martedì 14 marzo 2017

Diritti e culture: una relazione controversa - Articolo di Valentina Pazè


Diritti e culture: una relazione controversa


Articolo di Valentina Pazé



1. I diritti culturali nei documenti internazionali

Nell’affrontare il tema, spinoso, del rapporto tra diritti e culture, un buon punto di partenza può essere la Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, detta anche Carta di Algeri (nota 1). Redatta nel 1976 da alcuni intellettuali, tra cui Lelio Basso, che diedero in seguito vita al Tribunale permanente dei popoli, la Carta di Algeri è a tutti gli effetti un manifesto politico, che esprime bene le ragioni all’origine dell’emergere delle rivendicazioni di diritti culturali. Essa si apre attribuendo a ogni popolo il diritto “all’esistenza” (art. 1) e “al rispetto della propria identità nazionale e culturale” (art. 2).

Contempla poi una sezione IV specificamente dedicata al Diritto alla cultura, che si compone di tre articoli

art. 13 : Ogni popolo ha il diritto di parlare la propria lingua, di preservare e sviluppare la propria cultura, contribuendo così all’arricchimento della cultura dell’umanità; 

art. 14: Ogni popolo ha diritto alle proprie ricchezze artistiche, storiche e culturali; 

art. 15: Ogni popolo ha diritto che non gli sia imposta una cultura ad esso estranea1.

Il diritto alla cultura si presenta qui come un diritto composito: per un verso un diritto-immunità (l’aspettativa meramente negativa di non subire il saccheggio del proprio patrimonio artistico e culturale e l’imposizione della cultura altrui), per altro verso un diritto-facoltà, consistente nella possibilità di parlare la propria lingua e sviluppare la propria cultura.  

La Dichiarazione universale dei diritti dei popoli prevede poi una sezione VI dedicata ai Diritti delle minoranze. In base all’art. 19, “Quando un popolo rappresenta una minoranza nell’ambito di uno Stato, ha il diritto al rispetto della propria identità, delle tradizioni, della lingua, del patrimonio culturale”. I membri della minoranza “devono godere senza discriminazioni degli stessi diritti che spettano agli altri cittadini e devono partecipare in condizioni di eguaglianza alla vita pubblica” (art. 20). 

La Carta di Algeri – come si è detto – è a tutti gli effetti un manifesto politico, scritto per attirare l’attenzione sulle ferite ancora aperte del colonialismo e dell’imperialismo. Per comprendere appieno il significato della rivendicazione del diritto dei popoli alla cultura bisogna tenere conto del contesto storico in cui questo testo è stato redatto (“tempi di frustrazioni e di sconfitte, in cui nuove forme di imperialismo si manifestano per opprimere e sfruttare i popoli” – recita il Preambolo) e farne una lettura sistematica, collocando il diritto alla cultura accanto ai diritti all’autodeterminazione politica ed economica (nota 2):  .

La Carta di Algeri non è comunque la prima carta dei diritti in cui compaia il riferimento alla cultura. Già la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, all’art. 22, menzionava i “diritti culturali”, insieme a quelli economici e sociali, tra i diritti indispensabili per promuovere la dignità umana” e “il libero sviluppo della personalità” di ogni individuo (nota 3). E, all’art. 27, prima comma, affermava che “Ogni individuo ha diritto di prendere parte liberamente alla vita culturale della comunità”. Vi sono poi i Patti internazionali del ’66 (nel secondo dei quali l’espressione “diritti culturali” compare fin dal titolo), che dichiarano, all’art. 1 comune, che “Tutti i popoli hanno diritto all’autodeterminazione. In virtù di questo diritto essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale”. In questi documenti non è sempre chiaro quando la cultura è intesa come un patrimonio di conoscenze, idee, opere artistiche e letterarie cui contribuisce l’umanità intera, e quando ricorre invece l’accezione antropologica di cultura, che include anche la lingua, le credenze, i costumi, i modi di vita. In questa seconda accezione, la cultura si declina al plurale: ogni popolo avrebbe una specifica cultura e il diritto di conservarla e svilupparla.   

