venerdì 1 dicembre 2017

La parola del mese - Dicembre 2017


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni





Dicembre 2017



La parola scelta per questo mese è da sempre presente nella nostra lingua ma è da sempre molto poco utilizzata soffocata com’è dal suo corrispettivo al maschile. E’ stata recentemente rilanciata, con evidente intento culturalmente e politicamente provocatorio, dalla scrittrice Michela Murgia con un articolo, qui sotto riportato, che ha da subito sollevato reazioni in alcuni casi decisamente dure e risentite. Sia da destra con motivazioni facilmente individuabili ma anche da sinistra, là dove la Murgia è stata criticata per aver “invaso” con un punto di vista “femminista” un “territorio” convenzionalmente di pertinenza della “cultura politica classica”. Va però detto, al di là delle opinioni che ognuno di noi può legittimamente avere al riguardo, che la Murgia ha recuperato, adattandola al contesto attuale, un termine da sempre oggetto di considerazioni. Lo testimonia il successivo articolo, qui riprodotto, recuperato dalla rivista on-line DoppioZero sulla quale era apparso già nel 2011. La parola del mese è:


MATRIA

Matria  =  (s.f. av. 1595; derivato dal latino  mater “madre) terra natia, patria


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Articolo su La Repubblica.it del 15 Novembre 2017  

di Michela Murgia (scrittrice, giornalista, editorialista)


"Il concetto di patria ha fatto solo danni. Cominciamo a parlare di Matria"


Per sconfiggere i nazionalismi serve una nuova categoria, che sconfigga alla radice il maschilismo strettamente legato al concetto di patriottismo. La sfida della scrittrice


Non c’è un’accezione amabile della patria e se c’è è forse proprio quella dovremmo temere di più. La terra dei padri, questo significa patria, è un concetto letterario le cui ambiguità è utile tenere ancora presenti, se non altro perché dimenticarle ci ha dato lezioni amare per tutto il ’900. La prima ambiguità è nelle parole stesse: la patria non è una terra, ma una percezione di appartenenza, un concetto astratto, tutto culturale, che si impara dentro alle relazioni sociali in cui si nasce e dentro alle quali, riconosciuti, ci si riconosce. In un mondo dove i rapporti di confine tra le terre sono cambiati mille volte e le culture si sono altrettanto intrecciate, dire “la mia patria” riferendosi a una terra significa creare in sé un falso logico, oltreché geologico. La seconda ambiguità è in quel plurale monogenitoriale, quel categorico “padri” che solleva simbolicamente dalle loro tombe un’infinita schiera di vecchi maschi dal cipiglio accusatorio rivolto alla generazione presente. Le madri nella parola patria non ci sono, benché per definizione siano sempre certe, né generano appartenenza, nonostante ce ne sia una sola per ognuno di noi. Non possono esserci perché nell’idea del patriottismo è innestata la convinzione profonda che la donna sia natura e l’uomo cultura, cioè che la madre generi perché è il suo destino e l’uomo riconosca la sua generazione per volontà e autorità, riordinando col suo nome il caso biologico di cui la donna è portatrice. È in quanto estensione del maschile genitoriale che la patria è divenuta fonte del diritto di identità, perché è il riconoscimento di paternità che per secoli ci ha resi figli legittimi, né è un caso che le rivoluzioni culturali post psicanalisi si definissero anche come “uccisioni dei padri”. Gli apolidi dentro questa cornice si portano inevitabilmente addosso l’aura del figlio bastardo, gli espatriati per volontà sono sempre traditori della patria e gli emigrati economici hanno il dovere morale di coltivare e manifestare a chi è rimasto a casa un desiderio di ritorno, pena il passare per rinnegati. E se per una volta - solo una, giusto per vedere l’effetto che fa - provassimo a uscire dalla linea di significati creata dal concetto di patria? Averlo caro del resto non ha alcuna attualità; appartiene a un mondo dove il diritto di sopraffazione e la disuguaglianza sociale ed economica erano voci non solo agenti, ma indiscutibilmente cogenti: per metterle in crisi ci sono volute rivoluzioni di pensiero prima ancora che di piazza, e quelle rivoluzioni ci hanno lasciato in eredità il dovere di fare un atto creativo nei confronti di tutte le categorie che non bastano più a raccontare la complessità in cui siamo. E se proprio non è possibile uscire dalla percezione genitoriale dell’appartenenza collettiva - padre, ma anche l’ossimoro madre patria - potrebbe essere interessante cominciare a parlare di Matria. La prima utilità di questo cambio di senso sarebbe immediata: ci costringerebbe a ripensare la cittadinanza così come la conosciamo. Legarla alla patria (e quindi alla paternità) ha infatti confermato solo le appartenenze che storicamente vengono dai padri: consanguineità e patrimonio, cioè ius sanguinis e ius soli, entrambe matrici squalificanti e divisive dello stare insieme. Lo ius sanguinis è il principio di tutti i patriarcati e di conseguenza di tutti i nazionalismi, perché se il sangue genitoriale definisce la tua appartenenza allora non importa più chi sei, ma solo di chi sei. Il singolo non ha valore se non come estensione dell’identità collettiva. Chi difende lo ius sanguinis pretende che tutte le relazioni individuali siano subordinate alla relazione collettiva originaria, quella dell’essere sangue del sangue di un cittadino italiano. Per questo non importa da quanti anni sei nato qui, se ci lavori, se ci sei cresciuto o ci sei andato a scuola: senza quell’atto d’origine non sei nella nostra genealogia sociale, sei nessuno. Con lo ius soli non va molto meglio e per questo la battaglia pur necessaria per ottenerlo anche in forma blanda è una battaglia di retrovia storica, già superata dalle esigenze del presente. Il diritto del suolo ha fondato infatti gli imperialismi e le colonalizzazioni, perché se è la terra che possiedi a darti l’identità, è legittimo e indispensabile accaparrarsene quanta più possibile, non importa come, e difendere quella che hai con ogni mezzo. Perché la terra ti definisca come proprio è infatti indispensabile che tu a tua volta la definisca come tua in modo non sindacabile, altrimenti chiunque ti porti via la terra ti porterebbe via anche l’identità. Paradossalmente si sono fatte più guerre per lo ius soli che per lo ius sanguinis, perché la terra, a differenza del sangue ricevuto una volta per tutte, è sempre a rischio di sottrazione. Va da sé che fondare cittadinanza su questi principi - entrambi strutturali al concetto di patria - porta e ha portato già a tragedie diverse, tutte non augurabili. Pensarsi come Matria consente di sradicare questa prospettiva, perché la madre nell’esperienza di ognuno di noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima amata. Simbolicamente intesa, la maternità è un’esperienza relazionale elementare, perché nutre e si prende cura. Prima di suscitare timore, suscita amore. Prima di evocare autorità, evoca gratitudine. Nella prospettiva dell’appartenenza, il materno è uno spazio dove a legittimare l’esistenza e l’identità è quello che ti offrono, che è la matrice e non la conseguenza di ciò che poi offrirai tu. Non è strano che le persone che arrivano qui scappando dal proprio paese a volte possano dire: «Mi sento a casa». Non è un esproprio, ma la prova che stanno ridefinendo la loro appartenenza dentro alle relazioni anche istituzionali che hanno incontrato. Lo slittamento semantico cambia la prospettiva, perché tra patria e matria c’è la stessa differenza che esiste tra una somma e una moltiplicazione: se la patria è il luogo che ti riconosce, la matria è quello in cui tu impari a riconoscere chiunque. Sarebbe un grosso errore pensare che solo uno dei due sia il luogo della politica

