La democrazia alla prova del
multiculturalismo
Articolo di Valentina
Pazé
Se c’è una formula che condensa in poche
parole paradossi e aporie del
multiculturalismo, credo si trovi nel celebre pamphlet di Charles
Taylor, là dove il filosofo canadese difende i provvedimenti legislativi
adottati in Québec negli anni Ottanta, presentandoli come una garanzia «that
there is a community of people here in the future that will want to avail
itself of the opportunity to use the French language» (nota 1). Il paradosso sta nell’idea che un
provvedimento di tipo coattivo, come una legge, possa riuscire nell’obiettivo
di creare una comunità di persone che vorrà spontaneamente esprimersi in
francese. A scanso di equivoci, Taylor chiarisce che la «politica della sopravvivenza»
da lui caldeggiata non richiede semplicemente la previsione legislativa
del bilinguismo, che lascerebbe gli
individui liberi di scegliere quale lingua usare nelle varie situazioni, ma
implica l’imposizione ai figli dei francofoni (e degli immigrati) dell’uso
esclusivo del francese nelle scuole e negli uffici pubblici, come misura
necessaria per assicurarsi che «future generations continue to identify as
French-speakers» (nota 2). Espressa in termini imperativi, la formula
rientra nel genere delle contraddizioni performative studiate dalla scuola di
Palo Alto: “devi volere” o, meglio, “devi fare, oggi, ciò che evidentemente non
vuoi (in caso contrario non ci sarebbe bisogno di imposizioni), in modo tale
che, in futuro, tale comportamento corrisponda al tuo intimo desiderio (o per
lo meno a quello dei tuoi figli)”. Il paradosso ha tutta una serie di
precedenti nella storia del pensiero: dal “decidere di credere” di Pascal alla
“costrizione ad essere liberi” di Rousseau. Che una simile ingiunzione sortisca
i risultati voluti è, tuttavia, difficilmente dimostrabile e sarebbe, anzi,
facile citare esempi storici che testimoniano il contrario. Dietro il paradosso della “costrizione a
volere” si nasconde un’aporia che riguarda il concetto stesso di comunità
culturale di cui si servono i multiculturalisti, sempre in bilico tra storicismo costruttivismo.Le comunità culturali – ci
insegnano i multiculturalisti – stanno invariabilmente “alle spalle” delle
persone, forniscono loro «orizzonti di significato» e «quadri di riferimento»
ineludibili, con cui dovranno fare i conti anche qualora decidano di tagliare
radicalmente i ponti col proprio passato. Sono le tesi che Taylor ha sviluppato
in particolare in Sources of the Self, ma che si ritrovano anche negli scritti
di Will Kymlicka, per il quale le culture non sono oggetto di scelta, ma
«contesto di scelta» [context of choice], nel senso che forniscono agli
individui le indispensabili coordinate linguistiche, cognitive, morali per
muoversi e agire nel mondo quali soggetti liberi e consapevoli. In base a una
simile concezione, la cultura non si sceglie, come non si sceglie la lingua
materna; ciascuno di noi appartiene a una data cultura, nasce al suo interno e,
se può certamente criticarne alcuni aspetti, non riuscirà mai nel tentativo
velleitario di assumere un punto di vista totalmente esterno ad essa. Se il
versante normativo delle teorie dei multiculturalisti ha un senso, tuttavia,
bisognerà ammettere che le culture stanno (talvolta) anche “davanti” alle persone,
potendo divenire oggetto di progettazione e costruzione consapevole, se non da
parte di singoli individui, per lo meno da parte di classi dirigenti impegnate
in processi di nation-building. L’esistenza di una componente di artificialità all’origine
delle culture è stata ampiamente riconosciuta dagli storici, che hanno
ricostruito i processi attraverso i quali le tradizioni sono state “inventate”
e le comunità nazionali “immaginate” (nota 3). Di tutto ciò Taylor
e Kymlicka sono ben consapevoli. Del resto, se le culture stessero davvero
invariabilmente “alle spalle” degli individui, non avrebbe senso concepire
politiche della sopravvivenza culturale. E vano sarebbe il tentativo di creare
francofoni attraverso l’imposizione dell’uso della lingua francese. Ma i paradossi legati all’ambiguo statuto
delle comunità culturali, a metà strada tra eredità e progetto, non finiscono
qui. Si pensi al ruolo svolto dalla lingua e dal linguaggio nella formazione
dell’identità personale, cui Taylor ha dedicato innumerevoli scritti, ispirati
in gran parte a una rilettura delle tesi di Herder e di Humboldt. «The rather