Di certo all’accezione antropologica di cultura si rifanno tutta una serie di documenti dell’UNESCO, come la Dichiarazione universale sulla diversità culturale, del 2001, la Convenzione sulla protezione del patrimonio culturale immateriale, del 2003, la Convenzione per la protezione e la promozione della diversità delle espressioni culturali, del 2005. Nel primo di questi documenti la cultura è definita, nel Preambolo, come “l’insieme dei tratti distintivi spirituali e materiali, intellettuali e affettivi che caratterizzano una società o un gruppo sociale. Essa include, oltre alle arti e alle lettere, modi di vita e di convivenza, sistemi di valori, tradizioni e credenze”. È con riferimento a questa accezione di cultura che lo stesso documento afferma, all’art. 1, che la “diversità culturale” è necessaria allo sviluppo dell’uomo tanto quanto la biodiversità. Un’affermazione discutibile, se presa alla lettera, su cui tornerò tra breve.   

Vorrei citare ancora per lo meno due documenti particolarmente significativi per il mio discorso. Il primo è la Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni delle Nazioni Unite, del 2007, che attribuisce tutta una serie di diritti ai popoli indigeni, tra i quali il diritto all’autodeterminazione e allo sviluppo “economico, sociale, culturale” (art. 3), il diritto di “praticare e rivitalizzare i propri costumi e tradizioni culturali” (art. 11), il “diritto alle terre, territori e risorse che hanno tradizionalmente posseduto e occupato o altrimenti utilizzato o acquisito” (art. 26), il diritto “di determinare la propria identità o appartenenza in accordo con i propri costumi e tradizioni” (art. 33), senza che ciò pregiudichi il diritto degli individui indigeni di “ottenere la cittadinanza degli Stati nei quali essi vivono”. I popoli e gli individui indigeni hanno invece, tra l’altro, il diritto a “non essere fatti oggetto di assimilazione forzata e della distruzione della loro cultura (art. 8) (nota 4).   

Da ultimo, la Dichiarazione di Friburgo, risalente anch’essa al 2007, e redatta per conto dell’UNESCO da un gruppo di studiosi incaricati di raccogliere e sistematizzare i diritti culturali già contemplati dai documenti giuridici precedenti, stabilisce, all’art. 3, che ogni persona, “da sola o in comune con gli altri”, ha diritto “di scegliere e di vedere rispettata la propria identità culturale nella diversità dei suoi modi di espressione”. “Ogni persona ha – inoltre – la libertà di scegliere di identificarsi o no in una o più comunità culturali, senza considerazione di frontiere, e di modificare questa sua scelta” e “nessuno può vedersi imporre ed essere identificato o assimilato suo malgrado ad una comunità culturale” (art. 4).          

2.  Una relazione problematica    

Complessivamente, questi documenti possono essere considerati come una tappa significativa di quel processo di moltiplicazione e specificazione dei diritti che ha avuto luogo nel periodo successivo all’approvazione della Dichiarazione universale del 1948 (nota 5). Un processo ispirato dall’accresciuta sensibilità della comunità internazionale per la condizione di debolezza in cui versano specifiche categorie di soggetti: le donne, i bambini, i disabili, ma anche coloro che, per il semplice fatto di essere nati e cresciuti “nel luogo sbagliato”, sono vittime di gravi violazioni dei diritti umani. Popoli e individui che non sono solo stati assoggettati al dominio straniero e spogliati delle loro risorse economiche, ma umiliati e stigmatizzati per la loro cultura, letta in chiave di arretratezza e di inferiorità. 

