LA PAROLA DEL MESE
A turno si propone una parola, evocativa
di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
MARZO 2017
La
triste, tristissima, vicenda di Dj Fabo ha inevitabilmente riportato al centro
del dibattito politico e dell’attenzione dei media l’irrisolta questione del
“fine vita”. La speranza è ovviamente quella che il clamore mediatico dia corpo
e sostanza ad un percorso legislativo, ma soprattutto di confronto aperto e
costruttivo tra le diverse sensibilità e punti di vista, che riesca finalmente
a produrre una legge il più possibile all’altezza della drammatica questione.
Di speranza si deve però parlare perché altre non meno importanti vicende, a
partire dal “femminicidio”, dimostrano quanto pesi il rischio che, non appena l’attenzione
dei media si sposti altrove, tutto ricada nella solita paludosa indifferenza ed
impotenza, piuttosto che forte
contrapposizione. Forti di questa speranza, e di questo timore, proponiamo come
parola del mese una, fra le tante, che permetta di mettere un poco in ordine i
termini che compongono una materia molto articolata e complessa che investe
diversi aspetti (dalla titolarità del diritto di vita alla dignità del vivere,
dal peso delle morali religiose al ruolo dello stato, tanto per citarne alcuni).
Abbiamo scelto “eutanasia” non per orientare nulla e nessuno in una qualche
direzione ma perché ci è parsa quella di più immediato impatto sintetico.
EUTANASIA
(dal
vocabolario online Treccani) eutanaṡìa dal greco composto di εὖ «bene» e i ϑάνατος «morte», quindi letteralmente la “bella
morte”, la “buona morte”
1.
Nel pensiero filosofico antico, la morte bella, tranquilla e naturale,
accettata con spirito sereno e intesa come il perfetto compimento della vita.
2. Morte non dolorosa, ossia il porre
deliberatamente termine alla vita di un paziente al fine di evitare, in caso di
malattie incurabili, sofferenze prolungate nel tempo o una lunga agonia; può
essere ottenuta o con la sospensione del trattamento medico che mantiene
artificialmente il paziente in vita (e.
passiva), o
attraverso la somministrazione di farmaci atti ad affrettare o procurare la
morte (e. attiva); si definisce volontaria se richiesta o
autorizzata dal paziente
Per meglio comprendere
i termini della questione riportiamo alcuni elementi informativi:
1) intervista a Carlo Alberto Defanti (medico di Eluana Englaro)
(Huffington Post 27/02)
"Questo triste
evento (la morte assistita di Dj Fabo ) - afferma Carlo Alberto Defanti,
primario emerito dell'Ospedale Niguarda di Milano, membro della Consulta di
Bioetica - rischia di essere un ulteriore ostacolo sulla via del ddl sulle Dat
o Biotestamento, all'esame della Camera, perchè il pericolo è che si possano
confondere situazioni diverse. Credo, infatti, che mentre il Paese e la
magistratura si sono già 'pronunciati' in favore delle Dat, il problema
dell'eutanasia è ancora controverso e in questo momento reputo difficile che si
possa legiferare in proposito"
Ma quali sono le differenze?
Le DAT (Disposizioni Anticipate di
Trattamento), spiega, "sono dichiarazioni che il soggetto
decide di fare quando è in grado di intendere, in vista di una futura
situazione in cui si trovasse in condizioni gravissime e non fosse più in grado
di disporre di sè. In pratica è l'espressione della volontà in merito alle
terapie che una persona intende o non intende accettare nell'eventualità in cui
dovesse trovarsi nella condizione di incapacità di esprimere il proprio diritto
di acconsentire o non acconsentire alle cure proposte, incluse nutrizione e
idratazione artificiali, per malattie o lesioni traumatiche cerebrali
irreversibili o invalidanti che costringano a trattamenti permanenti". Il
ddl sulle Dat è all'esame della Camera e dovrebbe approdare in Aula il 6 marzo.
Cosa diversa è l'EUTANASIA: "Si
definisce 'attiva' e si tratta della somministrazione di un'iniezione letale da
parte del medico su richiesta del paziente". Una proposta di legge di
iniziativa popolare per la legalizzazione dell'eutanasia, promossa
dall'Associazione Coscioni, è incardinata nelle commissioni congiunte Affari
sociali e Giustizia, ma il dibattito è fermo al 2016. La proposta di legge prevede
che la richiesta di eutanasia "sia motivata dal fatto che il paziente è
affetto da una malattia produttiva di gravi sofferenze, inguaribile o con
prognosi infausta inferiore a diciotto mesi".
Nel caso del SUICIDIO ASSISTITO,
di cui si è avvalso Dj Fabo in Svizzera dove invece non è prevista l'eutanasia
attiva, "il medico - afferma Defanti - non provoca direttamente la morte.
In questa fattispecie, infatti, il paziente chiede al medico di prescrivere il
mix di farmaci letali, di solito una bevanda. Il medico non agisce dunque
direttamente ma collabora col malato, che ingerisce autonomamente il mix
letale. Nel caso di malati di Sla o impossibilitati a bere, il paziente aziona
con le labbra o altri movimenti un meccanismo che consente di iniettare nel
sondino cui è collegato il mix di farmaci letale. Il gesto 'decisivo' è cioè
quello del malato".
