Relazione sull’incontro con il prof. Valter Alovisio:
“TUTTO IN UNA SOLA FORMA”
Una repubblica dello spirito:
le emergenze
della storia nel Bauhaus
Introduzione
di Massima Bercetti:
Nel suo intervento
introduttivo, Massima Bercetti chiarisce intanto i motivi per cui questo tema è
stato inserito nella prima parte del programma, benché in apparenza lontano dagli
argomenti trattati negli incontri precedenti.
Grazie al confronto col prof. Alovisio, che CircolarMente si onora di
annoverare fra i propri amici, e in collaborazione con l’associazione di cui è
fondatore (Point Zero, inteso come spazio atto a generare idee attivando ciò
che già esiste nel tessuto sociale come nei singoli individui) abbiamo potuto infatti
riscontrare alcune assonanze significative fra l’esperienza della Bauhaus e la
nostra proposta di lavoro sul tema delle emergenze e della memoria. Questo
movimento artistico e culturale che è stato anche, e soprattutto, una scuola
(per questo abbiamo scelto di nominarlo al femminile) ha avuto la capacità di
cogliere, grazie al suo fondatore e animatore, Walter Gropius, le
trasformazioni che avvenivano nella Germania degli anni 20, in particolare
quelle relative al tessuto industriale e alle modalità di produzione, che
richiamando nei centri urbani molti
lavoratori richiedevano di ripensare la città, i suoi spazi, i moduli
abitativi, gli oggetti d’uso, e in generale il rapporto fra l’arte e società,
fra l’ arte e la vita concreta delle persone.
Allo stesso modo, sia
pure con modalità molto diverse, la nostra associazione cerca di porre
attenzione alle trasformazioni in atto nella contemporaneità, confrontandosi
con quanti possono offrire nei più svariati campi esperienze, competenze,
saperi. E ancora, così come gli artisti e gli intellettuali che animavano la
Bauhaus si trovavano a vivere in un momento storico segnato da una forte crisi
politica ed economica, cercando di dare a loro modo sostegno e forza ad una
democrazia fragile, anche noi viviamo in tempi inquieti, che ci richiedono di
essere più consapevoli tanto dei pericoli quanto delle opportunità che possono
presentarsi. E’ con questo intento quindi che CircolarMente ha affidato il
discorso sulla Bauhaus al prof. Alovisio, insegnante, artista, animatore
culturale, di cui il pubblico oggi presente ha già avuto modo di apprezzare in
altre occasioni l’appassionata competenza.
UNA PREMESSA:
Prima
di presentare un percorso che avrà una forte connotazione visiva e a cui si
intende dare una dimensione circolare, con una sorta di andata-ritorno dalla
Bauhaus ai giorni nostri, il prof. Alovisio sottolinea come l’emergenza sia
incontestabilmente interna al rapporto fra arte e società, fra arte e vita, dal
momento che ogni artista non può che interrogare, in ogni tempo, il suo tempo. Un
nesso inestricabile, che l’esperienza della Bauhaus rende a suo giudizio quanto
mai evidente, perché è in un momento in cui le emergenze della storia davvero
premono che un gruppo di intellettuali e di artisti elabora e riesce a concretizzare
una proposta estremamente innovativa, su cui ancora oggi veniamo spinti a
ragionare; un’esperienza che ci richiama al concetto gramsciano di egemonia culturale, ponendo
essa al centro la funzione sociale dell’arte in termini prima di tutto pedagogici
(la Bauhaus è
stata soprattutto un modello di scuola, dove veniva assegnata tanto al processo
creativo che all’oggetto artistico una funzione educativa), ma anche politici, se ci riferiamo ad una concezione ampia della polis intesa come
comunità civile all’interno della quale si pone il problema ineludibile della
democrazia. Un’esperienza–laboratorio che ha rappresentato, per il relatore che
ora si accinge a farne l’oggetto del discorso, uno dei cardini del suo lavoro
di insegnante, teso a valorizzare come nella scuola di Barbiana di don Lorenzo
Milani quel sapere fondato sulla domanda e sulla circolarità delle risposte che
mette al centro il rapporto “socratico” fra il maestro e l’allievo, dove il
maestro non è solo un insegnante, ma qualcuno che in questo scambio mette in
gioco l’intera sua esistenza.