 Come non schierarsi dalla loro parte? Come non condividere la causa dei popoli indigeni, ieri vittime del genocidio perpetrato dai colonizzatori occidentali, oggi a rischio di essere definitivamente privati delle risorse materiali ed ambientali necessarie alla loro sopravvivenza a causa della rapacità delle multinazionali? Se vogliamo formarci un’opinione più equilibrata sul tema, tuttavia, dobbiamo tenere presente che oggi a rivendicare i diritti culturali sono anche “popoli” le cui vicende non possono essere assimilate a quelle degli indigeni, né a quelle dei popoli colonizzati. Si pensi ai baschi, ai catalani, agli scozzesi, ai francofoni del Quebec. O, ancora più vicino a noi, ai veneti. Da alcuni anni esiste in Veneto un assessorato alle Politiche per la cultura e l’identità veneta, che ha tra l’altro promosso la pubblicazione di un manuale per le scuole intitolato Noi Veneti. Viaggi nella storia e nella cultura veneta. In questo testo l’identità veneta è definita in termini di “appartenenza a una storia, una lingua, una cultura, un territorio”, oltre che di “alcune caratteristiche morali comuni” (nota 6). Possiamo sorridere di fronte a simili asserzioni e pensare che la cultura veneta, o quella padana, non esistono, o non esistono nello stesso senso in cui esistono le culture indigene, e in ogni caso non sono bisognose di protezione allo stesso modo (nota 7). Ma ragionare in termini di esistenza o inesistenza di una cultura, di autenticità o contraffazione, apre tutta una serie di problemi, estremamente difficili da affrontare. Storici come Hobsbawm, Gellner, Anderson, ci hanno insegnato che le tradizioni “si inventano”, le comunità “si immaginano”, le identità culturali si costruiscono, e nulla è più lontano dalla realtà del mito romantico secondo cui a ogni “popolo” corrisponderebbe una, e una sola, “cultura” (nota 8). Gli stessi antropologi ci mettono oggi in guardia contro la sopravalutazione del ruolo della cultura nell’interpretazione dei processi sociali e contro le “ossessioni” e le “illusioni” identitarie (nota9). E tuttavia, nella logica universalistica dei diritti umani, se il “diritto alla cultura” vale per il popolo Inuit o Maori, forse dovrebbe valere per qualsiasi altro collettivo che si autorappresenti come un “popolo”…

Già, ma che cos’è un “popolo”? È  questo solo uno dei problemi che si pongono a chi provi ad approfondire la relazione tra diritti e culture. Una relazione che è, in effetti, molto più controversa di quanto non possa apparire a prima vista.  Fermiamoci allora a riflettere su questa relazione, e chiediamoci se la via maestra da percorrere per risarcire le vittime del colonialismo e del razzismo passi per forza attraverso il riconoscimento a tutti i “popoli” di diritti culturali.           

3. L’individuo come soggetto di diritti

Come abbiamo visto, i diritti culturali che sono stati teorizzati e positivizzati nelle carte  internazionali sono talvolta attribuiti agli individui, in quanto membri di determinati gruppi, ma molto più spesso a soggetti collettivi, come i “popoli” o le “minoranze”.  Il problema è che la logica dei diritti fondamentali, che si afferma nella modernità, è individualistica, ed è incompatibile con l’attribuzione di diritti a soggetti collettivi. Individualismo non significa  naturalmente atomismo, solipsismo, egoismo, come talvolta si sostiene, non senza qualche ragione se si pensa all’epoca storica in cui i diritti si sono originariamente affermati (nota 10). Tra i diritti oggi contemplati dalle costituzioni e dalle dichiarazioni internazionali ci sono le libertà di riunione e di associazione, che sono diritti individuali, ma si esercitano collettivamente. Anche la libertà di espressione o i diritti politici, pur spettando all’individuo, lo mettono in relazione con gli altri membri della società. Allora perché insisto sul fatto che la logica dei diritti è individualistica? Perché i diritti nascono, nella modernità, per difendere gli individui contro lo Stato, ma anche contro altri soggetti collettivi, come la famiglia o la comunità religiosa, che possono interferire ingiustificatamente con la loro libertà.  

Tra coloro che per primi hanno teorizzato l’esigenza di garantire i diritti dei bambini, anche contro il volere dei genitori, c’è Hegel, pensatore spesso ingiustamente dimenticato nelle ricostruzioni storiche sull’origine dei diritti. Nelle Lezioni da lui tenute nel 1824-25, egli sostiene a chiare lettere che “la società civile ha il diritto e il dovere di obbligare i genitori a inviare i figli a scuola”; “i bambini hanno il diritto di essere educati […] e se i genitori trascurano questo diritto, deve intervenire la società civile” (nota 11). In modo analogo, le pubbliche istituzioni – questo è il significato che l’espressione “società civile” assume in questo contesto – devono provvedere alla vaccinazione dei bambini contro il vaiolo, anche contro il volere dei genitori, che possono non essere consapevoli della sua importanza. Quello che vale per la famiglia, vale per comunità più ampie in cui l’individuo si trova ad essere inserito fin dalla nascita, come il villaggio, la chiesa, la comunità etnico-culturale. E ciò che vale per i bambini vale anche per altri soggetti, cui per lungo tempo è stato negato lo status di persone autonome e razionali, come le donne. In quest’ottica, è problematico quanto afferma l’art. 35 della Dichiarazione dei diritti dei popoli indigeni: “I popoli indigeni hanno il diritto di determinare le responsabilità degli individui verso le loro comunità”. Nella sua genericità, questo articolo rischia di legittimare ingiustificate limitazioni della libertà individuale da parte della comunità, (o, meglio, da parte dei suoi capi). Problematico è anche il riconoscimento ai popoli indigeni del diritto di scegliere i propri rappresentanti “in conformità alle proprie pratiche” e di “mantenere e sviluppare le proprie istituzioni decisionali indigene” (art. 18). In alcuni casi questo principio si è tradotto nel riconoscimento di modalità decisionali poco democratiche, che non garantiscono la segretezza e la personalità del voto (nota 12). Più in generale, i numerosi articoli della Dichiarazione che ascrivono ai popoli indigeni il diritto di conservare, tramandare e rivitalizzare costumi e tradizioni avite non tengono conto del fatto che non tutte le tradizioni sono meritevoli di essere difese. Che dire di usi e costumi che contraddicono il principio di eguaglianza tra “individui indigeni di genere maschile e femminile”, principio che, pure, è affermato dall’art. 44 della stessa Dichiarazione? 

