La verità in dubbio
Cosa
resta della verità nell'età delle post-verità?
Lo abbiamo chiesto a
quattro filosofi che di verità si occupano = articolo di Fabio Gironi, filosofo
ricercatore all’University College di Dublino, apparso sulla rivista on-line “La
Tascabile”
Uno dei fenomeni sociali che
caratterizza maggiormente la scena pubblica e politica sembra essere il
disinteresse per l’opinione degli esperti, e il proliferare di “teorie
alternative”. In gergo filosofico, questo fenomeno si può definire deflazione
dell’autorità epistemica. Questa è una forma di autorità conferita non
da status sociale, lignaggio nobiliare, o investitura divina, ma
dall’esperienza in un determinato campo del sapere. L’autorevolezza del
biologo, dello storico, ma anche dell’ingegnere meccanico e dell’agricoltore,
dipende dal livello di studio e preparazione teorica, dall’esperienza pratica
diretta, e dall’essere parte di una comunità epistemica (un gruppo di persone
che condividono determinati obiettivi, e dediti allo stesso tipo di attività o
ricerca) capace di valutare le proprie conoscenze. Quello che movimenti
differenti come l’anti-vaccinismo, il negazionismo del cambiamento climatico
antropogenico, o proposte di “medicina alternativa” hanno in comune è un tratto
fondamentale: lo scetticismo sistematico verso gli esperti, visti come collusi
con “poteri occulti”, che nei casi più eclatanti sfocia in un aperto
anti-intellettualismo. Questo fenomeno riflette una visione del mondo diviso in
una classe di “studiosi” sedicenti esperti, e una di gente dotata di senso
comune – dove quest’ultimo viene considerato come un valido sostituto alla
competenza specifica. Insieme ai diffusi fenomeni di echo chamber e filter
bubble (comunità virtuali chiuse all’influenza esterna che permettono la
proliferazione di notizie non sostanziate dai fatti) la perdita di fiducia
nell’autorità epistemica sta producendo un cambiamento nel concetto stesso di
verità dei fatti. Certamente, le menzogne non sono una novità del ventunesimo
secolo: già nel 2005 il filosofo Americano Harry Frankfurt apriva il suo breve
saggio Stronzate osservando come “uno dei tratti più salienti della
nostra società è che circolino così tante stronzate”, differenziando la
stronzata dalla menzogna. La prima non è solamente un capovolgimento
intenzionale della verità ma dipende da un sistematico svuotamento del concetto
di verità, e una studiata indifferenza rispetto ai fatti. Ma è anche vero che
la propagazione di stronzate raggiunge oggi livelli altissimi: è ovvio che
certe verità non siano tali, perché l’affermazione vera è meno importante di
quella efficace. Questo fenomeno è esemplificato dal ben noto termine
“post-verità”: parola dell’anno nel 2016 per l’Oxford Dictionaries, questo
aggettivo è definito “relativo, o che denota, circostanze in cui i fatti
oggettivi hanno meno influenza nel formare l’opinione pubblica rispetto ad
appelli a emozioni o credenze personali”. Altrettanto famosi ormai sono sia il
termine (intrinsecamente ossimorico) alternative facts, che
l’espressione fake news, entrambi contributi dell’amministrazione Trump
negli Stati Uniti. Considerato come queste distinzioni (fatti vs finzioni,
verità vs menzogna) così familiari ai filosofi, abbiano oggi fatto irruzione
nelle nostre discussioni quotidiane, abbiamo voluto esaminare la situazione
contemporanea insieme a quattro filosofi e filosofe esperti di questioni
epistemologiche: Maria Baghramian, della University College Dublin; Mario De Caro
dell’Università di Roma Tre; Gloria Origgi dell’Institut Nicod dell’Ecole
Normale Supérieure, e Nicla Vassallo, dell’Università degli Studi di Genova.
Domanda = Alcuni
critici hanno tracciato la genesi della situazione presente, più o meno
esplicitamente, al clima culturale del recente passato, in particolare
all’eredità del post-strutturalismo e di altre posizioni filosofiche che hanno
promosso un approccio critico verso le nozioni di autorità e di verità. Ogni
movimento filosofico deve essere collocato nel suo contesto storico-sociale, ed
è evidente che “il postmodernismo” rispondesse a delle precise preoccupazioni
socio-politiche, primo tra tutti, in campo politico, lo spettro dei dispotismi
autoritari che hanno dominato la metà del ventesimo secolo (il celebre, e
spesso incompreso, rifiuto delle metanarrazioni). L’ironia è che ora viene
accusato di aver riprodotto lo stesso problema, rendendo qualsiasi narrazione
degna di fiducia. È giusto accusare questo momento intellettuale dei mali
presenti?
