Se ne parla in un altro post, eccolo per chi non ha finora avuto la possibilità di leggerlo
ELOGIO
DELLA NOIA
Articolo
di Massimo Recalcati
La Repubblica del 15/11/2015
I
pomeriggi assolati dove non c'era «neanche un prete per chiacchierare», elevati
da Paolo Conte alla dignità metafisica di un caracollare esistenziale senza «né
fine, né meta», hanno dipinto per molti di noi estati dove le città erano
davvero deserte e la solitudine di chi restava davvero esposta all'esperienza
assoluta dell'assenza. Il nostro tempo non conosce più quelle sane oasi di
noia: l'imperativo della connessione perpetua ha frastornato sia il prete che
colui che ne ricercava invano la parola. Adesso, anziché tagliare le rose nel
giardino per resistere ad un tempo che non passa mai, siamo a rincorrere un tempo
in fuga perpetua che cancella tutti gli spazi vuoti. Ogni interstizio temporale
deve essere riempito da un febbrile attivismo o dalla violenza rabbiosa di chi,
in modi diversi, non si trova immerso nel grande fiume dell'esistenza
iperattiva, in permanente "mobilitazione totale". Li ricordiamo
ancora i ragazzi delle pietre lanciate dai cavalcavia delle autostrade? Il loro
teppismo sciagurato non denunciava forse l'impossibilità di sostare nel vuoto,
nel deserto di una vita di provincia che probabilmente non era così diversa da
quella cantata da Conte? Ammazzare per gioco, non era forse un modo (assurdo)
per ammazzare il tempo? Non accade anche oggi? In disuso, se Dio vuole, il
gesto orrendo della pietra scagliata al passare anonimo delle automobili, la noia
continua a foraggiare passaggi all'atto erratici che segnalano quanto
insopportabile essa sia divenuta per noi occidentali: la violenza gratuita e
vandalica, l'abbruttimento del consumo delle droghe, l'abuso compulsivo degli
oggetti tecnologici, l'incentivazione di sensazioni sempre più inebrianti e
assordanti hanno spazzato via l'immagine pastorale dell'oratorio deserto di
Paolo Conte. La noia non accompagna solamente il vuoto d'essere di chi si sente
tagliato fuori dalla corsa all'affermazione della propria vita, ma anche chi in
questa corsa si è affermato come primo. È quello che Kirkegaard, in pagine
sublimi, descrive come l'ombra melanconica dello sguardo di Nerone che, nella
leggenda, proprio per noia brucia la città di Roma. Anche il nostro tempo che
sembra ipnotizzato dal culto del Nuovo rivela la stessa melanconia inquietante:
tutto deve restare sempre acceso (I Phone, I Pad, social networks, televisione,
ecc.), così freneticamente acceso che, come direbbe Didi-Huberman lettore di
Pasolini, la flebile luce delle lucciole — che alludevano ad un tempo dove la
noia non era ancora vissuta come un demone cattivo ma come un momento
necessario alla vita -, si è definitivamente estinta.
Se
la noia è divenuta oggi solo esperienza del tempo che gira su se stesso in una
ripetizione priva di vita, i primi prigionieri di questa gabbia sono
innanzitutto coloro che vivono facendo di tutto per sfuggirgli: l'euforia del
Nuovo ricercato a tutti i costi svela, infatti, sempre la stessa identica
insoddisfazione. Tuttavia, come sa bene lo psicoanalista, il Nuovo che vorrebbe
evitare la noia non è mai realmente Nuovo, ma solo un suo cattivo antidoto che
finisce, in realtà, per potenziare quella stessa noia che vorrebbe invece
contrastare. Lo psicoanalista raccoglie dietro alle quinte dello spirito
libertino del nostro tempo fatto di Aperi-cene e di Feste, la delusione
annoiata che accompagna inesorabilmente i suoi protagonisti felliniani di cui
La Grande Bellezza di Sorrentino ci ha dato un ritratto irresistibile. Non è questa
una lezione della quale si dovrebbe tenere conto? Se al fondo della grande
giostra dell'Occidente ritroviamo lo spettro della noia non è forse perché
abbiamo frainteso profondamente il suo significato? Può la noia non essere solo
l'esperienza soggettiva di qualcosa che si è semplicemente esaurito, che ha
finito di essere vivo spegnendosi inesorabilmente, come in un rapporto di
coppia sfiancato dal tempo o come nell'ascoltare un vecchio comico che ripete
sempre lo stesso, ormai logoro, repertorio? Nella noia, è vero, tutto si
appiattisce, diventa grigio, ripetitivo, scontato. I padri della Chiesa, non a
caso, la reclutano tra i sette vizi capitali sotto il nome di
"accidia": è il peccato della caduta del desiderio e del suo
sfinimento, è il peccato che fa venire meno il miracolo stesso del mondo.