Problematica è anche l’analogia, istituita dalla Dichiarazione universale sulla diversità culturale, tra differenza culturale e biodiversità, dietro la quale non è difficile scorgere la concezione statica di cultura propria degli antropologi che collaboravano con l’UNESCO negli anni Sessanta (nota 13). Tale concezione non tiene conto di quanto le culture siano continuamente soggette a cambiare, evolversi, adattarsi, contaminarsi, interagendo tra di loro. Porsi l’obiettivo della conservazione a tutti i costi delle culture tradizionali significa in effetti tentare di arrestarne la fisiologica evoluzione e trasformazione, adottando un atteggiamento “museale”. In quest’ottica “non esistono possibilità di arricchimento di una cultura a opera di un’altra, di ‘fertilizzazione incrociata’ […]. La scomparsa di una cultura è una perdita irrimediabile per l’umanità, il che implica la difesa del diritto delle differenti culture a esistere, anche se ciò equivale in ultima istanza a rinchiudere gli attori sociali in riserve culturali e identitarie dalle quali non possono evadere” (nota 14). Ecco allora la possibile implicazione illiberale dell’analogia tra bio- ed etno-diversità. Se è indubbia l’utilità di conservare in laboratorio il bacillo del vaiolo, a fini di ricerca scientifica, non altrettanto si può dire a proposito dell’ipotetica difesa di pratiche come la fasciatura dei piedi delle bambine e l’infibulazione, o la consuetudine ben più diffusa della violenza domestica nei confronti delle donne. In questi casi, il rispetto per la cultura,  intesa come totalità compiuta e coerente, entra inevitabilmente in tensione con il rispetto nei confronti delle persone. Che, nella logica dei diritti, non possono non venire prima delle culture. Si torna così al punto di partenza. I diritti sono stati inventati, nella modernità, come strumenti al servizio dei più deboli. Rispetto al gruppo, sono sempre gli individui i soggetti deboli e bisognosi di protezione. Nei confronti dello Stato, del mercato, ma anche della famiglia e degli altri gruppi e istituzioni in cui si trovano ad essere coinvolti. 

4. “Popoli” in che senso?

Un secondo grande problema che pongono le norme internazionali sui diritti culturali è quello – già menzionato – della difficoltà di stabilire concretamente a quali soggetti deve essere riconosciuta la titolarità di diritti collettivi. Che cos’è un “popolo” o una “minoranza”? Quali sono i criteri per stabilire che qualcuno ne fa parte? Si tratta di interrogativi cruciali quando si passa dalle generiche dichiarazioni di principio al vero e proprio riconoscimento di diritti, in senso giuridico. 

Qual è il popolo che ha diritto all’autodeterminazione politica, economica e culturale, diritto che è stata interpretato, col passare degli anni, in modo sempre più estensivo, fino ad essere talvolta identificato con la pretesa, in ultima istanza, di separarsi dalla comunità politica di cui si fa parte, dando vita a uno Stato autonomo?  I Croati e gli Sloveni che si sono separati dalla Federazione iugoslava erano “popoli” che esercitavano il diritto all’autodeterminazione? Così ha decretato, dopo qualche esitazione, la comunità internazionale, nonostante fino a quel momento tale diritto fosse stato riconosciuto soltanto ai popoli assoggettati a dominio coloniale o occupazione militare, o a minoranze etniche e religiose vittime di gravi discriminazioni (nota 15). Gli Albanesi del Kossovo costituivano un “popolo” titolato ad avvalersi dello stesso diritto? Inizialmente sembrava di no, ma di fronte al fatto compiuto della dichiarazione unilaterale dell’indipendenza l’atteggiamento della comunità internazionale è mutato. E che dire, oggi, dell’Ucraina? In Crimea un referendum ha deciso la secessione e l’annessione alla Russia, ma nuove rivendicazioni secessionistiche vengono avanzate dai russofoni dell’Ucraina dell’est, non privi di qualche argomento a sostegno della tesi della loro specificità linguistica e culturale… 