GLORIA
ORIGGI = Il post-modernismo è un aggregato di idee di avanguardia di
provenienza diversa, estremamente influente nell’arte contemporanea, nella
letteratura del dopo-guerra e in una serie di esperienze artistico-politiche,
spesso di natura provocatoria, necessarie però per scuotere una cultura
vecchiotta, incapace di auto-osservazione e tipicamente egemonica. Non
demonizzerei il post-modernismo nei contenuti, almeno non più di quanto si
possa fare con i tanti movimenti di avanguardia che hanno attraversato il ventesimo
secolo, con successi e insuccessi. Non c’era una verità da mettere in
discussione, ma un’egemonia conoscitiva che passava dai banchi di scuola, dal
sapere diffuso dai musei, dal cinema e poi dalla televisione e che andava
sicuramente ripensata dopo i disastri di due guerre mondiali e di più di un
secolo di colonialismo. I toni assurdi, provocatori, le boutades, le
trasgressioni hanno avuto effetti positivi e negativi. Sicuramente un effetto
positivo è stato quello di includere nel discorso culturale “alto”, personaggi,
esperienze, culture, minoranze che a questo discorso non avevano accesso. Un
altro innegabile effetto positivo è stato quello di sviluppare una coscienza
critica nei confronti dei propri atti culturali e svelare la dimensione spesso
politica o economica di tutte le espressioni culturali. Le conseguenze negative
sono state un generale impoverimento dell’esperienza culturale, uno scetticismo
verso la qualità intrinseca dell’oggetto culturale che ha fatto sì che da
movimento di avanguardia, il postmodernismo si allineasse con le esperienze
culturali più “leggere” della nostra società, come la pubblicità o il
marketing. E insieme una tendenza paranoica collettiva a leggere in termini
manipolatori qualsiasi proposta conoscitiva. Movimento tendenzialmente “di
sinistra”, il postmodernismo è stato purtroppo reclutato “a destra” per
legittimare la decimazione degli studi umanistici nelle università di tutto il
mondo, visti come ricettacolo di idee paranoiche e estremiste volte ad
abbattere il canone culturale occidentale. L’accusa che rivolgo al
post-modernismo è più che altro questa: che, grazie alla sua faciloneria
intellettuale ha delegittimato le scienze umane, rendendosi complice di un
generale impoverimento del sapere, di un “clash” tra cultura scientifica e
cultura umanistica e di una tecnicizzazione della conoscenza che ci rende tutti
più stupidi. Non bisogna però confondere le derive postmoderniste dall’idea di
Lyotard di condizione postmoderna. Quella fu una vera intuizione. E noi oggi
siamo in una condizione postmoderna, per navigare la quale il postmodernismo
come movimento di idee non ci aiuta per niente, ma neanche il tentativo ingenuo
(penso al nuovo realismo) di ritrovare una realtà intatta, un terreno sicuro a
cui ancorarci come dei naufraghi a una zattera.
MARIA BAGHRAMIAN = Diversamente
da molti miei colleghi sul fronte continentale, non ho mai apprezzato molto le
virtù del postmodernismo, in particolare considerando i suoi proclami di
rappresentare un momento progressivo, e politicamente sovversivo, della nostra
vita intellettuale. Il mio rigetto del postmodernismo ha dei paralleli con la
mia critica del relativismo, un tema chiave della mia ricerca degli ultimi
trent’anni. Da una parte, mi sono sempre opposta a un troppo semplicistico
rifiuto del relativismo come incoerente o contraddittorio, ma dall’altra ho
sempre rifiutato con forza l’identificazione di un’attitudine relativistica con
una politica progressista. Il relativismo è un framework concettuale molto
sfuggente, che può condurre a quietismo e inazione, ma può anche essere
adottato a fini autoritari e regressivi. Non dobbiamo dimenticarci che
Mussolini era un convinto relativista, e che i Nazisti proposero una forma di
relativismo razziale. I pensatori postmoderni, attraverso aforismi e metafore
piuttosto che tramite argomentazioni filosofiche tradizionali, hanno messo in
dubbio alcuni precetti fondamentali del discorso culturale, che si concentra
sui temi della ragione, e della ricerca razionale. Facendo ciò, hanno occupato
lo stesso terreno intellettuale del relativismo. Questo, secondo me, è stato il
loro più grande difetto. Il postmodernismo ha “problematizzato” (come si dice
in gergo) le idee di oggettività, verità, e logica, con l’obiettivo – si diceva
– di liberarci dalla schiavitù della ragione, imposta dall’Illuminismo.
