“L’infelicità araba”
di Samir Kassir
ed. Einaudi
Presentazione
l’autore:
Samir
Kassir, nato a Beirut nel 1960 da padre palestinese e madre siriana, è stato
uno degli uomini di punta della vita intellettuale e politica libanese,
impegnandosi come storico e come giornalista militante ad indagare l’identità
nazionale del proprio paese e a lottare per la democratizzazione delle sue
istituzioni. Ha sostenuto con passione la causa palestinese e nel 2005 è stato
fra gli ispiratori della cosiddetta “primavera di Beirut”, il movimento di
massa che ha condotto alla liberazione del Libano dalle truppe di occupazione
siriane. Un impegno, questo, che ha pagato con la vita: è stato infatti
assassinato nel giugno dello stesso anno in un attentato terroristico i cui
mandanti non sono mai stati individuati con certezza, anche se aveva ricevuto
in passato minacce da parte di agenti dei servizi segreti e degli apparati di
sicurezza libanesi e siriani, per cui in Libano molti pensano che sia da
addebitare ad essi la responsabilità dell’assassinio.
il testo:
Il
libro che presentiamo, scritto un anno prima della tragica fine del suo autore,
ha finito così per assumere il valore di un testamento spirituale,
consegnandoci l’immagine di un intellettuale di formazione occidentale (aveva
conseguito a Parigi la laurea e il dottorato di ricerca in storia contemporanea)
ma non alienato, come dice lui stesso nella prefazione, ad una cultura
straniera, capace nondimeno di farne propri alcuni elementi e di gettare così
un possibile ponte fra culture diverse, in forte dissenso con l’idea di un
inevitabile “scontro di civiltà”. Questa posizione non gli impedisce certo di
denunciare in modo molto netto le pesanti responsabilità dell’Occidente,
passate e presenti, nel determinare il senso di
impotenza e di frustrazione che
concorre a quella che definisce “l’infelicità araba”, ma neanche di
indicare le responsabilità altrettanto grandi di un mondo arabo che si è
autoimprigionato in una cultura del vittimismo foriera di conseguenze funeste.
Una
cultura che fa leva intanto su di una lettura della propria storia ipnotizzata
dall’idea di un passato mitico e glorioso – di cui peraltro non si colgono a
sufficienza gli aspetti universalistici e sincretici - e di una successiva
inarrestabile decadenza, incapace pertanto di vedere come il confronto con la
modernità non sia mai stato del tutto assente e come ci siano stati momenti importanti in cui le
idee di libertà e progresso di stampo illuministico e laico hanno avuto forte
presa nel mondo arabo, testimoniando come non ci sia con esse alcuna incompatibilità culturale o peggio ancora genetica, come
molti amano pensare. Incontri che devono essere necessariamente ripresi e
portati a compimento se si vuole dare vita ad una nuova rinascita araba,
facendo retrocedere le derive islamiste che rappresentano un
autentico e mortifero regresso e
che sono di fatto destinate a rendere la crisi irreversibile mentre promettono
di risolverla, ma che vanno addebitate anche ad una colpevole latitanza della
politica e ad un distacco dei movimenti nazionalisti da quell’universalismo che
aveva in precedenza alimentato la loro azione, e che avrebbe potuto ostacolare
con più forza questa deriva. Un libro manifesto dunque, in cui la passione
dello storico e dell’intellettuale politicamente impegnato si accompagna ad una
scrittura agile e del tutto priva di retorica, con argomentazioni che possono
di volta in volta essere motivo di discussione ma il cui messaggio complessivo
non può che essere condiviso. Un libro sugli arabi scritto per gli arabi, ma
non solo, che rappresenta un messaggio di speranza nella possibilità di
invertire un destino prendendo nelle proprie mani l’impegno di modificarlo, pur
nella consapevolezza delle difficoltà che questo comporta, evidenziate
drammaticamente dalla tragica fine del suo autore.
Sintesi del testo
cause esterne e interne
Non
è facile, oggi, essere arabi – osserva Samir Kassir, che si autodefinisce,
nella premessa, “un intellettuale arabo
del Mashreq, laico, acculturato e perfino occidentalizzato, ma che non si
considera alienato ad una cultura straniera ed è, in ogni caso, poco desideroso
di eliminare quelli che non la pensano come lui…”: dopo l’11 settembre
significa infatti essere bollati con un termine che viene ridotto ad una
etnicità tacciata di infamia o ad una cultura negatrice, ma oltre a questo vuol
dire abitare in una delle zone del
pianeta dove, ad eccezione dell’Africa subsahariana, minori sono le opportunità
per gli uomini e tanto più per le donne e più carente la possibilità di
proiettare se stessi nel futuro, senza sentirlo come una strada ostruita che
prevede solo un ritorno al passato.
