Relazione sulla conferenza
del prof. Marco Chiauzza:
Le
religioni nello
spazio
pubblico
Con
la conferenza del prof. Marco Chiauzza, docente di filosofia e presidente della
Consulta Torinese per la laicità delle istituzioni, CircolarMente ha dato
inizio alla seconda parte di un percorso focalizzato sulle trasformazioni della
società contemporanea, che si interroga ora in particolare sulle sfide da
affrontare nell’incontro con mondi culturali e religiosi diversi. Un mutamento
di non poco conto, quello che stiamo vivendo, capace tanto di produrre
ibridazioni feconde quanto pericolosi arroccamenti e chiusure identitarie, e
che ci chiede di ripensare un principio, quello di laicità, che forse troppo
superficialmente abbiamo dato per scontato come orizzonte culturale e metodo di
pratica politica.
1. Spunti introduttivi:
Per
affrontare in modo adeguato un argomento di tale importanza e delicatezza, su
cui un singolo incontro non potrà che offrire alcuni spunti, necessariamente
lacunosi, il prof. Chiauzza ha scelto di partire da una pur breve introduzione
di tipo storico-culturale, volta ad evitare anzitutto interpretazioni scorrette
di un termine che ha radici antiche e interne al mondo cristiano, e che quindi
non va inteso, come spesso avviene, come indicante un atteggiamento
antireligioso. Nasce infatti nelle prime
comunità cristiane, per distinguere la comunità dei fedeli (dal greco laòs= popolo)
da coloro che venivano prescelti per guidarli, i cosiddetti presbiteri o
clerici (termine, quest’ultimo, anch’esso
derivante dal greco cleròs = scheggia, con riferimento ai bastoncini usati per
l’estrazione a sorte).
Allo
stesso modo, nel mondo medioevale segnato per lungo tempo dalla contesa fra il Papato
e l’Impero, quella che possiamo chiamare “laicità” non veniva mai a significare
la messa in dubbio del potere spirituale del papa come rappresentante di un
universo religioso cristiano considerato indiscutibile, ma indicava
semplicemente, nella divaricazione fra due istanze contrapposte - quella che intendeva separare il potere temporale,
assegnato all’imperatore, dal potere spirituale di competenza papale, in
un’ottica che si può sintetizzare attraverso la metafora dei “Due Soli” di pari
importanza e valore, e quella invece che rivendicava al potere spirituale il
diritto di prevalenza, come l’unico capace di dare luce, come avviene al Sole
rispetto alla Luna - la posizione di coloro che vedevano nella separazione dei
due ambiti la sola garanzia che la chiesa potesse svolgere al meglio il proprio compito spirituale (così la intendeva,
ad esempio, il filosofo francescano Guglielmo di Ockham, interprete di una
religiosità intensa e profondamente “laica”).
Pur
nella loro sommarietà, queste brevi note dovrebbero già chiarire, a giudizio
del relatore, come la distinzione fra laici e non laici non abbia nulla a che
fare con la distinzione fra credenti e non credenti, ma sia invece da riferirsi
semplicemente alla separazione dei piani. Come non è da considerarsi laica una
Chiesa che pretenda di dettare legge nelle istituzioni civili, parimenti non è
laico uno stato che voglia subordinare ad esso la vita della Chiesa: una
condizione, questa, che in effetti è venuta a verificarsi dopo la rivoluzione
francese e nella costituzione ad essa conseguente, quando si è preteso di
trasformare i preti in funzionari statali per poter esercitare un controllo sul
clero, e tantomeno saranno da considerare laiche le scelte compiute nell’Unione
Sovietica dopo la rivoluzione d’ottobre, che facevano dell’ateismo e del
materialismo storico la nuova religione di stato, in un capovolgimento
concettuale del tutto speculare a quello compiuto dai governi teocratici.
Ciò
detto, non possiamo rispondere alla domanda fondamentale sulle condizioni della
libertà religiosa e del principio di laicità in Italia senza fare ancora un
riferimento agli inizi dello stato italiano, segnato, come sappiamo, da una
forte rottura col mondo cattolico le cui cause non sono tanto da ricercare, a
giudizio del relatore, nella precisa volontà cavouriana di separare nettamente i due ambiti, secondo
la ben nota formula “libera chiesa in
libero stato”, ma da quei problemi politici complessi che conosciamo sotto
il nome di “questione romana” e che allontaneranno per un lungo periodo i
cattolici dalla partecipazione alla vita politica, nonostante l’emanazione da
parte del nuovo stato di alcune leggi di garanzia delle prerogative del
Pontefice e della Santa Sede (le
cosiddette “Leggi sulle guarentigie”).