Quest’ultimo viene presentato come un movimento monolitico e autoritario
alleato con l’imperialismo occidentale e il colonialismo, mentre il
postmodernismo sarebbe alleato alla lotta per l’emancipazione da ogni tipo di
tirannia. Per molti postmodernisti l’Illuminismo – accompagnato dalla fiducia
nella forza della ragione e della razionalità, e l’ottimismo nei confronti
della possibilità di emancipare la specie umana – divenne un nemico politico e
sociale. I critici postmoderni della scienza, delle sue pratiche e istituzioni
hanno ragione a enfatizzare i meccanismi di esclusione presenti in essa. Le
donne, le persone di colore, e altri gruppi marginalizzati sono stati
sistematicamente esclusi, sottovalutati e umiliati. Ma le ragioni di queste
esclusioni sono opposte a quelle proposte dal postmodernismo. Che la conoscenza
è potere è un’antica ma profonda intuizione riguardo al ruolo che la conoscenza
gioca all’interno della nostra vita sociale e politica. Gli uomini bianchi al
potere hanno usato la scienza e le norme razionali per escludere le donne e gli
“altri differenti” dai centri di conoscenza che si affidano proprio a queste
norme. Il responso a queste pratiche di esclusione non deve essere quello di
abbandonare i potenti proclami della conoscenza scientifica, ma di rivendicarli
a sé. Ad esempio, le donne in Iran stanno riuscendo in questo intento,
riempiendo i campi STEM nelle università del paese, tradizionalmente riservati
agli uomini.
Domanda = È
possibile che l’overdose di informazioni di cui il pubblico è oggi bombardato
tramite i media digitali produca un rilassamento della distinzione tra verità e
finzione? È concepibile che ci siano specifici limiti cognitivi che, in quanto
esseri umani, limitano la nostra capacità di filtrare ed elaborare un numero
così grande di informazioni, spesso contraddittorie?
GLORIA
ORIGGI = Non capisco quale sia stata l’età dell’oro in cui la gente credeva
nella realtà invece che nelle finzioni. La quantità di stronzate che l’umanità
è sempre stata disposta a credere non credo sia aumentata con l’avvento di
Internet. È forse solo più visibile. Ma è vero che le società a forte densità
informazionale come le nostre società tardo-moderne hanno effetti epistemici
propri: paradossalmente, come ho cercato di mostrare nel mio lavoro, più
l’informazione aumenta, più la reputazione delle fonti di informazione diventa
rilevante, anzi, indispensabile per navigare un mare troppo fitto di
informazioni. Un’epistemologia del presente deve dunque fornire gli strumenti
per distinguere indizi reputazionali farlocchi da indizi reputazionali robusti,
un lavoro ancora da cominciare che sarà sicuramente al centro della
ricostruzione di un metodo sociale, condiviso e razionale di distinguere la
qualità epistemica dell’informazione che ci attraversa ogni giorno.
