesca e neoliberismo americano; ma non è un
processo completato, anzi, la crisi del 2007-2008 sta ridando fiato
all’ordoliberismo di prima maniera, quello che affida alla legislazione il
ruolo primario di realizzazione, ma anche di controllo della libera
concorrenza, contro la de-regulation totale neoliberista che affiderebbe alle
istituzioni esclusivamente un ruolo sanzionatorio verso quegli Stati membri non
allineati ai principi della totale libera concorrenza; e la sinistra europea di
governo sembra essersi realizzata unicamente con l’adesione a questa visione
______________________________
Capitolo
12
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·
Si è già visto che anche nella sua versione
più estrema il neoliberismo non proclama la totale assenza dello Stato nel
mercato, ma si distingue per la sua concezione della natura del ruolo dello
Stato e dei suoi margini di intervento
·
Partendo dalla critica di mancanza di
efficacia rivolta allo Stato il neoliberismo pone ad esso l’obiettivo di
mantenere una presenza
nel mercato, quando questa non sia in contrasto concorrenziale con il privato,
improntata alla efficacia manageriale: se lo Stato intende riformare
la società in senso concorrenziale deve egli stesso piegarsi alle regole di
efficienza delle aziende private, siamo quindi molto lontani dal semplice
parametro bethaniano della utilità dell’azione statale, in gioco è la piena applicazione
della governamentalità neoliberista allo Stato così come ai singoli individui
·
Il termine, di recente adozione, che misura
l’efficienza dell’intervento statale, è diventato la sua capacità di esercitare
una adeguata governance nei settori in
cui è ancora chiamato ad intervenire; lo Stato non viene più giudicato per la
sua efficacia nell’esercizio della sovranità, così come
prevedeva la concezione classica, ma per la sua good governance
·
Così come i manager delle aziende sono
sorvegliati e valutati dagli azionisti, allo stesso modo gli Stati sono
sottoposti al controllo della comunità finanziaria internazionale tramite le agenzie di
rating, i veri “padroni” degli Stati diventano in questo modo i
cosiddetti “stakeholders”
(azionisti portatori di interessi) ossia
creditori/investitori interni ed esterni
·
Se la governance si concretizza nella
capacità di governare i vari fattori/attori che agiscono in un determinato
contesto economico/produttivo appare evidente che, abbinando questo aspetto al
ritiro dello Stato dai settori appetiti dal privato, la good governance dello Stato
consiste nell’essere più stratega che produttore diretto di servizi, ed
ovviamente gli ambiti nei quali è chiamato ad esercitarla sono tutti quelli
funzionali a creare supporto al libero mercato (ricerca, trasporti,
urbanizzazioni, educazione, etc.)
·
In generale si può dire che la governance
dello Stato neoliberista, misurata nei termini di costi-benefici, è applicata,
e valutata in termini di good/bad, nella trasformazione di tutti i
settori nei quali è chiamato ad operare, come risorse aggiuntive per le imprese
·
Lo Stato neo liberista quindi non si ritira,
ma si piega alle condizioni concorrenziali che ha contribuito a creare; non ha
quindi fondamento la presunta refrattarietà degli Stati ad accettare le
indicazioni di organismi quali il FMI, il WTO, la Banca Mondiale, la stessa
Commissione Europea; sono tutti organismi creati e sostenuti dagli stessi Stati
·
Si tratta in effetti di un vero e proprio (auto)trasferimento di potere dal singolo Stato a questi
centri di potere ibridi, in parte privati in parte pubblici, nei quali tuttavia
il privato vince, non perché in possesso di quote maggioritarie, ma perché è
totale l’adesione, anche della componente pubblica, ai principi neoliberisti
della governamentalità
·
Ovvio quindi che il management privato sia