Una
separazione di fatto che durò a lungo e che trovò una pacificazione definitiva
solo durante il fascismo, interessato a stabilire col mondo cattolico, allora
segnato in maggioranza da una forte impronta conservatrice, un’alleanza che
trovava in un comune rifiuto della modernità liberale una sua ragione d’essere.
Da qui nascono i cosiddetti “Patti Lateranensi”, cioè il Concordato del 1929 che
concedeva privilegi alla Chiesa in materia di enti, estendeva l’insegnamento
della religione cattolica alle scuole di ogni ordine e grado ponendolo a
fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica, e riconosceva la
giurisdizione ecclesiastica in materia matrimoniale.
Nonostante
il forte cambiamento del quadro politico successivo alla nascita della
Repubblica, il Concordato venne in seguito assunto nella Costituzione, grazie
ad un compromesso fra le forze cattoliche e quelle comuniste, allora
maggioritarie rispetto a quelle socialiste e liberali.
In
effetti l’articolo 7 della Costituzione, che sicuramente nel suo primo comma
detta il principio base della laicità, dichiarando che “Lo Stato e la Chiesa sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e
sovrani”, prosegue stabilendo che “I
loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi” e che “Le modifiche accettate dalle due parti non
richiedono procedimenti di revisione costituzionale” (un elemento, questo,
che presenta secondo il relatore una rilevante contraddizione interna, perché
si accetta che la costituzione possa
venire modificata attraverso un accordo con uno stato “straniero”, quale
è di fatto la Santa Sede).
2. Questioni aperte e
declinazioni diverse della “laicità”:
In
anni più recenti sono stati compiuti alcuni passi nella direzione della laicità
dello stato, a partire dalla revisione del Concordato, operata nel 1984 con un
accordo fra il governo italiano, rappresentato allora da Bettino Craxi, e la
Santa Sede, nella persona del Cardinale Agostino Casaroli. Ciò nondimeno,
restano solo parzialmente risolte questioni che il prof. Chiauzza considera
meritevoli di attenzione, fra le quali quelle che riguardano l’insegnamento
della religione cattolica nella scuola pubblica. Come sappiamo, esso è stato
reso facoltativo, riconoscendo pienamente la libertà di coscienza dei singoli, anche
se persistono a suo giudizio degli elementi di ambiguità (ad esempio, nel fatto
che gli insegnanti vengano pagati dallo stato, pur essendo scelti dall’autorità
ecclesiastica, oltre a poter fruire di alcune facilitazioni – se perdenti posto
e in possesso dei necessari requisiti - nel passaggio ad altre discipline). Dal
canto suo peraltro il prof. Chiauzza non condivide la posizione di coloro che
vorrebbero cancellare la cosiddetta “ora di religione”: auspica bensì che essa
venga del tutto ripristinata, a patto di trasformarla in un’ampia occasione di
conoscenza del fenomeno religioso in tutti i suoi aspetti, da cui non possono
prescindere i futuri cittadini, tanto più da quando nella nostra società è
presente un pluralismo di fedi. E’ pur vero che molti insegnanti di religione
già interpretano così il proprio mandato, come giustamente viene sottolineato
da chi nel pubblico ne è personalmente coinvolto: nondimeno, secondo il
relatore, questo non può essere lasciato alla buona volontà dei singoli, ma
dovrebbe essere reso istituzionale.
Al
di là di questo esempio, per quanto significativo, il prof. Chiauzza ritiene
che occorra ancora un forte impegno di tutti, per far coincidere nella pratica
politica e nel discorso pubblico gli aspetti istituzionali della laicità con
quelli culturali. Manca tuttora in Italia una vera legge sulla libertà
religiosa che tuteli ad ogni livello credenti e non credenti, e che prenda atto
in modo complessivo della pluralità
delle esperienze religiose presenti nel nostro paese: se è vero che la
religione cattolica non è più considerata religione di stato, è vero anche che
fra le norme concordatarie stipulate con essa dallo stato italiano, e le intese
con le altre religioni ci sono differenze di non poco conto, e che manca –
nonostante qualche recente apertura – una vera intesa con quella islamica, cosa
resa certo difficile dalle molte associazioni presenti in Italia, ma che appare davvero indispensabile affrontare senza ulteriori indugi.