different understandings of the good which we see in different cultures –
sostiene Taylor – are the correlative of the different languages which have
evolved in those cultures» (nota 4). Lungi dal
rappresentare uno strumento neutro, adatto a comunicare i più diversi
contenuti, ogni lingua esprimerebbe e trasmetterebbe una “forma di vita”: un
patrimonio di significati, simboli, valori, venutosi a formare nell’ambito di
una particolare comunità di interlocuzione. Di qui l’enfasi sull’importanza di
difendere e promuovere le lingue delle minoranze, destinate a estinguersi o a
imbastardirsi senza il sostegno di politiche mirate. Non diversamente, Kymlicka
teorizza l’esistenza di un bisogno universalmente umano di appartenenza
culturale, insistendo sul contributo della lingua, oltre che della memoria
storica, nel dotare le persone degli strumenti necessari per orientarsi nel
mondo. Eppure né Taylor né Kymlicka ritengono problematico pretendere dagli
immigrati che apprendano la lingua del paese di accoglienza, rinunciando
all’uso pubblico della propria. Le politiche di nation- building, denunciate
come un sopruso se attuate da uno Stato nei confronti delle proprie minoranze
nazionali (come i québécois in Canada o i baschi in Spagna), appaiono loro
legittime e anzi necessarie se perseguite da quelle stesse minoranze nei
confronti degli immigrati, pericolosi veicoli di pluralismo culturale (nota 5 - nota 6). La contraddittorietà
delle tesi dei multiculturalisti è, su questo punto, palese. Se nessuno può
spogliarsi del mondo di significati appresi attraverso la lingua materna, se
non al prezzo intollerabile di una devastante crisi di identità, come si potrà
pretendere da lui l’impossibile? Per quali ragioni, oltretutto, una simile
pretesa risulterebbe legittima se rivolta agli immigrati, illegittima se
indirizzata alle minoranze nazionali? Kymlicka giustifica questa duplicità di
atteggiamento sostenendo che gli immigrati, a differenza dei membri di
minoranze residenti da tempi immemorabili in un dato territorio, hanno scelto
volontariamente di abbandonare, insieme alla propria terra, la cultura
d’origine, rinunciando al diritto di rivendicare la propria specificità
culturale. In questo modo egli ammette, implicitamente, che prendere le
distanze dalla propria cultura è possibile. Se questo è vero, la sua teoria
delle culture come indispensabile «contesti di scelta» vacilla, e fortemente
ridimensionata risulta anche l’idea tayloriana che esista un bisogno
universalmente umano al riconoscimento dell’identità “autentica” di
ciascuno6. L’esistenza stessa dei
migranti, in effetti, confuta la tesi secondo cui la piena integrazione in una
– e una sola – cultura costituisce il presupposto indispensabile di una vita
dotata di senso. Come ha efficacemente sostenuto Alessandro Dal Lago, i
migranti «non minacciano la nostra cultura perché visibilmente appartenenti a
un’altra, ma perché esercitano la pretesa di vivere al di fuori della loro» (nota 7). Una pretesa che
agli occhi di Taylor e di Kymlicka non può che apparire incomprensibile o
esorbitante.
In realtà sarebbe scorretto presentare le
tesi di Taylor e di Kymlicka come se esaurissero i molteplici significati
associabili alla nozione di multiculturalismo. Tornata alla ribalta a partire
dalla pubblicazione del fortunato libretto di Taylor, prevalentemente dedicato
alla questione québécois, la nozione di multiculturalismo veniva per lo più
usata, in precedenza, con riferimento a società di immigrazione, come gli Stati
Uniti. Proprio qui, alla fine degli anni Sessanta, tale espressione ha iniziato
a diffondersi per indicare un modello di integrazione culturale alternativo a
quello assimilazionista del melting pot (il crogiuolo in cui tutte le “razze”
avrebbero dovuto fondersi). Da allora, l’espressione ha assunto significati
tutt’altro che univoci, sia nel linguaggio scientifico sia in quello comune. Nel tentativo di offrire un qualche
contributo di chiarezza concettuale, propongo di intendere con l’espressione
multiculturalismo una teoria, o una famiglia di teorie, che comporta l’adesione
alle tre tesi seguenti:
a) il mondo è suddiviso in più gruppi
culturali (giudizio di fatto);
b) la differenza culturale rappresenta un
bene che va tutelato e promosso (giudizio di valore);
c) a questo fine non bastano i classici
istituti escogitati dalla teoria liberal-democratica, ma servono provvedimenti
politici e giuridici ad hoc (teoria politica prescrittiva).