per definizione migliore dell’amministrazione pubblica, che il privato sia più
reattivo, più innovatore, più efficace, più specializzato, non fosse altro che
per il fatto che non deve dipendere dal gioco dell’opinione pubblica; la battaglia contro gli sprechi della spesa pubblica è
stata, in questo quadro la testa di ponte, anche all’interno della stessa
opinione pubblica, per uniformare il pubblico al privato
·
Uniformazione che si è articolata, anche
riprendendo concetti e proposte dell’utilitarismo benthaniano, lungo le due
direttrici già usate per imporre la governamentalità nel settore privato: pratiche di misura, ossia di contenimento e repressione, e pratiche di incentivazione, ossia di coinvolgimento attivo
·
Un contributo, importante, nel processo di
omologazione neoliberista dell’azione statale è venuto dalla scuola del Public Choice (linea d’azione pubblica),
con sede nella University of Virginia e con capifila James Buchanan (1919-2013) e Gordon Tullock (1922-2014), che sostiene
l’uniformità del comportamento umano e quindi, su questa base, l’omogeneizzazione, teorica e pratica, del funzionamento dello Stato e
del mercato
·
La Public Choice, peraltro confortata dalla
diffusa approvazione alla sua denuncia dei danni innegabili provocati dalla
burocratizzazione e soprattutto dalla rivolta fiscale (il rifiuto degli strati
benestanti, ma non solo, di livelli di prelievo atti a sostenere la spesa
pubblica), idealizza il funzionario pubblico che agisce con la stessa mentalità e gli
stessi valori di un operatore privato; le politiche riformiste
dell’azione pubblica devono tendere a realizzare questo obiettivo scontrandosi
con l’alleanza elettorale (c’è in questo una profonda avversione, simile a
quella di Von Hayek, per la democrazia rappresentativa) tra burocrati,
beneficiati e politici
·
I due binari lungo i quali si è snodata la
riforma neoliberista della pubblica amministrazione sono quindi da una parte la privatizzazione dei settori appetibili dalle imprese private,
sulla base della loro presunta efficienza, dall’altra l’applicazione di
logiche e metodi imprenditoriali nei settori rimasti, magari
provvisoriamente, a gestione pubblica
· Il
libro che ha meglio sintetizzato l’insieme delle nuove pratiche governamentali applicate
al settore pubblico è “Reinventing Governement” di David
Osborne (1964) e Ted Gaebler
(1959): il minor prelievo fiscale, la conseguente riduzione delle
risorse, obbligano il pubblico ad agire concorrenzialmente vedendo l’utente
come consumatore da conquistare; su questa base essi definiscono i criteri che
guidano il nuovo modo di agire del pubblico il governo imprenditoriale
·
La retorica dell’efficientamento della
macchina statale, ovvero l’applicazione della concorrenza anche allo Stato, è,
a partire dagli ultimi decenni del 1900, patrimonio comune della destra e della sinistra, della
Tatcher piuttosto che di Blair, di Reagan ma anche di Clinton
·
Provvedimenti legislativi varati in tutti i paesi
dell’Occidente, da governi di destra e di sinistra, hanno applicato i criteri
del governo imprenditoriale trasformando scuole, ospedali, tribunali e commissariati,
università e scuole, in “imprese” che devono rispondere alle regole
dell’efficienza concorrenziale
· La cultura del risultato, applicati in tutti questi settori
pubblici, implica di fatto la sostituzione delle finalità sociali con il
risultato economico, applica semplicemente una forma di razionalità
concorrenziale importata
dall’economia
______________________________
Capitolo
13
_______________________________________
·
Quanto hanno inciso tre secoli di
capitalismo sulla natura umana? Che uomo si viene prefigurando con l’avvento
del neoliberismo? In cosa si concretizza l’uomo competitivo, l’uomo fatto
impresa?
