martedì 14 marzo 2017

La democrazia alla prova del multiculturalismo - Articolo di Valentina Pazè


La democrazia alla prova del multiculturalismo



Articolo di Valentina Pazé



Se c’è una formula che condensa in poche parole paradossi e aporie del  multiculturalismo, credo si trovi nel celebre pamphlet di Charles Taylor, là dove il filosofo canadese difende i provvedimenti legislativi adottati in Québec negli anni Ottanta, presentandoli come una garanzia «that there is a community of people here in the future that will want to avail itself of the opportunity to use the French language» (nota 1).  Il paradosso sta nell’idea che un provvedimento di tipo coattivo, come una legge, possa riuscire nell’obiettivo di creare una comunità di persone che vorrà spontaneamente esprimersi in francese. A scanso di equivoci, Taylor chiarisce che la «politica della sopravvivenza» da lui caldeggiata non richiede semplicemente la previsione legislativa del  bilinguismo, che lascerebbe gli individui liberi di scegliere quale lingua usare nelle varie situazioni, ma implica l’imposizione ai figli dei francofoni (e degli immigrati) dell’uso esclusivo del francese nelle scuole e negli uffici pubblici, come misura necessaria per assicurarsi che «future generations continue to identify as French-speakers» (nota 2).   Espressa in termini imperativi, la formula rientra nel genere delle contraddizioni performative studiate dalla scuola di Palo Alto: “devi volere” o, meglio, “devi fare, oggi, ciò che evidentemente non vuoi (in caso contrario non ci sarebbe bisogno di imposizioni), in modo tale che, in futuro, tale comportamento corrisponda al tuo intimo desiderio (o per lo meno a quello dei tuoi figli)”. Il paradosso ha tutta una serie di precedenti nella storia del pensiero: dal “decidere di credere” di Pascal alla “costrizione ad essere liberi” di Rousseau. Che una simile ingiunzione sortisca i risultati voluti è, tuttavia, difficilmente dimostrabile e sarebbe, anzi, facile citare esempi storici che testimoniano il contrario.     Dietro il paradosso della “costrizione a volere” si nasconde un’aporia che riguarda il concetto stesso di comunità culturale di cui si servono i multiculturalisti, sempre in bilico tra storicismo  costruttivismo.Le comunità culturali – ci insegnano i multiculturalisti – stanno invariabilmente “alle spalle” delle persone, forniscono loro «orizzonti di significato» e «quadri di riferimento» ineludibili, con cui dovranno fare i conti anche qualora decidano di tagliare radicalmente i ponti col proprio passato. Sono le tesi che Taylor ha sviluppato in particolare in Sources of the Self, ma che si ritrovano anche negli scritti di Will Kymlicka, per il quale le culture non sono oggetto di scelta, ma «contesto di scelta» [context of choice], nel senso che forniscono agli individui le indispensabili coordinate linguistiche, cognitive, morali per muoversi e agire nel mondo quali soggetti liberi e consapevoli. In base a una simile concezione, la cultura non si sceglie, come non si sceglie la lingua materna; ciascuno di noi appartiene a una data cultura, nasce al suo interno e, se può certamente criticarne alcuni aspetti, non riuscirà mai nel tentativo velleitario di assumere un punto di vista totalmente esterno ad essa. Se il versante normativo delle teorie dei multiculturalisti ha un senso, tuttavia, bisognerà ammettere che le culture stanno (talvolta) anche “davanti” alle persone, potendo divenire oggetto di progettazione e costruzione consapevole, se non da parte di singoli individui, per lo meno da parte di classi dirigenti impegnate in processi di nation-building. L’esistenza di una componente di artificialità all’origine delle culture è stata ampiamente riconosciuta dagli storici, che hanno ricostruito i processi attraverso i quali le tradizioni sono state “inventate” e le comunità nazionali “immaginate” (nota 3). Di tutto ciò Taylor e Kymlicka sono ben consapevoli. Del resto, se le culture stessero davvero invariabilmente “alle spalle” degli individui, non avrebbe senso concepire politiche della sopravvivenza culturale. E vano sarebbe il tentativo di creare francofoni attraverso l’imposizione dell’uso della lingua francese.  Ma i paradossi legati all’ambiguo statuto delle comunità culturali, a metà strada tra eredità e progetto, non finiscono qui. Si pensi al ruolo svolto dalla lingua e dal linguaggio nella formazione dell’identità personale, cui Taylor ha dedicato innumerevoli scritti, ispirati in gran parte a una rilettura delle tesi di Herder e di Humboldt. «The rather different understandings of the good which we see in different cultures – sostiene Taylor – are the correlative of the different languages which have evolved in those cultures» (nota 4). Lungi dal rappresentare uno strumento neutro, adatto a comunicare i più diversi contenuti, ogni lingua esprimerebbe e trasmetterebbe una “forma di vita”: un patrimonio di significati, simboli, valori, venutosi a formare nell’ambito di una particolare comunità di interlocuzione. Di qui l’enfasi sull’importanza di difendere e promuovere le lingue delle minoranze, destinate a estinguersi o a imbastardirsi senza il sostegno di politiche mirate. Non diversamente, Kymlicka teorizza l’esistenza di un bisogno universalmente umano di appartenenza culturale, insistendo sul contributo della lingua, oltre che della memoria storica, nel dotare le persone degli strumenti necessari per orientarsi nel mondo. Eppure né Taylor né Kymlicka ritengono problematico pretendere dagli immigrati che apprendano la lingua del paese di accoglienza, rinunciando all’uso pubblico della propria. Le politiche di nation- building, denunciate come un sopruso se attuate da uno Stato nei confronti delle proprie minoranze nazionali (come i québécois in Canada o i baschi in Spagna), appaiono loro legittime e anzi necessarie se perseguite da quelle stesse minoranze nei confronti degli immigrati, pericolosi veicoli di pluralismo culturale (nota 5 - nota 6). La contraddittorietà delle tesi dei multiculturalisti è, su questo punto, palese. Se nessuno può spogliarsi del mondo di significati appresi attraverso la lingua materna, se non al prezzo intollerabile di una devastante crisi di identità, come si potrà pretendere da lui l’impossibile? Per quali ragioni, oltretutto, una simile pretesa risulterebbe legittima se rivolta agli immigrati, illegittima se indirizzata alle minoranze nazionali? Kymlicka giustifica questa duplicità di atteggiamento sostenendo che gli immigrati, a differenza dei membri di minoranze residenti da tempi immemorabili in un dato territorio, hanno scelto volontariamente di abbandonare, insieme alla propria terra, la cultura d’origine, rinunciando al diritto di rivendicare la propria specificità culturale. In questo modo egli ammette, implicitamente, che prendere le distanze dalla propria cultura è possibile. Se questo è vero, la sua teoria delle culture come indispensabile «contesti di scelta» vacilla, e fortemente ridimensionata risulta anche l’idea tayloriana che esista un bisogno universalmente umano al riconoscimento dell’identità “autentica” di ciascuno6.  L’esistenza stessa dei migranti, in effetti, confuta la tesi secondo cui la piena integrazione in una – e una sola – cultura costituisce il presupposto indispensabile di una vita dotata di senso. Come ha efficacemente sostenuto Alessandro Dal Lago, i migranti «non minacciano la nostra cultura perché visibilmente appartenenti a un’altra, ma perché esercitano la pretesa di vivere al di fuori della loro» (nota 7). Una pretesa che agli occhi di Taylor e di Kymlicka non può che apparire incomprensibile o esorbitante.     

