Diritti e culture: una relazione controversa
Articolo di Valentina Pazé
1. I diritti culturali nei documenti
internazionali
Nell’affrontare il tema, spinoso, del
rapporto tra diritti e culture, un buon punto di partenza può essere la
Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, detta anche Carta di Algeri (nota 1). Redatta nel 1976 da
alcuni intellettuali, tra cui Lelio Basso, che diedero in seguito vita al
Tribunale permanente dei popoli, la Carta di Algeri è a tutti gli effetti un
manifesto politico, che esprime bene le ragioni all’origine dell’emergere delle
rivendicazioni di diritti culturali. Essa si apre attribuendo a ogni popolo il
diritto “all’esistenza” (art. 1) e “al rispetto della propria identità
nazionale e culturale” (art. 2).
Contempla poi una sezione IV specificamente
dedicata al Diritto alla cultura, che si compone di tre articoli
art. 13 : Ogni popolo ha il diritto di
parlare la propria lingua, di preservare e sviluppare la propria cultura,
contribuendo così all’arricchimento della cultura dell’umanità;
art. 14: Ogni popolo ha diritto alle proprie
ricchezze artistiche, storiche e culturali;
art. 15: Ogni popolo ha diritto che non gli
sia imposta una cultura ad esso estranea1.
Il diritto alla cultura si presenta qui come
un diritto composito: per un verso un diritto-immunità (l’aspettativa meramente
negativa di non subire il saccheggio del proprio patrimonio artistico e
culturale e l’imposizione della cultura altrui), per altro verso un
diritto-facoltà, consistente nella possibilità di parlare la propria lingua e
sviluppare la propria cultura.
La Dichiarazione universale dei diritti dei
popoli prevede poi una sezione VI dedicata ai Diritti delle minoranze. In base
all’art. 19, “Quando un popolo rappresenta una minoranza nell’ambito di uno
Stato, ha il diritto al rispetto della propria identità, delle tradizioni,
della lingua, del patrimonio culturale”. I membri della minoranza “devono
godere senza discriminazioni degli stessi diritti che spettano agli altri
cittadini e devono partecipare in condizioni di eguaglianza alla vita pubblica”
(art. 20).
La Carta di Algeri – come si è detto – è a
tutti gli effetti un manifesto politico, scritto per attirare l’attenzione
sulle ferite ancora aperte del colonialismo e dell’imperialismo. Per
comprendere appieno il significato della rivendicazione del diritto dei popoli
alla cultura bisogna tenere conto del contesto storico in cui questo testo è
stato redatto (“tempi di frustrazioni e di sconfitte, in cui nuove forme di
imperialismo si manifestano per opprimere e sfruttare i popoli” – recita il
Preambolo) e farne una lettura sistematica, collocando il diritto alla cultura
accanto ai diritti all’autodeterminazione politica ed economica (nota 2): .
La Carta di Algeri non è comunque la prima
carta dei diritti in cui compaia il riferimento alla cultura. Già la
Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art. 22, menzionava i
“diritti culturali”, insieme a quelli economici e sociali, tra i diritti
indispensabili per promuovere la dignità umana” e “il libero sviluppo della
personalità” di ogni individuo (nota 3). E, all’art. 27, prima comma, affermava che “Ogni
individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della
comunità”. Vi sono poi i Patti internazionali del ’66 (nel secondo dei quali
l’espressione “diritti culturali” compare fin dal titolo), che dichiarano,
all’art. 1 comune, che “Tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione. In
virtù di questo diritto essi decidono liberamente del loro statuto politico e
perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”. In
questi documenti non è sempre chiaro quando la cultura è intesa come un
patrimonio di conoscenze, idee, opere artistiche e letterarie cui contribuisce
l’umanità intera, e quando ricorre invece l’accezione antropologica di cultura,
che include anche la lingua, le credenze, i costumi, i modi di vita. In questa
seconda accezione, la cultura si declina al plurale: ogni popolo avrebbe una
specifica cultura e il diritto di conservarla e svilupparla.