·
Agli albori del capitalismo nell’individuo occidentale coesistevano tre dimensioni:
quella del retaggio culturale, rurale e in gran misura cristianizzato,
dei secoli precedenti, quella della identificazione negli Stati
nazionali, e quella che gli veniva fornita dal mercato del lavoro e
della produzione
·
Le democrazie liberali hanno in estrema
sintesi garantito, protetto questa eterogeneità, muovendosi tra due spinte: la democrazia politica ed il capitalismo con la
progressiva prevalenza della seconda ed il formarsi di una logica dei rapporti
umani sottomessa al principio del profitto
·
La forma assunta da questa logica è la contrattualizzazione dei rapporti
umani, il contratto, in primis
quello di lavoro, di vendita di sé stessi, è la forma di tutte le
relazioni umane,
il nocciolo dell’individualismo moderno, del soggetto
produttivo
·
A questo non si è pervenuti con una semplice
adesione al principio del mercato, ma con la creazione di un sistema di norme
che ha coinvolto tutti gli aspetti dell’umano vivere, dal lavoro allo svago,
dal riposo all’abitare, dall’educazione dello spirito al controllo del corpo;
Foucault definisce questo sistema “dispositivo d’efficienza”,
·
Questo dispositivo, partito dalla pluralità
delle tre dimensioni di cui sopra, si è scontrato strada facendo con l’incidenza delle spinte nazionalistiche, il concetto di patria,
piuttosto che delle opposizioni sociali,
uscendone però sostanzialmente immutato e vincitore; nel loro progressivo
definirsi le regole della democrazia politica hanno comunque quantomeno consentito
un minimo di equilibro nei confronti dell’efficientismo capitalistico
·
Il neoliberismo interviene per ultimo su
questo equilibrio, riprende il sistema del dispositivo d’efficienza per
orientarlo in via definitiva e totale, anche grazie al fatto di non avere più
alcuna opposizione ed alternativa, all’omogeneizzazione dell’uomo attorno
alla figura dell’impresa
·
L’uomo, nella concezione neoliberista, è infatti
un individuo che si identifica pienamente nell’attività professionale, che
lavora per l’impresa come se lavorasse per sé stesso, che fa confluire nella
motivazione professionale la sua attività desiderante, l’intera sfera del desiderio si concentra e si annulla
nella professione
·
L’individuo deve quindi tendere alla sua
completa realizzazione, accettando che i modi per ottenerla
siano quelli della competizione, della concorrenza con gli altri
individui, con i rischi connessi di fallimento, la cui
responsabilità, inevitabilmente, non può che ricadere unicamente sui suoi
personali limiti
·
Si crea così un effetto a catena in base al quale
gli individui intraprendenti riproducono a loro volta i rapporti di
competizione, innescando un adattamento soggettivo crescente a
condizioni che questa stessa mentalità contribuisce costantemente ad inasprire
· Questa
sottomissione individuale al dogma delle concorrenza non è prodotta da una astratta
adesione alla ideologia che la sostiene ma è il risultato di
tecniche diffuse di controllo, di forzatura delle scelte individuali, di politiche, a
partire dagli anni ottanta, mirate a “buttare” l’individuo
sul mercato
·
Chi non aderisce alla logica neoliberista,
chi non entra nei meccanismi dell’adattamento soggettivo crescente
semplicemente paga il prezzo di licenziamenti, riduzioni di salario,
rallentamenti di carriera, estromissione totale dal mercato del lavoro
· Il
primo comandamento diventa “aiutati da solo” (self-help); si crea così un
collegamento diretto fra la maniera di governare gli uomini,
la società, e la maniera dell’individuo di
governare sé stesso
·
L’impresa di sé stessi diventa allora la
razionalizzazione del desiderio, l’etica di impresa fa del lavoro
il veicolo privilegiato per la realizzazione di sé, del personale
bagaglio di desideri
·
E l’impresa vera e propria altro non
diventa, altro non è, se non un’entità composta dalle piccole imprese
individuali dei suoi addetti, annullando così la stessa concezione di
lavoratore dipendente; si lavora su sé stessi, sulla padronanza di sé, sul
proprio adattamento alle regole della concorrenza per il lavoro, per
potenziare, così facendo, quelle dell’impresa; si afferma in modo strisciante
ma inarrestabile la convinzione che se il mercato globalizzato appare