1. GLI
ANGELI DI PAUL KLEE:
la supremazia del divenire sull’essere e il
tema di un futuro possibile che emerge dalle rovine del passato
E’
dunque con un profondo coinvolgimento personale che il prof. Alovisio conduce i
suoi ascoltatori direttamente all’interno di questa straordinaria esperienza
culturale, scegliendo un approccio che potrebbe apparire laterale e financo
spiazzante, ma che in realtà ci aiuterà a definirne con particolare intensità
il timbro: non solo perché Paul Klee è stato uno dei fondamentali maestri della
Bauhaus, ma perché nei suoi disegni relativi agli angeli potremo riconoscere
alcune delle caratteristiche salienti del progetto. Prima di esaminarli
tuttavia è importante chiarire che cosa significavano, per Klee, questi angeli
a cui il pittore ha dedicato, dalla prima maturità fino alla morte, una serie
molto ampia di disegni che sembrano pensieri in movimento. Negli angeli Klee
vedeva infatti la parte interna, divina o se vogliamo trascendente, che
appartiene a ciascun uomo; una parte che ad un certo punto dispiega le ali,
perché ha voglia di andare in una dimensione altra che superi l’immanenza
insita nella condizione umana. In essi peraltro, come spiega il prof. Alovisio,
vengono anche a definirsi dal punto di vista formale e compositivo alcuni
principi fondamentali di una visione artistica in cui il divenire è tutto e
sovrasta l’essere, e in cui il brutto è superiore al bello, perché il bello
verrebbe a negare quell’imperfezione che sola rende possibile il cammino, la
trasformazione. Non ci stupiremo dunque nel vedere questi angeli che non hanno
certo un corpo bello e che sono lontanissimi dal nostro immaginario angelico di
sovrumana bellezza e perfezione: sono davvero angeli molto umani, il che
risulta evidente soprattutto nei due primi disegni che il relatore ha scelto di
mostrarci a titolo esemplificativo, composti entrambi poco prima della morte
del pittore. Decisamente aggraziato, il
primo - che Klee ha denominato “Angelo civettuolo”-
in
cui linee morbide tracciano il profilo di un essere giovane, dall’aria alquanto
fragile e femminea, lo sguardo ironicamente ammiccante (ancora forse rallentato nel suo cammino
dall’illusione dell’effimero, un ricordo possibile della “vanitas”
petrarchesca, come suggerisce il prof. Alovisio); più complesso il secondo,
nominato da Klee “Angelo in cammino…ma ancora
maleducato”,
che
con quei piedini ancora con tutta evidenza pronti ad andare e ancor più con lo
stesso sottotitolo ci racconta di come per il pittore, che pure stava già
guardando la morte in faccia, il movimento dell’angelo non si fermi mai, ma ci
sia ancora e sempre il divenire, perché ancora e sempre dobbiamo migliorarci,
ancora e sempre dobbiamo proseguire il cammino. C’è dunque in questi disegni
un’idea positiva ed evolutiva di futuro, che secondo il relatore è davvero in
linea con l’esperienza complessiva della Bauhaus. Tuttavia, per comprenderla
appieno risulta ancora più rilevante a suo giudizio un piccolo acquerello degli
anni 20,
che
rappresenta un angelo bambino, con la testa enorme sul piccolo corpo, i grandi
occhi sgranati, le gambette un po’ attorcigliate. Un angelo nuovo, dunque, come
recita il titolo (“Angelus novus”), che ha cominciato da poco il suo compito di
mediatore fra terra e cielo, anche se le braccia sono già diventate ali rivolte
verso l’alto, pronte a percorrere l’eterno cammino. Non sono peraltro le caratteristiche
figurative, attraenti se pure inconsuete, ad aver reso così famoso questo
Angelo di Klee, bensì la lettura che ne ha fatto uno dei più importanti