Questi esempi ci fanno capire che, se inteso come diritto di qualsiasi “popolo” a farsi Stato, il diritto di autodeterminazione non è universalizzabile, e non può dunque essere considerato un diritto fondamentale, al pari dei diritti ascritti agli individui dalla Dichiarazione universale e dalle costituzioni nazionali (nota 16). “Ammesso che sappiamo che cosa sono un ‘popolo’ e una ‘minoranza’ – ha sostenuto Luigi Ferrajoli - […], è infatti impossibile generalizzare questo diritto in favore di tutti i popoli: giacché il medesimo criterio di identificazione di un popolo sarà applicabile a minoranze che con esso convivono nel medesimo territorio e che non potranno godere del medesimo diritto senza contraddire quello rivendicato dal popolo di maggioranza”. Questa tesi - aggiunge lo stesso autore - “può essere estesa a tutti i diritti delle minoranze e, in generale, a tutti i diritti cosiddetti ‘collettivi’, siano essi culturali, politici o economici” (nota 17).  Anche quando i diritti non sono attribuiti ai popoli o alle minoranze, ma agli individui che ne fanno parte, si pone il problema di identificare con precisione chi appartiene a quale gruppo. Il figlio di una coppia mista come può essere classificato? Se il criterio per stabilire l’appartenenza a una minoranza “etnica”, nell’ambito di Stati multiculturali, è quello della discendenza, quale percentuale di “sangue” dovrà dimostrare di possedere un individuo per essere considerato membro di un determinato gruppo? Nella pratica, questi problemi si pongono e si risponde ad essi in diversi modi. Negli Stati Uniti, le tribù indigene che si autogovernano nelle riserve hanno stabilito le regole più varie: in alcuni casi è stata ritenuta sufficiente una percentuale di  1/256 di sangue indigeno per essere considerati parte della comunità, in altri quella del 50% (nota 18). Altrove l’identificazione avviene in base al fenotipo, ma in questo modo può accadere – ed è effettivamente accaduto – che due fratelli con la pelle di diversa gradazione di colore vengano classificati come membri di diverse “etnie”.   Anche quando si rinuncia alla chimera dell’oggettività per rivolgersi ai diretti interessati, chiedendo loro di dichiarare la propria identità etnica o linguistica – come avviene negli Stati Uniti, attraverso periodici censimenti – rimane il problema del carattere in gran parte arbitrario di tali auto-classificazioni, da cui tuttavia può dipendere il godimento di specifici diritti (nota 19). Ma c’è soprattutto il rischio che la trasformazione di identità culturali, di per sé sempre ibride e fluide, in rigide categorie amministrative rafforzi le differenze, alimentando atteggiamenti di chiusura e di diffidenza (nota 20). Il gesto di Alexander Langer che, nel 1995, rifiuta di rispondere al censimento etnico previsto per legge in Alto Adige, risultando così escluso dalla possibilità di candidarsi a sindaco di Bolzano, fa riflettere sui possibili effetti perversi di politiche introdotte “a fin di bene”, per proteggere minoranze discriminate.          