immodificabile, l’individuo può solo più modificare sé stesso
·
La creazione neoliberista dell’individuo imprenditore
di sé stesso, da una parte ottenuta anche grazie ad esse, fornisce al contempo una
giustificazione condivisa alle politiche di smantellamento dello stato sociale,
·
Essere imprenditori di sé stessi comporta in
primo luogo l’accettazione del concetto base di “rischio”, l’impresa
rischia, l’individuo impresa rischia allo stesso modo; Ulrich Beck (1944), constata che il
neoliberismo, così facendo, ha demolito la dimensione
collettiva delle esistenze, e che le crisi sociali
sono pertanto percepite come crisi individuali, fino al punto di
rendere inopportune, se non inesistenti, le soluzioni collettive
·
La costruzione, progressivamente sempre più
cosciente, dell’uomo imprenditore è passata attraverso diversi canali, non
necessariamente nati con questa finalità, ma sempre più sapientemente adottati
e utilizzati dalla governamentalità neoliberista per incidere sugli
orientamenti individuali; lo sport, ed il collegato
dispositivo di prestazione e la pubblicità, ed il collegato dispositivo del
godimento sono un esempio
fondamentale
·
Il culto dello sport nasce agli inizi del
1900, diventa funzionale al controllo di massa del fascismo, del comunismo, del
fordismo, e cresce a dismisura, fino a permeare lo stesso lessico diffuso, con
la svolta neoliberista degli anni ottanta imponendo il dogma della prestazione a tutte le
dimensioni umane, sesso compreso
·
Questo modello di prestazione, ben più di
quello della competitività economica, ha reso possibile l’adozione, diffusa ed
inconscia, della concorrenza individuale; l’associazione fra dovere della
prestazione, simile a quella sportiva, ed il parallelo discorso pubblicitario
dell’imperativo al
godimento, annulla ogni residuo concetto del fare ciò di cui si
è capaci e di consumare ciò di cui si ha bisogno; bisogna, come i miti dello
sport, spostare sempre più in là i propri limiti e, come invitano le sirene
pubblicitarie, consumare tutto il possibile; l’inno dell’uomo imprenditoriale,
non a caso derivato dallo sport dove è stato ampiamente adottato , è We are the champions, nel cui testo compare la frase no time for losers, non è tempo per perdenti
· Il
connubio fra dispositivi psicologici e meccanismi economici, fondamentale per
l’affermarsi dell’ideologia neoliberista, ha in parte avuto una sorta di iniziale
viatico dal mito della libera
scelta affermatosi
negli anni sessanta come mito di “sinistra”, secondo il quale nulla
doveva opporsi alla realizzazione dei desideri, ma ha certamente conosciuto,
con il neoliberismo una strumentale accelerazione: dal principio di piacere,
freudianamente sempre riconducibile al principio di realtà, si
è andati ben oltre, si è entrati nella
sfera infinita del superamento continuo dei limiti
·
L’individuo impresa che ha posto il
principio della prestazione al centro della propria esistenza ha
inevitabilmente sviluppato evidenti distorsioni psicologiche:
Ø sofferenze
sul lavoro e disagio dell’autonomia = stress – mobbing – indebolimento dei gruppi di lavoro
– sensazione di fallimento personale e collegata vergogna sociale –
delegittimazione del conflitto (i vincoli ed i problemi sul lavoro sembrano non
avere un autore identificabile presentandosi come oggettivi)
Ø erosione
della personalità =
la flessibilità istituzionalizzata destabilizza l’individuo, annulla legami
stabili, cancella tempi ed orari stabili di vita valorizza solo le competenze
spendibili, in un determinato momento, sul mercato cancellando il sapere
complessivo dell’individuo e portando inesorabilmente ai margini gli “anziani”
Ø demoralizzazione
=
l’obbligo ad atteggiamenti emozionalmente sempre e solo positivi di fatto
implica una strisciante insicurezza nella capacità reale del loro mantenimento
Ø depressione
generalizzata =
il culto della prestazione genera su larga scala patologie depressive non
appena scatta la percezione di non esserne all’altezza; è una sorta di malattia della responsabilità spesso affrontata con il ricorso al vero e
proprio doping
Ø desimbolizzazione =
Lacan ha evidenziato l’affermarsi di un discorso capitalista
neoliberista che ha cancellato i tradizionali simboli della
precedente capitalismo classico (quello studiato dalla psicanalisi freudiana,