Perché si possa parlare di multiculturalismo
in senso pieno, è necessario che vengano sottoscritte tutte e tre le tesi (come
nel caso di Taylor, Kymlicka e degli altri teorici dei diritti culturali).
Esse, tuttavia, non risultano logicamente interdipendenti. È possibile ad
esempio ritenere che esista al mondo una pluralità di culture, ciascuna delle
quali presenta aspetti degni di essere esplorati e apprezzati (tesi a e b),
senza pretendere che tali differenze vadano preservate indefinitamente nella
loro “purezza” attraverso appositi provvedimenti legislativi (tesi c) (nota 8). Ma è anche possibile
limitarsi ad accogliere la tesi a), sostenendo che non tutte le culture
esistenti sono dotate di valore e vanno di conseguenza difese: è la posizione
di un differenzialismo di matrice razzista o colonialista, che oggi rivive in
alcune teorie della supremazia occidentale sviluppate nell’ambito del
neoconservatorismo statunitense (nota 9). Per non
cadere in eccessive semplificazioni, bisogna inoltre tenere presente che di
ciascuna delle tesi sopra ricordate sono possibili versioni più o meno
radicali. Una cosa è sostenere che l’umanità è suddivisa (da sempre?) in un
numero definito di culture, intese come costellazioni chiuse e coerenti di
significati, pratiche, valori, ciascuna delle quali corrispondente a un
determinato “popolo” e/o territorio (nota 10). Altro è constatare
che al mondo si danno una molteplicità di pratiche, costumi, codici simbolici
in continua evoluzione, esposti a reciproche contaminazioni e ibridazioni, non
invariabilmente associati a singoli gruppi umani. Della tesi a), in altre
parole, è possibile fornire una versione essenzialista, che reifica le comunità
culturali, rappresentandole come tendenzialmente stabili e omogenee, oppure una
versione “fluida”, che parte dalla constatazione del carattere costitutivamente
ibrido, meticcio, composito di tutte le culture (nota 11). Questo secondo
approccio presta più attenzione alle differenze individuali che a quelle di
gruppo, riconoscendo che gli stessi elementi simbolici possono essere
diversamente assemblati e interpretati da coloro che, dall’esterno, vengono
percepiti come membri della medesima cultura. La concezione “fluida” di cultura
è oggi condivisa da molti antropologi (nota 12). Passando ora alla dimensione assiologica, le
diverse identità culturali, comunque esse vengano intese, possono essere
approvate in modo incondizionato o con qualche distinguo. Si può ritenere che
le culture rappresentino invariabilmente un valore e tutte vadano preservate
(in ogni loro aspetto?), in nome della difesa di un elevato grado di
“etnodiversità”. Oppure è possibile distinguere e sostenere, ad esempio, il
valore umano delle culture che forniscono agli individui le risorse per
esprimere la propria personalità, mantenendo al contempo un giudizio negativo
su credenze e tradizioni che attentano alla libertà e alla dignità umana. In
una simile prospettiva la «difesa delle culture» va di pari passo, e richiede
quale sue indispensabile presupposto, la «difesa dalle culture» che,
pretendendo di imporre autoritativamente ai propri membri credenze e codici di
comportamento, negano loro in effetti proprio il diritto
all’autodeterminazione, anche culturale (nota 13). Anche la tesi c), che sostiene la necessità
di provvedimenti speciali per garantire la sopravvivenza delle culture, si
presta a una varietà di interpretazioni. Con la dizione “politiche del
multiculturalismo” viene comunemente designata una gamma eterogenea di misure
politiche e/o giuridiche, alcune delle quali sono giustificabili su un piano
prettamente pragmatico e non pongono particolari problemi di principio, mentre
altre chiamano in causa i fondamenti e le regole dello Stato democratico di
diritto. Si va dal finanziamento statale di associazioni culturali alla
previsione del plurilinguismo nelle scuole e negli uffici pubblici, alla deroga
a regolamenti ritenuti in contrasto con pratiche tradizionali (riguardanti
l’abbigliamento, i giorni festivi, il menù delle mense, i scolastici), fino
alla previsione di giurisdizioni speciali per i membri di una data minoranza, (nota 14) di quote di seggi
riservati nelle assemblee rappresentative, di diritti all’autogoverno,
all’autodeterminazione (al limite alla secessione) o di altri diritti
collettivi ascritti a particolari gruppi etnici o nazionali. Come dovrebbe
essere chiaro, non si tratta di un insieme coerente, del quale si possa dire
“prendere o lasciare”. Si potrà ad esempio concordare sull’opportunità e la
ragionevolezza di talune deroghe a regolamenti o tradizioni che nulla hanno a
che vedere con i principi dello stato di diritto, e sono esse stesse retaggio
di vicende storiche particolari (le festività, l’abbigliamento, il menù delle
mense), ma al tempo stesso opporsi alla previsione di forme di giurisdizione
speciale che violano il principio di eguaglianza. Non solo. I medesimi
provvedimenti potranno essere difesi su un piano laico e pragmatico, ad esempio
come misure utili a sanare la marginalizzazione sociale degli immigrati, oppure
essere rivendicati come veri e propri “diritti culturali”, che integrano e
completano il classico catalogo dei diritti umani individuali (nota 15). Inutile aggiungere che dall’adesione a una
versione più o meno estrema della tesi a) e più o meno assoluta della tesi b)
dipende in gran parte la posizione che si assumerà in merito alla questione
della necessità, o meno, di provvedimenti speciali in difesa delle
culture.
