martedì 1 marzo 2016

"L'infelicità araba" libro di Samir Kassir - presentazione/sintesi a cura di E. Gallo


“L’infelicità araba”

di Samir Kassir

ed. Einaudi

Presentazione

l’autore:

Samir Kassir, nato a Beirut nel 1960 da padre palestinese e madre siriana, è stato uno degli uomini di punta della vita intellettuale e politica libanese, impegnandosi come storico e come giornalista militante ad indagare l’identità nazionale del proprio paese e a lottare per la democratizzazione delle sue istituzioni. Ha sostenuto con passione la causa palestinese e nel 2005 è stato fra gli ispiratori della cosiddetta “primavera di Beirut”, il movimento di massa che ha condotto alla liberazione del Libano dalle truppe di occupazione siriane. Un impegno, questo, che ha pagato con la vita: è stato infatti assassinato nel giugno dello stesso anno in un attentato terroristico i cui mandanti non sono mai stati individuati con certezza, anche se aveva ricevuto in passato minacce da parte di agenti dei servizi segreti e degli apparati di sicurezza libanesi e siriani, per cui in Libano molti pensano che sia da addebitare ad essi la responsabilità dell’assassinio.

il testo:

Il libro che presentiamo, scritto un anno prima della tragica fine del suo autore, ha finito così per assumere il valore di un testamento spirituale, consegnandoci l’immagine di un intellettuale di formazione occidentale (aveva conseguito a Parigi la laurea e il dottorato di ricerca in storia contemporanea) ma non alienato, come dice lui stesso nella prefazione, ad una cultura straniera, capace nondimeno di farne propri alcuni elementi e di gettare così un possibile ponte fra culture diverse, in forte dissenso con l’idea di un inevitabile “scontro di civiltà”. Questa posizione non gli impedisce certo di denunciare in modo molto netto le pesanti responsabilità dell’Occidente, passate e presenti, nel  determinare  il senso di  impotenza e di  frustrazione  che  concorre a quella che definisce “l’infelicità araba”, ma neanche di indicare le responsabilità altrettanto grandi di un mondo arabo che si è autoimprigionato in una cultura del vittimismo foriera di conseguenze funeste.

Una cultura che fa leva intanto su di una lettura della propria storia ipnotizzata dall’idea di un passato mitico e glorioso – di cui peraltro non si colgono a sufficienza gli aspetti universalistici e sincretici - e di una successiva inarrestabile decadenza, incapace pertanto di vedere come il confronto con la modernità non sia mai stato del tutto assente e come  ci siano stati momenti importanti in cui le idee di libertà e progresso di stampo illuministico e laico hanno avuto forte presa nel mondo arabo, testimoniando come non ci sia  con esse alcuna  incompatibilità  culturale o peggio ancora genetica, come molti amano pensare. Incontri che devono essere necessariamente ripresi e portati a compimento se si vuole dare vita ad una nuova rinascita araba, facendo retrocedere le derive islamiste che rappresentano  un  autentico e mortifero regresso  e che sono di fatto destinate a rendere la crisi irreversibile mentre promettono di risolverla, ma che vanno addebitate anche ad una colpevole latitanza della politica e ad un distacco dei movimenti nazionalisti da quell’universalismo che aveva in precedenza alimentato la loro azione, e che avrebbe potuto ostacolare con più forza questa deriva. Un libro manifesto dunque, in cui la passione dello storico e dell’intellettuale politicamente impegnato si accompagna ad una scrittura agile e del tutto priva di retorica, con argomentazioni che possono di volta in volta essere motivo di discussione ma il cui messaggio complessivo non può che essere condiviso. Un libro sugli arabi scritto per gli arabi, ma non solo, che rappresenta un messaggio di speranza nella possibilità di invertire un destino prendendo nelle proprie mani l’impegno di modificarlo, pur nella consapevolezza delle difficoltà che questo comporta, evidenziate drammaticamente dalla tragica fine del suo autore. 

 
Sintesi del testo

 Cap. 1/3:  L’impotenza come cifra dell’infelicità araba: 
 cause esterne e interne
 Non è facile, oggi, essere arabi – osserva Samir Kassir, che si autodefinisce, nella premessa, “un intellettuale arabo del Mashreq, laico, acculturato e perfino occidentalizzato, ma che non si considera alienato ad una cultura straniera ed è, in ogni caso, poco desideroso di eliminare quelli che non la pensano come lui…”: dopo l’11 settembre significa infatti essere bollati con un termine che viene ridotto ad una etnicità tacciata di infamia o ad una cultura negatrice, ma oltre a questo vuol dire  abitare in una delle zone del pianeta dove, ad eccezione dell’Africa subsahariana, minori sono le opportunità per gli uomini e tanto più per le donne e più carente la possibilità di proiettare se stessi nel futuro, senza sentirlo come una strada ostruita che prevede solo un ritorno al passato.