Vuol
dire dunque essere “infelici”, a patto di non considerare fuorviante l’uso di questa
espressione in un saggio di analisi storico-politica, se infelici vuol dire
essere sottomessi non solo allo sguardo dell’Altro (quell’Altro che presume di conoscerti meglio di quanto tu conosca te
stesso, inchiodandoti nel suo giudizio ad una tua supposta ed ineluttabile
inferiorità congenita, quell’Altro che ti ferma alle frontiere, esaminando con
aria dubbiosa o peggio ancora condiscendente i tuoi documenti) ma anche al
proprio sguardo sull’Altro, sentendo il peso del confronto sia rispetto ad una
civiltà, quella occidentale, che ad ogni momento sforna novità tecnologiche,
sia rispetto a quei paesi emergenti che hanno saputo abbinare alla crescita
economica una transizione ormai stabilizzata verso la democrazia.
Una
infelicità, continua Kassir, che pare condannare l’intero mondo arabo ad una
impotenza foriera di frustrazione, le cui cause sono certo complesse se pure
riconducibili ad alcuni elementi chiave.
un
mondo in bilico fra le responsabilità
dell’occidente e il deficit di democrazia:
Ci
sono intanto le cause che vengono dall’esterno: e qui l’autore non fa davvero
sconti all’occidente e alle sue colpe passate e recenti, condannando senza
mezze misure sia la guerra in Iraq, che ha riportato l’occupazione straniera
sulla terra araba, amplificandone la frustrazione e infoltendo i ranghi di
coloro che antepongono la lotta contro gli stranieri a quella per la
democrazia, sia l’impunità di cui Israele continua a godere grazie all’amico
americano, che non vuole o non riesce a contenerne la volontà di potenza (elementi
entrambi che hanno avuto a suo giudizio una parte non secondaria
nell’emersione di un nuovo tropismo religioso, facendo il gioco di coloro che
lucrano sullo scontro di civiltà e sostengono l’idea di una inferiorità non solo culturale ma addirittura genetica
degli arabi).
Oltre
a queste cause esterne peraltro ci sono cause interne che Kassir non ha remore
nel riconoscere e che derivano, a suo giudizio, non tanto da un lutto non
elaborato per la grandezza di un tempo (“una
impotenza ad essere, dopo essere stati”),
ma piuttosto da una sorta di grave impasse presente in tutti i paesi del vasto
arcipelago arabo, che offrono in diversa misura l’immagine sconsolante di
società in crisi e di entità statali del
tutto incapaci di essere protagoniste della propria storia.
Benché
ovviamente datato, il quadro che l’autore ne traccia è davvero impressionante e
rende drammaticamente evidenti i prodromi delle derive e della disgregazione a
cui stiamo oggi assistendo: in un certo senso, anzi, è proprio questa distanza
temporale ad aumentare l’impatto della sua ricognizione, che non è costruita a tavolino dallo storico
che conosce l’esito degli avvenimenti e ne ricostruisce le cause, ma condotta
da chi è insieme attore in situazione e osservatore, in qualità sia di storico che di giornalista militante.
Kassir denuncia ad
esempio la condizione gravissima in cui si trova la Siria, sfibrata da
quarant’anni di dittatura e depredata sistematicamente dai clan mafiosi che
strutturano il potere, vedendo come essa stia precipitando in una situazione senza uguali nel mondo
arabo: e qui, naturalmente, il lettore odierno che ne ha visto di recente la
spaventosa dissoluzione, misurandone gli effetti anche sulla tenuta dell’Unione
Europea, non può che sentirsi davvero coinvolto da un’analisi condotta in anni
in cui forse qualcosa poteva ancora essere fatto e dove l’insipienza di molti,
compresa quella di un’Europa interessata solo a fattori economici e con una
visuale di corto respiro, si è rivelata in tutta la sua portata…
Attraverso
di essa l’autore mette in luce quelle che considera le vere tare del mondo
arabo: un panarabismo che da promessa è diventato via via un elemento
apportatore di violenza, una referenza religiosa chiusa in una lettura
ristretta, letterale e precettistica del testo sacro, ma soprattutto un deficit
democratico tale per cui in nessun paese arabo la cittadinanza gode di quel
minimo di garanzie indispensabili per dare vita ad un cambiamento autentico.