Pur
tuttavia, alla domanda chiave – se cioè l’Italia sia da considerarsi un paese
laico - la risposta del prof. Chiauzza è un sì, malgrado questi limiti. Noi
dobbiamo infatti tenere presente che la laicità, sicuramente figlia da un lato
del cristianesimo stesso e dell’impulso di conciliazione susseguente alle
spaventose guerre di religione che hanno insanguinato per molto tempo il nostro
continente, ma che è stata d’altro lato un portato forte e fondante del pensiero
liberale, si è declinata in modo diverso nei vari paesi, a seconda delle peculiarità
della loro storia. Così, se ci fermiamo all’Europa (senza dimenticare però che
il principio di laicità è parte integrante anche di costituzioni non europee,
come quella indiana, segnata da una molteplicità di universi culturali, e
quella turca, a partire dalla riforma nazionalista e secolare operata da Kemal Ataturk
fra gli anni 20 e 30 del novecento), vedremo dei modi di rapportarsi di fronte
alle diversità culturali e religiose assai variegati: più apertamente
multiculturale quello operato nel Regno Unito, dove al di là del rispetto delle
leggi considerate fondamentali si permette alle varie comunità di gestire
direttamente alcuni aspetti del tradizionale rapporto sociale e familiare
(perlomeno fino ad ora, perché ci sono attualmente dei ripensamenti su questo
modello), mentre in Francia, a partire dalla legge del 1905 che eleva la
laicità a principio fondamentale della Repubblica, le religioni sono state in
qualche modo equiparate ad associazioni di tipo privatistico, che non possono portare nello spazio pubblico
quegli elementi simbolici considerati
divisivi.
3. La laicità come
atteggiamento culturale antidogmatico:
Al
di là di queste differenze pur rilevanti, la cosa più importante da
evidenziare, secondo il prof. Chiauzza, è che lo spazio della laicità non sta
nell’opposizione fra chi crede e chi non crede, ma fra chi è dogmatico e cristallizzato sulle sue posizioni e chi non
lo è, ed è disposto a compiere un cammino che
si può definire come una sorta di “ascesi spirituale”, intendendo con
ciò un vero e proprio esercizio volto a
capire come le proprie convinzioni e il proprio
punto di vista non rappresentino l’intero universo. Non si tratta di
relativismo, ma di capacità di porsi in relazione; non è questione di affermare
che tutto sia equivalente né di rinunciare alla propria verità o a sostenere i
propri argomenti, ma di imparare a guardarli anche al proprio interno,
vivificandoli, non presumendo a priori l’inferiorità dei punti di vista diversi
dai nostro.
Naturalmente
questo modello di laicità, che rispetto alla tolleranza ha l’ambizione di
“andare oltre”, non è un risultato che si può raggiungere una volta per tutte, bensì
l’indicazione di un percorso che viene messo costantemente alla prova: in
particolare, oggi, dall’impatto con
culture e religioni diverse rispetto alle quali, se non c’è un’efficace
mediazione che chiama in causa in primo luogo la politica, si può determinare una reazione istintiva di
tipo identitario, che spesso si avvale della religione cristiana in modo
strumentale tradendone profondamente il messaggio.
Tuttavia,
non si può neanche ignorare il problema dei “confini” del nostro stesso porci
in relazione, cosa che il prof. Chiauzza certo non sottovaluta e di cui si
ragiona in risposta ad alcuni interventi del pubblico che aprono questo fronte
di discussione. Davanti a pratiche davvero barbariche - si parla di
infibulazione – che non nascono in realtà da precetti religiosi, ma da tradizioni
arcaiche di alcuni paesi africani, parlare di rispetto della diversità
culturale appare, a chi pone questo tema,
decisamente fuori luogo; allo stesso modo, per tornare in casa nostra, viene
fatto notare da un altro interlocutore come sia ormai indispensabile trovare finalmente
il modo di equilibrare il riconoscimento del diritto dei medici ginecologi all’obiezione
di coscienza con il diritto delle donne a poter abortire, nelle condizioni
previste dalla legge, negli ospedali pubblici (in effetti in molti paesi
stranieri sono state individuate delle procedure che secondo il relatore sono
del tutto corrette, in quanto non negano il diritto all’obiezione che è
fondamento della nostra democrazia e civiltà,
ma prevedono per i medici
obiettori altri incarichi). E’ proprio su questi temi, del resto, come su altri
di uguale portata etica su cui il prof. Chiauzza ha fatto a fine incontro un
riferimento necessariamente breve, perchè richiederebbero un approfondimento di
tipo seminariale, che una classe politica e una società civile dovrebbero dimostrare
la loro capacità di mettersi in gioco, sulla base di un’accezione alta, insieme
relazionale e rigorosa, di quella “laicità” che è stata l’oggetto del discorso.