Il multiculturalismo rappresenta una sfida
per gli ordinamenti liberal-democratici quando sottende l’adesione a una
versione radicale della tesi c), che prescrive politiche della “sopravvivenza
culturale” contrarie ai principi e alle regole dello stato democratico di
diritto. Non voglio con ciò sostenere che il multiculturalismo non possa
prestare il fianco a critiche, anche severe, finché rimane una mera “concezione
del mondo” (tesi a e b). Una interpretazione rigidamente essenzialista del
“fatto” del pluralismo culturale, oltre ad essere di per sé rozza e
implausibile, rappresenta il fertile terreno di coltura di ogni tipo di
stereotipi e pregiudizi: gli italiani sono mafiosi, gli arabi bugiardi, gli
africani indolenti… Riducendo gli
individui a esemplari rappresentativi della loro presunta cultura originaria,
si offre una visione semplificata e deformata del mondo, incapace di cogliere
la complessità dei processi di costruzione identitari nelle condizioni di
sempre maggiore mobilità create dalla globalizzazione. Finché ci si limita a
predicare che “diverso è bello”, tuttavia, ci si colloca sul terreno della
legittima competizione tra ideologie e concezioni del mondo, un terreno che non
dovrebbe intimorire i democratici. In assenza di una parola altrettanto adatta,
direi che le concezioni essenzialiste e fissiste di “cultura” (in senso etnico
o nazionale) rappresentano una sfida sul piano “culturale” (nell’accezione più
ampia del termine): una sfida che potrà e dovrà essere raccolta innanzitutto
dal mondo dell’istruzione e dalla società civile impegnata nella lotta contro
il razzismo e l’esclusione sociale ai danni degli immigrati. Diverso è ciò che accade quando movimenti politici, associazioni o
“comunità” dall’incerto statuto giuridico, di cui spesso è difficile capire chi
sono i legittimi portavoce, avanzano pretese nei confronti dello Stato,
chiedendo finanziamenti, esenzioni, leggi o diritti speciali in loro favore.
Anche in questo caso, però, è bene distinguere. Non ogni e qualsiasi richiesta
di trattamento speciale da parte di un gruppo che rivendica la propria
diversità è di per sé lesiva dei diritti fondamentali o delle regole della
convivenza democratica. Sarebbe assurdo, ad esempio, sfoderare il volto
intransigente dei liberali offesi di fronte a richieste di deroghe a
regolamenti riguardanti i giorni festivi, l’abbigliamento o il menù delle
mense. Simili richieste ci ricordano in fondo che anche le nostre società sono
storicamente situate e che le nostre istituzioni e modi di vita non sempre sono
coerenti con i principi della laicità e della tolleranza proclamati a chiare
lettere nelle Carte costituzionali (nota 16). Per altri versi,
alcuni di quelli che vengono correntemente presentati come “diritti culturali”
possono essere intesi come semplici
specificazioni di diritti umani fondamentali, riconosciuti da tutte le
Costituzioni di ispirazione liberal-democratica e da un gran numero di
documenti internazionali. Molto si è discusso, in Francia e altrove, sul
diritto delle studentesse di indossare il velo islamico. Pochi hanno osservato
che, sul piano giuridico, si tratta della pura e semplice specificazione di un
classico diritto di libertà (il diritto ad abbigliarsi come si crede, poggiante
a sua volta sul principio dell’autonomia della persona). Tutt’altro sarebbe
attribuire a una comunità il diritto a costringere i propri membri di sesso
femminile a indossare il velo (nota 17). E che dire di quanto
previsto dall’art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici
del 1966, che attribuisce ai membri di «ethnic, religious or linguistic
minorities […] the right in community with the other members of their group, to
enjoy their own culture, to profess and practise their own religion, or to use
their own language»? Anche i diritti “culturali” che compaiono in questa norma
possono essere interpretati come specificazioni di diritti “classici”: libertà