intellettuali del novecento, Walter Benjamin, nelle sue “Tesi di filosofia della storia” (un testo del 40, composto poco
prima della morte tragica dell’autore, e pubblicato postumo). Benjamin ha visto
infatti in questa immagine, nella postura irrigidita dell’angelo e in quegli
occhi sbarrati che guardano fisso davanti a sé, il perfetto emblema di quello
che chiamerà l’
“Angelo della storia”, di colui che vede davanti ai suoi occhi il cumulo
delle macerie provenienti da un passato che vorrebbe redimere, se non ne fosse
impedito da una violenta tempesta che si alza dal cielo spingendolo
irresistibilmente nel futuro (ciò che
chiamiamo progresso, dice Benjamin, è questa tempesta). Una visione che sintetizza
in modo davvero mirabile la concezione insieme dialettica e messianica della
storia esposta nelle Tesi, basata sull’idea che non esista un tempo lineare in
cui il presente è sempre frutto del passato, ma che ci sia invece un rapporto
dialettico fra passato e presente per cui accade talvolta che esso irrompa nel
presente come epifania, aprendo la possibilità di un futuro redento dalle
tragedie della storia. Una concezione che a giudizio del relatore ben si
attaglia al percorso proposto da CircolarMente, per cui articolare il passato
non significa solo conoscerlo per ciò che è stato, ma farlo significare in modo
da estrarne le potenzialità emancipatrici, e che parimenti ci aiuta a capire il
percorso della Bauhaus che davvero ha rappresentato, secondo la sua
interpretazione, questa “epifania di senso”. Non c’erano infatti che rovine
davanti all’Angelo della Storia, nel momento in cui prendeva forma la Bauhaus:
una Germania piegata e piagata dalla guerra, soffocata dalle condizioni di pace
troppo onerose imposte dai vincitori, davanti alla quale si presentava il
baratro della crisi economica. Eppure, da queste rovine c’era chi sapeva e
voleva immaginare un futuro di redenzione, cercando di costruirlo.
2.
TUTTO IN UNA SOLA FORMA:
idee portanti e modalità organizzative della
Bauhaus
Dopo
questa introduzione, il prof. Alovisio passa a ricostruire con l’aiuto di molto
materiale visivo la storia di questo movimento artistico nel suo impianto
concettuale, nelle proposte pedagogiche, nelle modalità operative e
naturalmente nei suoi protagonisti. Una storia che si snoda in Germania fra il
1919 e il 1933, e in cui possiamo riconoscere tre diverse fasi, a cui corrispondono
tre diversi luoghi:
WEIMAR
(1919 / 1925): L’INIZIO
il manifesto programmatico:
Non
è certo privo di interesse, osserva il prof. Alovisio, il fatto che la nascita
di quel movimento artistico e culturale che i suoi fondatori chiamarono Bauhaus
(un termine ideato da Walter Gropius, che richiamava la
loggia medioevale dei muratori ) sia avvenuta proprio in
quella stessa cittadina della Turingia dove si stava elaborando la nuova
Costituzione e si dava vita alla Repubblica, cercando di portare la Germania fuori
dalle rovine del Reich: un tentativo certo minato da fragilità interne, ma pur
sempre contrassegnato dalla speranza e da un sincero impulso trasformativo. Lo
stesso che animava Walter Gropius - un architetto che aveva già al suo attivo
esperienze importanti, come la costruzione di un grande edificio destinato ai
pubblici uffici a Colonia, e che si riconosceva nella cosiddetta corrente
modernista del razionalismo architettonico - spingendolo ad elaborare una
proposta decisamente innovativa, cioè quella di accorpare l’Istituto Superiore
di belle arti con la Scuola d’arte applicata. Per capire la portata
rivoluzionaria di questa proposta e l’idea geniale che l’animava, il prof.