5. Conclusione. Diritti  culturali o diritti economico- sociali?

Ho iniziato questo mio intervento mettendo in luce le ragioni storiche della rivendicazione dei diritti culturali, a difesa di individui e popoli che sono stati – e sono tuttora – vittime di gravi discriminazioni. Se leggiamo con attenzione le norme dedicate ai diritti culturali, ci accorgiamo tuttavia che dal punto di vista giuridico la loro portata innovativa è limitata. Al di là delle formule, spesso ridondanti, i diritti culturali che le carte internazionali oggi attribuiscono agli individui sono in gran parte interpretabili come specificazioni di diritti fondamentali già sanciti Diichiarazione universale del 1948 e dalla maggior parte delle costituzioni (nota 21). In che cosa si traduce, ad esempio, il diritto di “ogni persona, da sola o in comune con altri”, di “scegliere e vedere rispettata la propria identità culturale” (art. 3 della Dichiarazione di Friburgo), se non nell’esercizio delle libertà di coscienza, di religione, di espressione, di riunione e associazione? Su che cosa si fonda il diritto dei membri delle minoranze a parlare la propria lingua, se non sul principio di eguaglianza? Principio che, se correttamente interpretato, non conduce all’omologazione, ma all’attribuzione di pari valore a tutte le differenze, “che fanno di ciascuna persona un individuo differente da tutti gli altri e, insieme, di ciascun individuo una persona come tutte le altre” (nota 22). 

Se questo è vero, non si tratta di arricchire ulteriormente il catalogo dei diritti, ma di dotare di efficaci garanzie i diritti già riconosciuti a livello internazionale, a partire da quelli sociali alla sopravvivenza, alla salute, all’istruzione, in assenza dei quali la possibilità di scegliere “se identificarsi o no in una o più comunità culturali” rischia di rimanere puramente ipotetica. In proposito non si può non notare come l’accresciuta sensibilità nei confronti della dimensione culturale e identitaria tenda oggi a non accompagnarsi a una pari consapevolezza delle responsabilità dell’attuale modello di sviluppo nel generare diseguaglianze e conflitti. Si concentra l’attenzione sul riconoscimento simbolico delle culture dei popoli oppressi, talvolta scegliendo soluzioni discutibili23, ma si dimentica di denunciare le politiche neo-imperialistiche e neo-coloniali che i paesi ricchi continuano a perseguire ai danni dei paesi poveri. Varrebbe allora la pena di ricordare che un testo come la Dichiarazione di Algeri contempla anche una sezione dedicata ai diritti economici, in cui è attribuito a ogni popolo “il diritto esclusivo sulle proprie ricchezze e risorse naturali” (art. 8) e il diritto alla “giusta valutazione del proprio lavoro” e a “scambi internazionali […] in condizioni paritarie ed eque” (art. 10). Diritti che, se presi sul serio, contribuirebbero non poco a creare le condizioni per il mutuo rispetto tra le diverse culture.            

                                                          

1  - La Carta di Algeri. Dichiarazione universale dei diritti dei popoli, in F. Rigaux, I diritti dei popoli e la Carta di Algeri, Edizioni Gruppo Abele, Torino 2012, p. 180.

2  - Ivi, p. 178. 

3  - “Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale ed in rapporto con l’organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici, sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità”.

4  - Sul processo che ha condotto all’adozione della Dichiarazione del 2007 e al riconoscimento dei diritti degli indigeni in molte costituzioni latinoamericane, cfr. B. Clavero, Stato di diritto, diritti collettivi e presenza indigena in America, in Lo stato di diritto. Storia, teoria, critica, a cura di P. Costa e D. Zolo, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 537-65.

5  - Cfr. in proposito N. Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, Torino 1990, pp. 62 ss.

6  - Cit. in M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004, pp. 27-28.

7  - Aime fa notare, tra l’altro, che “sia Cortina d’Ampezzo sia Chioggia sono in Veneto e ci sarebbe da chiedersi quanto le loro rispettive ‘culture’ abbiano in comune: dolomitici a un passo dal Tirolo gli uni, adriatici, affacciati sull’Oriente gli altri” (ivi, p. 28). 

8  - Cfr. E. Hobsbawm e T. Ranger, L’invenzione della tradizione (1983), Einaudi, Torino 1987; B. Anderson, Comunità immaginate (1983), Manifestolibri, Roma 1996; E. Gellner, Nazioni e nazionalismo (1983), Editori Riuniti, Roma 1985.  Per un approfondimento su questi temi, mi permetto di rinviare a V. Pazé, Comunità, cultura, globalizzazione, “Teoria politica” XIX, 2-3, 2003, pp. 123-136.

9  - Oltre al già citato volume di Aime, Eccessi di culture, cfr. J. F. Bayart, L’illusion identitaire, Fayard, Paris 1996 ; F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma-Bari 1996; Id., L’ossessione identitaria, Laterza, Roma-Bari 2010; J. L. Amselle, Connessioni. Antropologia dell’universalità delle culture, Bollati Boringhieri, Torino 2002. 

