La parola del mese
A
turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di
aprirsi verso nuove riflessioni
Dicembre
2017
La parola scelta per questo mese è da sempre
presente nella nostra lingua ma è da sempre molto poco utilizzata soffocata
com’è dal suo corrispettivo al maschile. E’ stata recentemente rilanciata, con
evidente intento culturalmente e politicamente provocatorio, dalla scrittrice
Michela Murgia con un articolo, qui sotto riportato, che ha da subito sollevato
reazioni in alcuni casi decisamente dure e risentite. Sia da destra con
motivazioni facilmente individuabili ma anche da sinistra, là dove la Murgia è
stata criticata per aver “invaso” con un punto di vista “femminista” un “territorio”
convenzionalmente di pertinenza della “cultura politica classica”. Va però
detto, al di là delle opinioni che ognuno di noi può legittimamente avere al
riguardo, che la Murgia ha recuperato, adattandola al contesto attuale, un
termine da sempre oggetto di considerazioni. Lo testimonia il successivo
articolo, qui riprodotto, recuperato dalla rivista on-line DoppioZero sulla
quale era apparso già nel 2011. La parola del mese è:
MATRIA
Matria = (s.f. av. 1595; derivato dal latino mater “madre) terra natia, patria
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Articolo su La
Repubblica.it del 15 Novembre 2017
di Michela Murgia (scrittrice, giornalista, editorialista)
"Il concetto di patria ha fatto solo danni. Cominciamo a parlare di
Matria"
Per sconfiggere i
nazionalismi serve una nuova categoria, che sconfigga alla radice il
maschilismo strettamente legato al concetto di patriottismo. La sfida della
scrittrice
Non c’è un’accezione
amabile della patria e se c’è è forse proprio quella dovremmo temere di più. La
terra dei padri, questo significa patria, è un concetto letterario le cui
ambiguità è utile tenere ancora presenti, se non altro perché dimenticarle ci
ha dato lezioni amare per tutto il ’900. La prima ambiguità è nelle parole
stesse: la patria non è una terra, ma una percezione di appartenenza, un
concetto astratto, tutto culturale, che si impara dentro alle relazioni sociali
in cui si nasce e dentro alle quali, riconosciuti, ci si riconosce. In un mondo
dove i rapporti di confine tra le terre sono cambiati mille volte e le culture
si sono altrettanto intrecciate, dire “la mia patria” riferendosi a una terra
significa creare in sé un falso logico, oltreché geologico. La seconda
ambiguità è in quel plurale monogenitoriale, quel categorico “padri” che
solleva simbolicamente dalle loro tombe un’infinita schiera di vecchi maschi
dal cipiglio accusatorio rivolto alla generazione presente. Le madri nella
parola patria non ci sono, benché per definizione siano sempre certe, né
generano appartenenza, nonostante ce ne sia una sola per ognuno di noi. Non
possono esserci perché nell’idea del patriottismo è innestata la convinzione
profonda che la donna sia natura e l’uomo cultura, cioè che la madre generi
perché è il suo destino e l’uomo riconosca la sua generazione per volontà e
autorità, riordinando col suo nome il caso biologico di cui la donna è
portatrice. È in quanto estensione del maschile genitoriale che la patria è
divenuta fonte del diritto di identità, perché è il riconoscimento di paternità
che per secoli ci ha resi figli legittimi, né è un caso che le rivoluzioni
culturali post psicanalisi si definissero anche come “uccisioni dei padri”. Gli
apolidi dentro questa cornice si portano inevitabilmente addosso l’aura del
figlio bastardo, gli espatriati per volontà sono sempre traditori della patria
e gli emigrati economici hanno il dovere morale di coltivare e manifestare a
chi è rimasto a casa un desiderio di ritorno, pena il passare per rinnegati. E
se per una volta - solo una, giusto per vedere l’effetto che fa - provassimo a
uscire dalla linea di significati creata dal concetto di patria? Averlo caro
del resto non ha alcuna attualità; appartiene a un mondo dove il diritto di