Alovisio ha letto alcuni passi del manifesto programmatico della nuova scuola,
da cui si evincono le idee di fondo: quella, intanto, per cui i confini
tradizionali fra artigianato, scultura e pittura dovessero sciogliersi
all’interno dell’ architettura, che Gropius considerava la sintesi di tutte le
arti (secondo il modello della cattedrale gotica, che vediamo
stilizzata sul frontespizio del manifesto dalla xilografia di Lyonel Feininger,
dal momento che nel suo grande cantiere l’architettura faceva da asse portante
attorno al quale gli scultori, i pittori, gli scalpellini, i lavoratori del
legno e del vetro si disponevano con migliaia di mani cooperanti a produrre
tutto in una sola forma). Un’idea
di costruzione del futuro a cui i fondatori dichiaravano di voler dedicare
tutte le loro energie, la loro inventiva, la loro creatività, concretizzandola
in una visione pedagogica di portata altrettanto rivoluzionaria. Unificare
l’insegnamento accademico con quello pratico e artigianale implicava infatti il
riferirsi ad un’idea di teoria non separata dalla pratica, che deve portare
cioè alla realizzazione di un prodotto che a sua volta non può essere disgiunto
dalla complessità della teoria. Una scommessa forte, sicuramente, che
nonostante le prevedibili difficoltà poté contare già nel primo anno su di un
numero rilevante di iscrizioni (208), ad indicare come il clima culturale fosse
in quegli anni aperto a progettualità nuove in grado di attrarre anche docenti
di chiara fama. Fin da subito infatti Gropius, pur mantenendo il corpo docente
pregresso, aveva fatto arrivare dall’esterno personalità prestigiose: in primo
luogo Johannes Itten, un pittore svizzero che entrerà a far parte della scuola
già nel 19, informandone il percorso con la sua visione teosofica (molto
diversa da quella di Gropius, il che porterà nel tempo ad una rottura fra i due
uomini), seguito nel 20 da Paul Klee e nel 22 da Vassilij Kandinskij.
la struttura didattica:
Per
quanto riguarda l’impianto didattico e le modalità organizzative, l’asse
portante della nuova scuola era il laboratorio, inteso come luogo in cui in cui
si impara facendo, ma si fa conoscendo sotto la guida abbinata dell’insegnante
di teoria e del “maestro di bottega” (in modo non troppo dissimile da quanto
avveniva nelle botteghe rinascimentali, anche se con una maggiore complessità
concettuale). Tuttavia, mentre all’inizio i vari laboratori erano
immediatamente accessibili agli allievi, dopo un certo periodo fu istituito,
per ispirazione di Itten che lo gestirà direttamente, un corso propedeutico
semestrale che aveva funzione di sbarramento e che consisteva essenzialmente in
un lavoro fondato sulle coppie oppositive, cioè sull’idea che occorra portare a
sintesi la dialettica degli opposti.
In
generale comunque il punto di partenza era costituito dalla teoria della forma
e della figurazione, in cui daranno apporti fondamentali Paul Klee e Kandinskij. Una teoria che si misurava poi con
tutta un’altra area di conoscenze legate agli utensili, ai materiali, alla
natura, alla teoria dello spazio e della composizione, in un percorso in cui
l’arte assumeva una valenza molto ampia secondo un principio che può essere
reso sinteticamente nella formula “TUTTO IN UNA SOLA FORMA” (intendendo che tutto doveva portare ad un
cantiere, ad un progetto, ad una architettura a cui ogni artista e ogni
artigiano avrebbe dato il suo contributo specifico). Un percorso complesso,
sicuramente, che possiamo vedere sintetizzato in uno schema che ne rende
evidente la circolarità,
e che secondo il prof. Alovisio trova una
rappresentazione artistica quanto mai pregnante nella “Torre
di fuoco” di Itten:
una
costruzione a spirale che suggerisce un passaggio di energia, una tensione
spirituale verso l’alto, composta da dodici cubi le cui facce sono raccordate
con superfici curve specchiate che si evolvono e in cui compaiono tutti i
materiali. E’ questo infatti, secondo il relatore, il senso complessivo della
Bauhaus.
