Sara e le altre,
domande di aiuto non raccolte
L'omicidio della Magliana. Ci
si chiede «ma io, cosa avrei fatto?». Domanda che incalza senza lasciare
scampo. Il nodo è cosa occorre fare per aiutare le donne in pericolo
Articolo di Bia Sarasini -
“Il Manifesto” del 01/06/2016
Lascia impietriti, la fine
di Sara Di Pietrantoni. Non solo per la furia del ragazzo, Vincenzo Paduano,
così carino nelle foto insieme pubblicate su Instagram, una furia che lo ha
portato a darle una morte crudele, né più né meno che un supplizio. Lui parla
di sé stesso come un mostro, e sembra troppo facile. Non per lui, che chissà se
mai ritroverà nel tempo tracce della propria umanità, ma i titoli dei giornali,
le denunce fatte sempre dopo. Gela invece il cuore immaginare quei minuti, lei
che cerca di scappare, riesce a buttarsi in mezzo alla strada, eppure le rare
auto che passano non si fermano. Anche se chi guida vede una ragazza bionda che
si sbraccia e chiede aiuto.E non è l’identificazione con lei, Sara, amica
sorella figlia, a guidare le mie parole. È la domanda di aiuto non raccolta,
che mi agghiaccia. Una domanda evidente, concreta. Consumata tra i minuti che
passano dal tentativo di fuga di Sara, e dal fuoco che brucia implacabile.
Un’immagine molto efficace dell’incapacità di aiutare le donne a rischio, in
situazioni difficili. Anche quando i segnali sono chiarissimi. Prevale
l’indifferenza, il farsi i fatti propri. Manca il coraggio.In effetti ci vuole
coraggio, per fermarsi di notte e andare in soccorso di chi ha bisogno di
aiuto. Sui social da ieri questa è la domanda prevalente. Io, cosa avrei fatto?
È una domanda che non permette abbellimenti, indulgenze. Interroga senza
lasciare scampo. È con tutta evidenza facile, troppo facile, dirsi: io mi sarei
fermata, fermato. Io sì che l’avrei aiutata. E se non avremo mai una risposta
netta, sicura, proprio l’inquietudine che ne viene può essere lo stimolo per
affrontare il nodo cruciale. Cosa occorre fare, per aiutare le donne in
pericolo? Le leggi ci sono, per aiutare le donne. Non ci sono i finanziamenti.
I posti letto, nelle case in cui le donne possano rifugiarsi, sono troppo
pochi. E la rete dei centri antiviolenza non ha il sostegno sufficiente. Ma la
storia di Sara insegna che il pericolo non è solo nelle coppie che vivono
insieme. Occorrono altri strumenti. Insegnare, per esempio, ma soprattutto
convincersi, che la gelosia non è un segno sicuro dell’amore. È geloso, quindi
mi ama, quindi ci tiene a me, mi dà valore. Un geloso è uno che considera la
donna roba sua, non tollera la sua libertà. Le ragazze devono essere educate a
capirne il pericolo, i ragazzi a non farne una questione di identità: sta con
me quindi deve fare quello che voglio io. E frequentare solo me.
Sembra assurdo dover
scrivere questo, su questo giornale, nel 2016. Eppure non molto è cambiato,
nell’educazione sentimentale dei maschi, negli ultimi decenni. E
nell’educazione collettiva. Tanto è vero che a scrivere, a commentare, siamo
prevalentemente noi, le femmine della specie. Non c’è molto di nuovo
nell’insegnare alle bambine a fare attenzione, a non fidarsi dei maschi. Non è
quello che si è sempre tramandato? È vero che la parità, il sentirsi uguali può
avere reso le ragazze più ingenue o meglio più incredule, non si può pensare
che quel ragazzo che in fondo fa la mia stessa vita possa trasformarsi, farmi
del male. Ma non è un problema delle donne, la violenza degli uomini. È che ci
vuole coraggio. Molto coraggio a essere uomini, oggi. Rinunciare ai confini
certi di un’identità di genere consegnata dalla tradizione. Il possesso delle
donne, di una almeno, era garantito da quella formazione sociale che chiamiamo
patriarcato a ogni uomo, anche il più miserabile. Un sistema sgretolato, ma
ancora forte nel produrre immaginario sociale, magari condito dal rancore
venato di vittimismo. Basta leggere i social, dove si discute violentemente
l’idea stessa dell’esistenza del femminicidio. Parola sgradevole e necessaria.