10  - Si pensi alla critica dei diritti dell’uomo “egoista” e “isolato dalla comunità” sviluppata da Marx nella Questione ebraica, che in gran parte risente del nesso indissolubile istituito da Locke tra libertà  e proprietà privata. Cfr. K. Marx, La questione ebraica, in B. Bauer, K. Marx, La questione ebraica, a cura di M. Tomba, Manifestolibri, Roma 2004.

11  - G.W.F. Hegel, Le filosofie del diritto. Diritto, proprietà, questione sociale, a cura di D. Losurdo, Leonardo, Milano 1989, p. 361.

12  - Sulle strumentalizzazioni cui si presta il voto secondo “usos y costumbres”, riconosciuto ai municipi indigeni  dalla Costituzione dello Stato messicano di Oaxaca, cfr. R. Bertrand, J.L. Briquet, P. Pels, Culture of voting. The Hidden History of the Secret Ballot, Hurst Company, London 2007. 

13  - J.-L. Amselle, Contro il primitivismo (2010); tr. it. Bollati Boringhieri, Torino 2012, pp. 73 ss. L’autore insiste in particolare sul contributo di Lévi Strauss all’elaborazione dei documenti dell’UNESCO. “Per Lévi Strauss la gamma complessiva delle culture del pianeta costituisce un insieme determinato in partenza, una serie finita che non può che alterarsi, degradarsi e diminuire nel corso della storia. Nel quadro di questa concezione statica ed entropica della(e) cultura(e), qualsiasi evoluzione storica, qualsiasi contatto, qualsiasi métissage culturale è in definitiva dannoso al mantenimento della biodiversità” (p. 78).  

14  - Ibidem. Contro la visione essenzialista delle culture, propria del “multiculturalismo a mosaico”, ha argomentato anche S. Benhabib in La rivendicazione dell’identità culturale. Eguaglianza e diversità nell’era globale (2002); tr. it. il Mulino, Bologna 2005.

15  - Cfr. in proposito A Cassese, Self-determination of People. A Legal Reappraisal, Cambridge University Press, Cambridge 1984; C. Margiotta, L’ultimo diritto. Profili storici  e teorici della secessione, il Mulino, Bologna 2005; V. Pazé, Il diritto di autodeterminazione dei popoli, tra federalismo e secessionismo, in Quale federalismo?, a cura di E. Vitale, Giappichelli, Torino 2011, pp. 11-27.

16  - Mi attengo qui alla nozione di diritto fondamentale messa a punto da Luigi Ferrajoli, come diritto soggettivo ascritto universalmente a tutte le persone, i cittadini, i capaci di agire. Cfr. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2001.

17  - Ivi, pp. 336-7. Problemi specifici pone l’identificazione dei popoli “indigeni” o “autoctoni”, espressione ambigua con cui i documenti internazionali designano ora i popoli che per primi si sono insediati in un certo territorio, ora popoli “oppressi”, privilegiando peraltro quelli particolarmente “primitivi”, fermi allo stadio socio-economico dei cacciatori-raccoglitori. Cfr. J.-L. Amselle, Contro il primitivismo cit., pp. 66 ss. 

18  - Cfr. D. Hollinger, Postethnic America. Beyond Multiculturalism, Basic Books, New York 1995, pp. 45-46.

19 - Si pensi al fatto che gli americani auto-dichiaratisi “indigeni” sono cresciuti, tra il 1960 e il 1990, del 259 per cento, dato verosimilmente spiegabile tenendo conto delle politiche di azione affermativa riservate ai membri di tale minoranze. Cfr. Hollinger, Postethnic America cit., p. 46.

20  - U. Hannerz, La diversità culturale, il Mulino, Bologna 2001, p. 44.

21  - Diverso – come abbiamo visto – è il caso dei diritti culturali attribuiti a soggetti collettivi. 
22  - L. Ferrajoli, Presentazione, in I.M. Young, Le politiche della differenza (1990); tr. it. Feltrinelli, Milano 1996, pp. X- XI.  23 Cfr. ad esempio la critica di Appiah alla dottrina della “proprietà dei beni culturali” sviluppata dall’UNESCO e alla politica del copyright applicata alla “cultura immateriale” dei popoli: K.A. Appiah, Cosmopolitismo. L’etica in un mondo di estranei (2006); tr. it. Laterza, Roma-Bari 2007, pp. 117 ss.  

Nessun commento:

Posta un commento