la dimensione comunitaria:
In
questo modello di scuola era inoltre presente una forte dimensione comunitaria:
non a caso la Bauhaus è stata definita una sorta di “REPUBBLICA DELLO SPIRITO”,
perché in essa c’era davvero l’idea della democrazia come prassi per la
costruzione del sapere, c’era lo sforzo di costruire una comunità in cui lo
spirito fosse al centro. Una comunità in cui gli artisti potevano abbinare al
lavoro di insegnamento la loro personale ricerca espressiva, elaborando quei
linguaggi che hanno condotto a traguardi alti dell’arte del novecento: pensiamo,
dice il prof. Alovisio, a Kandinskij, che ha composto proprio in questi anni
alcune delle sue opere più significative (di cui nel corso della conferenza sono
state offerte immagini davvero abbaglianti! In questa sintesi ne riproduciamo
una sola a titolo esemplificativo),
portando
a compimento il passaggio dalle cosiddette “improvvisazioni informali” alla
geometrizzazione delle composizioni, mentre dal canto suo Klee, più legato in
quel periodo alla figurazione e a quella dimensione spirituale alla quale il
relatore ha fatto accenno, componeva a sua volta quadri di rara bellezza.(anche
in questo caso ne riproduciamo qui una a titolo esemplificativo)
Ma
era anche una comunità in cui oltre alle lezioni con maestri d’eccezione, come
quelli già nominati e lo stesso Itten (che nei sui corsi
introduttivi guidava gli allievi a
“sentire” profondamente il movimento formale dell’oggetto da riprodurre, in
modo da esserne permeati così che l’opera d’arte potesse dare vita ad una vera
rinascita personale) allievi
e insegnanti potevano sperimentare un modo di abitare insieme in cui la
produzione artigianale e artistica non era disgiunta dalle occasioni della vita
comune: l’apprestamento di spettacoli teatrali, le feste, gli eventi pubblici.
l’ Esposizione del 23
Secondo
il progetto iniziale di Gropius, l’unificazione fra arte, artigianato e
tecnologia doveva anche trovare il modo di stabilire una connessione con il
mondo esterno e con l’industria, per poter dare vita ad una effettiva
trasformazione sociale. L’occasione fu cercata nel 23 attraverso
l’organizzazione di una grande mostra che prevedeva sia la costruzione dello
stesso spazio espositivo (il primo dei molti edifici di impianto razionalistico
che la Bauhaus progetterà negli anni successivi, affidato in questo caso ad
Hannes Meyer),
che
i moduli abitativi interni, con tutti gli oggetti d’arredamento pensati in modo
da avere in sé la complessità di oggetti d’arte e la funzionalità di un uso
reale. Nonostante il grande investimento finanziario, progettuale e
organizzativo, la mostra non ottenne il risultato sperato (fu anzi decisamente un
fallimento: del resto il contesto esterno si stava rapidamente deteriorando a
livello politico ed economico). Resta
peraltro un momento significativo a indicare il contributo della Bauhaus al
design: la maggior parte degli oggetti allora esposti si trova infatti oggi nei
musei più importanti, soprattutto al Beaubourg di Parigi, e fa parte a pieno
titolo della storia dell’arte. Il prof. Alovisio ha mostrato in particolare
alcune sedie, fra cui quella ideata nel
25 da Marcel Breuer, allora direttore del laboratorio del legno, che aveva
operato una vera e propria rivoluzione sia nei metodi di produzione che
nell’uso dei materiali, impiegando per la prima volta tubi di acciaio nichelato
(denominata
allora semplicemente “modello B3”,
diventerà un’icona negli anni sessanta grazie ad un imprenditore bolognese,
Dino Gravina, che la chiamerà “Wassily”
in onore di Kandinskij).
