Mezzi uomini che
uccidono le donne
Articolo di Gavriel Levi - La Stampa del 05/06/2016
Cerchiamo di pensare qualche altra mezza verità. Un uomo che, oggi, massacra
e uccide una donna è (così giustamente si dice). Un omicida incontrollato,
un femminicida annunciato, un avanzo della società medioevale o dell’orda
preistorica, un cannibale del potere. Potrebbe altrettanto essere: un
suicida potenziale ma vigliacco, un omofobo che non sa di esserlo, un prodotto
outlet della modernità affollata, gassosa e solitaria, un compratore
insaziabile di insicurezze. Forse tutte queste mezze verità vanno
confrontate e messe assieme, per completarsi. Probabilmente, in ogni singolo
caso, i diversi fattori si compongono e si squilibrano in misture diverse e
complesse. Ad una prima analisi: un uomo che, per eternare e congelare un
rapporto, ammazza una donna, nebulosamente amata, ha un problema con il suo
immaginario femminile/maschile. Ma in controluce: un uomo che, per aggrapparsi
ad una donna che gli sfugge, la uccide è, comunque, un mezzo individuo, che ha
un problema con la sua individualità umana. Un problema che questo individuo
dimezzato cerca di spostare e di nascondere in una sua guerra fantastica,
segreta e miserabile fra tutti gli uomini e tutte le donne. Se, per
prendere le distanze, parliamo di narcisismo distruttivo e di odio sociale
contro le donne, diciamo una cosa giusta ma corriamo il rischio di confondere
le dimensioni. Il narcisismo è una maschera ingannevole, specie quando il
narcisista identifica tutte le relazioni umane con la relazione fra i due
sessi. Il narcisista a rischio, può diventare sempre più fragile e
pericoloso quando nella sua storia personale con una donna, cerca la
segregazione e costruisce ogni momento una scommessa fra avere tutto ed essere
nulla, fra dominazione ed umiliazione, fra rabbia vitalizzante e vergogna
mortale, fra idolatria e disgregazione, fra trionfo e disperazione. Il
narcisismo è una maschera ingannevole anche nel mito originario. Perché
Narciso, proprio per esistere, deve far morire Eco. E la Ninfa Eco,
terribilmente, almeno in parte, collabora, uccidendosi da sola. Forse si uccide
proprio per non essere uccisa. Lo fa in diversi modi: qualche volta lo fa
illudendosi che tutto potrà andare bene e quindi non riconoscendo i segnali
della violenza omicida; qualche volta donandosi sempre di più, per curare chi
non vuole essere curato; qualche volta spegnendosi lentamente e fuggendo troppo
tardi e senza prendere le necessarie difese. Ma queste ultime considerazioni
valgono di meno per la ninfa Eco e di più per le donne reali di oggi. Il
punto è proprio questo. I fatti degli ultimi anni ci stanno parlando di un femminicidio
che riflette alcune tematiche dell’antichità, ma non trova i suoi veri
meccanismi nelle piccole logiche mediatiche della modernità. Ovviamente nelle
sue sacche sociali più paludose, dove molto si gioca sempre più su immagini di
sé più fittizie. Ed è in questa area che possiamo e dobbiamo lavorare se
vogliamo combattere la fabbrica del femminicidio, oltre che deprecare i suoi
carnefici e santificare le loro vittime. E’ l’immagine del femminicida che
va compresa e presentata per quello che è; un suicida senza coraggio che crolla
quando si accorge che la sua compagna non è un’ombra ma una persona. Questa
immagine tanto ridicola quanto dolorosa può essere individuata direttamente dai
tanti protagonisti di queste storie. Dai potenziali femminicidi che possono
imparare a conoscere in tempo la loro fragilità; dalle loro potenziali
compagne, che possono imparare almeno a non cadere nell’illusione dell’io ti
cambierò/io ti salverò; da coloro che li hanno educati a crescere nell’altalena
rabbiosa tra fantasie di onnipotenza e fantasie di impotenza. A tutti noi che
davanti ai problemi della crescita umana dobbiamo pensare senza retoriche e
schemi prefabbricati.
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