Di certo all’accezione antropologica di
cultura si rifanno tutta una serie di documenti dell’UNESCO, come la
Dichiarazione universale sulla diversità culturale, del 2001, la Convenzione
sulla protezione del patrimonio culturale immateriale, del 2003, la Convenzione
per la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali,
del 2005. Nel primo di questi documenti la cultura è definita, nel Preambolo,
come “l’insieme dei tratti distintivi spirituali e materiali, intellettuali e
affettivi che caratterizzano una società o un gruppo sociale. Essa include,
oltre alle arti e alle lettere, modi di vita e di convivenza, sistemi di
valori, tradizioni e credenze”. È con riferimento a questa accezione di cultura
che lo stesso documento afferma, all’art. 1, che la “diversità culturale” è
necessaria allo sviluppo dell’uomo tanto quanto la biodiversità.
Un’affermazione discutibile, se presa alla lettera, su cui tornerò tra
breve.
Vorrei citare ancora per lo meno due
documenti particolarmente significativi per il mio discorso. Il primo è la
Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite, del 2007,
che attribuisce tutta una serie di diritti ai popoli indigeni, tra i quali il
diritto all’autodeterminazione e allo sviluppo “economico, sociale, culturale”
(art. 3), il diritto di “praticare e rivitalizzare i propri costumi e
tradizioni culturali” (art. 11), il “diritto alle terre, territori e risorse
che hanno tradizionalmente posseduto e occupato o altrimenti utilizzato o
acquisito” (art. 26), il diritto “di determinare la propria identità o appartenenza
in accordo con i propri costumi e tradizioni” (art. 33), senza che ciò
pregiudichi il diritto degli individui indigeni di “ottenere la cittadinanza
degli Stati nei quali essi vivono”. I popoli e gli individui indigeni hanno
invece, tra l’altro, il diritto a “non essere fatti oggetto di assimilazione
forzata e della distruzione della loro cultura (art. 8) (nota 4).
Da ultimo, la Dichiarazione di Friburgo,
risalente anch’essa al 2007, e redatta per conto dell’UNESCO da un gruppo di
studiosi incaricati di raccogliere e sistematizzare i diritti culturali già
contemplati dai documenti giuridici precedenti, stabilisce, all’art. 3, che
ogni persona, “da sola o in comune con gli altri”, ha diritto “di scegliere e
di vedere rispettata la propria identità culturale nella diversità dei suoi
modi di espressione”. “Ogni persona ha – inoltre – la libertà di scegliere di
identificarsi o no in una o più comunità culturali, senza considerazione di
frontiere, e di modificare questa sua scelta” e “nessuno può vedersi imporre ed
essere identificato o assimilato suo malgrado ad una comunità culturale” (art.
4).
2.
Una relazione problematica
Complessivamente, questi documenti possono
essere considerati come una tappa significativa di quel processo di
moltiplicazione e specificazione dei diritti che ha avuto luogo nel periodo
successivo all’approvazione della Dichiarazione universale del 1948 (nota 5). Un processo ispirato
dall’accresciuta sensibilità della comunità internazionale per la condizione di
debolezza in cui versano specifiche categorie di soggetti: le donne, i bambini,
i disabili, ma anche coloro che, per il semplice fatto di essere nati e cresciuti
“nel luogo sbagliato”, sono vittime di gravi violazioni dei diritti umani.
Popoli e individui che non sono solo stati assoggettati al dominio straniero e
spogliati delle loro risorse economiche, ma umiliati e stigmatizzati per la
loro cultura, letta in chiave di arretratezza e di inferiorità.
Come
non schierarsi dalla loro parte? Come non condividere la causa dei popoli
indigeni, ieri vittime del genocidio perpetrato dai colonizzatori occidentali,
oggi a rischio di essere definitivamente privati delle risorse materiali ed
ambientali necessarie alla loro sopravvivenza a causa della rapacità delle
multinazionali? Se vogliamo formarci un’opinione più equilibrata sul tema,
tuttavia, dobbiamo tenere presente che oggi a rivendicare i diritti culturali sono
anche “popoli” le cui vicende non possono essere assimilate a quelle degli
indigeni, né a quelle dei popoli colonizzati. Si pensi ai baschi, ai catalani,
agli scozzesi, ai francofoni del Quebec. O, ancora più vicino a noi, ai veneti.