Un
deficit, osserva Kassir, che alcuni addebitano ad una predisposizione
culturale, quando non addirittura genetica, ma che invece a suo giudizio è
l’effetto di una profonda crisi che investe gli stati e i cui sintomi sono
rintracciabili sia nella ricorrente tendenza a mettere in discussione l’unità
interna, per proporre una solidarietà interstatale su base religiosa o etnica,
che nello scadimento delle istituzioni, anche di quelle nate dall’indipendenza,
che hanno privilegiato la problematica della liberazione nazionale a scapito
dei principi dello stato di diritto.
Se
poi a questo aggiungiamo le abdicazioni di sovranità in materia economica e
finanziaria a cui i governi dal più al meno consentono, si comprende come sia
proprio il cattivo funzionamento della politica a favorire il riprodursi di
egemonie esterne, facendo del variegato continente arabo l’unico in cui
l’assenza di democrazia si coniuga con il controllo straniero e addirittura con
nuove forme di colonialismo: una situazione indubbiamente assai pesante il cui
effetto è certo potenziato, nell’inconscio arabo, dal raffronto con un glorioso
e vagheggiato passato, ma che soprattutto diventano pretesto per lo
stabilimento di un persistente stato d’emergenza contro la minaccia esterna,
che mette al bando gli strumenti regolatori della democrazia.
l’avanzata
dell’islam radicale come conseguenza di una profonda crisi politica:
In tali condizioni, l’avanzata dell’islam
politico radicale è davvero da intendere, secondo l’autore, come una
conseguenza di questo impasse: non solo dunque un rifiuto del modernismo di
stampo occidentale, ma anche una risposta a poteri ritenuti iniqui e al
fallimento dello stato. E’ questo intreccio a farne un fenomeno complesso,
spiegando l’adesione di una parte della popolazione che non comprende come esso
non sia una via d’uscita dalla crisi, ma uno dei fattori destinati a
prolungarla, rendendo sempre più difficile quell’ incontro con la modernità che pure è stato più volte
cercato.
L’acquisizione
di uno spazio sempre maggiore da parte del pensiero religioso rappresenta
infatti, a suo giudizio, un autentico regresso rispetto alla storia araba.
Sbaglia decisamente il bersaglio pertanto chi considera questa avanzata come un
tentativo di recuperare l’antica grandezza, che anzi l’islamismo radicale intende invece del tutto azzerare, facendo
riferimento non certo all’età d’oro della civiltà arabo islamica – la cui
complessità viene pertanto rinnegata - ma solo al breve periodo iniziale (un
quarantennio circa), considerato l’unico davvero “puro”. Eppure, secondo Kassir, è soltanto attraverso
un recupero della storia nella sua interezza e complessità che si potrebbe
pensare di mettere davvero un termine a questa infelicità che deriva in gran
parte da una non obiettiva conoscenza della propria storia e da una incompleta
e mutilata coscienza di sé.
Cap. 4/5 : Una proposta di lettura non stereotipata della storia araba come indispensabile premessa per una nuova coscienza di sè
E
a questo recupero dunque che Kassir dedica i capitoli centrali del testo,
segnalando intanto la persistente difficoltà della stessa storiografia araba ad
uscire dalla visione canonica (corrispondente
del resto a quella proposta da alcuni autori occidentali considerati autorevoli
interpreti della storia araba, come Bernard Lewis, che a suo giudizio non hanno
certo giovato a dare una visione positiva
dell’arabità odierna): una visione stereotipata che ha finito
col ridurne la complessità,
rappresentando un mondo a-storico che dopo un glorioso passato si è via via
rinchiuso e paralizzato in una inarrestabile decadenza e a cui il pur
importante momento di risveglio (la cosiddetta
Nahda*), con il suo fallimento, ha dato il sigillo definitivo.
Ma
è davvero stato così? E’ ben diversa la posizione di Kassir, che intende questo
modello interpretativo come una sorta di zavorra da cui è importante liberarsi
attraverso una lettura storica più obiettiva e completa, che permetta di
svincolarsi tanto dalla predestinazione religiosa quanto dalla teleologia
nazionalista. Basterebbe per intanto, per quanto riguarda il primo punto,
ammettere finalmente che il mondo arabo
prima dell’islam non era solo il regno del caos e del nomadismo guerriero, una
“Jahiliya”, ossia un’epoca di
ignoranza (le scoperte archeologiche
recenti consentono infatti una visione diversa da quella corrente, consentendo di de-islamizzare gli inizi con
un possibile effetto di “rivoluzione copernicana”) e ancora riconoscere che
nell’età classica la religione, pur unificando il mondo conquistato dagli
arabi, fu soltanto una delle componenti di una civiltà universalistica, che
fondeva popoli assai diversi senza azzerarne le specificità, come accadde
nell’impero romano: un mondo in cui gli antichi saperi non solo furono
recuperati, ma diedero vita a nuove ed originali interpretazioni e in cui fu possibile ad alcuni filosofi di
postulare l’universalità della ragione (un precedente, osserva Kassir, su cui
dovrebbero riflettere quanti ritengono che non sia possibile una democrazia in terra araba).