MARIA BAGHRAMIAN = Anche
io penso che la profusione di dati e informazioni odierna ha esacerbato un
problema pre-esistente e perenne, quello di dover prendere una decisione
riguardo a idee e fonti di informazione in contrasto tra loro. Il problema non
è, o non dovrebbe essere, formulato in termini di un rilassamento della
distinzione tra verità e menzogna. Questa distinzione, mi sembra che sia
implicita nella nozione stessa di modi di pensare giusti e sbagliati riguardo a
ciò che succede. Il problema risiede piuttosto nel nostro non avere sufficienti
strumenti epistemici per distinguere le informazioni vere da quelle false, o
fuorvianti. E parte del problema risiede nel minor prestigio dato oggi alla
testimonianza degli esperti. La maggior parte delle cose che sappiamo deriva da
ciò che abbiamo imparato dalle testimonianze ricevute da altre persone. La
testimonianza degli esperti – coloro che hanno un livello di competenza e di
conoscenza maggiore del nostro – è una delle fonti più importanti di
conoscenza. La democratizzazione dell’informazione resa possibile da Internet,
e la facile reperibilità di moltissime testimonianze di “esperti” su qualsiasi
argomento, ha finito con l’indebolire il ruolo tradizionale della testimonianza
come fonte di conoscenza. Con un click possiamo (o almeno ci piace pensare che
possiamo) controllare e mettere in questione i consigli che ci vengono dati dai
nostri dottori, i nostri avvocati, consulenti finanziari e altri tipi di
esperti tradizionali. In ultima analisi, credo che l’egualitarismo epistemico
nell’era dei big data sia uno sviluppo positivo, ma come tutte le rivoluzioni,
questa rivoluzione informatica ha portato con sé grande insicurezza riguardo
alle fonti dell’autorità, affidabili o meno.
Domanda = La
maggior parte delle verità scientifiche non si possono leggere direttamente
guardando i fatti, ma richiedono sovrastrutture teoriche, discussioni, e
interpretazione dei dati per essere stabilite con certezza, e di conseguenza
non si può concepire una comunità scientifica senza un certo disaccordo
interno. Come si può comunicare questo processo al pubblico senza produrre, da
una parte, un ulteriore scetticismo nei confronti della scienza, o, dall’altra,
la convinzione che, se il disaccordo produce conoscenza scientifica, chiunque
può essere in disaccordo con il consenso scientifico?
MARIA BAGHRAMIAN = Sono
d’accordo, il disagreement è essenziale alla scienza e contribuisce
positivamente a essa. Le cose si complicano quando ci si affida alla scienza e
agli scienziati per consigli riguardo a decisioni politiche. Ovviamente, non è
possibile prendere nessuna decisione coerente sulla base di opinioni
scientifiche discordanti. In più, la fiducia che di solito accordiamo a
scienziati e risultati scientifici pertinenti a questioni impersonali e su
larga scala viene erosa laddove questi prendono posizione su questioni che
hanno un impatto diretto sulla nostra vita e sul nostro benessere. Bisogna
ricordare che quello di affidarsi a scienziati per decisioni di carattere
politico è un fenomeno relativamente nuovo. La maggior parte degli storici
della scienza considera la Seconda Guerra Mondiale come il punto di svolta, un
periodo che cambiò radicalmente il rapporto tra governi e consulenti
scientifici. Le necessità portate dalla guerra moderna crearono forti legami
tra scienza e legislatura, come venne dimostrato in maniera lampante dal
Progetto Manhattan negli Stati Uniti, e da Bletchley Park nel Regno Unito. Le
famose parole di Robert Oppenheimer “Sono diventato Morte, il distruttore di
mondi”, citando la Bhagavadgita, influenzano ancora oggi la nostra percezione
del rapporto tra scienza e stato. Mentre dunque il pubblico è disposto a dare
fiducia agli scienziati per quanto riguarda questioni tecniche, si sente anche
giustificato a sospendere questa fiducia laddove i loro risultati scientifici
siano direttamente legati alle nostre vite quotidiane. La soluzione non è
quella di nascondere il dissenso tra scienziati (come a volte si è provato
a fare), o credere che la situazione verrà rettificata quando il pubblico
riceverà una chiara e precisa educazione scientifica. Piuttosto, la soluzione
risiede nell’assicurarsi che le istituzioni scientifiche e gli scienziati siano
consapevoli della sensazione di vulnerabilità avvertita dal pubblico di fronte
alla potenza della scienza.