Da alcuni anni esiste in Veneto un assessorato alle Politiche per la cultura e
l’identità veneta, che ha tra l’altro promosso la pubblicazione di un manuale
per le scuole intitolato Noi Veneti. Viaggi nella storia e nella cultura
veneta. In questo testo l’identità veneta è definita in termini di
“appartenenza a una storia, una lingua, una cultura, un territorio”, oltre che
di “alcune caratteristiche morali comuni” (nota 6). Possiamo sorridere
di fronte a simili asserzioni e pensare che la cultura veneta, o quella padana,
non esistono, o non esistono nello stesso senso in cui esistono le culture
indigene, e in ogni caso non sono bisognose di protezione allo stesso modo (nota 7). Ma ragionare in
termini di esistenza o inesistenza di una cultura, di autenticità o
contraffazione, apre tutta una serie di problemi, estremamente difficili da
affrontare. Storici come Hobsbawm, Gellner, Anderson, ci hanno insegnato che le
tradizioni “si inventano”, le comunità “si immaginano”, le identità culturali
si costruiscono, e nulla è più lontano dalla realtà del mito romantico secondo
cui a ogni “popolo” corrisponderebbe una, e una sola, “cultura” (nota 8). Gli stessi
antropologi ci mettono oggi in guardia contro la sopravalutazione del ruolo
della cultura nell’interpretazione dei processi sociali e contro le
“ossessioni” e le “illusioni” identitarie (nota9). E tuttavia, nella logica universalistica dei
diritti umani, se il “diritto alla cultura” vale per il popolo Inuit o Maori,
forse dovrebbe valere per qualsiasi altro collettivo che si autorappresenti
come un “popolo”…
Già, ma che cos’è un “popolo”? È questo solo uno dei problemi che si pongono a
chi provi ad approfondire la relazione tra diritti e culture. Una relazione che
è, in effetti, molto più controversa di quanto non possa apparire a prima
vista. Fermiamoci allora a riflettere su
questa relazione, e chiediamoci se la via maestra da percorrere per risarcire
le vittime del colonialismo e del razzismo passi per forza attraverso il
riconoscimento a tutti i “popoli” di diritti culturali.
3. L’individuo come soggetto di diritti
Come abbiamo visto, i diritti culturali che
sono stati teorizzati e positivizzati nelle carte internazionali sono talvolta attribuiti agli
individui, in quanto membri di determinati gruppi, ma molto più spesso a
soggetti collettivi, come i “popoli” o le “minoranze”. Il problema è che la logica dei diritti
fondamentali, che si afferma nella modernità, è individualistica, ed è
incompatibile con l’attribuzione di diritti a soggetti collettivi.
Individualismo non significa
naturalmente atomismo, solipsismo, egoismo, come talvolta si sostiene,
non senza qualche ragione se si pensa all’epoca storica in cui i diritti si
sono originariamente affermati (nota 10). Tra i diritti oggi contemplati dalle
costituzioni e dalle dichiarazioni internazionali ci sono le libertà di
riunione e di associazione, che sono diritti individuali, ma si esercitano
collettivamente. Anche la libertà di espressione o i diritti politici, pur
spettando all’individuo, lo mettono in relazione con gli altri membri della
società. Allora perché insisto sul fatto che la logica dei diritti è
individualistica? Perché i diritti nascono, nella modernità, per difendere gli
individui contro lo Stato, ma anche contro altri soggetti collettivi, come la
famiglia o la comunità religiosa, che possono interferire ingiustificatamente
con la loro libertà.
Tra coloro che per primi hanno teorizzato
l’esigenza di garantire i diritti dei bambini, anche contro il volere dei
genitori, c’è Hegel, pensatore spesso ingiustamente dimenticato nelle
ricostruzioni storiche sull’origine dei diritti. Nelle Lezioni da lui tenute
nel 1824-25, egli sostiene a chiare lettere che “la società civile ha il
diritto e il dovere di obbligare i genitori a inviare i figli a scuola”; “i
bambini hanno il diritto di essere educati […] e se i genitori trascurano
questo diritto, deve intervenire la società civile” (nota 11). In modo analogo, le
pubbliche istituzioni – questo è il significato che l’espressione “società
civile” assume in questo contesto – devono provvedere alla vaccinazione dei
bambini contro il vaiolo, anche contro il volere dei genitori, che possono non
essere consapevoli della sua importanza.