Vuol dire dunque essere “infelici”, a patto di non considerare fuorviante l’uso di questa espressione in un saggio di analisi storico-politica, se infelici vuol dire essere sottomessi non solo allo sguardo dell’Altro (quell’Altro che presume di conoscerti meglio di quanto tu conosca te stesso, inchiodandoti nel suo giudizio ad una tua supposta ed ineluttabile inferiorità congenita, quell’Altro che ti ferma alle frontiere, esaminando con aria dubbiosa o peggio ancora condiscendente i tuoi documenti) ma anche al proprio sguardo sull’Altro, sentendo il peso del confronto sia rispetto ad una civiltà, quella occidentale, che ad ogni momento sforna novità tecnologiche, sia rispetto a quei paesi emergenti che hanno saputo abbinare alla crescita economica una transizione ormai stabilizzata verso la democrazia.

Una infelicità, continua Kassir, che pare condannare l’intero mondo arabo ad una impotenza foriera di frustrazione, le cui cause sono certo complesse se pure riconducibili ad alcuni elementi chiave.

un mondo in bilico fra  le responsabilità dell’occidente e il deficit di democrazia:

Ci sono intanto le cause che vengono dall’esterno: e qui l’autore non fa davvero sconti all’occidente e alle sue colpe passate e recenti, condannando senza mezze misure sia la guerra in Iraq, che ha riportato l’occupazione straniera sulla terra araba, amplificandone la frustrazione e infoltendo i ranghi di coloro che antepongono la lotta contro gli stranieri a quella per la democrazia, sia l’impunità di cui Israele continua a godere grazie all’amico americano, che non vuole o non riesce a contenerne la volontà di potenza (elementi  entrambi che hanno avuto a suo giudizio una parte non secondaria nell’emersione di un nuovo tropismo religioso, facendo il gioco di coloro che lucrano sullo scontro di civiltà e sostengono l’idea di una inferiorità  non solo culturale ma addirittura genetica degli arabi).

Oltre a queste cause esterne peraltro ci sono cause interne che Kassir non ha remore nel riconoscere  e che derivano, a  suo giudizio, non tanto da un lutto non elaborato per la grandezza di un tempo (“una impotenza ad essere, dopo essere stati”), ma piuttosto da una sorta di grave impasse presente in tutti i paesi del vasto arcipelago arabo, che offrono in diversa misura l’immagine sconsolante di società in crisi e di entità statali  del tutto incapaci di essere protagoniste della propria storia.

Benché ovviamente datato, il quadro che l’autore ne traccia è davvero impressionante e rende drammaticamente evidenti i prodromi delle derive e della disgregazione a cui stiamo oggi assistendo: in un certo senso, anzi, è proprio questa distanza temporale ad aumentare l’impatto della sua ricognizione,  che non è costruita a tavolino dallo storico che conosce l’esito degli avvenimenti e ne ricostruisce le cause, ma condotta da chi è insieme attore in situazione e osservatore, in qualità sia di storico  che di giornalista militante.

Kassir denuncia ad esempio la condizione gravissima in cui si trova la Siria, sfibrata da quarant’anni di dittatura e depredata sistematicamente dai clan mafiosi che strutturano il potere, vedendo come essa stia precipitando  in una situazione senza uguali nel mondo arabo: e qui, naturalmente, il lettore odierno che ne ha visto di recente la spaventosa dissoluzione, misurandone gli effetti anche sulla tenuta dell’Unione Europea, non può che sentirsi davvero coinvolto da un’analisi condotta in anni in cui forse qualcosa poteva ancora essere fatto e dove l’insipienza di molti, compresa quella di un’Europa interessata solo a fattori economici e con una visuale di corto respiro, si è rivelata in tutta la sua portata…

Attraverso di essa l’autore mette in luce quelle che considera le vere tare del mondo arabo: un panarabismo che da promessa è diventato via via un elemento apportatore di violenza, una referenza religiosa chiusa in una lettura ristretta, letterale e precettistica del testo sacro, ma soprattutto un deficit democratico tale per cui in nessun paese arabo la cittadinanza gode di quel minimo di garanzie indispensabili per dare vita ad un cambiamento autentico.