GLORIA ORIGGI = Come
hanno già detto molti filosofi, penso per esempio a Richard Rorty, la scienza
può ispirare la gente comune come “modello” di attività epistemica ed etica: il
fatto che nelle varie discipline esistano disaccordi più o meno rispettati, e
che i disaccordi producano uno sforzo collettivo per andare più lontano nella
comprensione, può essere un esempio di etica della conoscenza che ispira, ma
certo non si può pensare realisticamente che gli esseri umani adottino in massa
un metodo scientifico di disaccordo ragionato per farsi un’idea del mondo che
hanno intorno. Sappiamo dalla psicologia che gestire la contraddizione è una
delle cose più difficili per la mente umana: il bisogno di ridurre la
“dissonanza cognitiva” è tra i meccanismi psicologici più forti che guidano il
nostro pensiero. Non si può cercare di cambiare le basi cognitive del
ragionamento umano: si possono però creare istituzioni, forme di incontro,
metodi di dibattito, che fanno emergere il dissenso in modo costruttivo. Si può
anche imparare a riconoscere e criticare i “vizi epistemici” di tanti discorsi,
come l’insensibilità davanti agli argomenti contrari, l’indifferenza alle più
semplici intuizioni statistiche, o l’attrazione per le teorie complottiste e
paranoiche che hanno il fascino di mettere insieme fenomeni tra loro sconnessi
in una specie di “narrativa” gratificante al di là di qualsiasi oggettività.
Un’epistemologia politica che comprenda a quale punto la conoscenza dipenda
dalle strutture istituzionali che la fanno circolare è sicuramente necessaria
per creare un’epistemologia del quotidiano più virtuosa.
NICLA VASSALLO = Quanto
al problema di comunicazione, mi sembra che sarebbe abbastanza semplice:
basterebbe presentare il disaccordo tra scienziati come il disaccordo tra
esperti. Quando ad esempio una persona soffre di una certa patologia si reca da
più esperti, e se questi (come spesso accade) sono in disaccordo tra loro si
presenta il problema di chi scegliere. E lo stesso accade nella comunità
scientifica. Ma la differenza tra il primo e il secondo caso è che il
disagreement nella comunità scientifica (come in quella filosofica) è
essenziale al progresso. Se tutti fossero d’accordo vivremmo in uno stato di
stasi; invece il disaccordo e la critica devono essere visti come positivi. Purtroppo
il pubblico non sospende mai il giudizio, e prende parte senza cognizione di
causa per l’una o per l’altra parte di un dissenso scientifico a seconda di
balzane convinzioni. Penso che la possibilità di offrire al pubblico confronti
diretti o dialoghi tra due o tre scienziati che la pensino in modo diverso
sullo stesso tema sarebbe utile. Infatti ciò aiuterebbe il pubblico a
comprendere che le divergenze effettive sono minori di quelle che ci spacciano
i media, e comprendere che questa è l’unica via che porta alla risoluzione dei
problemi, il processo collettivo del problem-solving.
MARIO DE CARO = Vorrei
aggiungere che l’unico modo di risolvere il problema è una seria educazione
scientifica. È stato scritto recentemente che molta polemica contro i vaccini è
condotta da persone che hanno studiato: il problema è capire cosa e come hanno
studiato. In Italia c’è una tradizione antiscientifica molto forte, che in
parte deriva dalla riforma Gentile la quale, nonostante i suoi pregi, ebbe
anche alcuni grandi difetti: per cui ci sono persone che non hanno la minima
idea di come funzionano la statistica e la probabilità, e che quindi, di fronte
al fenomeno vaccini, non sanno comprendere appieno il problema. È del tutto
evidente — è provato — che i vaccini purtroppo sono mortali per alcuni
soggetti. Eppure, usandoli, si salvano molte più vite di quante se ne perdano.
Naturalmente se una trasmissione (generalmente ottima) come Report va a
intervistare le famiglie delle persone che sono decedute per via di un vaccino,
questa informazione è scorretta, perché presenta questa morte come l’unico dato
rilevante. In generale, se non si conoscono un minimo di statistica,
probabilità e storia della scienza diventa praticamente impossibile orientarsi
rispetto a queste questioni. Bisogna migliorare la qualità dell’istruzione
scientifica, ma anche la qualità – e questo è importante – delle informazioni
scientifiche diffuse dai mass media. Ci sono alcuni media che – un po’ in
malafede, un po’ per ignoranza – diffondono notizie assurde. Benché in
proposito non si possa imporre la censura, si dovrebbe far sì che i media che
sanno come si fa la divulgazione scientifica siano nella posizione di criticare
gli altri, e di dimostrare come quel modo di discutere di determinati problemi
non funziona. È necessario comunicare correttamente sia i risultati scientifici
che il metodo della scienza.