Quello che vale per la famiglia, vale per comunità più ampie in cui
l’individuo si trova ad essere inserito fin dalla nascita, come il villaggio,
la chiesa, la comunità etnico-culturale. E ciò che vale per i bambini vale
anche per altri soggetti, cui per lungo tempo è stato negato lo status di
persone autonome e razionali, come le donne. In quest’ottica, è problematico
quanto afferma l’art. 35 della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni:
“I popoli indigeni hanno il diritto di determinare le responsabilità degli
individui verso le loro comunità”. Nella sua genericità, questo articolo
rischia di legittimare ingiustificate limitazioni della libertà individuale da
parte della comunità, (o, meglio, da parte dei suoi capi). Problematico è anche
il riconoscimento ai popoli indigeni del diritto di scegliere i propri
rappresentanti “in conformità alle proprie pratiche” e di “mantenere e
sviluppare le proprie istituzioni decisionali indigene” (art. 18). In alcuni
casi questo principio si è tradotto nel riconoscimento di modalità decisionali
poco democratiche, che non garantiscono la segretezza e la personalità del voto
(nota 12). Più in generale, i
numerosi articoli della Dichiarazione che ascrivono ai popoli indigeni il
diritto di conservare, tramandare e rivitalizzare costumi e tradizioni avite
non tengono conto del fatto che non tutte le tradizioni sono meritevoli di
essere difese. Che dire di usi e costumi che contraddicono il principio di
eguaglianza tra “individui indigeni di genere maschile e femminile”, principio
che, pure, è affermato dall’art. 44 della stessa Dichiarazione?
Problematica è anche l’analogia, istituita
dalla Dichiarazione universale sulla diversità culturale, tra differenza
culturale e biodiversità, dietro la quale non è difficile scorgere la
concezione statica di cultura propria degli antropologi che collaboravano con
l’UNESCO negli anni Sessanta (nota 13). Tale concezione non
tiene conto di quanto le culture siano continuamente soggette a cambiare,
evolversi, adattarsi, contaminarsi, interagendo tra di loro. Porsi l’obiettivo
della conservazione a tutti i costi delle culture tradizionali significa in
effetti tentare di arrestarne la fisiologica evoluzione e trasformazione,
adottando un atteggiamento “museale”. In quest’ottica “non esistono possibilità
di arricchimento di una cultura a opera di un’altra, di ‘fertilizzazione
incrociata’ […]. La scomparsa di una cultura è una perdita irrimediabile per
l’umanità, il che implica la difesa del diritto delle differenti culture a
esistere, anche se ciò equivale in ultima istanza a rinchiudere gli attori
sociali in riserve culturali e identitarie dalle quali non possono evadere” (nota 14). Ecco allora la possibile
implicazione illiberale dell’analogia tra bio- ed etno-diversità. Se è indubbia
l’utilità di conservare in laboratorio il bacillo del vaiolo, a fini di ricerca
scientifica, non altrettanto si può dire a proposito dell’ipotetica difesa di
pratiche come la fasciatura dei piedi delle bambine e l’infibulazione, o la
consuetudine ben più diffusa della violenza domestica nei confronti delle
donne. In questi casi, il rispetto per la cultura, intesa come totalità compiuta e coerente,
entra inevitabilmente in tensione con il rispetto nei confronti delle persone.
Che, nella logica dei diritti, non possono non venire prima delle culture. Si
torna così al punto di partenza. I diritti sono stati inventati, nella
modernità, come strumenti al servizio dei più deboli. Rispetto al gruppo, sono
sempre gli individui i soggetti deboli e bisognosi di protezione. Nei confronti
dello Stato, del mercato, ma anche della famiglia e degli altri gruppi e
istituzioni in cui si trovano ad essere coinvolti.
4. “Popoli” in che senso?
Un secondo grande problema che pongono le
norme internazionali sui diritti culturali è quello – già menzionato – della
difficoltà di stabilire concretamente a quali soggetti deve essere riconosciuta
la titolarità di diritti collettivi. Che cos’è un “popolo” o una “minoranza”?
Quali sono i criteri per stabilire che qualcuno ne fa parte? Si tratta di
interrogativi cruciali quando si passa dalle generiche dichiarazioni di
principio al vero e proprio riconoscimento di diritti, in senso giuridico.
Qual è il popolo che ha diritto
all’autodeterminazione politica, economica e culturale, diritto che è stata
interpretato, col passare degli anni, in modo sempre più estensivo, fino ad
essere talvolta identificato con la pretesa, in ultima istanza, di separarsi
dalla comunità politica di cui si fa parte, dando vita a uno Stato
autonomo? I Croati e gli Sloveni che si
sono separati dalla Federazione iugoslava erano “popoli” che esercitavano il
diritto all’autodeterminazione? Così ha decretato, dopo qualche esitazione, la
comunità internazionale, nonostante fino a quel momento tale diritto fosse
stato riconosciuto soltanto ai popoli assoggettati a dominio coloniale o
occupazione militare, o a minoranze etniche e religiose vittime di gravi discriminazioni
(nota 15). Gli Albanesi del
Kossovo costituivano un “popolo” titolato ad avvalersi dello stesso diritto?