Un deficit, osserva Kassir, che alcuni addebitano ad una predisposizione culturale, quando non addirittura genetica, ma che invece a suo giudizio è l’effetto di una profonda crisi che investe gli stati e i cui sintomi sono rintracciabili sia nella ricorrente tendenza a mettere in discussione l’unità interna, per proporre una solidarietà interstatale su base religiosa o etnica, che nello scadimento delle istituzioni, anche di quelle nate dall’indipendenza, che hanno privilegiato la problematica della liberazione nazionale a scapito dei principi dello stato di diritto.

Se poi a questo aggiungiamo le abdicazioni di sovranità in materia economica e finanziaria a cui i governi dal più al meno consentono, si comprende come sia proprio il cattivo funzionamento della politica a favorire il riprodursi di egemonie esterne, facendo del variegato continente arabo l’unico in cui l’assenza di democrazia si coniuga con il controllo straniero e addirittura con nuove forme di colonialismo: una situazione indubbiamente assai pesante il cui effetto è certo potenziato, nell’inconscio arabo, dal raffronto con un glorioso e vagheggiato passato, ma che soprattutto diventano pretesto per lo stabilimento di un persistente stato d’emergenza contro la minaccia esterna, che mette al bando gli strumenti regolatori della democrazia.

l’avanzata dell’islam radicale come conseguenza di una profonda crisi politica:

 In tali condizioni, l’avanzata dell’islam politico radicale è davvero da intendere, secondo l’autore, come una conseguenza di questo impasse: non solo dunque un rifiuto del modernismo di stampo occidentale, ma anche una risposta a poteri ritenuti iniqui e al fallimento dello stato. E’ questo intreccio a farne un fenomeno complesso, spiegando l’adesione di una parte della popolazione che non comprende come esso non sia una via d’uscita dalla crisi, ma uno dei fattori destinati a prolungarla, rendendo sempre più difficile quell’ incontro  con la modernità che pure è stato più volte cercato. 

L’acquisizione di uno spazio sempre maggiore da parte del pensiero religioso rappresenta infatti, a suo giudizio, un autentico regresso rispetto alla storia araba. Sbaglia decisamente il bersaglio pertanto chi considera questa avanzata come un tentativo di recuperare l’antica grandezza, che anzi l’islamismo radicale  intende invece del tutto azzerare, facendo riferimento non certo all’età d’oro della civiltà arabo islamica – la cui complessità viene pertanto rinnegata - ma solo al breve periodo iniziale (un quarantennio circa), considerato l’unico davvero “puro”.  Eppure, secondo Kassir, è soltanto attraverso un recupero della storia nella sua interezza e complessità che si potrebbe pensare di mettere davvero un termine a questa infelicità che deriva in gran parte da una non obiettiva conoscenza della propria storia e da una incompleta e mutilata coscienza di sé.

               

Cap. 4/5 :  Una proposta di lettura  non stereotipata della storia araba  come indispensabile premessa  per una nuova coscienza di sè

 
splendore, decadenza, breve risvegli - difetti e limiti  di questa ripartizione canonica

E a questo recupero dunque che Kassir dedica i capitoli centrali del testo, segnalando intanto la persistente difficoltà della stessa storiografia araba ad uscire dalla visione canonica (corrispondente del resto a quella proposta da alcuni autori occidentali considerati autorevoli interpreti della storia araba, come Bernard Lewis, che a suo giudizio non hanno certo giovato a dare una visione positiva  dell’arabità odierna): una visione stereotipata che ha finito col  ridurne la complessità, rappresentando un mondo a-storico che dopo un glorioso passato si è via via rinchiuso e paralizzato in una inarrestabile decadenza e a cui il pur importante momento di risveglio (la cosiddetta  Nahda*), con il suo fallimento, ha dato il sigillo definitivo.

Ma è davvero stato così? E’ ben diversa la posizione di Kassir, che intende questo modello interpretativo come una sorta di zavorra da cui è importante liberarsi attraverso una lettura storica più obiettiva e completa, che permetta di svincolarsi tanto dalla predestinazione religiosa quanto dalla teleologia nazionalista. Basterebbe per intanto, per quanto riguarda il primo punto, ammettere  finalmente che il mondo arabo prima dell’islam non era solo il regno del caos e del nomadismo guerriero, una “Jahiliya”, ossia un’epoca di ignoranza (le scoperte archeologiche recenti consentono infatti una visione diversa da quella corrente,  consentendo di de-islamizzare gli inizi con un possibile effetto di “rivoluzione copernicana”) e ancora riconoscere che nell’età classica la religione, pur unificando il mondo conquistato dagli arabi, fu soltanto una delle componenti di una civiltà universalistica, che fondeva popoli assai diversi senza azzerarne le specificità, come accadde nell’impero romano: un mondo in cui gli antichi saperi non solo furono recuperati, ma diedero vita a nuove ed originali interpretazioni  e in cui fu possibile ad alcuni filosofi di postulare l’universalità della ragione (un precedente, osserva Kassir, su cui dovrebbero riflettere quanti ritengono che non sia possibile una  democrazia in terra araba).