Certo,
dopo gli anni dello splendore la decadenza ci fu, anche se ad una lettura più
attenta il cosiddetto medioevo arabo (sopravvenuto
con l’indebolimento abbasside, accelerato dalle invasioni dei Mongoli e di quei
“nuovi barbari” che furono, secondo la definizione dell’autore, i crociati)
non fu soltanto un seguito di anni oscuri, con l’instaurarsi di uno stato – quello dei Mamelucchi -
caratterizzato dall’intolleranza religiosa e da continue rivolte di palazzo.
Esso infatti registrò pur sempre non solo la tenuta del mondo arabo, che ebbe
alla fine la capacità di respingere gli invasori, ma anche dei fermenti
culturali importanti - testimoniati da
una splendida architettura barocca e dalla nascita del primo abbozzo
di sociologia politica da parte di Ibn Khaldun - senza contare che
nell’epoca ottomana, grazie all’espansione imperiale, la potenza musulmana si
ristabilì esercitando dal punto di vista culturale un’influenza non inferiore a
quella greco-bizantina.
Al
di là di questo è comunque fondamentale, secondo Kassir, saper vedere come ogni
epoca ebbe la sua parte di conquiste e di insuccessi, sia in campo militare che
politico e culturale: una consapevolezza più matura consentirebbe di leggere la
storia araba come una storia di esperienze culturali, o meglio ancora, dice,
come una somma di differenze culturali, a cui nulla di umano è stato estraneo (proprio questa ampiezza spiega anche il fatto che ognuno può trovare
in essa sostegno per le sue tesi, dimenticando che fu, per l’appunto, un
insieme complesso in cui tendenze
teologiche ristrette si incontrarono e si scontrarono con il razionalismo
aristotelico, l’interpretazione più letterale e retriva del testo sacro con
esperienze spirituali più evolute).
il
mondo arabo di fronte alla modernità: la Nahda
Relativizzare
la decadenza, aggiunge l’autore, non implica peraltro chiudere gli occhi di
fronte a quella che è sempre stata considerata una carenza importante della
cultura araba, e cioè quella tecnica. Anche in questo caso peraltro occorre
fare alcune precisazioni importanti, riconoscendo anzitutto come il contributo
arabo alla tecnologia sia stato in passato estremamente importante (basti pensare alla medicina, all’ottica, ai
sistemi di navigazione e soprattutto all’artiglieria, che permise all’impero
ottomano di reggere a lungo allo scontro con i suoi avversari).
Se
poi passiamo all’età moderna, di fronte ad un’Europa che si trasformava con la
rivoluzione industriale preparandosi a diventare una potenza colonizzatrice,
occorre segnalare una buona capacità dell’oriente musulmano di reagire, di
adattarsi: ne fanno fede, dice Kassir, le grandi riforme di Muhammad’Ali in
Egitto, oltre a quelle attuate soprattutto in campo giuridico e amministrativo
– la cosiddetta Tanzimat - dall’élite ottomana di Istambul, che cambiarono il
volto dell’antico impero fino a farlo diventare, sia pure per un periodo breve,
uno stato costituzionale, e soprattutto
a quel periodo di grande rinnovamento, avvenuto negli ultimi decenni dell’800,
che gli arabi chiamano Nahda.
E’
appunto alla Nahda che Kassir dedica una particolare attenzione, perché vi si è
realizzato, a suo giudizio, quell’incontro arabo con la modernità che dimostra
come esso non sia impossibile, benché la stessa storiografia araba tenda a
sottovalutarne il valore, vuoi considerandola come un evento storico quasi
fortuito e comunque chiuso in un già remoto passato, vuoi limitandone la
lettura in chiave nazionalista. E qui l’autore prende di mira il secondo
elemento da cui è necessario svincolarsi, e cioè la teleologia nazionalista:
perché se è vero che nella Nahda il risveglio dello spirito nazionale e
patriottico è stato certamente presente, tanto da farla assimilare al
Risorgimento italiano, è vero anche che leggerla secondo il prisma
nazionalistico rischia di metterne in ombra la natura molto più ampia e
complessa, oltre a far gravare il fallimento delle aspirazioni nazionali
sull’intero periodo.