oggi cancellata dal neoliberismo); l’identificazione con l’impresa sul piano
delle prestazioni e con i modelli e logos pubblicitari sul piano del consumo
ha cancellato ruoli sociali, parentali, di sesso
Ø perversione
ordinaria =
questa sostituzione di simboli crea, per molti psicanalisti, una relazione
perversa con l’oggetto; in un mercato globale tutto è merce, tutto si compra,
tutto diventa “oggetto”, anche le relazioni, gli altri (la scuola di
Francoforte ha definito questo processo “cosificazione”) al punto che l’individuo-
impresa quando perde va in depressione quando vince, ossia quando compra,
impone su cosa o chi ha comprato il suo diritto di godere senza limiti delle
cose e/o di far soffrire gli altri
·
l’umanità neoliberista è così entrata in un regime di godimento di sé inteso come aspirazione, irrealizzabile, ad
una pienezza totale di successo e consumo, come se tutti fossero padroni o almeno come se tutti pensassero di
esserlo; nel mondo basato sulla concorrenza non è più possibile
concepire, accettare, di perdere, ma se la perdita è in partenza negata,
rifiutata, non esistono più, di conseguenza, limiti al godimento
·
nel capitalismo classico tutti perdevano
qualcosa, il padrone la certezza di godere della propria ricchezza messa in
gioco nel rischio d’impresa, il lavoratore il proprio tempo e le proprie doti
per avere un salario; l’individuo-impresa neoliberista
non può più perdere perché è al tempo stesso il lavoratore che accumula il
capitale e l’azionista che ne gode
·
performare senza limiti le proprie
prestazioni, godere senza limiti dei loro frutti è l’immaginario della condizione
umana neoliberista, in sostanza, su ambedue i versanti fra loro collegati, il delirante godimento di sé
· è
fondamentale capire che non reggono, in questo quadro, le critiche
conservatrici, nostalgiche della vecchia
morale capitalistica, all’individuo moderno visto solo come individualista – edonista
– narcisista; il neosoggetto è interamente
governato dalla mentalità neoliberista mediante il dispositivo
prestazione/godimento, all’interno del quale la prestazione
incide alla pari del godimento; il moralismo di destra nostalgico
dei bei tempi andati dimentica troppo in fretta questo aspetto
·
non è più sufficiente, di conseguenza,
deplorare la crisi di istituzioni sociali (scuola, famiglia, sindacati e
partiti) e di valori (cultura, democrazia) occorre invece capire come queste
istituzioni, questi valori siano state integrate nel dispositivo
prestazione/godimento attraverso vere e proprie tecnologie di controllo (la
rete, medicalizzazione, registrazione dei comportamenti) finalizzate alla
programmazione degli individui, anche per evitare che il superamento illimitato
di sé del neosoggetto neoliberista debordi in comportamenti sociali ingestibili
(di cui peraltro abbondano le quotidiane cronache)
_________________________________________________________________________
Conclusioni
· In
sintesi la ragione (la nuova ragione del mondo)
neoliberista poggia su quattro cardini:
Ø il
mercato non è un dato naturale ma una realtà costruita, richiede un ruolo
attivo dello Stato per la costruzione di un sistema specifico di Diritto
Ø l’essenza
del mercato non è lo scambio, ma la concorrenza, lo Stato ne deve attuare e
garantire la piena applicazione
Ø lo
Stato stesso deve essere sottoposto alla concorrenza, il Diritto Pubblico deve
essere soppiantato dal Diritto Privato
Ø il
principio della concorrenza vale, oltre che per Imprese e Stato, per ogni
individuo, lo Stato deve attuare politiche che realizzino pienamente questa
condizione trasformando il singolo in Individuo-Impresa
· Viene
così cancellata ogni separazione tra sfera pubblica e sfera privata fondamento
della democrazia liberale; è il rapporto tra governanti e governati ad essere
radicalmente sovvertito
· L’accesso
ai servizi pubblici non si basa più sul possesso dello statuto di cittadino titolare
in quanto tale di determinati diritti, ma si è trasformato in una normale
transazione di mercato dove per avere occorre dare; all’individuo, non più
cittadino, la società non deve nulla
· La “cittadinanza civile” del 1700, arricchita nel 1800 dei
requisiti della “cittadinanza politica”, e completata
nel 1900 da quelli della “cittadinanza sociale”, sono così totalmente
annullate
· Non