Domanda = Spesso
sembra esserci confusione tra, da una parte, l’autorità conferita dalla
conoscenza (il capire, e saper spiegare, i processi che producono un fenomeno)
e dal rispetto di norme argomentative condivise e, dall’altra, le strutture
normalizzanti e autoritarie. Di conseguenza, coloro che vogliono difendere il
prestigio epistemico della competenza vengono accusati di elitismo, in nome del
principio (giusto, ma soltanto se contestualizzato) che “tutti hanno diritto
alla loro opinione”. Come si difende il concetto di autorità epistemica senza
cadere nella dittatura delle “autorità” o nella “tecnocrazia”?
MARIA
BAGHRAMIAN = Si, è molto triste che la nozione di competenza, o di
“autorità epistemica” sia stata accorpata all’elitismo, o addirittura a impulsi
autoritari. La divisione del lavoro, linguistico ed epistemico, e la
specializzazione che la accompagna sono essenziali per il funzionamento delle
comunità che condividono un linguaggio e un modo di pensare, particolarmente in
società avanzate e complesse. Per fare solo un esempio, la scienza come viene
praticata oggi è un’impresa collettiva la cui condotta richiede un’enorme mole
di divisione del lavoro epistemico e di specializzazione. Senza fiducia nella
competenza di coloro che lavorano in altre sotto-specializzazioni, la scienza
non potrebbe progredire, ne funzionare nella sua forma attuale. Mi sembra che
queste reazioni contro l’”elitismo” della competenza siano il prodotto di
pressioni economiche più che filosofiche, e devono essere spiegate di
conseguenza. L’ordine economico Neoliberista ha celebrato la competenza e gli
ha dato un posto di prestigio all’interno del processo decisionale sociale ed
economico. L’affidamento alla conoscenza degli esperti è spesso stato
accompagnato da premi economici – in particolare nel campo bancario,
finanziario e legale – del tutto sproporzionati al contributo che questi
esperti effettivamente apportano al benessere della società. Un secondo
problema (legato al primo) è ancora una volta quello del legame tra conoscenza
e potere. La conoscenza ci conferisce autorità oltre al campo epistemico, ed è
spesso stata uno strumento nelle mani della volontà di potenza. Sapere, ed
essere portatori di conoscenza, ci permette di influenzare gli altri, di
perseguire i nostri obiettivi. Non è necessario credere (come sostiene Tim
Williamson) che la conoscenza sia la norma per fare affermazioni, o che la conoscenza
venga per prima, per poter apprezzare il ruolo primario che gioca in tutti i
nostri scambi sociali. È un’ovvietà, ma non del tutto banale, che la conoscenza
conferisce potere, ma il potere, in tutti i casi, deve rispondere dei bisogni
degli altri e alle loro (e nostre) vulnerabilità. Possiamo vedere i primi segni
di questa preoccupazione riguardo all’esercizio della conoscenza scientifica
senza senso di responsabilità nel Dr. Frankenstein, di Mary Shelley, un romanzo
quasi profetico considerando come al tempo la scienza moderna era ancora
giovane. Sapere, e brandire il potere che la conoscenza ci conferisce senza
responsabilità di fronte alle questioni etiche che questa conoscenza produce, è
un pericolo che dobbiamo sempre tenere bene in considerazione. La connessione
tra i parametri normativi della conoscenza e il mantra (a prima vista
tollerante e inclusivo) “tutti hanno diritto alla loro opinione” è
interessante. Molto spesso in dibattiti e conversazioni, in particolare
riguardo a questioni etiche e politiche negli Stati Uniti, l’affermazione “ho
diritto alla mia opinione” viene usata come carta che pone fine alla
discussione. Questo è un errore. Se affermi la tua opinione sei, come minimo,
responsabile per la sua plausibilità razionale, se non proprio per la sua
verità. Le opinioni non sono differenti da altri tipi di credenze. Siamo tutti
responsabili pubblicamente per le nostre opinioni, così come lo siamo per le
nostre affermazioni di conoscenza. Gli usi odierni di questo mantra dimenticano
questo componente normativo.