A
suo giudizio invece la Nahda, più che del Risorgimento, fu figlia dell’idea di
progresso e dell’illuminismo europeo, e si iscrive pertanto nel solco tracciato
dagli ideali della Rivoluzione francese che non si esauriscono nel nazionalismo
ma contemplano quell’idea forte di universalità, libertà, inalienabilità dei
diritti che ha investito allora non solo il mondo arabo, ma tutte le etnie
presenti nell’impero ottomano, dando vita ad un’immane opera di trasformazione
culturale a cui non fu estranea neanche la dimensione religiosa (sembra incredibile, dice Kassir, ma perfino
la lingua sacra del Corano si è rinnovata attraverso la traduzione della Bibbia
cristiana, a cui ha collaborato fra gli altri un importante erudito musulmano;
segno questo del profondo umanesimo di un periodo che ha visto il rinnovamento della lingua, attraverso
l’adozione di generi letterali sconosciuti alla tradizione araba, mutamenti importanti nelle forme di socializzazione
–una stampa diversificata, l’istituzione di numerose scuole superiori ad opera
di privati e dell’autorità pubblica ottomana - e in generale un rinnovamento forte dei saperi e della
mentalità).
Il
travisamento di una lettura limitata al nazionalismo, ricorrente nella
storiografia araba e non solo, rischia dunque di negare che la cultura araba si
è ricostruita a partire dall’incontro con l’Altro, con l’Europa: un incontro
non semplice, perché lo scambio è stato spesso a senso unico e condizionato
dalla contrapposizione fra Occidente e Oriente, provocando frustrazioni profonde
nello spirito arabo, ma da cui non si può prescindere, secondo Kassir, se si
vuole costruire una sintassi della modernità.
Un
incontro che ha provocato certamente delle reticenze importanti che la sua
ricostruzione non intende affatto sottovalutare, sebbene egli ritenga che da
esse non possa derivare l’idea di un’antitesi fra islam e modernizzazione.
Questa continuò infatti nel novecento, benché ci sia stato un fallimento nella
dimensione delle nazionalità, in quanto le aspirazioni degli arabi all’indipendenza
furono di fatto ignorate quando l’impero ottomano venne spazzato via
dall’intrusione coloniale degli europei.
incontri
novecenteschi con la modernità: una storia che continua
Anche
se la Nahda come momento storico e aspirazione nazionalistica può considerarsi
chiusa verso la fine della prima guerra mondiale, prosegue nel novecento come
attitudine e visione del mondo portatrice di rinnovamento culturale e di una
modernizzazione di stampo occidentale, dando vita in particolare, fra gli anni
20 e 30, ad un periodo di intensa fioritura intellettuale (testimoniata in modo sensibile
da un rinnovamento in campo letterario a cui verrà dato il nome di “Tajdid”).
Certo
non si può negare, ammette Kassir, che in questo stesso periodo il nazionalismo
arabo venga ormai sempre più chiaramente espresso in funzione antieuropea, ma
il confronto con l’occidente è ancora di stimolo: è dalla storia del pensiero
europeo che derivano infatti molti dei suoi contenuti, essendo i suoi maggiori
esponenti formati alla scuola occidentale. Anche la fondazione della
Confraternita dei Fratelli Musulmani*, che viene a rappresentare la resistenza
all’occidentalizzazione di costumi e cultura, non muove sostanzialmente questo
quadro: almeno nel primo periodo, se la modernità in stile occidentale non
attacca direttamente la sfera del sacro, continua a prevalere e avrà anzi una
ripresa molto forte negli anni 50 e 60 (giova
certamente a questa situazione, che vede il mondo arabo non ancora rinchiuso in
se stesso – nonostante la forte disillusione nei confronti delle potenze
europee che avevano sostenuto la costruzione del nuovo stato d’Israele sulle
spoglie della Palestina – il fatto che l’occidente non appaia più monolitico,
ma diviso in due blocchi contrapposti, con i paesi socialisti che sostengono le
rivendicazioni dei popoli e la liberazione nazionale).