Ciechi di fronte alla traccia di sangue, che giorno dopo giorno dice degli
effetti dell’odio violento per le donne. Non che tutti uccidano, menino,
stuprino. Eppure pochi, pochissimi hanno la forza della parola pubblica. La
forza di andare contro un ordine che vive della passività di chi, invece di
chiedersi a quale vita è costretto, ricerca il privilegio perduto, con uno sguardo
volto all’indietro. Manca la forza di andare contro l’ordine sociale in cui
viviamo. Forse anche per questo ribellarsi non è all’ordine del giorno.
Ho posto alla vostra attenzione questo articolo non per la notizia in sé che non ha ovviamente nulla di ‘sorprendente’ ma perché sottolinea un elemento che ritengo essenziale. Nell’articolo si mette in evidenza una verità semplice e incontestabile ma da sempre rimossa: il femminicidio è una violenza sessuale maschile che ha la forza di svelare il lato oscuro dei rapporti tra i sessi. Il problema è maschile, il rapporto che gli uomini hanno con il proprio corpo e con la propria sessualità. Il silenzio degli uomini deve essere rotto. Non tutti violenti, ovviamente. Ma come ieri, molto spesso, in silenzio. Solo se parlano anche loro, le cose possono cambiare. E’ una battaglia di civiltà.
RispondiEliminaHo raccolto la sollecitazione di Nives a pubblicare il post con l’articolo di Bia Sarasini e condivido il suo commento. Condivisione però accompagnata da un timore: che ancora una volta si ripeta il frustrante rituale che accompagna, nei e sui media, un episodio particolarmente grave di femminicidio. Si è purtroppo alzata l’asticella dello sdegno. Nelle settimane precedenti quello di Sara credo di ricordare almeno altri due omicidi di donne da parte dei loro uomini. Notizie pubblicate senza rilievo nella pagine di cronaca, o velocemente menzionate nei notiziari tv accompagnate dalla classica formuletta….ennesimo episodio di …….. Quando, come nel caso di Sara, qualche aspetto colpisce in modo particolare (in questo caso il “fuoco”) allora, per alcuni giorni, alla notizia si accompagnano commenti, interviste, spiegazioni. Alcune anche di spessore, ci mancherebbe, come quello dell’onnipresente Recalcati su La Repubblica di oggi. Fra pochi giorni, magari già da domani, tutto tacerà e tornerà a regnare il più totale “silenzio”. Un rituale che mi pare diventare, nel suo svolgimento sui media, sempre più stucchevole, fine a sé stesso. Scusate la franchezza ma ho l’impressione che certi approfondimenti, come quello stesso di Recalcati, servano di più a nutrire un diffuso vezzo intellettualoide di ”elegante” approfondimento, che non a smuovere coscienze e ad innescare reazioni reali. Hai ragione Nives quando dici che il silenzio degli uomini deve essere rotto. Ma tu per prima sai bene che è un silenzio di comodo, un silenzio che è connaturato con il potere del maschio. La storia insegna che nelle umane vicende il potere, ogni forma di potere in qualsiasi aspetto si esprima, non abbandona mai volontariamente e passivamente il campo. Viene battuto, ridimensionato, solo con la lotta. Di tutti e tutte. Premesso che è da subito indispensabile avviare azioni forti, anche sul piano giudiziario, per fronteggiare atti concreti di femminicidio, sappiamo però bene che quella lotta al potere del maschio è, e sarà, processo lungo e complicato. Fine del silenzio e lotta potrebbero iniziare a muoversi insieme se, tutti (quelli coscienti dello stato di cose) e tutte, ad esempio non stessimo zitti nei piccoli, quotidiani, gesti di prepotenza maschile verso le donne. A volte all’apparenza insignificanti, trascurabili. Ma non meno significativi. Non si tratta quindi di uscire dal silenzio solo verso gesti e situazioni estreme, ma da quello dell’accettazione quotidiana di quel potere da rimuovere. Credo che il tuo invito a rompere il silenzio sia anche questo.
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