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Articolo apparso sulla rivista on-line Doppio Zero nel 2011

di Matteo Di Gesù

(editorialista de «la Repubblica». Ricercatore di Letteratura italiana, presso l'università di Palermo)



Oggi, dopo le tragedie del Novecento, “patria” è forse una parola, se non inservibile, irrecuperabile. Patria è ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione femmina la cui inviolabilità è garantita dagli italiani maschi), è il precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e classista. Eppure queste parole di Primo Levi, inaspettatamente, sembrano dirci che è possibile ancora restituirle un senso. Stefano Jossa, (critico letterario e accademico italiano, autore di diversi saggi di cultura letteraria italiana) a un recente convegno dedicato a letteratura italiana e identità nazionale (Marzo 2011. Una d’arme di lingua d’altare/di memorie di sangue di cor) insisteva ragionevolmente sull’urgenza di dare pieno corso al lemma “matria”, quale possibile alternativa all’ormai inattingibile “patria”.  Probabilmente è così. Altrimenti si tratterebbe di risalire a una nozione che, proprio a cavallo del processo di unificazione nazionale italiana, preesiste al becero nazionalismo moderno. Recuperare quell’idea di patriottismo che Maurizio Viroli (studioso di filosofia della politica e di storia del pensiero politico, professore emerito di Teoria politica all'Università di Princeton e all'Università della Svizzera Italiana a Lugano) contrappone appunto alle degenerazioni nazionalistiche otto-novecentesche. Se è fondata questa tesi, anche quei classici che ci hanno surrettiziamente fatto leggere come peana del nostro nazionalismo, si rivelano piuttosto testimonianze postreme di un’idea di patria comunitarista. Non quali preconizzazioni delle sorti fauste di una nazione che si fa stato ed entra nella modernità, dunque, ma piuttosto come una delle ultime attestazioni di quella utopia di cittadinanza aperta e inclusiva che il nazionalismo moderno spazzerà via. Magari potremmo dipartire da là, per provare a restituire significati spendibili, oggi, alla parola “patria”: rileggere, per esempio, Marzo 1821 di Manzoni e soffermarci su “gente”, “fratelli”, “compagni” (non vi è alcuna occorrenza di “patria”, “nazione” o di parole derivate dalle loro radici, nell’ode. Se non in quell’epigrafe che affranca programmaticamente il testo da qualsivoglia nazionalismo chiuso e retrivo, evocando le sorti di ogni popolo oppresso).Se la modernità comincia con il Rimbaud che scriveva giustamente “j’ai horreur de la patrie”, insomma, gettiamocela finalmente alle spalle. E ricominciamo da Leopardi, che proprio in quel marzo 1821, a proposito di patrie e cittadinanze linguistiche [quasi preconizzando una famosa sentenza di Chomsky (Avram Noam Chomsky è un linguista, filosofo, storico, teorico della comunicazione statunitens)  una lingua è un dialetto con un passaporto e un esercito”]scriveva: “conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si può derivare dalle nostre stesse fonti) l’arruolare al nostro esercito nuove truppe, l’accrescere la nostra città di nuove cittadinanze, in luogo che pregiudichi per natura sua, e quando si faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è anzi l’unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori camminano, e avanzano, o certo si muovono; non vogliono più, o sono impedite di più camminare né progredire, né muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere (inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai né avranno gli uomini e le cose umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le costringe in ogni modo la natura. Conchiudo che impedire alle lingue la giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma tutt’uno col guidarle per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie”.

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