In realtà sarebbe scorretto presentare le tesi di Taylor e di Kymlicka come se esaurissero i molteplici significati associabili alla nozione di multiculturalismo. Tornata alla ribalta a partire dalla pubblicazione del fortunato libretto di Taylor, prevalentemente dedicato alla questione québécois, la nozione di multiculturalismo veniva per lo più usata, in precedenza, con riferimento a società di immigrazione, come gli Stati Uniti. Proprio qui, alla fine degli anni Sessanta, tale espressione ha iniziato a diffondersi per indicare un modello di integrazione culturale alternativo a quello assimilazionista del melting pot (il crogiuolo in cui tutte le “razze” avrebbero dovuto fondersi). Da allora, l’espressione ha assunto significati tutt’altro che univoci, sia nel linguaggio scientifico sia in quello comune.   Nel tentativo di offrire un qualche contributo di chiarezza concettuale, propongo di intendere con l’espressione multiculturalismo una teoria, o una famiglia di teorie, che comporta l’adesione alle tre tesi seguenti:

a) il mondo è suddiviso in più gruppi culturali (giudizio di fatto);

b) la differenza culturale rappresenta un bene che va tutelato e promosso (giudizio di valore);

c) a questo fine non bastano i classici istituti escogitati dalla teoria liberal-democratica, ma servono provvedimenti politici e giuridici ad hoc (teoria politica prescrittiva).