N.B. = come di consueto specifichiamo che la presente
relazione non è una trascrizione letterale della conversazione e come tale può
presentare mancanze o fraintendimenti di cui l’estensore del testo si assume la
responsabilità
Per CircolarMente Enrica Gallo
Pochi giorni dopo l’interessante conferenza del Prof. Chiauzza è scoppiato il caso “Dj Fabo” (opportunamente ripreso come spunto per la “parola del mese”). Non è corretto usare la solita formuletta “caso ha voluto che…” per la semplice ragione che sono molte le situazioni che mettono costantemente a confronto, spesso anche aspro, morali religiose e laicità dello Stato. La relazione del prof. Chiauzza ha fornito un importante quadro storico di riferimento e non pochi esempi in queste senso, purtroppo nel sempre insufficiente tempo a disposizione non è stato possibile affrontare in modo più approfondito la genesi ultima del difficile rapporto fra religione/i e società/Stato. Provo a sintetizzare, nello spazio consentito ad un commento, la mia personale opinione, partendo dalla considerazione che la difesa della laicità, per me valore fondamentale e irrinunciabile, non può basarsi solo sul fissare i confini entro i quali le singole confessioni religiose possono muoversi senza prevaricare sulla sfera laica condivisa. E’ questa una operazione indispensabile ma da sola non sufficientemente motivata. Credo che la laicità, costantemente minacciata e accerchiata, richieda un supplemento di coraggio nell’evidenziare, fermo restando il massimo rispetto per altrui diverse opinioni, il carattere “relativo” delle morali religiose. Credo infatti che un conto sia i il “credere”, o il non credere, nella esistenza del “divino”, del “sacro”, di “Dio” – aspetto irrisolto ed irrisolvibile nei termini del confronto razionale – altro quello di attribuire a questa “fede” la genesi di una specifica morale. Ritengo che la storia dell’evoluzione culturale umana testimoni in modo chiaro che le “morali religiose”, tutte, sono frutto esclusivo del pensiero e dell’agire umano, fra l’altro costantemente teso al loro continuo aggiornamento e adattamento. Aspetto solo in parte sintetizzabile nella “secolarizzazione”. Ritengo quindi che attribuire alla volontà divina il sorgere di precetti e convinzioni morali sia una “forzatura” non sostenibile là dove la storia ben altro dimostra. Cito, fra i tanti possibili, solo l’esempio a noi più vicino: quello della morale cristiana. Mi pare difficile negare che essa sia il risultato storico di “azioni umane” intervenute dopo, spesso molto dopo, l’insegnamento di Gesù. Se sta nell’ambito della fede credere nella sua natura divina, sta però nelle vicende umane il recupero delle sue autentiche parole e da queste la “costruzione” – storicamente tormentata e contrastata – di una “morale”. Penso quindi che questo supplemento di coraggio, non meno attivo che rispettoso, debba essere la base per una piena laicità, quella che riconosce ai credenti di ogni fede e religione la libertà di seguire proprie convinzioni morali – là dove non entri comunque in contrasto con i valori universali condivisi del rispetto della libertà e della dignità individuale (tema enorme che qui ovviamente non affronto) – ma non quella di imporla a chi “crede diversamente o non crede” perché non è condivisibile la presunzione di una sua genesi divina. Ma sono cose che Spinoza, fervido credente, già sosteneva più di trecento anni fa.