di espressione, di religione, di riunione, di associazione (diritti individuali,
questi ultimi, anche se esercitati collettivamente)18. Lo stesso, continuamente
evocato, diritto all’uso della lingua d’origine non appare in contrasto col
paradigma dei diritti fondamentali, e potrebbe forse essere interpretato come
uno sviluppo del diritto alla libertà di espressione. Ma – di nuovo – diverso è
il caso della previsione legislativa del diritto di un certo gruppo di imporre
ai propri membri l’uso esclusivo della lingua d’origine (le leggi canadesi
difese da Taylor e da Kymlicka) o l’osservanza dei precetti di una certa
religione. Come si evince da simili
esempi, i problemi nascono essenzialmente nel momento in cui la titolarità dei
diritti, che la tradizione risalente alle rivoluzioni americana e francese ha
attribuito agli individui in quanto tali, superando le antiche distinzioni di
ceto e di censo, viene attribuita a enti collettivi come nazioni, comunità,
gruppi etnico-culturali. È allora che i
diritti “culturali” entrano in un conflitto non mediabile con i diritti
fondamentali della persona, tra cui va annoverato il diritto ad abbandonare e
“tradire” la cultura d’origine, o comunque a modificarla e reinterpretarla
secondo il proprio giudizio. Sul piano teorico, l’alternativa è nitida:
attribuire diritti al gruppo significa sottrarli agli individui. Tertium non datur. Ciò che il gruppo richiede sono
infatti proprio strumenti per impedire ai propri membri di fare pieno uso della
propria autodeterminazione. Superfluo insistere sul carattere statico e
profondamente conservatore dell’idea di cultura soggiacente a simili richieste:
lo stesso ricorso al lessico della “sopravvivenza” è indicativo di una tendenza
a drammatizzare qualsiasi cambiamento, interpretando ogni tentativo di
innovazione culturale come una questione “di vita o di morte” (nota 19). Paternalistici
suonano, in questi casi, i tentativi di giustificare la sottrazione di diritti
agli individui in nome della loro stessa libertà, asserendo che questa
richiederebbe, per essere effettiva, la difesa di un particolare contesto culturale. Ci sono tuttavia anche casi in cui pretese di
regolamentazione di pratiche culturali appaiono in contrasto con i diritti
fondamentali non perché formulate nel linguaggio dei diritti collettivi, ma in
virtù del loro stesso contenuto. Si pensi all’infibulazione, all’escissione e
alle altre forme di mutilazioni genitali femminili largamente diffuse nel
continente africano. Nel caso simili pratiche siano rivendicate da donne adulte
nel pieno possesso delle loro facoltà mentali, dovranno essere considerate
espressione della loro libertà di disporre autonomamente del proprio corpo? O
non si dovrà piuttosto invocare l’indisponibilità del diritto alla salute, in
quanto tale inviolabile da parte dei suoi stessi titolari? (nota 20). Posto in questi
termini, il problema è più teorico che reale. Nella stragrande maggioranza dei
casi l’infibulazione e l’escissione vengono praticate su bambine, per decisione
dei genitori o di altri adulti cui sono affidate. Di nuovo, ci troviamo di fronte
a comunità che decidono per l’individuo, per di più minorenne. Posto che i
danni fisici e psichici legati alle varie forme di mutilazione genitale sono
stati ampiamente documentati, il diritto-dovere dello Stato di intervenire in
difesa della salute e dell’integrità fisica di bambine e ragazze può essere
affermato senza esitazioni. Aperta rimane naturalmente la questione di quali
siano i modi più efficaci per contrastare pratiche tradizionali fortemente
radicate e rivestite di un significato simbolico inaccessibile a chi le valuti
dall’esterno. A questo proposito appaiono ragionevoli le considerazioni di chi
ha messo in rilievo l’inadeguatezza di una risposta puramente penale al
problema, che rischia di suscitare pericolosi fenomeni di rafforzamento e rivendicazione
reattiva delle usanze criminalizzate (nota 21).