Perché si possa parlare di multiculturalismo in senso pieno, è necessario che vengano sottoscritte tutte e tre le tesi (come nel caso di Taylor, Kymlicka e degli altri teorici dei diritti culturali). Esse, tuttavia, non risultano logicamente interdipendenti. È possibile ad esempio ritenere che esista al mondo una pluralità di culture, ciascuna delle quali presenta aspetti degni di essere esplorati e apprezzati (tesi a e b), senza pretendere che tali differenze vadano preservate indefinitamente nella loro “purezza” attraverso appositi provvedimenti legislativi (tesi c) (nota 8). Ma è anche possibile limitarsi ad accogliere la tesi a), sostenendo che non tutte le culture esistenti sono dotate di valore e vanno di conseguenza difese: è la posizione di un differenzialismo di matrice razzista o colonialista, che oggi rivive in alcune  teorie della supremazia occidentale sviluppate nell’ambito del neoconservatorismo statunitense (nota 9).    Per non cadere in eccessive semplificazioni, bisogna inoltre tenere presente che di ciascuna delle tesi sopra ricordate sono possibili versioni più o meno radicali. Una cosa è sostenere che l’umanità è suddivisa (da sempre?) in un numero definito di culture, intese come costellazioni chiuse e coerenti di significati, pratiche, valori, ciascuna delle quali corrispondente a un determinato “popolo” e/o territorio (nota 10). Altro è constatare che al mondo si danno una molteplicità di pratiche, costumi, codici simbolici in continua evoluzione, esposti a reciproche contaminazioni e ibridazioni, non invariabilmente associati a singoli gruppi umani. Della tesi a), in altre parole, è possibile fornire una versione essenzialista, che reifica le comunità culturali, rappresentandole come tendenzialmente stabili e omogenee, oppure una versione “fluida”, che parte dalla constatazione del carattere costitutivamente ibrido, meticcio, composito di tutte le culture (nota 11). Questo secondo approccio presta più attenzione alle differenze individuali che a quelle di gruppo, riconoscendo che gli stessi elementi simbolici possono essere diversamente assemblati e interpretati da coloro che, dall’esterno, vengono percepiti come membri della medesima cultura. La concezione “fluida” di cultura è oggi condivisa da molti antropologi (nota 12).    Passando ora alla dimensione assiologica, le diverse identità culturali, comunque esse vengano intese, possono essere approvate in modo incondizionato o con qualche distinguo. Si può ritenere che le culture rappresentino invariabilmente un valore e tutte vadano preservate (in ogni loro aspetto?), in nome della difesa di un elevato grado di “etnodiversità”. Oppure è possibile distinguere e sostenere, ad esempio, il valore umano delle culture che forniscono agli individui le risorse per esprimere la propria personalità, mantenendo al contempo un giudizio negativo su credenze e tradizioni che attentano alla libertà e alla dignità umana. In una simile prospettiva la «difesa delle culture» va di pari passo, e richiede quale sue indispensabile presupposto, la «difesa dalle culture» che, pretendendo di imporre autoritativamente ai propri membri credenze e codici di comportamento, negano loro in effetti proprio il diritto all’autodeterminazione, anche culturale (nota 13).   Anche la tesi c), che sostiene la necessità di provvedimenti speciali per garantire la sopravvivenza delle culture, si presta a una varietà di interpretazioni. Con la dizione “politiche del multiculturalismo” viene comunemente designata una gamma eterogenea di misure politiche e/o giuridiche, alcune delle quali sono giustificabili su un piano prettamente pragmatico e non pongono particolari problemi di principio, mentre altre chiamano in causa i fondamenti e le regole dello Stato democratico di diritto. Si va dal finanziamento statale di associazioni culturali alla previsione del plurilinguismo nelle scuole e negli uffici pubblici, alla deroga a regolamenti ritenuti in contrasto con pratiche tradizionali (riguardanti l’abbigliamento, i giorni festivi, il menù delle mense, i scolastici), fino alla previsione di giurisdizioni speciali per i membri di una data  minoranza, (nota 14)  di quote di seggi riservati nelle assemblee rappresentative, di diritti all’autogoverno, all’autodeterminazione (al limite alla secessione) o di altri diritti collettivi ascritti a particolari gruppi etnici o nazionali. Come dovrebbe essere chiaro, non si tratta di un insieme coerente, del quale si possa dire “prendere o lasciare”. Si potrà ad esempio concordare sull’opportunità e la ragionevolezza di talune deroghe a regolamenti o tradizioni che nulla hanno a che vedere con i principi dello stato di diritto, e sono esse stesse retaggio di vicende storiche particolari (le festività, l’abbigliamento, il menù delle mense), ma al tempo stesso opporsi alla previsione di forme di giurisdizione speciale che violano il principio di eguaglianza. Non solo. I medesimi provvedimenti potranno essere difesi su un piano laico e pragmatico, ad esempio come misure utili a sanare la marginalizzazione sociale degli immigrati, oppure essere rivendicati come veri e propri “diritti culturali”, che integrano e completano il classico catalogo dei diritti umani individuali (nota 15).  Inutile aggiungere che dall’adesione a una versione più o meno estrema della tesi a) e più o meno assoluta della tesi b) dipende in gran parte la posizione che si assumerà in merito alla questione della necessità, o meno, di provvedimenti speciali in difesa delle culture.     

