Nei prossimi giorni si capirà se il richiamo del
Presidente Mattarella ad accelerare l’approvazione di una nuova legge
elettorale avrà sortito qualche effetto. Le premesse non sono però
incoraggianti, e non solo per la possibilità di arrivare ad un qualche risultato
concreto entro tempi ragionevoli - pesa il
gioco dei veti contrapposti fra proporzionalisti e maggioritari e fra chi vuole
il premio alla lista piuttosto che alla coalizione, ovviamente tutti
determinati da partitici calcoli di tornaconto a breve – ma soprattutto per la
qualità che presumibilmente avrà la nuova legge, quasi sicuramente frutto
dell’ennesimo compromesso al ribasso.
Eppure la posta in gioco è molto alta e va ben oltre la
definizione di uno strumento per arrivare in un qualche modo a nuove elezioni. Nel
termine “post-democrazia”, ormai entrato a pieno titolo nel vocabolario
politico, confluiscono aspetti molto preoccupanti sulla tenuta della democrazia
rappresentativa, perlomeno per come è stata sin qui intesa. Disaffezione elettorale,
declino dei partiti tradizionali, populismo dilagante, esecutivi organicamente
non all’altezza dei problemi da affrontare, parlamenti improduttivi e
autoreferenziali, espressioni di voto sempre più basate sulla “paura” e su
motivazioni punitive verso l’establishment, maggioranze elettorali fondate
quasi esclusivamente sul “contro”, sono solo alcune delle forme assunte dal
progressivo decadimento della democrazia.
Se è evidente che una inversione di tendenza può
innescarsi in modo efficace solo intervenendo sulle ragioni economiche, sociali
e politiche che stanno alla base di questo declino, un contributo significativo
potrebbe comunque venire proprio dalla ottimizzazione degli strumenti e dei
modi con i quali la democrazia rappresentativa si esplica.
In questo contesto sarebbe quindi non solo auspicabile
ma inderogabile che, restando al nostro paese, una nuova legge elettorale
guardi non solo e non tanto a stabilire le regole del gioco fra partiti. Essa
può e deve invece rappresentare una occasione importante per avviare una reale "svolta", se inserita nel quadro complessivo della
“post-democrazia”, se strutturata per “tentare” di intervenire su alcuni suoi
aspetti problematici,, se coniugata con mirate modifiche costituzionali abbandonando quindi le infruttuose, e non a caso sempre bocciate nei referendum confermativi, stravolgenti riforme organiche
Su La Repubblica del 28 Aprile è apparso un articolo di
Michele Ainis che si muove esattamente in questa direzione; riteniamo
interessante recuperarlo qui nel nostro blog per proporlo a chi lo avesse
perso.
Ci sembra che, al di là della condivisione o meno delle
sue proposte specifiche, sia un esempio positivo, per quanto ovviamente
parziale e limitato e per quanto giocato su un tono di apparente leggerezza, di
come la questione dovrebbe essere affrontata, e che rappresenti, nel fin qui
avvilente confronto/scontro partitico, una dimostrazione concreta del fatto che
esistono altri, migliori, modi di scrivere nuove regole
Come salvare il
Parlamento
Articolo di MICHELE AINIS – La Repubblica del 28 Aprile
2017
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I Partiti sono dipartiti, amen. Ultimi
certificati di morte: l'elezione di Trump, nonostante l'ostilità
dell'establishment repubblicano; e su quest'altra sponda dell'oceano Macron
(che ha sbaragliato i partiti storici francesi con una start up nata un anno
fa) o i 5 Stelle (il non partito primo in tutti i sondaggi italiani). Benvenuti
al funerale, quindi. E dopo? Dopo rischiamo d'assistere alle esequie dei
Parlamenti. Giacché sta di fatto che la fortuna delle assemblee legislative
coincide con quella dei partiti politici, il cui battesimo fu celebrato per
l'appunto in Inghilterra, con il Reform Act del 1832. In origine, partiti di