esistono più, in un quadro di totale omologazione, differenze fra i vari regimi
politici, l’idea stessa che la “democrazia” si identifichi con la
sovranità del popolo è messa in discussione; il valore supremo è la
libertà individuale intesa come diritto dell’individuo (impresa) di crearsi un
proprio autonomo spazio di “proprietà”, la partecipazione diventa ininfluente e
la democrazia ridotta ad una procedura di selezione di “dirigenti”
scelti sulla base di risultati concreti e non di un bagaglio di idee e valori
·
Nell’involucro vuoto della democrazia
liberale il neoliberismo è diventato la razionalità dominante,
imposta e realizzata tramite la realizzazione progressiva di un dispositivo di controllo totale e strategico (istituzionale, politico,
giuridico, economico, morale, psicologico, biologico) in gran parte immune da
influenze ideologiche pure al punto che esso può
accompagnarsi al neoconservatorismo di destra americano piuttosto che al mito
della modernità della sinistra europea
· La
crisi del 2007/2008, lungi dal riproporre il ritorno ad un capitalismo buono, può
sancire per la prima volta una necessità di riaggiustamento del dispositivo
neoliberista; è possibile che si stia entrando in una nuova fase del
neoliberismo, nella quale incidano maggiormente le riflessioni
teoriche dell’ordoliberalismo
· In
questa crisi può inserirsi un ruolo di una sinistra degna del nome, a
condizione che sappia articolare una proposta politica all’altezza del
dispositivo di controllo neoliberista, una governamentalità alternativa a
quella neoliberista
· Occorre
uno sforzo notevole, non sono più sufficienti, se mai lo sono stati, appelli a “ritorni”:
alla democrazia formale, ad una maggiore impronta sociale, ad una
governamentalità socialista di fatto mai esistita; centrale in questo senso è
la ridefinizione del concetto di governo; la creazione di una nuova governamentalità alternativa a quella neoliberista richiede un governo degli uomini, attento a non porsi contro il mondo delle cose, ed una amministrazione delle cose, che miri alla libertà degli
uomini
· La
storia della concezione di governo propria della sinistra, specie marxista,
denota una propensione (mutuata dalle riflessioni svolte al riguardo da
Rousseau, da Saint-Simon, da Engels, tutte miranti a fissare una netta
separazione fra governo e amministrazione) a privilegiare l’azione
amministrativa, legislativa, alla gestione delle cose, come se di
per sè stesse fossero in grado di “governare”, su quella di governo degli
uomini, delle loro mentalità, in molti casi affidata ad azioni coercitive e di
comando; il risultato è stata, finora, la mancanza di una definita
governamentalità di sinistra, la quale si è spesso ridotta a “prendere in
prestito” quella liberale
·
E non sarebbe comunque sufficiente una
ridefinizione di sinistra del governo degli altri, il nemico da
battere è la capacità del neoliberismo di creare una governamentalità che
agisce in primis sul governo di sé come punto di partenza per il governo degli
altri
· Così
come sarebbe un errore immaginare, vedendo nel neoliberismo non questa governamentalità
ma un semplice revival del liberismo di prima maniera, di replicare auspicando
un ritorno a politiche keynesiane, di rilancio puro e semplice del ruolo dello
Stato; azione di per sé già fallimentare vista la natura “imprenditoriale”
ormai assunta dallo Stato con caratteristiche, su scala globale, pressochè
irreversibili
·
Si delinea un percorso lungo e complesso, è più facile evadere da una prigione che uscire da una razionalità,
ma è questa la scommessa di fronte alla sinistra; non saranno sufficienti, per
quanto auspicabili e necessari, cambiamenti di governo quando la partita si
gioca sulla capacità di creare nuova razionalità, nuova soggettività, in questo senso etica e politica diventano inseparabili, non si farà
strada insistendo solo sulla seconda piuttosto che invocando la prima.
· Forse
il primo passo è partire dalla consapevolezza che il capitalismo neoliberista,
la governamentalità neoliberista, la sua ragione del mondo, non cadranno come
frutti maturi per via delle contraddizioni interne; lo stesso Marx affermava
con chiarezza che ”la storia (da sola) non fa niente”, quelli che contano, quelli
che fanno, sono gli uomini
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