Il multiculturalismo rappresenta una sfida per gli ordinamenti liberal-democratici quando sottende l’adesione a una versione radicale della tesi c), che prescrive politiche della “sopravvivenza culturale” contrarie ai principi e alle regole dello stato democratico di diritto. Non voglio con ciò sostenere che il multiculturalismo non possa prestare il fianco a critiche, anche severe, finché rimane una mera “concezione del mondo” (tesi a e b). Una interpretazione rigidamente essenzialista del “fatto” del pluralismo culturale, oltre ad essere di per sé rozza e implausibile, rappresenta il fertile terreno di coltura di ogni tipo di stereotipi e pregiudizi: gli italiani sono mafiosi, gli arabi bugiardi, gli africani indolenti… Riducendo  gli individui a esemplari rappresentativi della loro presunta cultura originaria, si offre una visione semplificata e deformata del mondo, incapace di cogliere la complessità dei processi di costruzione identitari nelle condizioni di sempre maggiore mobilità create dalla globalizzazione. Finché ci si limita a predicare che “diverso è bello”, tuttavia, ci si colloca sul terreno della legittima competizione tra ideologie e concezioni del mondo, un terreno che non dovrebbe intimorire i democratici. In assenza di una parola altrettanto adatta, direi che le concezioni essenzialiste e fissiste di “cultura” (in senso etnico o nazionale) rappresentano una sfida sul piano “culturale” (nell’accezione più ampia del termine): una sfida che potrà e dovrà essere raccolta innanzitutto dal mondo dell’istruzione e dalla società civile impegnata nella lotta contro il razzismo e l’esclusione sociale ai danni degli immigrati. Diverso è ciò che accade quando movimenti politici, associazioni o “comunità” dall’incerto statuto giuridico, di cui spesso è difficile capire chi sono i legittimi portavoce, avanzano pretese nei confronti dello Stato, chiedendo finanziamenti, esenzioni, leggi o diritti speciali in loro favore. Anche in questo caso, però, è bene distinguere. Non ogni e qualsiasi richiesta di trattamento speciale da parte di un gruppo che rivendica la propria diversità è di per sé lesiva dei diritti fondamentali o delle regole della convivenza democratica. Sarebbe assurdo, ad esempio, sfoderare il volto intransigente dei liberali offesi di fronte a richieste di deroghe a regolamenti riguardanti i giorni festivi, l’abbigliamento o il menù delle mense. Simili richieste ci ricordano in fondo che anche le nostre società sono storicamente situate e che le nostre istituzioni e modi di vita non sempre sono coerenti con i principi della laicità e della tolleranza proclamati a chiare lettere nelle Carte costituzionali (nota 16). Per altri versi, alcuni di quelli che vengono correntemente presentati come “diritti culturali” possono  essere intesi come semplici specificazioni di diritti umani fondamentali, riconosciuti da tutte le Costituzioni di ispirazione liberal-democratica e da un gran numero di documenti internazionali. Molto si è discusso, in Francia e altrove, sul diritto delle studentesse di indossare il velo islamico. Pochi hanno osservato che, sul piano giuridico, si tratta della pura e semplice specificazione di un classico diritto di libertà (il diritto ad abbigliarsi come si crede, poggiante a sua volta sul principio dell’autonomia della persona). Tutt’altro sarebbe attribuire a una comunità il diritto a costringere i propri membri di sesso femminile a indossare il velo (nota 17). E che dire di quanto previsto dall’art. 27 del Patto internazionale sui diritti civili e politici del 1966, che attribuisce ai membri di «ethnic, religious or linguistic minorities […] the right in community with the other members of their group, to enjoy their own culture, to profess and practise their own religion, or to use their own language»? Anche i diritti “culturali” che compaiono in questa norma possono essere interpretati come specificazioni di diritti “classici”: libertà di