Certo, dopo gli anni dello splendore la decadenza ci fu, anche se ad una lettura più attenta il cosiddetto medioevo arabo (sopravvenuto con l’indebolimento abbasside, accelerato dalle invasioni dei Mongoli e di quei “nuovi barbari” che furono, secondo la definizione dell’autore, i crociati) non fu soltanto un seguito di anni oscuri, con l’instaurarsi di  uno stato – quello dei Mamelucchi - caratterizzato dall’intolleranza religiosa e da continue rivolte di palazzo. Esso infatti registrò pur sempre non solo la tenuta del mondo arabo, che ebbe alla fine la capacità di respingere gli invasori, ma anche dei fermenti culturali importanti - testimoniati  da una splendida architettura barocca e dalla nascita del  primo abbozzo  di sociologia politica da parte di Ibn Khaldun - senza contare che nell’epoca ottomana, grazie all’espansione imperiale, la potenza musulmana si ristabilì esercitando dal punto di vista culturale un’influenza non inferiore a quella greco-bizantina.

Al di là di questo è comunque fondamentale, secondo Kassir, saper vedere come ogni epoca ebbe la sua parte di conquiste e di insuccessi, sia in campo militare che politico e culturale: una consapevolezza più matura consentirebbe di leggere la storia araba come una storia di esperienze culturali, o meglio ancora, dice, come una somma di differenze culturali, a cui nulla di umano  è stato estraneo (proprio questa ampiezza spiega anche il fatto che ognuno può trovare in essa sostegno per le sue tesi, dimenticando che fu, per l’appunto, un insieme complesso  in cui tendenze teologiche ristrette si incontrarono e si scontrarono con il razionalismo aristotelico, l’interpretazione più letterale e retriva del testo sacro con esperienze spirituali più evolute).  

il mondo arabo di fronte alla modernità: la Nahda

 Relativizzare la decadenza, aggiunge l’autore, non implica peraltro chiudere gli occhi di fronte a quella che è sempre stata considerata una carenza importante della cultura araba, e cioè quella tecnica. Anche in questo caso peraltro occorre fare alcune precisazioni importanti, riconoscendo anzitutto come il contributo arabo alla tecnologia sia stato in passato estremamente importante (basti pensare alla medicina, all’ottica, ai sistemi di navigazione e soprattutto all’artiglieria, che permise all’impero ottomano di reggere a lungo allo scontro con i suoi avversari). 

Se poi passiamo all’età moderna, di fronte ad un’Europa che si trasformava con la rivoluzione industriale preparandosi a diventare una potenza colonizzatrice, occorre segnalare una buona capacità dell’oriente musulmano di reagire, di adattarsi: ne fanno fede, dice Kassir, le grandi riforme di Muhammad’Ali in Egitto, oltre a quelle attuate soprattutto in campo giuridico e amministrativo – la cosiddetta Tanzimat - dall’élite ottomana di Istambul, che cambiarono il volto dell’antico impero fino a farlo diventare, sia pure per un periodo breve, uno stato costituzionale,  e soprattutto a quel periodo di grande rinnovamento, avvenuto negli ultimi decenni dell’800, che gli arabi chiamano Nahda.

E’ appunto alla Nahda che Kassir dedica una particolare attenzione, perché vi si è realizzato, a suo giudizio, quell’incontro arabo con la modernità che dimostra come esso non sia impossibile, benché la stessa storiografia araba tenda a sottovalutarne il valore, vuoi considerandola come un evento storico quasi fortuito e comunque chiuso in un già remoto passato, vuoi limitandone la lettura in chiave nazionalista. E qui l’autore prende di mira il secondo elemento da cui è necessario svincolarsi, e cioè la teleologia nazionalista: perché se è vero che nella Nahda il risveglio dello spirito nazionale e patriottico è stato certamente presente, tanto da farla assimilare al Risorgimento italiano, è vero anche che leggerla secondo il prisma nazionalistico rischia di metterne in ombra la natura molto più ampia e complessa, oltre a far gravare il fallimento delle aspirazioni nazionali sull’intero periodo.