In
questi anni infatti la cultura araba avrà di nuovo un incontro con la modernità
di straordinaria ampiezza, testimoniata nella produzione culturale da
un’apertura verso forme al passo con i tempi: dalla pittura, dove nel corso di
pochissimi anni gli artisti arabi bruciarono davvero tutte le tappe mettendosi
al passo con le avanguardie europee, al teatro, che trova la sua terra di
elezione in Egitto, dove sarà peraltro il cinema a rappresentare ancora più
efficacemente l’ingresso del mondo arabo nella modernità (basti pensare, dice Kassir, che l’industria cinematografica egiziana
era la terza del mondo, dopo Hollywood e Bombay, e prima di Cinecittà),
rendendo evidenti i cambiamenti nella vita quotidiana e nell’immagine delle
donne, che diventano in questo periodo molto più libere nel comportamento e
attive nel dare un contributo all’evoluzione della società egiziana .
E’
pur vero che esse non godono dappertutto della stessa libertà di movimento e
che il sistema giuridico dei paesi arabi fatica ad adeguarsi al mutamento
(Kassir fa però notare, con una certa ironia, che le siriane avranno accesso al
voto prima delle francesi…); nello stesso tempo la modernizzazione non
raggiunge tutti i paesi allo stesso modo, e in particolare quelli della
penisola araba resteranno ai margini di questo processo rinnovatore in cui il
mondo arabo è stato davvero inserito nella storia moderna, con l’Algeria che
diventa un esempio per i popoli oppressi, con la Tunisia di Bourghiba che
impone il suo laicismo, con l’Egitto di Nasser che appare uno dei pilastri
dell’Africa e del Terzo Mondo.
Poi,
la frenata, in cui le istanze conservatrici, che erano state sempre presenti ma
venivano combattute, riprendono il sopravvento,
con il puritanesimo che rimette il velo, prima quasi scomparso, sulla testa
delle donne e in generale con il progressivo distanziamento dalla cultura
europea e dalla modernità: un effetto perverso, secondo Kassir, prodotto più
ancora che dalla radicalizzazione dell’arabismo dopo la disfatta palestinese,
da alcuni elementi interni ai paesi arabi, dove l’eccesso di statalismo e
l’insufficienza della vita democratica finirà con l’aprire la strada al caos
attuale.
Eppure,
nonostante questo, è sua ferma convinzione che il mondo arabo possa ancora
riconciliarsi con il sincretismo che ha contrassegnato tutta la sua storia e
che l’infelicità di oggi possa davvero finire, permettendo agli arabi, una
volta che non siano più al centro di un mondo in crisi, di riappropriarsi del
proprio destino.
Un
tema, questo, su cui ritornerà nell’ultimo capitolo del testo, dopo aver aperto
una parentesi importante su alcuni altri fattori che possono essere utili per
capire tutta la complessità del mondo mediorientale.
Cap. 6: Il ruolo della geografia
(e della geologia) nell’infelicità araba
una
prossimità gravida di conseguenze:
Se
dunque l’infelicità araba non è da imputarsi, secondo la lettura che ne dà
l’autore, ad una storia pur complessa e difficile, ma che ha comunque
conosciuto sia sconfitte che vittorie, e non è stata certo priva anche in anni
relativamente recenti di momenti alti, che permettono di evidenziarne il
sostanziale sincretismo e di derivarne pertanto una coscienza di sé non
vittimistica, è in altri elementi che dobbiamo
guardare, a suo giudizio, per cogliere le ragioni di una crisi così
profonda.
Non
è irrilevante a questo scopo estendere la riflessione al dato geografico, che
ci mostra intanto un insieme regionale atipico, posto a cavallo di due
continenti e con confini che non sono del tutto naturali, e in sovrappiù porta
il mondo arabo proprio nel cuore del Vecchio Mondo, di fronte all’Europa.
Sappiamo
bene che cosa ha comportato storicamente questa prossimità: una lunga contesa
che ha visto dapprima un’avanzata araba che sembrava incontenibile (da qui, osserva Kassir, il pregiudizio antiarabo che ancora oggi è presente in
molti europei) e poi il processo inverso, a partire dalle crociate fino
alla spartizione imperialistica del Levante e alla colonizzazione francese in
Algeria (da cui deriva, specularmente, il
rancore di chi si è trovato a non poter
più essere quello che un tempo era stato).
Del
resto, proprio a ragione di questa prossimità il mondo arabo era destinato a
diventare, nel momento in cui l’Europa avesse consolidato una posizione di
forza, una sorta di marca europea, un caposaldo strategico per quel controllo
del Mediterraneo che era vitale per rendere sicuro il flusso delle merci
destinate ai mercati ottomani e per aprire la strada all’espansione mondiale
delle principali potenze europee.