DESSAU
(1925 / 1932): LA SVOLTA
L’insuccesso
della mostra viene inevitabilmente a pesare sul destino della Bauhaus, contribuendo
ad inasprire le tensioni già presenti fin dall’inizio e facendo esplodere il
contrasto fra la visione razionalista di Gropius e quella teosofica di Itten,
che infatti lascia la scuola nel 23. A questo punto sembra inevitabile la pur
dolorosa decisione di chiudere la scuola, ma dopo la dichiarazione di
scioglimento le richieste di aiuto trovano una inattesa solidarietà in molte
città tedesche, che si offrono di ospitarla con il contributo di imprenditori
illuminati e interessati alla prosecuzione dell’impresa.Viene scelta Dessau e
nel passaggio di luogo e di ambiente la Bauhaus acquisirà una fisionomia in
parte diversa, perché Gropius, che ne è ancora il direttore e che da sempre è
interessato a far confluire nel contenitore architettonico tutte le arti, darà
vita ad un progetto di ampio respiro volto alla realizzazione di una vera e
propria cittadella dell’arte secondo i principi del razionalismo architettonico.
Un’opera imponente, composta da un grande edificio centrale
atto
ad ospitare le aule, i laboratori, il teatro, oltre agli alloggi degli studenti,
attorno al quale si stendevano le abitazioni
degli insegnanti. Il lavoro di costruzione non andrà però a detrimento dei
corsi tenuti da Klee e Kandinskij, che anzi riescono ad acquistare una maggiore
autonomia in grazia della loro forte personalità, in grado di fare da
contraltare alla visione dominante di Gropius. Kandinskij resterà infatti fino
al definitivo scioglimento, mentre Klee accetterà nel 31 l’incarico di docente
all’Accademia di Dusseldorf.
BERLINO
(1932 / 1933): LA FINE
L’equilibrio
raggiunto darà per alcuni anni forza e compattezza alla scuola, nonostante i
tempi inquieti. Poi, la pressione delle emergenze della storia si farà
insostenibile e con la presa definitiva del potere da parte dei
nazionalsocialisti la Bahaus, che si era nel frattempo trasferita a Berlino e
che già era stata sottoposta a perquisizioni e angherie varie, viene
definitivamente chiusa nel luglio 33 con l’accusa di produrre arte
“degenerata”, non rappresentativa dello spirito del popolo tedesco. Si chiude così, dopo quattordici anni, la
lunga parabola di un movimento artistico e culturale destinato a lasciare il
segno sulle tendenze dell’arte e dell’architettura nei decenni a seguire, e
ancora adesso capace, a giudizio del relatore, di interrogarci sul senso di
un’utopia possibile di futuro. Un’utopia che pare oggi totalmente assente, se
non paradossalmente rovesciata nella sua direzione, così come l’ha colta in un
testo scritto poco prima di morire (“Retrotopia”)
un analista sottile della contemporaneità come Zygmunt Bauman, notando
l’insorgenza diffusa – specie nel mondo giovanile – dell’immagine utopica di un
passato che si connota semplicemente come ritorno ad un’epoca di supposta
sicurezza. Siamo ben lontani dunque, osserva il prof. Alovisio, dalla
profondità con cui Benjamin aveva interpretato l’Angelo di Klee, sulla base di
una concezione dialettica del rapporto fra presente e passato: è come se ad un
secolo di distanza, con un totale cambio di segno, davanti agli occhi sbarrati
dell’Angelo si stendesse non già il passato ma il futuro, e le sue ali
venissero piegate dalla violenza di un tempesta che non giunge dal cielo, bensì
dall’inferno di un futuro immaginato e temuto ancor prima che accada,
spingendolo verso un passato percepito come paradisiaco…Non tutti, tuttavia,
condividono questa visione, e non mancano segnali di speranza che permettono al
relatore di concludere con una nota positiva questo discorso sulla Bauhaus, cui
ha inteso dare un andamento circolare passando dal passato al presente.