Anche nel caso in cui l’esercizio dei
diritti “culturali” sia attribuito agli individui, considerati come membri di
particolari minoranze etnico-culturali, rimane il problema di determinare con precisione
chi fa parte di un dato gruppo. Spesso le politiche del multiculturalismo
vengono assimilate ai provvedimenti di azione affermativa adottati in favore
delle donne (quote di seggi riservati nelle assemblee politiche, diritto di
precedenza in graduatorie per l’accesso all’università, ecc.). Al di là delle
possibili critiche che possono essere mosse a simili provvedimenti, il paragone
non regge, se non altro perché nel caso delle donne non è controverso stabilire
chi è destinatario dei trattamenti speciali, mentre lo stesso non si può
affermare a proposito dei gruppi culturali. Che si rivendichi il diritto a una
rappresentanza speciale, a politiche di azione affermativa o ad altri
trattamenti differenziati sulla base dell’identità etnico-culturale, ecco
puntualmente ripresentarsi i paradossi del multiculturalismo. Come stabilire
chi fa parte di un dato gruppo e ha dunque titolo a trattamenti particolari?
Alle culture si “appartiene” per nascita o esse sono, in qualche misura,
oggetto di scelta? Nel passaggio dalla
teoria alla pratica, il maggior problema che i multiculturalisti si trovano ad
affrontare è quello della classificazione dei “meticci”. Il fenomeno dei
matrimoni misti rappresenta di per sé una patente falsificazione della
concezione del mondo del «multiculturalismo a mosaico», che concepisce le
culture come tessere omogenee e compatte, giustapposte l’una all’altra. Ma
rappresenta soprattutto un gigantesco problema sul piano pratico, ove si
insista nel mantenere tale concezione. Dove collocare i figli delle unioni
miste? I criteri concretamente
adottabili per tracciare i confini tra i vari gruppi possono essere di tipo
oggettivo o soggettivo. Negli Stati Uniti, i governi delle tribù indigene hanno
per lo più applicato criteri del primo tipo, stabilendo che possono essere
considerati membri delle varie tribù coloro nelle cui vene scorre una certa
percentuale di “sangue indiano” (nota 22). Sempre negli Stati
Uniti è peraltro divenuta corrente la pratica dei censimenti della popolazione
effettuati attraverso questionari che lasciano libere le persone di
autoclassificarsi come membri di uno dei cinque «ethno-racial blocs»
ufficialmente esistenti (euro-americano, asiatico-americano, afro-americano,
ispanico e indigeno). Il criterio prescelto, in questo caso, è di tipo
soggettivo. L’adozione di tale regola ha determinato una situazione paradossale
di estrema plasticità della mappa delle etnie emergente dai vari censimenti.
Tra il 1960 e il 1990, ad esempio, il numero di cittadini statunitensi che si sono
dichiarati membri del gruppo indigeno è cresciuto del 259 per cento,
probabilmente a causa dei provvedimenti adottati nel corso degli anni in favore
di tale minoranza (nota 23). Di nuovo si
ripresenta l’interrogativo: indigeni si nasce o si diventa? Come risolvere i
casi in cui alla presenza del requisito “oggettivo” del sangue non corrisponde
il senso di appartenenza soggettivo al gruppo o, viceversa, tale sentimento
esiste anche in mancanza del requisito “oggettivo”? L’evidente difficoltà che
il modello di classificazione della popolazione statunitense sulla base delle
cinque categorie etno-culturali incontra nel far fronte al crescente fenomeno
delle «mixed race peoples» dovrebbe far riflettere sul carattere storicamente
contingente e mutevole delle classificazioni etniche e culturali. È quanto
hanno fatto notare gli esponenti della Critical Racial Theory, analizzando i
modi usuali di classificare le razze negli Stati Uniti, impliciti nel
linguaggio comune ma anche nei discorsi dei giudici della Corte Suprema. Due
sono, ad esempio, le regole in base alle quali vengono distinti i neri dai
bianchi, nella percezione sociale corrente. «In virtù della regola di
riconoscimento, ogni persona la cui origine ancestrale nero-africana sia
visibile, è per ciò stesso black. In virtù della regola della discendenza, ogni
persona della quale sia conosciuta una traccia di origine africana è per ciò
stesso black, a prescindere dal suo aspetto; in altri termini, la discendenza
di una coppia bianca e nera è nera» (nota 24). In base a questo
secondo criterio, noto anche come regola della «ipodiscendenza», basta
un’«unica goccia di sangue» nero per essere classificati come black. Si tratta
evidentemente di un criterio che non rispecchia un presunto dato genetico
oggettivo, ma si fonda sull’implicita considerazione della “razza bianca” come