sopraffazione e la disuguaglianza sociale ed economica erano voci non solo
agenti, ma indiscutibilmente cogenti: per metterle in crisi ci sono volute
rivoluzioni di pensiero prima ancora che di piazza, e quelle rivoluzioni ci
hanno lasciato in eredità il dovere di fare un atto creativo nei confronti di
tutte le categorie che non bastano più a raccontare la complessità in cui
siamo. E se proprio non è possibile uscire dalla percezione genitoriale
dell’appartenenza collettiva - padre, ma anche l’ossimoro madre patria -
potrebbe essere interessante cominciare a parlare di Matria. La prima utilità
di questo cambio di senso sarebbe immediata: ci costringerebbe a ripensare la
cittadinanza così come la conosciamo. Legarla alla patria (e quindi alla
paternità) ha infatti confermato solo le appartenenze che storicamente vengono
dai padri: consanguineità e patrimonio, cioè ius sanguinis e ius soli, entrambe
matrici squalificanti e divisive dello stare insieme. Lo ius sanguinis è il
principio di tutti i patriarcati e di conseguenza di tutti i nazionalismi,
perché se il sangue genitoriale definisce la tua appartenenza allora non
importa più chi sei, ma solo di chi sei. Il singolo non ha valore se non come
estensione dell’identità collettiva. Chi difende lo ius sanguinis pretende che
tutte le relazioni individuali siano subordinate alla relazione collettiva
originaria, quella dell’essere sangue del sangue di un cittadino italiano. Per
questo non importa da quanti anni sei nato qui, se ci lavori, se ci sei
cresciuto o ci sei andato a scuola: senza quell’atto d’origine non sei nella
nostra genealogia sociale, sei nessuno. Con lo ius soli non va molto meglio e
per questo la battaglia pur necessaria per ottenerlo anche in forma blanda è
una battaglia di retrovia storica, già superata dalle esigenze del presente. Il
diritto del suolo ha fondato infatti gli imperialismi e le colonalizzazioni,
perché se è la terra che possiedi a darti l’identità, è legittimo e
indispensabile accaparrarsene quanta più possibile, non importa come, e
difendere quella che hai con ogni mezzo. Perché la terra ti definisca come
proprio è infatti indispensabile che tu a tua volta la definisca come tua in
modo non sindacabile, altrimenti chiunque ti porti via la terra ti porterebbe
via anche l’identità. Paradossalmente si sono fatte più guerre per lo ius soli
che per lo ius sanguinis, perché la terra, a differenza del sangue ricevuto una
volta per tutte, è sempre a rischio di sottrazione. Va da sé che fondare
cittadinanza su questi principi - entrambi strutturali al concetto di patria -
porta e ha portato già a tragedie diverse, tutte non augurabili. Pensarsi come Matria consente di sradicare
questa prospettiva, perché la madre nell’esperienza di ognuno di
noi non è un soggetto imperativo, ma è la prima cosa vivente scorta, la prima
amata. Simbolicamente intesa, la maternità è un’esperienza relazionale
elementare, perché nutre e si prende cura. Prima di suscitare timore, suscita
amore. Prima di evocare autorità, evoca gratitudine. Nella prospettiva
dell’appartenenza, il materno è uno spazio dove a legittimare l’esistenza e
l’identità è quello che ti offrono, che è la matrice e non la conseguenza di
ciò che poi offrirai tu. Non è strano che le persone che arrivano qui scappando
dal proprio paese a volte possano dire: «Mi sento a casa». Non è un esproprio,
ma la prova che stanno ridefinendo la loro appartenenza dentro alle relazioni
anche istituzionali che hanno incontrato. Lo slittamento semantico cambia la
prospettiva, perché tra patria e matria c’è la stessa differenza che esiste tra
una somma e una moltiplicazione: se la patria è il luogo che ti riconosce, la
matria è quello in cui tu impari a riconoscere chiunque. Sarebbe un grosso
errore pensare che solo uno dei due sia il luogo della politica
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Articolo apparso sulla rivista on-line Doppio Zero nel 2011
di Matteo Di Gesù
(editorialista
de «la Repubblica». Ricercatore di Letteratura italiana, presso l'università di