Era
inevitabile dunque che le due porte del Mediterraneo, quella occidentale
rappresentata dal Maghreb e quella orientale rappresentata dall’Egitto,
diventassero la posta in gioco degli appetiti espansionistici di Francia e
Inghilterra e il teatro della loro contesa, con la Palestina come pedina
essenziale. Di questa complicata partita Kassir riassume sinteticamente le
mosse, stimolando il lettore a comprendere quale freno sia stato per gli arabi
aver dovuto prima guardarsi dalla voracità delle potenze coloniali e poi, a
colonizzazione avvenuta, il doversene liberare, e soprattutto a considerare il
prezzo economico e politico dell’ansia che permea la vita di popolazioni alla
ricerca del loro “posto al sole” trovandosi a cozzare, giorno dopo giorno,
contro l’ostacolo della dominazione.
Una
sorte, è vero, comune a molti paesi che hanno dovuto soffrire un ritardo nello
sviluppo dovendo dare la priorità alle lotte per la liberazione, ma che gli
arabi hanno patito in modo particolare perché sono stati davvero i soli a non
aver mai smesso di subire quelle strategie di potenza che la geografia (e poi,
come vedremo dopo, la geologia) ha attirato su di loro.
la costituzione dello Stato di Israele come
evento lacerante:
Per
sovrappiù, alla fine dell’età coloniale, quando ancora c’erano paesi la cui
indipendenza non era stata pienamente riconosciuta, il mondo arabo è stato
posto di fronte all’insediamento in Palestina dello Stato di Israele, vissuto
come avamposto dell’occidente. Sarà in effetti una catastrofe – il giudizio di
Kassir è su questo punto molto netto -
non solo per la serie umiliante di sconfitte che gli eserciti arabi e i
combattenti palestinesi dovranno subire da parte di un esercito di gran lunga
superiore per numero e mezzi, non solo perché verrà lacerata la continuità
umana e politica del Mashreq e molte società verranno ingabbiate da colpi di
stato militari e spente alla vita democratica per la scelta di dare priorità
all’esigenza di armarsi (cosa che può certo essere deprecata, osserva Kassir,
ma che nondimeno si può comprendere), ma soprattutto perché gli arabi vedranno
chiaramente in questi eventi un proseguimento della dominazione straniera che li costringerà negli anni successivi, per
il perdurante squilibrio dei rapporti di forza (e per l’ignavia occidentale,
che non sa o non vuole porre freni alla strategia di potenza israeliana), ad
accettare compromessi sempre al ribasso.
e
una sopraggiunta ricchezza non del tutto benefica...
Se
infatti veniamo all’oggi, è ben evidente come
i calcoli geopolitici abbiano conservato tutto il loro peso
richiamando sul Mediterraneo e sul Golfo Persico l’interesse delle grandi
potenze, tanto più da quando ai fattori geografici si sono aggiunti quelli
geologici. Ad attirare nel medio oriente la nuova egemonia americana, senza che
per questo gli stati europei ne abbiano distolto i loro appetiti e la loro
attenzione strategica, sono state infatti le vaste riserve di idrocarburi che
erano e ancora oggi sono indispensabili
all’economia dei paesi industrializzati, nonostante le risorse investite nella
ricerca di fonti alternative e la creazione di importanti riserve anche in occidente.
Una
ricchezza, dice Kassir, che davvero obnubila gli animi non solo di chi vuole a
tutti i costi porre le mani su di essa, ma anche di chi ne detiene la fonte, e
che ha avuto un effetto devastante sugli equilibri interni del mondo arabo. Un
bizzarro disegno della natura ha voluto infatti che le riserve più ingenti
fossero dislocate in paesi che per
secoli erano stati ai margini della storia araba, non condividendone lo
sviluppo politico e culturale, e che ora, per effetto dei proventi del
petrolio che hanno accresciuto il loro
ruolo politico, rischiano di trascinare tutti gli altri nella loro
arretratezza, livellandoli verso il basso (con
a triste riprova, dice Kassir, il volto invisibile delle donne, che viene
nuovamente e un po’ ovunque esportato).
Una
cultura che secondo l’autore deriva direttamente, più che dallo squilibrio dei
rapporti di forza vissuto come fonte di continua frustrazione e di un sentimento
generalizzato di impotenza, dal ripiegarsi del nazionalismo arabo su se stesso
e dall’abbandono degli ideali universalistici che pure avevano sovrainteso alla
sua formazione e alimentato la sua azione. Questo lo predispone, secondo
Kassir, ad essere se non complice di fatto perlomeno contiguo al nuovo
nazionalismo islamista che tende un po’
ovunque a prendere il suo posto, pur nella diversità di atteggiamento, nel
primo caso più difensivo che offensivo e nel secondo legato indissolubilmente
ad un dato religioso assunto come assoluto.