modello di purezza, che il contatto con un’unica goccia di sangue nero è
sufficiente a contaminare (nota 25). Si dirà che le teorie del multiculturalismo
non si fondano su classificazioni di tipo razziale, avendo piuttosto a che fare
con questioni simboliche e identitarie. Resta il fatto che quando si tratta di
tradurre le teorie del multiculturalismo in provvedimenti giuridici e
amministrativi, diventa necessario individuare criteri per stabilire chi ha
titolo per accedere a particolari trattamenti o per esercitare particolari
diritti. Alla ricerca di criteri il più possibile “oggettivi” per stabilire chi
fa parte di una determinata cultura, si ricade inevitabilmente in forme di
etnicismo o “razzismo” (nel senso descrittivo di “teoria delle razze”)
inaccettabili per la coscienza del nostro tempo, prive come sono di qualsiasi
base scientifica. Ma anche quando le decisioni relative all’identità
etnico-culturale sono lasciate ai diretti interessati, le esigenze
burocratico-amministrative di incasellare ciascun individuo in un categoria
predefinita hanno come effetto l’enfatizzazione e l’irrigidimento di differenze
di per sé fluide e in continua evoluzione, come l’estrema variabilità delle
risposte ai questionari etnici negli Stati Uniti documenta. Si ritorna così ai
problemi da cui eravamo partiti: quanto sono naturali, quanto sono socialmente
e storicamente plasmabili le differenze etnico-culturali? È sensato rivolgersi
a uno strumento rigido come il diritto per conservare e riprodurre identità
altrimenti destinate a modificarsi, a evolversi, a rinnovarsi? Nel tentativo di
rianimare o reinventare ad ogni costo culture e tradizioni che da sole non
riuscirebbero a sopravvivere, non si rischia di bloccare sul nascere la
formazione di nuove culture, forse più rispondenti ai bisogni delle
persone?
1 - C. Taylor, Multiculturalism and “the Politics of
Recognition”, Princeton University Press, Princeton 1992, p. 58. La
legislazione sulla lingua cui allude Taylor prevede l’obbligo per i francofoni
e gli immigrati di iscrivere i figli a scuole pubbliche francesi, di esporre
insegne commerciali esclusivamente in francese e di usare il francese nelle
imprese con più di cinquanta dipendenti.
2 - Ivi, p. 59.
3 - Mi riferisco ai notissimi studi di E. Hobsbawn, T. Ranger,
(eds.), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983;
E. Hobsbawm, Nation an Nationalism since 1780. Programme, Myth, Reality,
Cambridge University Press, Cambridge 1990; E. Gellner, Nations and
Nationalism, Blackwell, Oxford 1983, B. Anderson, Imagined Communities, Verso,
London-New York 1991.
4 - C. Taylor, Sources of the Self. The Making of the Modern
Identity, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 91. Ma cfr. anche i
saggi raccolti in C. Taylor, Human Agency and Language. Philosophical Papers 1,
Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1985. Ho sostenuto altrove che Taylor
e Kymlicka tendono a confondere e a usare in modo interscambiabile le nozioni
di lingua e di linguaggio. Cfr. V. Pazé, Il concetto di comunità nella
filosofia politica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 82.
5 - Discute questo punto anche E. Vitale in Liberalismo e
multiculturalismo. Una sfida per il pensiero democratico, Laterza, Roma-Bari
2000, pp. 155-56. La distinzione tra minoranze nazionali [national minorities],
concentrate in un territorio cui sono storicamente legate, e gruppi etnici [ethnic
groups] formatisi per l’effetto di migrazioni, si trova in W. Kymlicka,
Multicultural Citizenship. A Liberal Theory of Minority Rights, Oxford
University Press, Oxford 1995.
6 - A scanso di equivoci, si tenga presenta che entrambi gli
autori ritengono imprescindibile il riferimento non a un qualche contesto
culturale, ma alla particolare cultura entro cui si è nati.
7 - A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra le culture?,
in Multiculturalismo. Ideologie e sfide, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna
2006, p. 78.
8 - È la posizione
desumibile da K. A. Appiah, Cosmopolitanism. Ethics in a World of Strangers,
WW. Norton & Company, New York-London 2006. Non dissimile la tesi di Luigi
Ferrajoli, secondo cui la difesa delle culture non richiede il ripensamento del
paradigma della democrazia costituzionale, bastando a questo fine i classici
diritti di libertà, intesi come diritti alla differenza. Cfr. Quali sono i
diritti fondamentali? (in Diritti umani e diritti delle minoranze, a cura di E.
Vitale, Rosenberg & Sellier 2000), e Principia juris. Teoria del diritto e
della democrazia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 2007, vol. II, pp 57-61).