Palermo)
Oggi, dopo le tragedie del Novecento,
“patria” è forse una parola, se non inservibile, irrecuperabile. Patria è
ancora la nazione maschia (o meglio – in un rovesciamento semantico – la nazione
femmina la cui inviolabilità è garantita dagli italiani maschi), è il
precipitato della peggiore retorica bellicista ed escludente, respingente e
classista. Eppure queste parole di Primo Levi,
inaspettatamente, sembrano dirci che è possibile ancora restituirle un senso. Stefano Jossa, (critico letterario e accademico italiano, autore di
diversi saggi di cultura letteraria italiana) a un
recente convegno dedicato a letteratura italiana e identità nazionale (Marzo
2011. Una d’arme di lingua d’altare/di memorie di sangue di cor) insisteva
ragionevolmente sull’urgenza di dare pieno corso al lemma “matria”, quale
possibile alternativa all’ormai inattingibile “patria”. Probabilmente è così. Altrimenti si
tratterebbe di risalire a una nozione che, proprio a cavallo del processo di
unificazione nazionale italiana, preesiste al becero nazionalismo moderno.
Recuperare quell’idea di patriottismo che Maurizio
Viroli (studioso di filosofia della politica e di storia del pensiero
politico, professore emerito di Teoria politica all'Università di Princeton e
all'Università della Svizzera Italiana a Lugano) contrappone appunto alle
degenerazioni nazionalistiche otto-novecentesche. Se è fondata questa tesi,
anche quei classici che ci hanno surrettiziamente fatto leggere come peana del
nostro nazionalismo, si rivelano piuttosto testimonianze postreme di un’idea di
patria comunitarista. Non quali preconizzazioni delle sorti fauste di una
nazione che si fa stato ed entra nella modernità, dunque, ma piuttosto come una
delle ultime attestazioni di quella utopia di cittadinanza aperta e inclusiva
che il nazionalismo moderno spazzerà via. Magari potremmo dipartire da là, per
provare a restituire significati spendibili, oggi, alla parola “patria”:
rileggere, per esempio, Marzo 1821 di
Manzoni e soffermarci su “gente”, “fratelli”, “compagni” (non vi è alcuna
occorrenza di “patria”, “nazione” o di parole derivate dalle loro radici,
nell’ode. Se non in quell’epigrafe che affranca programmaticamente il testo da
qualsivoglia nazionalismo chiuso e retrivo, evocando le sorti di ogni popolo
oppresso).Se la modernità comincia con il Rimbaud
che scriveva giustamente “j’ai horreur de la patrie”, insomma,
gettiamocela finalmente alle spalle. E ricominciamo da Leopardi, che proprio in quel marzo 1821, a proposito di patrie e
cittadinanze linguistiche [quasi preconizzando una famosa sentenza di Chomsky (Avram Noam Chomsky è un linguista, filosofo, storico, teorico
della comunicazione statunitens) “una lingua è un dialetto con un passaporto e un esercito”]scriveva: “conchiudo che la
giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si può derivare dalle nostre
stesse fonti) l’arruolare al nostro esercito nuove truppe, l’accrescere la
nostra città di nuove cittadinanze, in luogo che pregiudichi per natura sua, e
quando si faccia nei debiti modi, alla purità della lingua, è anzi l’unico
mezzo sufficiente di difesa, di far testa, di resistere alla irruzione della
barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente a tutte le lingue che mentre il
mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi stessi parlatori camminano, e
avanzano, o certo si muovono; non vogliono più, o sono impedite di più
camminare né progredire, né muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son
forzate a volere (inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai né avranno
gli uomini e le cose umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui
seguito le costringe in ogni modo la natura. Conchiudo che impedire alle lingue
la giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma tutt’uno col guidarle
per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla barbarie”.
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