Inizialmente sembrava di no, ma di fronte al fatto compiuto della dichiarazione
unilaterale dell’indipendenza l’atteggiamento della comunità internazionale è
mutato. E che dire, oggi, dell’Ucraina? In Crimea un referendum ha deciso la
secessione e l’annessione alla Russia, ma nuove rivendicazioni secessionistiche
vengono avanzate dai russofoni dell’Ucraina dell’est, non privi di qualche argomento
a sostegno della tesi della loro specificità linguistica e culturale…
Questi esempi ci fanno capire che, se inteso
come diritto di qualsiasi “popolo” a farsi Stato, il diritto di
autodeterminazione non è universalizzabile, e non può dunque essere considerato
un diritto fondamentale, al pari dei diritti ascritti agli individui dalla
Dichiarazione universale e dalle costituzioni nazionali (nota 16). “Ammesso che
sappiamo che cosa sono un ‘popolo’ e una ‘minoranza’ – ha sostenuto Luigi
Ferrajoli - […], è infatti impossibile generalizzare questo diritto in favore
di tutti i popoli: giacché il medesimo criterio di identificazione di un popolo
sarà applicabile a minoranze che con esso convivono nel medesimo territorio e
che non potranno godere del medesimo diritto senza contraddire quello
rivendicato dal popolo di maggioranza”. Questa tesi - aggiunge lo stesso autore
- “può essere estesa a tutti i diritti delle minoranze e, in generale, a tutti
i diritti cosiddetti ‘collettivi’, siano essi culturali, politici o economici” (nota 17). Anche quando i diritti non sono attribuiti
ai popoli o alle minoranze, ma agli individui che ne fanno parte, si pone il
problema di identificare con precisione chi appartiene a quale gruppo. Il
figlio di una coppia mista come può essere classificato? Se il criterio per
stabilire l’appartenenza a una minoranza “etnica”, nell’ambito di Stati
multiculturali, è quello della discendenza, quale percentuale di “sangue” dovrà
dimostrare di possedere un individuo per essere considerato membro di un
determinato gruppo? Nella pratica, questi problemi si pongono e si risponde ad
essi in diversi modi. Negli Stati Uniti, le tribù indigene che si autogovernano
nelle riserve hanno stabilito le regole più varie: in alcuni casi è stata
ritenuta sufficiente una percentuale di
1/256 di sangue indigeno per essere considerati parte della comunità, in
altri quella del 50% (nota 18). Altrove
l’identificazione avviene in base al fenotipo, ma in questo modo può accadere –
ed è effettivamente accaduto – che due fratelli con la pelle di diversa
gradazione di colore vengano classificati come membri di diverse “etnie”. Anche quando si rinuncia alla chimera
dell’oggettività per rivolgersi ai diretti interessati, chiedendo loro di
dichiarare la propria identità etnica o linguistica – come avviene negli Stati
Uniti, attraverso periodici censimenti – rimane il problema del carattere in
gran parte arbitrario di tali auto-classificazioni, da cui tuttavia può
dipendere il godimento di specifici diritti (nota 19). Ma c’è soprattutto
il rischio che la trasformazione di identità culturali, di per sé sempre ibride
e fluide, in rigide categorie amministrative rafforzi le differenze,
alimentando atteggiamenti di chiusura e di diffidenza (nota 20). Il gesto di
Alexander Langer che, nel 1995, rifiuta di rispondere al censimento etnico
previsto per legge in Alto Adige, risultando così escluso dalla possibilità di
candidarsi a sindaco di Bolzano, fa riflettere sui possibili effetti perversi
di politiche introdotte “a fin di bene”, per proteggere minoranze
discriminate.