9 - Sulla versione
razzista del differenzialismo, cfr. P.A. Tagueff, La force du préjugé, Editiond
La Découverte, Paris 1987.
10 - È quello che S.
Benhabib ha chiamato multiculturalismo «forte», o «a mosaico», criticandolo per
la sua implausibilità sul piano epistemologico. Cfr. S. Benhabib, The Claims of
Cultures. Equality and Diversity in the Global Era, Princeton University Oress,
Princeton 2002.
11 - Mutuo l’espressione
“culture fluide” da A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra le culture?
cit., pp. 72-79.
12 - Cfr. per lo meno J.
Bayart, L’illusion identitaire, Fayard, Paris 1996; F. Remotti, Contro
l’identità, Laterza, Roma- Bari 2006; J. L. Amselle, Branchements. Antropologie
de l’universalité des cultures, Flammarion, Paris 2001; M. Aime, Eccessi di
culture, Einaudi, Torino 2004; R. Galissot e A.M. Rivera, L’imbroglio etnico.
In quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001.
13 - Cfr. L. Ferrajoli,
Principia juris cit., vol. II, p. 316.
14 - Negli Stati Uniti, ad esempio, alcune tribù indigene hanno
ottenuto il diritto di amministrare la giustizia attraverso consigli tribali,
contro le cui decisioni non può essere presentato ricorso alla Corte Suprema
(Cfr. W. Kymlicka, Multicultural Citizenship cit., pp. 38-39). In altri casi ai
membri di determinati gruppi culturali vengono applicate leggi speciali: in
India fino al 1986 i musulmani erano soggetti al diritto di famiglia islamico,
che prevedeva regole relative al divorzio penalizzanti nei confronti delle
donne, in contrasto con quanto stabilito dal codice di procedura penale (S. Benhabib, The Claims of Cultures cit.,
cap. 3).
15 - Quest’ultima è la posizione difesa da Kymlicka, che si
serve dell’espressione minority rights per designare una particolare categoria
di diritti alla sopravvivenza culturale, da non confondere con gli human
rights. Cfr. W. Kymlicka, Politics in the Vernacular. Nationalism,
Multiculturalism, and Citizenship, Oxford University Press, Oxford 2001, cap.
4. Una difesa “pragmatica” di alcune dei provvedimenti rivendicati dai
multiculturalisti si trova invece in A.E. Galeotti, Multiculturalismo.
Filosofia politica e conflitto identitario, Liguori, Napoli 1999). 16 - F. Baroncelli, Le quattro indegnità dei
liberali irresoluti, «Teoria politica» 3, 2001, pp. 23-47.
17 - L. Ferrajoli,
Principia juris, cit., vol. II, p. 318. Sulla questione del velo islamico cfr.
anche A.M. Rivera, L’interdetto del “velo”: antropologia di una contesa
pubblica, «Parolechiave» n. 33, giugno 2005 e I. Dominjanni, Corpo e laicità:
il caso della legge sul velo, in Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi,
Laterza, Roma-Bari 2005.
18 - Cfr. in proposito P.
Comanducci, Quali minoranze? Quali diritti? Prospettive di analisi e
classificazione, in Diritti umani e diritti delle minoranze, a cura di E.
Vitale, Rosenberg & Sellier Torino 2000, p. 54, secondo cui buona parte
dei “diritti culturali negativi”, consistenti
in richieste di non interferenza nella sfera culturale, coincide con classici
diritti liberali.
19 - Cfr. l’intervento di
Y. Tamir compreso nel volume di S. Moller Okin, Is Multiculturalism Bad for
Women?, Princeton University Press, Princeton 1999.
20 - Sull’indisponibilità
dei diritti fondamentali, intesa come limite «non solo ai pubblici poteri ma
anche all’autonomia dei loro titolari», cfr. L. Ferrajoli, Diritti
fondamentali, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 16.
21 - Cfr. in particolare
A. Facchi, I diritti nell’Europa multiculturale, Laterza, Roma-Bari 2001, cap.
5.
22 - Cfr. D. Hollinger, Postethnic America. Beyond
Multiculturalism, Basic Books, New York 1995, pp. 45-46, da cui risulta che i
criteri adottati dalle varie tribù sono molto diversi, essendo talvolta ritenuta
sufficiente una percentuale di 1/256 di
sangue indigeno, in altri quella del 50%.
23 - Ivi, p. 46.
24 - Legge, razza e
diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, a cura di K. Thomas e G.
Zanetti, Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 29.
25 - Ivi, p. 31.
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