espressione, di religione, di riunione, di associazione (diritti individuali, questi ultimi, anche se esercitati collettivamente)18. Lo stesso, continuamente evocato, diritto all’uso della lingua d’origine non appare in contrasto col paradigma dei diritti fondamentali, e potrebbe forse essere interpretato come uno sviluppo del diritto alla libertà di espressione. Ma – di nuovo – diverso è il caso della previsione legislativa del diritto di un certo gruppo di imporre ai propri membri l’uso esclusivo della lingua d’origine (le leggi canadesi difese da Taylor e da Kymlicka) o l’osservanza dei precetti di una certa religione.    Come si evince da simili esempi, i problemi nascono essenzialmente nel momento in cui la titolarità dei diritti, che la tradizione risalente alle rivoluzioni americana e francese ha attribuito agli individui in quanto tali, superando le antiche distinzioni di ceto e di censo, viene attribuita a enti collettivi come nazioni, comunità, gruppi etnico-culturali.  È allora che i diritti “culturali” entrano in un conflitto non mediabile con i diritti fondamentali della persona, tra cui va annoverato il diritto ad abbandonare e “tradire” la cultura d’origine, o comunque a modificarla e reinterpretarla secondo il proprio giudizio. Sul piano teorico, l’alternativa è nitida: attribuire diritti al gruppo significa sottrarli agli individui. Tertium non datur. Ciò che il gruppo richiede sono infatti proprio strumenti per impedire ai propri membri di fare pieno uso della propria autodeterminazione. Superfluo insistere sul carattere statico e profondamente conservatore dell’idea di cultura soggiacente a simili richieste: lo stesso ricorso al lessico della “sopravvivenza” è indicativo di una tendenza a drammatizzare qualsiasi cambiamento, interpretando ogni tentativo di innovazione culturale come una questione “di vita o di morte” (nota 19). Paternalistici suonano, in questi casi, i tentativi di giustificare la sottrazione di diritti agli individui in nome della loro stessa libertà, asserendo che questa richiederebbe, per essere effettiva, la difesa di un particolare contesto culturale.  Ci sono tuttavia anche casi in cui pretese di regolamentazione di pratiche culturali appaiono in contrasto con i diritti fondamentali non perché formulate nel linguaggio dei diritti collettivi, ma in virtù del loro stesso contenuto. Si pensi all’infibulazione, all’escissione e alle altre forme di mutilazioni genitali femminili largamente diffuse nel continente africano. Nel caso simili pratiche siano rivendicate da donne adulte nel pieno possesso delle loro facoltà mentali, dovranno essere considerate espressione della loro libertà di disporre autonomamente del proprio corpo? O non si dovrà piuttosto invocare l’indisponibilità del diritto alla salute, in quanto tale inviolabile da parte dei suoi stessi titolari? (nota 20). Posto in questi termini, il problema è più teorico che reale. Nella stragrande maggioranza dei casi l’infibulazione e l’escissione vengono praticate su bambine, per decisione dei genitori o di altri adulti cui sono affidate. Di nuovo, ci troviamo di fronte a comunità che decidono per l’individuo, per di più minorenne. Posto che i danni fisici e psichici legati alle varie forme di mutilazione genitale sono stati ampiamente documentati, il diritto-dovere dello Stato di intervenire in difesa della salute e dell’integrità fisica di bambine e ragazze può essere affermato senza esitazioni. Aperta rimane naturalmente la questione di quali siano i modi più efficaci per contrastare pratiche tradizionali fortemente radicate e rivestite di un significato simbolico inaccessibile a chi le valuti dall’esterno. A questo proposito appaiono ragionevoli le considerazioni di chi ha messo in rilievo l’inadeguatezza di una risposta puramente penale al problema, che rischia di suscitare pericolosi fenomeni di rafforzamento e rivendicazione reattiva delle usanze criminalizzate (nota 21).  