L'annoiato, infatti, sembra non riesca più a fare alcuna esperienza
"religiosa" del mondo perché niente lo colpisce, lo entusiasma, lo
scuote più. Tutto appare piatto, prevedibile, già visto, già saputo, già fatto.
È il carattere evenemenziale del mondo che viene meno e riduce la vita stessa a
un ingranaggio anonimo che non riserva più alcuna sorpresa. L'annoiato sa che
non ci sarà più niente capace di toccarlo, di farlo vibrare, di sorprenderlo;
la noia accompagna il disincanto ipermoderno (cinico-materialistico) per il
mondo. Il quartetto perverso che organizza il godimento più depravato e
anarchico nel Salò di Pasolini è, innanzitutto, annoiato dal mondo. La loro
apatia inquietante traduce la caduta verticale del senso autenticamente erotico
della vita: nel nostro tempo non c'è più spazio per la meraviglia nei confronti
dell'apparizione miracolosa del mondo. Ma la noia è davvero solo il nome di
questa malattia? La sua lezione non ci insegna forse anche qualcos'altro? La
noia è il "desiderio dell'Altrove", ha affermato una volta Lacan
associandola stranamente alla rivolta, alla preghiera e all'attesa. Perché?
Cosa hanno in comune queste esperienze apparentemente così diverse? Esse
indicano la necessità della vita umana di allargare sempre l'orizzonte del
proprio mondo, di spostare in avanti i propri limiti. L'annoiato è a prima
vista colui che incontra il mondo come un orizzonte chiuso, ristretto,
soffocante. Ma la noia non registra solo la chiusura del mondo; essa agisce
anche come una spinta a riaprire, a rinnovare il suo orizzonte. L'annoiato è
esausto del mondo così com'è, è sfinito dalla presenza oppressiva di questo
mondo, ma non del Mondo come tale! Egli è come chi si rivolta ai padroni del
mondo, come chi attende l'arrivo dell'Altro che gli porti un annuncio di vita
nuova, come chi si inginocchia pregando e invocando l'Altro. La noia mostra che
questo mondo, il mondo visibile, il mondo come pura presenza, non è mai davvero
tutto il Mondo. Essa trapela nello sguardo del bambino che per resistere al
sapere asfissiante che la maestra gli propina non può che sbadigliare senza
scampo. La sua testa cadrebbe pesantemente sul banco, se la sua noia, anziché
ripetere sempre lo stesso mondo, come accade per la maestra, non ne invocasse
l'esistenza di un altro. Lo sguardo del bambino si stacca dal banco e dai suoi
quaderni, dalla lavagna tetra e dallo sguardo vuoto della maestra per
rivolgersi finalmente Altrove. Dove? Fuori, via da lì, all'aperto, verso un
altro mondo, Altrove; verso il glicine viola, il campo di calcio, la bambina
che cammina con la sua veste rossa per strada, la neve che copiosa scende sul
cortile. Non è forse questa la lezione più positiva della noia? La noia del
bambino è sempre una rivolta, una attesa, una preghiera.
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