Pubblichiamo questo articolo di Paolo Rumiz evidenziando la data della sua comparsa su La Repubblica, il 23/06/2016, ossia ventiquattro ore prima che venisse conosciuto l'esito del referendum Brexit
COME I BALCANI
Articolo
di Paolo Rumiz – La Repubblica 23 giugno 2016
MA che cos'è questo
rumore di chiavistelli che percorre l'Europa, questo rugginoso agitarsi di
lucchetti, serrature, reticolati e sbarre di frontiera che dalla Gran Bretagna
alla Grecia raggiunge la Catalogna e i confini della Russia, così simile al
grattare della lima dei galeotti nel carcere di Montecristo? E che cos'è questa
banalizzazione del linguaggio che ci invade, questo diffondersi di alternative
violente nascoste dietro innocue sigle da computer, "In/Out",
"Leave/"Remain"? Dove nascono l'aggressività omicida e gli
osceni bisillabi che annichiliscono la complessità di eventi, come
"Brexit" o "Grexit"? E soprattutto, come chiamare questa
illusione che si impossessa delle nazioni, secondo la quale "Da soli è
meglio"?
Non so perché esitiamo
tanto. Il termine ce l'abbiamo a disposizione da un quarto di secolo, o forse
da molto di più. Chiamasi "balcanizzazione". So che non piace
assimilarsi ai Balcani. Genera sollievo pensare che quello sia un focolaio di
tribalismo a sé stante, dal quale l'Europa "civile" è immune. Ricordo
distintamente che allora, prima che la Jugoslavia si disintegrasse, i signori
economisti erano convinti che uno scoppio di follia collettiva autodistruttiva
sarebbe stato impossibile. Nell'89 scrissi un libro in cui dicevo: attenti,
dopo la caduta del Muro, salta in aria la Federazione di Tito. Romano Prodi lo
lesse e mi scrisse che ero troppo pessimista, perché i popoli lo capiscono da
soli che "separati si è più deboli".
Non andò così. In uno
stato di demenza generalizzata, la Jugoslavia — il paese della cuccagna
invidiato da tutte le altre nazioni dell'ex blocco comunista — si buttò nel
baratro. Ma anche allora, di fronte all'evidenza dei fatti, non si volle
capire. E io avevo un bel spiegare ai miei lettori che quello che succedeva nei
Balcani non era una malattia balcanica, ma europea. Il riattivarsi di una
faglia, il sintomo d'inizio di un sisma di più vasta portata, così come
l'attentato di Sarajevo — lungi dal provocare la Grande Guerra — ne aveva
segnalato l'imminenza. Nessuno mi credeva.
E così vennero i
populismi, venne la Lega, scoppiò il caso Haider (che rispetto agli agitatori
di oggi pare ahimè un'educanda), esplose l'islamismo assassino. E furono le
tensioni tra fiamminghi e francofoni in Belgio, la chiusura a riccio
dell'Olanda, l'ondata irrazionale di indipendentismo catalano, il separatismo
scozzese. Venne a galla il rancore antieuropeo dell'Ungheria e della Polonia.
Esplose la rabbia lepenista in Francia e l'Inghilterra perse il suo
tradizionale "à plomb". Bruxelles era il perfetto capro espiatorio di
qualsiasi malessere.
Rileggere i miei
appunto jugoslavi, oggi, fa venire i brividi. Riporto in sintesi solo alcuni
stralci di quello che notai nella fase di incubazione del conflitto. Rabbia
giustizialista di periferie dimenticate che trovano un megafono interessato nei
responsabili stessi della loro emarginazione. Incapacità dei
"liberal" di ascoltare la pancia inquieta del Paese. Ritorno di mitologie
tribali da strapazzo per bocca di intellettuali ignoranti. Incapacità del
potere federale di proporre una visione "alta" della coabitazione fra
popoli. Intossicazione mediatica, imbarbarimento del linguaggio, spazio
scandaloso offerto agli urlatori rispetto ai pensatori, per motivi di audience.
Troppe similitudini
con l'oggi. In particolare questa: i colpevoli del dissesto del Paese, la Casta
in poche parole, che spinge lucidamente i popoli gli uni contro gli altri per
non pagare il dazio del suo fallimento, trasformando una lotta politica e
sociale in una lotta etnica in nome del Dio Nazione. In poche parole, fascismo.
Una lebbra che prende a diffondersi non a partire dai centri, evoluti e
plurali, ma dai villaggi lontani dal potere. Una rivincita dei primitivi
incolti, portatori di un'idea di purezza della razza, contro gli evoluti figli
di un mondo cosmopolita. Campagna contro metropoli. Se manteniamo questa
visione "sismica" del contagio — Dio solo sa quanto bisogno abbiamo
di visionari dopo il fallimento degli analisti — ci capita magari di vedere un
pezzo di possibile futuro. Possiamo ipotizzare un ramificarsi di crepe dopo il
botto del voto inglese, un riattivarsi per contagio delle linee di faglia
dormienti. L'Irlanda che si stacca, la Polonia e i Paesi baltici che danno vita
a incidenti di frontiera con la Russia, la piccola Danimarca che va per conto
suo, i populisti francesi che istituiscono ronde armate contro gli immigrati,
Salvini e i Cinquestelle che indicono un referendum come quello inglese, e magari
l'Austria che vuole riprendersi il Sudtirolo. E poi Catalogna, Grecia, Scozia,
Ungheria, coinvolte in un generale cortocircuito di protezionismi, autarchie e
ritorsioni.
Ecco, potrebbe franare
così il nostro sogno europeo, nel silenzio attonito del suo apparato
burocratico e monetario. In un perfetto copione balcanico. Speriamo non accada.
Ma l'amico Andrea Mammone, ricercatore italiano a Londra, è scettico che una
vittoria del " Leave" in Gran Bretagna possa dare ai politici una
salutare frustata. «Spesso è gente che crede basti un clic per sapere le cose —
mi dice — e quindi temo siano incapaci di controllare la situazione». Concordo
in pieno. La malattia è europea. Essa discende da una politica che non batte
più i territori. Si estrinseca come vendetta epocale della geografia e della
storia — espulse dal nostro immaginario nel tempo di Internet — contro
l'illusione che il mondo sia uno spazio aperto, liscio e senza cicatrici.