3. LA
“CITTADELLARTE”
DI
MICHELANGELO PISTOLETTO
Il terzo Paradiso
Da
alcuni anni un artista proveniente dall’esperienza dell’“arte povera”
piemontese, ma capace poi di ampliare veramente il suo sguardo sul futuro, sta
conducendo a Biella un’esperienza veramente innovativa: utilizzando un grande
opificio ha infatti dato vita ad un modello di scuola d’arte che il relatore
giudica molto interessante, con caratteri vicini a quelli della Bauhaus. Attraverso
le parole del manifesto programmatico e le immagini che intanto scorrono sullo
schermo, siamo dunque venuti a conoscere questa città dell’arte il cui nome
incorpora significativamente tanto quello di “cittadella”,
a
indicare un’area in cui l’arte è protetta e ben difesa, quanto quello di
“città”, di polis, che corrisponde all’idea di apertura e di interazione con il
mondo del suo ideatore (in essa vengono ospitati studenti provenienti dai più
vari paesi, secondo un ideale multiculturale e in una prospettiva autenticamente
comunitaria). Secondo Michelangelo Pistoletto la “cittadellarte” vuole essere
un grande laboratorio, un generatore di energia creativa teso a sviluppare
processi di trasformazione responsabile nei diversi settori della vita sociale.
Dal punto di vista architettonico e organizzativo si presenta con un impianto
di tipo cellulare: è composta cioè da un nucleo centrale che si suddivide poi
in vari nuclei a cui l’artista ha dato il nome di “uffizi”, ognuno dei quali
svolge un’attività specifica secondo un progetto comune, occupandosi tanto di
arte quanto di educazione, economia, ecologia, spiritualità. Siamo dunque molto
vicini all’esperienza della Bauhaus, secondo il prof. Alovisio, perché affine
è il tentativo di unire la prospettiva teorica con quella operativa, la dimensione
utopica con quella concretamente realizzabile (un terzo paradiso? Così
definisce infatti l’autore il tentativo di mettere insieme natura e cultura,
scuola e territorio, passato e presente, rappresentandolo simbolicamente con
una linea che
anziché
chiudersi a formare un solo cerchio genera al suo interno un altro cerchio più
grande, a dare l’idea di un infinito in cui tutte le ambivalenze possibili –
l’io e il tu, la natura e la cultura, il passato e il presente - possano integrarsi).
(Questa
immagine simbolo è stata riprodotta da Pistoletto in diverse occasioni e
luoghi, uno in particolare ci ha toccato da molto vicino
RIFLESSIONI
CONCLUSIVE:
E’ dunque con la
presentazione di questo simbolo, aperto al futuro e non dimentico del passato,
e con la visione di alcune installazioni molto suggestive realizzate da
Michelangelo Pistoletto, che il prof. Alovisio termina la sua esposizione, regalando
ai suoi ascoltatori alcuni versi del poeta friulano Pierluigi Cappello, molto
intensi oltre che veramente pertinenti al tema dell’incontro (N.B. = li
riprodurremo a fine pagina, offrendoli anche noi come dono ai cento lettori del nostro blog). Dopo di che, come sempre, e in particolare
quando gli incontri di CircolarMente hanno un più spiccato andamento
seminariale, si apre uno spazio di discussione e di riflessione comune, senza
necessariamente articolarsi nello schema riduttivo di domande e risposte. In
questo caso ci si interroga particolarmente sull’effettiva possibilità per
l’arte di svolgere una funzione sociale, e sulle difficoltà inevitabili che
incontra nel rapportarsi con la storia e con il potere. Un tema, questo, che
come ricorda il prof. Alovisio era già stato affrontato in modo estremamente
lucido e avvertito dallo stesso Benjamin, in un testo del 36 intitolato
“L’opera d’arte nell’epoca della riproducibilità tecnica”. Benjamin notava infatti che l’arte, perdendo
l’aura di sacralità che aveva nel mondo classico in cui l’opera era unica, aveva
davanti a sé un sentiero davvero stretto fra il diventare asservita al potere o