A suo giudizio invece la Nahda, più che del Risorgimento, fu figlia dell’idea di progresso e dell’illuminismo europeo, e si iscrive pertanto nel solco tracciato dagli ideali della Rivoluzione francese che non si esauriscono nel nazionalismo ma contemplano quell’idea forte di universalità, libertà, inalienabilità dei diritti che ha investito allora non solo il mondo arabo, ma tutte le etnie presenti nell’impero ottomano, dando vita ad un’immane opera di trasformazione culturale a cui non fu estranea neanche la dimensione religiosa (sembra incredibile, dice Kassir, ma perfino la lingua sacra del Corano si è rinnovata attraverso la traduzione della Bibbia cristiana, a cui ha collaborato fra gli altri un importante erudito musulmano; segno questo del profondo umanesimo di un periodo che ha visto  il rinnovamento della lingua, attraverso l’adozione di generi letterali sconosciuti alla tradizione araba,  mutamenti importanti nelle forme di socializzazione –una stampa diversificata, l’istituzione di numerose scuole superiori ad opera di privati e dell’autorità pubblica ottomana - e in generale  un rinnovamento forte dei saperi e della mentalità).

Il travisamento di una lettura limitata al nazionalismo, ricorrente nella storiografia araba e non solo, rischia dunque di negare che la cultura araba si è ricostruita a partire dall’incontro con l’Altro, con l’Europa: un incontro non semplice, perché lo scambio è stato spesso a senso unico e condizionato dalla contrapposizione fra Occidente e Oriente, provocando frustrazioni profonde nello spirito arabo, ma da cui non si può prescindere, secondo Kassir, se si vuole costruire una sintassi della modernità.

Un incontro che ha provocato certamente delle reticenze importanti che la sua ricostruzione non intende affatto sottovalutare, sebbene egli ritenga che da esse non possa derivare l’idea di un’antitesi fra islam e modernizzazione. Questa continuò infatti nel novecento, benché ci sia stato un fallimento nella dimensione delle nazionalità, in quanto le aspirazioni degli arabi all’indipendenza furono di fatto ignorate quando l’impero ottomano venne spazzato via dall’intrusione coloniale degli europei.

incontri novecenteschi con la modernità: una storia che continua

Anche se la Nahda come momento storico e aspirazione nazionalistica può considerarsi chiusa verso la fine della prima guerra mondiale, prosegue nel novecento come attitudine e visione del mondo portatrice di rinnovamento culturale e di una modernizzazione di stampo occidentale, dando vita in particolare, fra gli anni 20 e 30, ad un periodo di intensa fioritura intellettuale (testimoniata in modo sensibile da un rinnovamento in campo letterario a cui verrà dato il nome di “Tajdid”).

Certo non si può negare, ammette Kassir, che in questo stesso periodo il nazionalismo arabo venga ormai sempre più chiaramente espresso in funzione antieuropea, ma il confronto con l’occidente è ancora di stimolo: è dalla storia del pensiero europeo che derivano infatti molti dei suoi contenuti, essendo i suoi maggiori esponenti formati alla scuola occidentale. Anche la fondazione della Confraternita dei Fratelli Musulmani*, che viene a rappresentare la resistenza all’occidentalizzazione di costumi e cultura, non muove sostanzialmente questo quadro: almeno nel primo periodo, se la modernità in stile occidentale non attacca direttamente la sfera del sacro, continua a prevalere e avrà anzi una ripresa molto forte negli anni 50 e 60 (giova certamente a questa situazione, che vede il mondo arabo non ancora rinchiuso in se stesso – nonostante la forte disillusione nei confronti delle potenze europee che avevano sostenuto la costruzione del nuovo stato d’Israele sulle spoglie della Palestina – il fatto che l’occidente non appaia più monolitico, ma diviso in due blocchi contrapposti, con i paesi socialisti che sostengono le rivendicazioni dei popoli e la liberazione nazionale).

In questi anni infatti la cultura araba avrà di nuovo un incontro con la modernità di straordinaria ampiezza, testimoniata nella produzione culturale da un’apertura verso forme al passo con i tempi: dalla pittura, dove nel corso di pochissimi anni gli artisti arabi bruciarono davvero tutte le tappe mettendosi al passo con le avanguardie europee, al teatro, che trova la sua terra di elezione in Egitto, dove sarà peraltro il cinema a rappresentare ancora più efficacemente l’ingresso del mondo arabo nella modernità (basti pensare, dice Kassir, che l’industria cinematografica egiziana era la terza del mondo, dopo Hollywood e Bombay, e prima di Cinecittà), rendendo evidenti i cambiamenti nella vita quotidiana e nell’immagine delle donne, che diventano in questo periodo molto più libere nel comportamento e attive nel dare un contributo all’evoluzione della società egiziana .