Anche nel caso in cui l’esercizio dei diritti “culturali” sia attribuito agli individui, considerati come membri di particolari minoranze etnico-culturali, rimane il problema di determinare con precisione chi fa parte di un dato gruppo. Spesso le politiche del multiculturalismo vengono assimilate ai provvedimenti di azione affermativa adottati in favore delle donne (quote di seggi riservati nelle assemblee politiche, diritto di precedenza in graduatorie per l’accesso all’università, ecc.). Al di là delle possibili critiche che possono essere mosse a simili provvedimenti, il paragone non regge, se non altro perché nel caso delle donne non è controverso stabilire chi è destinatario dei trattamenti speciali, mentre lo stesso non si può affermare a proposito dei gruppi culturali. Che si rivendichi il diritto a una rappresentanza speciale, a politiche di azione affermativa o ad altri trattamenti differenziati sulla base dell’identità etnico-culturale, ecco puntualmente ripresentarsi i paradossi del multiculturalismo. Come stabilire chi fa parte di un dato gruppo e ha dunque titolo a trattamenti particolari? Alle culture si “appartiene” per nascita o esse sono, in qualche misura, oggetto di scelta?  Nel passaggio dalla teoria alla pratica, il maggior problema che i multiculturalisti si trovano ad affrontare è quello della classificazione dei “meticci”. Il fenomeno dei matrimoni misti rappresenta di per sé una patente falsificazione della concezione del mondo del «multiculturalismo a mosaico», che concepisce le culture come tessere omogenee e compatte, giustapposte l’una all’altra. Ma rappresenta soprattutto un gigantesco problema sul piano pratico, ove si insista nel mantenere tale concezione. Dove collocare i figli delle unioni miste?  I criteri concretamente adottabili per tracciare i confini tra i vari gruppi possono essere di tipo oggettivo o soggettivo. Negli Stati Uniti, i governi delle tribù indigene hanno per lo più applicato criteri del primo tipo, stabilendo che possono essere considerati membri delle varie tribù coloro nelle cui vene scorre una certa percentuale di “sangue indiano” (nota 22). Sempre negli Stati Uniti è peraltro divenuta corrente la pratica dei censimenti della popolazione effettuati attraverso questionari che lasciano libere le persone di autoclassificarsi come membri di uno dei cinque «ethno-racial blocs» ufficialmente esistenti (euro-americano, asiatico-americano, afro-americano, ispanico e indigeno). Il criterio prescelto, in questo caso, è di tipo soggettivo. L’adozione di tale regola ha determinato una situazione paradossale di estrema plasticità della mappa delle etnie emergente dai vari censimenti. Tra il 1960 e il 1990, ad esempio, il numero di cittadini statunitensi che si sono dichiarati membri del gruppo indigeno è cresciuto del 259 per cento, probabilmente a causa dei provvedimenti adottati nel corso degli anni in favore di tale minoranza (nota 23). Di nuovo si ripresenta l’interrogativo: indigeni si nasce o si diventa? Come risolvere i casi in cui alla presenza del requisito “oggettivo” del sangue non corrisponde il senso di appartenenza soggettivo al gruppo o, viceversa, tale sentimento esiste anche in mancanza del requisito “oggettivo”? L’evidente difficoltà che il modello di classificazione della popolazione statunitense sulla base delle cinque categorie etno-culturali incontra nel far fronte al crescente fenomeno delle «mixed race peoples» dovrebbe far riflettere sul carattere storicamente contingente e mutevole delle classificazioni etniche e culturali. È quanto hanno fatto notare gli esponenti della Critical Racial Theory, analizzando i modi usuali di classificare le razze negli Stati Uniti, impliciti nel linguaggio comune ma anche nei discorsi dei giudici della Corte Suprema. Due sono, ad esempio, le regole in base alle quali vengono distinti i neri dai bianchi, nella percezione sociale corrente. «In virtù della regola di riconoscimento, ogni persona la cui origine ancestrale nero-africana sia visibile, è per ciò stesso black. In virtù della regola della discendenza, ogni persona della quale sia conosciuta una traccia di origine africana è per ciò stesso black, a prescindere dal suo aspetto; in altri termini, la discendenza di una coppia bianca e nera è nera» (nota 24). In base a questo secondo criterio, noto anche come regola della «ipodiscendenza», basta un’«unica goccia di sangue» nero per essere classificati come black. Si tratta evidentemente di un criterio che non rispecchia un presunto dato genetico oggettivo, ma si fonda sull’implicita considerazione della “razza bianca” come modello di purezza, che il contatto con un’unica goccia di sangue nero è sufficiente a contaminare (nota 25).  Si dirà che le teorie del multiculturalismo non si fondano su classificazioni di tipo razziale, avendo piuttosto a che fare con questioni simboliche e identitarie. Resta il fatto che quando si tratta di tradurre le teorie del multiculturalismo in provvedimenti giuridici e amministrativi, diventa necessario individuare criteri per stabilire chi ha titolo per accedere a particolari trattamenti o per esercitare particolari diritti. Alla ricerca di criteri il più possibile “oggettivi” per stabilire chi fa parte di una determinata cultura, si ricade inevitabilmente in forme di etnicismo o “razzismo” (nel senso descrittivo di “teoria delle razze”) inaccettabili per la coscienza del nostro tempo, prive come sono di qualsiasi base scientifica. Ma anche quando le decisioni relative all’identità etnico-culturale sono lasciate ai diretti interessati, le esigenze burocratico-amministrative di incasellare ciascun individuo in un categoria predefinita hanno come effetto l’enfatizzazione e l’irrigidimento di differenze di per sé fluide e in continua evoluzione, come l’estrema variabilità delle risposte ai questionari etnici negli Stati Uniti documenta. Si ritorna così ai problemi da cui eravamo partiti: quanto sono naturali, quanto sono socialmente e storicamente plasmabili le differenze etnico-culturali? È sensato rivolgersi a uno strumento rigido come il diritto per conservare e riprodurre identità altrimenti destinate a modificarsi, a evolversi, a rinnovarsi? Nel tentativo di rianimare o reinventare ad ogni costo culture e tradizioni che da sole non riuscirebbero a sopravvivere, non si rischia di bloccare sul nascere la formazione di nuove culture, forse più rispondenti ai bisogni delle persone?     