Una contiguità che ha
legato la resistenza ad una nuova cultura della morte, trovando nel kamikaze –
in arabo “istishhadi”, ossia “colui che aspira al martirio” - la sua figura
simbolo e di cui Kassir analizza l’origine e il dispiegarsi, sottolineando
intanto la profonda differenza da quella del sacrificio, da cui ogni
patriottismo non può prescindere (ricorda
a questo proposito che i combattenti per la causa palestinese si sono
fatti chiamare “fedayn”, un termine che significa “quelli che pagano con la
vita”) e la sostanziale estraneità rispetto alla tradizione araba e in
particolare al mondo sunnita. Questa cultura entra infatti in gioco, secondo la
sua ricostruzione, solo a partire dalla lotta iraniana contro l’invasione
irachena, come movimento di molti che
affrontano insieme la morte per bloccare le postazioni nemiche, per poi
spostarsi rapidamente in Libano come gesto individuale prima di passare nel
mondo sunnita, nonostante la fortissima barriera teorica dottrinale che divide
questi ultimi dagli sciiti.
Una
cultura del vittimismo la cui diffusione, secondo l’autore, non può essere
spiegata solo dall’islamizzazione della lotta contro Israele, ma che è l’esito
di un forte impulso dei media che l’hanno veicolata, spingendo l’opinione
pubblica araba ad abbracciare l’idea dello “scontro di civiltà” in modo
speculare a quanto è stato fatto in Occidente.
E’
a questa idea che dobbiamo invece fortemente opporci. Bisogna a tutti i costi,
dice Kassir, rifiutare Huntington e fare invece riferimento a Lèvi-Strauss,
riconoscendo che la civiltà non è un livello da raggiungere, che non ci sono
gerarchie naturali prefissate e che i popoli non si possono classificare a
seconda della loro adesione ad una fede. L’umanità è una sola, e riposa su di
un fondamento antropologico comune…
Non
sarà facile, tuttavia. Non per gli occidentali, che confondono la resistenza
con il terrorismo e che sono afflitti da un pregiudizio di natura essenzialista
(non tutti gli arabi sono terroristi, nondimeno…)
e neppure per gli arabi, che devono porre fine alle ambiguità a cui spesso si
sono acconciati adagiandosi nello statuto di vittime, confondendo a loro volta
il terrorismo con la resistenza – se il fine non giustifica i mezzi per i
potenti, dice Kassir, questo deve valere anche per le vittime - e che devono abbandonare l’acquiescenza che
spesso hanno dimostrato rispetto a ciò che non poteva essere tollerato (vedi la fatwa comminata a Salman Rushdie, il
silenzio che ha circondato negli anni ottanta la lunga questione degli ostaggi
occidentali in Libano), rinunciando a loro volta alle giustificazioni
essenzialiste nei riguardi degli occidentali.
Soltanto
accettando l’idea che i valori democratici siano valori comuni a tutta
l’umanità ci potrà essere quella nuova rinascita araba che Kassir vede certo
non immediata e non facile ma pur tuttavia ancora possibile, e di cui scorge i
segni in una circolazione più dinamica di idee e risorse culturali nel mondo
arabo e in una maggiore capacità della cultura araba di integrarsi nel mosaico
mondiale (anche se l’accusa di essersi
venduti allo straniero è sempre pronta, per i molti intellettuali ed artisti
che dopo l’eclissi di Beirut sono andati
a vivere in Europa, come pure quella di far parte di un’élite del tutto
staccata dalla popolazione). E però solo in questo riposa a suo giudizio la
speranza, nell’inserimento della cultura araba in una rete di scambi e nella
creazione di una sorta di interfaccia tra la cultura artistica e la cultura
sociale, a cui possono dare una forte spinta i nuovi media digitali, facendo anche
da traino allo sviluppo economico.
Certo
occorre forzare il destino, dice Kassir, non adagiarsi su di esso, e pur
sapendo bene che non tutte le condizioni della rinascita araba dipendono dagli
arabi stessi – dal momento che l’egemonia occidentale persiste - cominciare con
l’abbandonare il miraggio di un passato ineguagliabile e guardare con occhi
nuovi la propria storia, in attesa di esserle fedeli…
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