RispondiEliminaLa Laicità o meglio la RELIGIONE laica
RispondiEliminaPremessa:
“tutte le grandi religioni conoscono la regola d’oro “…. ( che )” consiste in quella fondamentale direzione dell’energia interiore che, legandoci a un senso più grande di noi, ci conduce a ritenere il nostro IO non come la cosa più importante che c’è, e a vivere di conseguenza nel rispetto e nella solidarietà reciproca.” “… Questo è il vero significato, in senso fisico e non metafisico, del sovra-naturale : non cioè sovrannaturale, termine che rimanda a inesistenti scenari metafisici; ma sovra-naturale, termine che dice il superamento della logica dell’interesse per entrare in quello dell’ inter-esse, dell’essere insieme, della relazione armoniosa. In questo senso la religione è sovra-naturale, perché immette una logica sconosciuta al gene egoista e alla logica del potere” da “Io e Dio” di Vito Mancuso pagg.65-66.
Data questa premessa, anche il concetto di laicità è concepibile come un concetto religioso, poiché i suoi valori fondanti si riferiscono al superamento dell’egoismo per indirizzarsi al bene comune.
E qui siamo al vero nocciolo della questione: la divergenza tra religioni consiste in realtà nei processi cognitivi in atto.
Ogni religione fa riferimento ad un testo sacro, così come la laicità fa riferimento ad una Carta Costituzionale, il suo testo sacro.
Il pericolo pertanto consiste nell’utilizzazione cognitiva dei testi sacri, cioè se un testo sacro venisse utilizzato da un pensiero dogmatico che, per sua natura, ha in sé il germe dell’intolleranza, perderebbe di vista l’ inter-esse comune.
Il dogmatismo è il pericolo dominante, non il testo sacro, non la religiosità.
Credo di aver intuito, e di condividere, il senso del richiamo antidogmatico di Tissia ma avanzando qualche distinguo. Qui ne affronto due, preceduti da una premessa. Apprezzo sinceramente lo sforzo intellettuale di credenti quali Vito Mancuso di recuperare il significato ecumenico e di “amore” del sentire religioso, e tuttavia ritengo che questa visione non faccia i conti con la reale comparsa del sacro, del divino, e con la sua evoluzione storica nel sistema delle religioni. In particolare in quelle, per l’appunto definite le “religioni del libro”, che hanno consolidato, fissato, la “parola di Dio” in testi sacri. Un passaggio decisivo per i grandi monoteismi che, una volta che essa è stata “detta per sempre”, ha cancellato la presenza costante della parola di Dio nella vita degli uomini Sta proprio in questo suo essere fissata ad aeternum il presupposto per la nascita dei dogmi. Del tutto sconosciuti alle religioni che mantengono (mantenevano) un costante interrogare la divinità. Resta quindi a mio avviso difficile, ed è questo il primo distinguo, separare il dogmatismo, come mi sembra faccia Tissia, dal “libro”, dal testo sacro, dalla religiosità (o meglio ancora dalla religione tout court) quando ha assunto la veste della “religione del libro”. Non si capirebbe infatti la matrice del “dogmatismo” che non è una sorta di virus “esterno” che “infetta” la parola di Dio, ma la inevitabile conseguenza dell’averla fissata in scritti. Certo questi consentono, con molta fatica e forti contrasti, “l’interpretazione”, ma anch’essa di fatto, per acquisire validità, viene assunta a “nuovo” dogma. Dice poi Tissia che la laicità, non diversamente dalle religioni del libro, si fonda a sua volta su testi sacri, “le carte costituzionali”, e che, così facendo anch’essa incorre nel dogmatismo. Non c’è spazio qui per chiarire il complesso rapporto storico fra laicità e Costituzioni, comunque da sempre ispirate da più valori, ma credo vada riconosciuto che essa non si è mai ritenuta né finalizzata al, né compiutamente realizzata con il, solo recepimento nelle Carte. Se è vero comunque che può valere anche per essa la tendenza - ereditata dalle religioni monoteiste? - al mito della “parola scritta” (la quale da sola, ed è questa l’esperienza spesso drammatica di tutti i giorni, non basta certo a garantire reali e concrete conquiste laiche) la migliore risposta al richiamo di Tissia è già stata fornita dal Prof. Chiauzza che, nella sua relazione, ha opportunamente evidenziato la differenza fra laicità e laicismo, ossia fra la costruzione, basata su ascolto e convincimento e non solo su divieti e opposizioni, di una convivenza sociale non condizionata da morali religiose e la pura e semplice contrapposizione alle ingerenze religiose negli spazi pubblici, questa sì, per quanto opportuna là e quando necessario, a rischio di dogmatismo
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