E’ pur vero che esse non godono dappertutto della stessa libertà di movimento e che il sistema giuridico dei paesi arabi fatica ad adeguarsi al mutamento (Kassir fa però notare, con una certa ironia, che le siriane avranno accesso al voto prima delle francesi…); nello stesso tempo la modernizzazione non raggiunge tutti i paesi allo stesso modo, e in particolare quelli della penisola araba resteranno ai margini di questo processo rinnovatore in cui il mondo arabo è stato davvero inserito nella storia moderna, con l’Algeria che diventa un esempio per i popoli oppressi, con la Tunisia di Bourghiba che impone il suo laicismo, con l’Egitto di Nasser che appare uno dei pilastri dell’Africa e del Terzo Mondo.

Poi, la frenata, in cui le istanze conservatrici, che erano state sempre presenti ma venivano combattute,  riprendono il sopravvento, con il puritanesimo che rimette il velo, prima quasi scomparso, sulla testa delle donne e in generale con il progressivo distanziamento dalla cultura europea e dalla modernità: un effetto perverso, secondo Kassir, prodotto più ancora che dalla radicalizzazione dell’arabismo dopo la disfatta palestinese, da alcuni elementi interni ai paesi arabi, dove l’eccesso di statalismo e l’insufficienza della vita democratica finirà con l’aprire la strada al caos attuale.

Eppure, nonostante questo, è sua ferma convinzione che il mondo arabo possa ancora riconciliarsi con il sincretismo che ha contrassegnato tutta la sua storia e che l’infelicità di oggi possa davvero finire, permettendo agli arabi, una volta che non siano più al centro di un mondo in crisi, di riappropriarsi del proprio destino. 

Un tema, questo, su cui ritornerà nell’ultimo capitolo del testo, dopo aver aperto una parentesi importante su alcuni altri fattori che possono essere utili per capire tutta la complessità del mondo mediorientale.

                         

Cap. 6: Il ruolo della geografia (e della geologia) nell’infelicità araba

 

una prossimità gravida di conseguenze:

Se dunque l’infelicità araba non è da imputarsi, secondo la lettura che ne dà l’autore, ad una storia pur complessa e difficile, ma che ha comunque conosciuto sia sconfitte che vittorie, e non è stata certo priva anche in anni relativamente recenti di momenti alti, che permettono di evidenziarne il sostanziale sincretismo e di derivarne pertanto una coscienza di sé non vittimistica, è in altri elementi che dobbiamo  guardare, a suo giudizio, per cogliere le ragioni di una crisi così profonda.

Non è irrilevante a questo scopo estendere la riflessione al dato geografico, che ci mostra intanto un insieme regionale atipico, posto a cavallo di due continenti e con confini che non sono del tutto naturali, e in sovrappiù porta il mondo arabo proprio nel cuore del Vecchio Mondo, di fronte all’Europa.

Sappiamo bene che cosa ha comportato storicamente questa prossimità: una lunga contesa che ha visto dapprima un’avanzata araba che sembrava incontenibile (da qui, osserva Kassir, il pregiudizio antiarabo che ancora oggi è presente in molti europei) e poi il processo inverso, a partire dalle crociate fino alla spartizione imperialistica del Levante e alla colonizzazione francese in Algeria (da cui deriva, specularmente, il rancore  di chi si è trovato a non poter più essere quello che un tempo era stato). 

Del resto, proprio a ragione di questa prossimità il mondo arabo era destinato a diventare, nel momento in cui l’Europa avesse consolidato una posizione di forza, una sorta di marca europea, un caposaldo strategico per quel controllo del Mediterraneo che era vitale per rendere sicuro il flusso delle merci destinate ai mercati ottomani e per aprire la strada all’espansione mondiale delle principali potenze europee.