Quanto all'ACCANIMENTO TERAPEUTICO,
è così definito un atteggiamento di ostinazione nell'impartire trattamenti
sanitari che risultano "sproporzionati" in relazione all'obiettivo
terapeutico e alla condizione specifica del paziente.
2) Dall’Enciclopedia on line Treccani
EUTANASIA = Azione od omissione che, per sua natura e nelle intenzioni di chi agisce
(eutanasia attiva) o si astiene dall’agire (eutanasia passiva), procura
anticipatamente la morte di un malato allo scopo di alleviarne le sofferenze.
In particolare, l’eutanasia va definita come l’uccisione di un soggetto
consenziente, in grado di esprimere la volontà di morire, o nella forma del
suicidio assistito (con l’aiuto del medico al quale si rivolge per la
prescrizione di farmaci letali per l’autosomministrazione) o nella forma
dell’eutanasia volontaria in senso stretto, con la richiesta al medico di
essere soppresso nel presente o nel futuro. L’uccisione medicalizzata di una
persona senza il suo consenso, infatti, non va definita eutanasia, ma omicidio tout
court, come nel caso di soggetti che non esprimono la propria volontà, la
esprimono in senso contrario o non sono in grado di manifestarla: neonati,
feti, embrioni, dementi, malati gravi privi di coscienza. Non rientrano inoltre
nel concetto di eutanasia l’astensione o la sospensione di trattamenti futili e
di forme di accanimento terapeutico, nonché la sedazione terminale (uso di
farmaci sedativi per dare sollievo a sofferenze insopportabili negli ultimi
momenti di vita). Non va confusa poi con l’eutanasia la rinuncia
all'accanimento terapeutico, ossia a quegli interventi sproporzionati, gravosi
e inutili rispetto alla possibilità di arrestare il processo della morte del
paziente, nel tentativo di prolungare la vita a ogni costo. Esiste un consenso
pressoché unanime circa l’illiceità etica, deontologica e giuridica di questa
pratica, che proprio in quanto consistente in un'insistenza sproporzionata e
futile rispetto al raggiungimento di ogni obiettivo, non si può definire una
pratica terapeutica. La rinuncia all’accanimento, tuttavia, non legittima la
sospensione delle cure ordinarie necessarie a un accompagnamento dignitoso del
morente. Tra queste si discute se vadano incluse l’idratazione e
l’alimentazione artificiale, quando non risultino gravose per il malato o
l’organismo non sia più in grado di recepirle. Diversa è l’eutanasia come
abbandono terapeutico, ossia la sospensione di qualsiasi trattamento
nell’intento di anticipare la morte: in questi casi, infatti, non è la
condizione patologica a far morire, ma l’omissione di sostentamenti ordinari.
Va, pertanto, considerata una forma di eutanasia passiva. Un aspetto delicato
riguarda il rifiuto delle terapie (o dissenso informato) da parte di un
soggetto capace di intendere e di volere. In proposito, la dottrina dominante
ritiene che la rilevanza giuridica riconoscibile all’autodeterminazione del
paziente incontri un preciso limite nel principio del rispetto della persona
umana. La libertà di determinazione del soggetto in relazione alla propria
salute (artt. 3-13-32 Cost.), infatti, appare meritevole di riconoscimento
fintanto che non sia volta alla soppressione di sé o alla eliminazione di
componenti essenziali della personalità. Ciò si traduce nell’impossibilità per
il soggetto di disporre della propria esistenza con forme di suicidio assistito
e di eutanasia volontaria. Innanzi alla difficoltà di gestire la sofferenza
nelle situazioni di fine vita, l’esperienza clinica dimostra l’importanza del
ricorso alle cure palliative, ossia a quell’approccio integrato di assistenza e
cura del paziente grave o terminale, capace di migliorare la qualità della vita
dei pazienti stessi e delle famiglie che si confrontano con malattie mortali,
attraverso la prevenzione e il trattamento del dolore e di altri problemi
fisici, psicosociali e spirituali (con la somministrazione di analgesici, la
riabilitazione, il sostegno psicologico, l’assistenza religiosa ecc.). Le cure
palliative, in tal senso, danno sollievo; sostengono la vita e guardano al
morire come a un processo naturale; non intendono né affrettare né posporre la
morte; integrano aspetti psicologici e spirituali nell’assistenza al paziente;
utilizzano un approccio di équipe per rispondere ai bisogni del paziente e
della famiglia, e possono influenzare positivamente il decorso della malattia
(OMS, 2002). Dal punto di vista giuridico, nell’ordinamento italiano
l’eutanasia attiva è assimilabile all’omicidio, l’eutanasia passiva è
identificabile nell’astensione a praticare terapie nel rispetto delle norme di
legge. Il codice penale non prevede un’apposita disciplina per l’omicidio per
eutanasia, trovando, invece, applicazione, di volta in volta, le disposizioni
inerenti l’omicidio volontario (art. 575) o l’omicidio del consenziente (art.
579).
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