notabili; poi partiti di massa, con l'introduzione del suffragio universale;
infine partiti personali, dove il faccione del leader tracima in tv. Ma in ogni
caso l'astro dei partiti illumina uno specifico modello di democrazia, quella
rappresentativa; e infatti la loro disgrazia adesso si riflette sulla crisi che
ovunque colpisce i Parlamenti. Tanto che negli Usa il politologo Benjamin
Barber suggeriva di rimpiazzarli con un congresso di sindaci, più o meno come
proponeva Renzi nella prima bozza del nuovo Senato. Tuttavia non è detto che si
debba chiudere baracca. La democrazia parlamentare può ancora navigare fra i
marosi del terzo millennio. Ma a patto d'imbastardirsi, di contaminarsi con
elementi di democrazia diretta, d'accogliere in grembo un po' di fantasia (o
d'eresia) costituzionale. Ecco cinque suggestioni. Primo: più forza al referendum. La nostra Carta menziona solo quello
abrogativo, oltretutto tarpandogli le ali con il quorum di validità. E allora
fuori il quorum, dentro il referendum propositivo, già previsto dalla
Costituzione di Weimar del 1919. Dentro altresì l'iniziativa legislativa
popolare vincolante, le consultazioni obbligatorie sulle grandi opere pubbliche
(il modello è la legge Barnier, vigente in Francia dal 1995), varie forme di
democrazia digitale, interpellando i cittadini attraverso il web. Insomma,
sulle scelte pubbliche il dominio del Parlamento deve trasformarsi in
condominio. Secondo: il peso del non
voto. È pari a zero, anche se ormai un elettore su due diserta le urne.
Eppure nessuna assemblea legislativa può deliberare quando manchi il numero
legale, quando cioè sia assente la metà più uno dei suoi membri. Eppure un
Parlamento non votato è un Parlamento delegittimato. Rimedi: va a votare il 50%
degli elettori? Dimezzo gli eletti, e al contempo ne riduco i poteri, per
esempio vietandogli la revisione costituzionale. Dopotutto nella repubblica di
Weimar scattava un seggio ogni 60 mila voti, sicché i parlamentari erano in
numero variabile. Idem in Austria nel 1970. A ripetere quell'esperienza adesso,
otterremmo quantomeno un risparmio di poltrone. Terzo: due mandati e basta. Regola che in Italia vale per i sindaci
o per i presidenti di regione, sulla scia del divieto introdotto dagli
americani nel 1951, dopo la quarta elezione d'un uomo che pure si chiamava
Roosevelt. La regola, insomma, colpisce chi riveste ruoli di governo, non i
parlamentari. Giusto? No, sbagliato. Anche perché altrimenti la politica
resterà il mestiere di chi non ha mestiere, come denunziò Max Weber ( La
politica come professione, 1919). Quarto:
il recall. Ossia la revoca degli eletti immeritevoli, attraverso un
referendum personale indetto in corso di mandato. Funziona così in Svizzera dal
1846, negli Stati Uniti dal 1903, nonché in varie altre contrade. Ne avremmo
urgenza anche in Italia, dove puoi assentarti dai lavori parlamentari per un
anno senza rischiare sanzioni. E dove i cambi di casacca, dall'inizio della
legislatura, toccano quota 469, un record. Ma quando c'è potere, lì dev'esserci
responsabilità. Alle nostre latitudini c'è viceversa impunità. Quinto: il sorteggio. Sì, l'estrazione
a sorte d'una pattuglia di parlamentari, per formare un cuscinetto tra
maggioranza e opposizione. Come mostra uno studio condotto utilizzando modelli
matematici e simulazioni al computer (Democrazia a sorte, 2012), ne
guadagnerebbe la credibilità del Parlamento, oltre che il suo tasso d'efficienza.
D'altronde la sorte – diceva Montesquieu - è al servizio del principio
d'eguaglianza, lasciando a ciascuno "una ragionevole speranza di servire
la Patria". Dice: ma così rischieremmo d'inviare in Parlamento gli
incapaci. E perché, ora sono tutti capaci?
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