Era inevitabile dunque che le due porte del Mediterraneo, quella occidentale rappresentata dal Maghreb e quella orientale rappresentata dall’Egitto, diventassero la posta in gioco degli appetiti espansionistici di Francia e Inghilterra e il teatro della loro contesa, con la Palestina come pedina essenziale. Di questa complicata partita Kassir riassume sinteticamente le mosse, stimolando il lettore a comprendere quale freno sia stato per gli arabi aver dovuto prima guardarsi dalla voracità delle potenze coloniali e poi, a colonizzazione avvenuta, il doversene liberare, e soprattutto a considerare il prezzo economico e politico dell’ansia che permea la vita di popolazioni alla ricerca del loro “posto al sole” trovandosi a cozzare, giorno dopo giorno, contro l’ostacolo della dominazione.

Una sorte, è vero, comune a molti paesi che hanno dovuto soffrire un ritardo nello sviluppo dovendo dare la priorità alle lotte per la liberazione, ma che gli arabi hanno patito in modo particolare perché sono stati davvero i soli a non aver mai smesso di subire quelle strategie di potenza che la geografia (e poi, come vedremo dopo, la geologia) ha attirato su di loro.

la costituzione dello Stato di Israele come evento lacerante:

Per sovrappiù, alla fine dell’età coloniale, quando ancora c’erano paesi la cui indipendenza non era stata pienamente riconosciuta, il mondo arabo è stato posto di fronte all’insediamento in Palestina dello Stato di Israele, vissuto come avamposto dell’occidente. Sarà in effetti una catastrofe – il giudizio di Kassir è su questo punto molto netto -  non solo per la serie umiliante di sconfitte che gli eserciti arabi e i combattenti palestinesi dovranno subire da parte di un esercito di gran lunga superiore per numero e mezzi, non solo perché verrà lacerata la continuità umana e politica del Mashreq e molte società verranno ingabbiate da colpi di stato militari e spente alla vita democratica per la scelta di dare priorità all’esigenza di armarsi (cosa che può certo essere deprecata, osserva Kassir, ma che nondimeno si può comprendere), ma soprattutto perché gli arabi vedranno chiaramente in questi eventi un proseguimento della dominazione straniera  che li costringerà negli anni successivi, per il perdurante squilibrio dei rapporti di forza (e per l’ignavia occidentale, che non sa o non vuole porre freni alla strategia di potenza israeliana), ad accettare compromessi sempre al ribasso.

e una sopraggiunta ricchezza non del tutto benefica...

Se infatti veniamo all’oggi, è ben evidente come  i calcoli  geopolitici  abbiano conservato tutto il loro peso richiamando sul Mediterraneo e sul Golfo Persico l’interesse delle grandi potenze, tanto più da quando ai fattori geografici si sono aggiunti quelli geologici. Ad attirare nel medio oriente la nuova egemonia americana, senza che per questo gli stati europei ne abbiano distolto i loro appetiti e la loro attenzione strategica, sono state infatti le vaste riserve di idrocarburi che erano e ancora oggi sono  indispensabili all’economia dei paesi industrializzati, nonostante le risorse investite nella ricerca di fonti alternative e la creazione di importanti riserve  anche in occidente.

Una ricchezza, dice Kassir, che davvero obnubila gli animi non solo di chi vuole a tutti i costi porre le mani su di essa, ma anche di chi ne detiene la fonte, e che ha avuto un effetto devastante sugli equilibri interni del mondo arabo. Un bizzarro disegno della natura ha voluto infatti che le riserve più ingenti fossero dislocate  in paesi che per secoli erano stati ai margini della storia araba, non condividendone lo sviluppo politico e culturale, e che ora, per effetto dei proventi del petrolio  che hanno accresciuto il loro ruolo politico, rischiano di trascinare tutti gli altri nella loro arretratezza, livellandoli verso il basso (con a triste riprova, dice Kassir, il volto invisibile delle donne, che viene nuovamente e un po’ ovunque esportato).

 Conclusione, nella speranza che  il cerchio dell’infelicità araba   possa essere spezzato…

 Nell’ultimo capitolo, che davvero si può leggere, per via del tragico epilogo della storia personale dell’autore, come una sorta di testamento spirituale, Kassir si chiede come sia possibile spezzare il cerchio dell’infelicità araba: un’infelicità a cui a suo giudizio concorrono, come abbiamo visto, sia elementi drammatici di realtà – dal momento che l’occidente non ha davvero mai smesso di farla da padrone nel mondo arabo – quanto elementi simbolici e psicologici, perché si nutre di un cultura del vittimismo a sua volta letale nell’impedire agli arabi di riappropriarsi del proprio destino.