NICLA VASSALLO = Purtroppo
sul piano fattuale si è confusa l’autorità epistemica con l’autorità politica,
o l’autorità del dittatore. E tale confusione è stata particolarmente
accentuata in quelle democrazie dove abbiamo avuto governi tecnici: ad esempio
economisti al potere che hanno mentito, e non si sono mai pentiti delle loro
menzogne (perdendo dunque la fiducia del pubblico). E il caso del nostro paese
è un caso classico. Come si può ripristinare la fiducia perduta? Cercando di
distinguere nettamente (nonostante le illusioni di Platone) tra il politico e
l’autorità epistemica. L’autorità epistemica può solo essere un buon
consigliere di un politico, ma a mio avviso non può e non deve entrare
direttamente in politica: deve suggerire al meglio il politico rimanendo
svincolata dal potere politico.
MARIO DE CARO = Questo
è il tipico argomento in cui si discute di bianco e di nero, come se non ci
fosse alcuna via di mezzo. Con questo modo di procedere non si ottiene nulla, e
anzi si generano facilmente disastri. È del tutto evidente che esiste un ampio
terreno intermedio tra l’imporre presunte verità con la forza e l’accettare
qualunque scempiaggine come se fosse parimenti autorevole. È sempre stato così,
ma oggi con internet la situazione è peggiorata: si pensi alla famigerata frase
di Umberto Eco “Internet permette a qualunque cretino di dire la sua opinione”:
forse è un po’ rude, ma ha una giustificazione. Su Facebook ho letto eminenti
professori o studiosi di determinati campi spiegare la propria opinione
informata ed essere “confutati” in due righe da qualcuno, completamente digiuno
della materia del contendere. Questo è un fenomeno grave, e direi che Facebook
e simili non sono i social media ideali per una discussione seria. Il problema
è che le distinzioni sono difficili: è chiaro che esistono autorità autoritarie
e autorità autorevoli. È una cosa in sé ovvia, ma si sta abbassando il livello
dell’istruzione generale: si tagliano i fondi per l’istruzione, la gente non va
a scuola, non studia bene e poi finisce per dire scempiaggini, non essendo in
grado di riconoscere i ragionamenti corretti da quelli scorretti. La situazione
non sarà mai perfetta, ma ci sono molti margini di miglioramento.
GLORIA ORIGGI = A me
sembra che nelle grandi visioni sulla democrazia e in particolare
nell’entusiasmo per il ruolo della Rete, vi è sempre stata una certa tendenza a
semplificare e idealizzare sia le capacità cognitive che le dinamiche sociali
dei cittadini. Se l’uguaglianza di diritti è un caposaldo della democrazia
anche in un’epoca di spettacolari disuguaglianze economiche, l’uguaglianza
epistemica, o l’egualitarismo epistemico, è spesso una nozione sottintesa, che
vede i soggetti cognitivi come tutti uguali, intercambiabili, in linea di
principio capaci di sviluppare tutti gli stessi argomenti seguendo lo stesso
metodo (una tesi criticata per esempio da molta epistemologia femminista).
L’egualitarismo epistemico è rivendicato come un diritto fondamentale non a
chiedere ragioni o ad avere accesso alle stesse risorse epistemiche (diciamo
una rivendicazione di qualche forma di “diritto aletico”, come ha sostenuto
recentemente in un saggio
pubblicato da Franca D’Agostini nella rivista Biblioteca della Liberta del
centro Einaudi), ma una rivendicazione ad avere ragione e poter esprimere il
proprio punto di vista al di là di qualsiasi standard argomentativo condiviso.
Una rivendicazione resa possibile dalla straordinaria capacità del Web di dare
voce a una moltitudine di individui che mai avevano avuto accesso alla parola
“pubblica” prima d’ora. Avere ragione secondo i propri standard, rifiutare di
farsi imporre qualsiasi standard epistemico percepito come una coercizione
“dall’alto” è il tranello in cui cascano i cittadini più vulnerabili, che si
sentono “empowered” cognitivamente e socialmente dal poter esprimere la loro
opinione e non si rendono conto di essere vittime di nuove forme di controllo
dell’opinione e di coercizione mentale. Un risultato recente mostra come coloro
che sono i più scettici riguardo all’autorità delle testate di informazione
tradizionali sono anche i più ricettivi a credere alle teorie del complotto e a
cascare nella rete delle bufale trasmesse attraverso i social networks. Questo
“corto-circuito” tra politica ed epistemologia è forse uno degli aspetti più
salienti delle società iper-connesse e (spesso definite) post-democratiche
attuali nelle quali la sovraesposizione dei pareri dei cittadini bypassa la
rappresentanza politica con modalità che delegittimano la seconda senza
legittimare la prima.
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