5. Conclusione. Diritti culturali o diritti economico- sociali?
Ho iniziato questo mio intervento mettendo
in luce le ragioni storiche della rivendicazione dei diritti culturali, a
difesa di individui e popoli che sono stati – e sono tuttora – vittime di gravi
discriminazioni. Se leggiamo con attenzione le norme dedicate ai diritti
culturali, ci accorgiamo tuttavia che dal punto di vista giuridico la loro
portata innovativa è limitata. Al di là delle formule, spesso ridondanti, i
diritti culturali che le carte internazionali oggi attribuiscono agli individui
sono in gran parte interpretabili come specificazioni di diritti fondamentali
già sanciti Diichiarazione universale del 1948 e dalla maggior parte delle
costituzioni (nota 21). In che cosa si
traduce, ad esempio, il diritto di “ogni persona, da sola o in comune con altri”,
di “scegliere e vedere rispettata la propria identità culturale” (art. 3 della
Dichiarazione di Friburgo), se non nell’esercizio delle libertà di coscienza,
di religione, di espressione, di riunione e associazione? Su che cosa si fonda
il diritto dei membri delle minoranze a parlare la propria lingua, se non sul
principio di eguaglianza? Principio che, se correttamente interpretato, non
conduce all’omologazione, ma all’attribuzione di pari valore a tutte le
differenze, “che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli
altri e, insieme, di ciascun individuo una persona come tutte le altre” (nota 22).
Se questo è vero, non si tratta di
arricchire ulteriormente il catalogo dei diritti, ma di dotare di efficaci
garanzie i diritti già riconosciuti a livello internazionale, a partire da
quelli sociali alla sopravvivenza, alla salute, all’istruzione, in assenza dei
quali la possibilità di scegliere “se identificarsi o no in una o più comunità
culturali” rischia di rimanere puramente ipotetica. In proposito non si può non
notare come l’accresciuta sensibilità nei confronti della dimensione culturale
e identitaria tenda oggi a non accompagnarsi a una pari consapevolezza delle
responsabilità dell’attuale modello di sviluppo nel generare diseguaglianze e
conflitti. Si concentra l’attenzione sul riconoscimento simbolico delle culture
dei popoli oppressi, talvolta scegliendo soluzioni discutibili23, ma si
dimentica di denunciare le politiche neo-imperialistiche e neo-coloniali che i
paesi ricchi continuano a perseguire ai danni dei paesi poveri. Varrebbe allora
la pena di ricordare che un testo come la Dichiarazione di Algeri contempla
anche una sezione dedicata ai diritti economici, in cui è attribuito a ogni
popolo “il diritto esclusivo sulle proprie ricchezze e risorse naturali” (art.
8) e il diritto alla “giusta valutazione del proprio lavoro” e a “scambi
internazionali […] in condizioni paritarie ed eque” (art. 10). Diritti che, se
presi sul serio, contribuirebbero non poco a creare le condizioni per il mutuo
rispetto tra le diverse culture.
1 - La Carta di Algeri.
Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, in F. Rigaux, I diritti dei
popoli e la Carta di Algeri, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2012, p. 180.
2 - Ivi, p. 178.
3 - “Ogni individuo, in
quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla
realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale
ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti
economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero
sviluppo della sua personalità”.
4 - Sul processo che ha
condotto all’adozione della Dichiarazione del 2007 e al riconoscimento dei
diritti degli indigeni in molte costituzioni latinoamericane, cfr. B. Clavero,
Stato di diritto, diritti collettivi e presenza indigena in America, in Lo
stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa e D. Zolo,
Feltrinelli, Milano 2003, pp. 537-65.
5 - Cfr. in proposito N.
Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. 62 ss.
6 - Cit. in M. Aime,
Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, pp. 27-28.
7 - Aime fa notare, tra
l’altro, che “sia Cortina d’Ampezzo sia Chioggia sono in Veneto e ci sarebbe da
chiedersi quanto le loro rispettive ‘culture’ abbiano in comune: dolomitici a
un passo dal Tirolo gli uni, adriatici, affacciati sull’Oriente gli altri”
(ivi, p. 28).
8 - Cfr. E. Hobsbawm e T.
Ranger, L’invenzione della tradizione (1983), Einaudi, Torino 1987; B.
Anderson, Comunità immaginate (1983), Manifestolibri, Roma 1996; E. Gellner,
Nazioni e nazionalismo (1983), Editori Riuniti, Roma 1985. Per un approfondimento su questi temi, mi
permetto di rinviare a V. Pazé, Comunità, cultura, globalizzazione, “Teoria
politica” XIX, 2-3, 2003, pp. 123-136.