Una cultura che secondo l’autore deriva direttamente, più che dallo squilibrio dei rapporti di forza vissuto come fonte di continua frustrazione e di un sentimento generalizzato di impotenza, dal ripiegarsi del nazionalismo arabo su se stesso e dall’abbandono degli ideali universalistici che pure avevano sovrainteso alla sua formazione e alimentato la sua azione. Questo lo predispone, secondo Kassir, ad essere se non complice di fatto perlomeno contiguo al nuovo nazionalismo  islamista che tende un po’ ovunque a prendere il suo posto, pur nella diversità di atteggiamento, nel primo caso più difensivo che offensivo e nel secondo legato indissolubilmente ad un dato religioso assunto come assoluto.

 

Una contiguità che ha legato la resistenza ad una nuova cultura della morte, trovando nel kamikaze – in arabo “istishhadi”, ossia “colui che aspira al martirio” - la sua figura simbolo e di cui Kassir analizza l’origine e il dispiegarsi, sottolineando intanto la profonda differenza da quella del sacrificio, da cui ogni patriottismo non può prescindere (ricorda  a questo proposito che i combattenti per la causa palestinese si sono fatti chiamare “fedayn”, un termine che significa “quelli che pagano con la vita”) e la sostanziale estraneità rispetto alla tradizione araba e in particolare al mondo sunnita. Questa cultura entra infatti in gioco, secondo la sua ricostruzione, solo a partire dalla lotta iraniana contro l’invasione irachena,  come movimento di molti che affrontano insieme la morte per bloccare le postazioni nemiche, per poi spostarsi rapidamente in Libano come gesto individuale prima di passare nel mondo sunnita, nonostante la fortissima barriera teorica dottrinale che divide questi ultimi dagli sciiti.

Una cultura del vittimismo la cui diffusione, secondo l’autore, non può essere spiegata solo dall’islamizzazione della lotta contro Israele, ma che è l’esito di un forte impulso dei media che l’hanno veicolata, spingendo l’opinione pubblica araba ad abbracciare l’idea dello “scontro di civiltà” in modo speculare a quanto è stato fatto in Occidente.

E’ a questa idea che dobbiamo invece fortemente opporci. Bisogna a tutti i costi, dice Kassir, rifiutare Huntington e fare invece riferimento a Lèvi-Strauss, riconoscendo che la civiltà non è un livello da raggiungere, che non ci sono gerarchie naturali prefissate e che i popoli non si possono classificare a seconda della loro adesione ad una fede. L’umanità è una sola, e riposa su di un fondamento antropologico comune…

Non sarà facile, tuttavia. Non per gli occidentali, che confondono la resistenza con il terrorismo e che sono afflitti da un pregiudizio di natura essenzialista (non tutti gli arabi sono terroristi, nondimeno…) e neppure per gli arabi, che devono porre fine alle ambiguità a cui spesso si sono acconciati adagiandosi nello statuto di vittime, confondendo a loro volta il terrorismo con la resistenza – se il fine non giustifica i mezzi per i potenti, dice Kassir, questo deve valere anche per le vittime -  e che devono abbandonare l’acquiescenza che spesso hanno dimostrato rispetto a ciò che non poteva essere tollerato (vedi la fatwa comminata a Salman Rushdie, il silenzio che ha circondato negli anni ottanta la lunga questione degli ostaggi occidentali in Libano), rinunciando a loro volta alle giustificazioni essenzialiste nei riguardi degli occidentali.

Soltanto accettando l’idea che i valori democratici siano valori comuni a tutta l’umanità ci potrà essere quella nuova rinascita araba che Kassir vede certo non immediata e non facile ma pur tuttavia ancora possibile, e di cui scorge i segni in una circolazione più dinamica di idee e risorse culturali nel mondo arabo e in una maggiore capacità della cultura araba di integrarsi nel mosaico mondiale (anche se l’accusa di essersi venduti allo straniero è sempre pronta, per i molti intellettuali ed artisti che dopo  l’eclissi di Beirut sono andati a vivere in Europa, come pure quella di far parte di un’élite del tutto staccata dalla popolazione). E però solo in questo riposa a suo giudizio la speranza, nell’inserimento della cultura araba in una rete di scambi e nella creazione di una sorta di interfaccia tra la cultura artistica e la cultura sociale, a cui possono dare una forte spinta i nuovi media digitali, facendo anche da traino allo sviluppo economico.

Certo occorre forzare il destino, dice Kassir, non adagiarsi su di esso, e pur sapendo bene che non tutte le condizioni della rinascita araba dipendono dagli arabi stessi – dal momento che l’egemonia occidentale persiste - cominciare con l’abbandonare il miraggio di un passato ineguagliabile e guardare con occhi nuovi la propria storia, in attesa di esserle fedeli…

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