1 - C. Taylor, Multiculturalism and “the Politics of Recognition”, Princeton University Press, Princeton 1992, p. 58. La legislazione sulla lingua cui allude Taylor prevede l’obbligo per i francofoni e gli immigrati di iscrivere i figli a scuole pubbliche francesi, di esporre insegne commerciali esclusivamente in francese e di usare il francese nelle imprese con più di cinquanta dipendenti.  

2 - Ivi, p. 59.

3 - Mi riferisco ai notissimi studi di E. Hobsbawn, T. Ranger, (eds.), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983; E. Hobsbawm, Nation an Nationalism since 1780. Programme, Myth, Reality, Cambridge University Press, Cambridge 1990; E. Gellner, Nations and Nationalism, Blackwell, Oxford 1983, B. Anderson, Imagined Communities, Verso, London-New York 1991.

4 - C. Taylor, Sources of the Self. The Making of the Modern Identity, Cambridge University Press, Cambridge 1989, p. 91. Ma cfr. anche i saggi raccolti in C. Taylor, Human Agency and Language. Philosophical Papers 1, Cambridge University Press, Cambridge (Mass.) 1985. Ho sostenuto altrove che Taylor e Kymlicka tendono a confondere e a usare in modo interscambiabile le nozioni di lingua e di linguaggio. Cfr. V. Pazé, Il concetto di comunità nella filosofia politica contemporanea, Laterza, Roma-Bari 2002, p. 82.

5 - Discute questo punto anche E. Vitale in Liberalismo e multiculturalismo. Una sfida per il pensiero democratico, Laterza, Roma-Bari 2000, pp. 155-56. La distinzione tra minoranze nazionali [national minorities], concentrate in un territorio cui sono storicamente legate, e gruppi etnici [ethnic groups] formatisi per l’effetto di migrazioni, si trova in W. Kymlicka, Multicultural Citizenship. A Liberal Theory of Minority Rights, Oxford University Press, Oxford 1995. 

6 - A scanso di equivoci, si tenga presenta che entrambi gli autori ritengono imprescindibile il riferimento non a un qualche contesto culturale, ma alla particolare cultura entro cui si è nati.

7 - A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra le culture?, in Multiculturalismo. Ideologie e sfide, a cura di C. Galli, Il Mulino, Bologna 2006, p. 78.

8  - È la posizione desumibile da K. A. Appiah, Cosmopolitanism. Ethics in a World of Strangers, WW. Norton & Company, New York-London 2006. Non dissimile la tesi di Luigi Ferrajoli, secondo cui la difesa delle culture non richiede il ripensamento del paradigma della democrazia costituzionale, bastando a questo fine i classici diritti di libertà, intesi come diritti alla differenza. Cfr. Quali sono i diritti fondamentali? (in Diritti umani e diritti delle minoranze, a cura di E. Vitale, Rosenberg & Sellier 2000), e Principia juris. Teoria del diritto e della democrazia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 2007, vol. II, pp 57-61).

9  - Sulla versione razzista del differenzialismo, cfr. P.A. Tagueff, La force du préjugé, Editiond La Découverte, Paris 1987.