9 - Oltre al già citato
volume di Aime, Eccessi di culture, cfr. J. F. Bayart, L’illusion identitaire,
Fayard, Paris 1996 ; F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996;
Id., L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010; J. L. Amselle,
Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Bollati Boringhieri,
Torino 2002.
10 - Si pensi alla
critica dei diritti dell’uomo “egoista” e “isolato dalla comunità” sviluppata
da Marx nella Questione ebraica, che in gran parte risente del nesso
indissolubile istituito da Locke tra libertà
e proprietà privata. Cfr. K. Marx, La questione ebraica, in B. Bauer, K.
Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004.
11 - G.W.F. Hegel, Le
filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, a cura di D.
Losurdo, Leonardo, Milano 1989, p. 361.
12 - Sulle
strumentalizzazioni cui si presta il voto secondo “usos y costumbres”,
riconosciuto ai municipi indigeni dalla
Costituzione dello Stato messicano di Oaxaca, cfr. R. Bertrand, J.L. Briquet,
P. Pels, Culture of voting. The Hidden History of the Secret Ballot, Hurst
Company, London 2007.
13 - J.-L. Amselle,
Contro il primitivismo (2010); tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 73
ss. L’autore insiste in particolare sul contributo di Lévi Strauss
all’elaborazione dei documenti dell’UNESCO. “Per Lévi Strauss la gamma
complessiva delle culture del pianeta costituisce un insieme determinato in
partenza, una serie finita che non può che alterarsi, degradarsi e diminuire
nel corso della storia. Nel quadro di questa concezione statica ed entropica
della(e) cultura(e), qualsiasi evoluzione storica, qualsiasi contatto,
qualsiasi métissage culturale è in definitiva dannoso al mantenimento della
biodiversità” (p. 78).
14 - Ibidem. Contro la
visione essenzialista delle culture, propria del “multiculturalismo a mosaico”,
ha argomentato anche S. Benhabib in La rivendicazione dell’identità culturale.
Eguaglianza e diversità nell’era globale (2002); tr. it. il Mulino, Bologna
2005.
15 - Cfr. in proposito A
Cassese, Self-determination of People. A Legal Reappraisal, Cambridge
University Press, Cambridge 1984; C. Margiotta, L’ultimo diritto. Profili
storici e teorici della secessione, il
Mulino, Bologna 2005; V. Pazé, Il diritto di autodeterminazione dei popoli, tra
federalismo e secessionismo, in Quale federalismo?, a cura di E. Vitale,
Giappichelli, Torino 2011, pp. 11-27.
16 - Mi attengo qui alla
nozione di diritto fondamentale messa a punto da Luigi Ferrajoli, come diritto
soggettivo ascritto universalmente a tutte le persone, i cittadini, i capaci di
agire. Cfr. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, a cura di E. Vitale, Laterza,
Roma-Bari 2001.
17 - Ivi, pp. 336-7.
Problemi specifici pone l’identificazione dei popoli “indigeni” o “autoctoni”,
espressione ambigua con cui i documenti internazionali designano ora i popoli
che per primi si sono insediati in un certo territorio, ora popoli “oppressi”,
privilegiando peraltro quelli particolarmente “primitivi”, fermi allo stadio
socio-economico dei cacciatori-raccoglitori. Cfr. J.-L. Amselle, Contro il
primitivismo cit., pp. 66 ss.
18 - Cfr. D. Hollinger,
Postethnic America. Beyond Multiculturalism, Basic Books, New York 1995, pp.
45-46.
19 - Si pensi al fatto che gli americani auto-dichiaratisi
“indigeni” sono cresciuti, tra il 1960 e il 1990, del 259 per cento, dato
verosimilmente spiegabile tenendo conto delle politiche di azione affermativa
riservate ai membri di tale minoranze. Cfr. Hollinger, Postethnic America cit.,
p. 46.
20 - U. Hannerz, La
diversità culturale, il Mulino, Bologna 2001, p. 44.
21 - Diverso – come
abbiamo visto – è il caso dei diritti culturali attribuiti a soggetti
collettivi.
22 - L. Ferrajoli, Presentazione, in I.M. Young,
Le politiche della differenza (1990); tr. it. Feltrinelli, Milano 1996, pp. X-
XI. 23 Cfr. ad esempio la critica di
Appiah alla dottrina della “proprietà dei beni culturali” sviluppata
dall’UNESCO e alla politica del copyright applicata alla “cultura immateriale”
dei popoli: K.A. Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei
(2006); tr. it. Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 117 ss.
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