10  - È quello che S. Benhabib ha chiamato multiculturalismo «forte», o «a mosaico», criticandolo per la sua implausibilità sul piano epistemologico. Cfr. S. Benhabib, The Claims of Cultures. Equality and Diversity in the Global Era, Princeton University Oress, Princeton 2002.

11  - Mutuo l’espressione “culture fluide” da A. Dal Lago, Esistono davvero i conflitti tra le culture? cit., pp. 72-79. 

12  - Cfr. per lo meno J. Bayart, L’illusion identitaire, Fayard, Paris 1996; F. Remotti, Contro l’identità, Laterza, Roma- Bari 2006; J. L. Amselle, Branchements. Antropologie de l’universalité des cultures, Flammarion, Paris 2001; M. Aime, Eccessi di culture, Einaudi, Torino 2004; R. Galissot e A.M. Rivera, L’imbroglio etnico. In quattordici parole-chiave, Dedalo, Bari 2001. 

13  - Cfr. L. Ferrajoli, Principia juris cit., vol. II, p. 316.

14 - Negli Stati Uniti, ad esempio, alcune tribù indigene hanno ottenuto il diritto di amministrare la giustizia attraverso consigli tribali, contro le cui decisioni non può essere presentato ricorso alla Corte Suprema (Cfr. W. Kymlicka, Multicultural Citizenship cit., pp. 38-39). In altri casi ai membri di determinati gruppi culturali vengono applicate leggi speciali: in India fino al 1986 i musulmani erano soggetti al diritto di famiglia islamico, che prevedeva regole relative al divorzio penalizzanti nei confronti delle donne, in contrasto con quanto stabilito dal codice di procedura penale  (S. Benhabib, The Claims of Cultures cit., cap. 3). 

15 - Quest’ultima è la posizione difesa da Kymlicka, che si serve dell’espressione minority rights per designare una particolare categoria di diritti alla sopravvivenza culturale, da non confondere con gli human rights. Cfr. W. Kymlicka, Politics in the Vernacular. Nationalism, Multiculturalism, and Citizenship, Oxford University Press, Oxford 2001, cap. 4. Una difesa “pragmatica” di alcune dei provvedimenti rivendicati dai multiculturalisti si trova invece in A.E. Galeotti, Multiculturalismo. Filosofia politica e conflitto identitario, Liguori, Napoli 1999). 16  - F. Baroncelli, Le quattro indegnità dei liberali irresoluti, «Teoria politica» 3, 2001, pp. 23-47.

17 -  L. Ferrajoli, Principia juris, cit., vol. II, p. 318. Sulla questione del velo islamico cfr. anche A.M. Rivera, L’interdetto del “velo”: antropologia di una contesa pubblica, «Parolechiave» n. 33, giugno 2005 e I. Dominjanni, Corpo e laicità: il caso della legge sul velo, in Le ragioni dei laici, a cura di G. Preterossi, Laterza, Roma-Bari 2005.

18 -  Cfr. in proposito P. Comanducci, Quali minoranze? Quali diritti? Prospettive di analisi e classificazione, in Diritti umani e diritti delle minoranze, a cura di E. Vitale, Rosenberg & Sellier Torino 2000, p. 54, secondo cui buona parte dei  “diritti culturali negativi”, consistenti in richieste di non interferenza nella sfera culturale, coincide con classici diritti liberali.  

19  - Cfr. l’intervento di Y. Tamir compreso nel volume di S. Moller Okin, Is Multiculturalism Bad for Women?, Princeton University Press, Princeton 1999.

20  - Sull’indisponibilità dei diritti fondamentali, intesa come limite «non solo ai pubblici poteri ma anche all’autonomia dei loro titolari», cfr. L. Ferrajoli, Diritti fondamentali, a cura di E. Vitale, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 16.

21  - Cfr. in particolare A. Facchi, I diritti nell’Europa multiculturale, Laterza, Roma-Bari 2001, cap. 5.

22 - Cfr. D. Hollinger, Postethnic America. Beyond Multiculturalism, Basic Books, New York 1995, pp. 45-46, da cui risulta che i criteri adottati dalle varie tribù sono molto diversi, essendo talvolta ritenuta sufficiente una percentuale di  1/256 di sangue indigeno, in altri quella del 50%.

23  - Ivi, p. 46.

24  - Legge, razza e diritti. La Critical Race Theory negli Stati Uniti, a cura di K. Thomas e G. Zanetti, Diabasis, Reggio Emilia 2005, p. 29.

25  - Ivi, p. 31.

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