il mettersi al servizio di una visione etica e dunque nel solco dell’umanesimo
(pensiamo, osserva il relatore, al passaggio dalla Bauhaus o dal costruttivismo
russo al realismo di stampo sovietico e nazista, pilastro del regime, o ancora
all’arte precettistica della controriforma…). Cogliendo questo spunto, e
facendo appunto riferimento all’esperienza storica della Bauhaus e alla sua
eredità, uno degli interlocutori si chiede se davvero questo movimento
artistico e culturale sia riuscito ad
evitare il rischio segnalato da Benjamin, che in una prospettiva marxista ma
con sensibilità che potremmo definire gramsciana, pur riconoscendo all’arte la
funzione di costruire in uno spirito di comunità indicava che quando l’arte si
mette al servizio della struttura diventa
funzionale al potere. Un rischio che a giudizio di chi pone questo
problema si fa evidente nel momento in cui gli oggetti d’arte della Bauhaus
cominciano a richiamare l’interesse imprenditoriale e si passa dai disegni e
dalle proposte alla produzione (una parola, quest’ultima, che è pur sempre
l’architrave dei molti guasti della modernità), spostandone la finalità. Tutto
questo è ben presente al prof. Alovisio, che ricorda il tentativo della pop art
americana di affrontare il tema della mercificazione dell’oggetto d’arte portandolo
all’eccesso. Tuttavia, che il sistema abbia vinto storicamente non rende a suo
giudizio meno fecondi i semi che sono stati sparsi, come dimostra l’esperienza
di Pistoletto e come vorrebbe essere, in piccolissima parte, quella di Point
Zero, un tentativo cioè di riprendere queste tracce, di vivificarle…Anche altri
interlocutori del resto ritengono che vada riconosciuto come positivo il
tentativo di Gropius di portare, in un contesto industriale in cui la
produzione di oggetti rischiava di essere depauperata della bellezza, quel
sovrappiù di bellezza e di significato che gli oggetti d’arte possono
contenere, pur non essendo nelle sue intenzioni il fare qualcosa di dirompente
rispetto ai processi del capitalismo. Segnaliamo ancora un ultimo intervento
che pone l’accento su di un altro tema, e cioè sull’enorme distanza fra il
contesto in cui operavano questi artisti e quello odierno, il che rende
problematico il raffronto e la valutazione di questa eredità. Gli anni venti
erano infatti caratterizzati tanto dall’avvento di una tecnologia che metteva a
disposizione degli artisti possibilità prima impensate, quanto da un clima
politico culturale fortemente instabile, in cui lo sganciamento dalle forme
della tradizione, qualunque sia il nostro giudizio su di esso, liberava forti
energie creative. Nessuno del resto si poneva allora il problema della
sostenibilità ambientale delle nuove tecnologie, e il futuro sembrava
completamente aperto. Ora non è così, anche gli artisti si devono confrontare
col problema del limite, di un’economia sostenibile, di una società piena di
vincoli…Si torna poi a parlare del tempo, del rapporto fra passato e futuro, cogliendo
la suggestione della poesia di Cappello che parla del passato come qualcosa che
agisce ancora in noi: di cosa vogliamo fare di questo passato, della
possibilità di poter davvero cogliere in esso quel tanto di irrisolto che
contiene, per liberare potenzialità che non si sono realizzate ma che
potrebbero ancora tornare a significare.
N.B.= Si chiude così un
incontro in cui l’appassionata esposizione del relatore ha trovato una forte
rispondenza nell’interesse degli ascoltatori. Dal canto nostro, abbiamo cercato
di renderne conto restando il più possibile fedeli alle parole del relatore e
delle persone che sono intervenute nel discorso.
Per CircolarMente, Enrica Gallo
OMBRE
...
IL FUTURO NON E’ PIU’ QUELLO DI UNA VOLTA, E’ STATO SCRITTO
DA
UNA MANO ANONIMA, GENIALE
SU
DI UN MURO GRAFFITO ALLA PERIFERIA DI UDINE,
IL
FUTURO E’ CIO’ CHE RIMANE, CIO’ CHE RESTA DELLE COSE CONVOCATE
NELLO
SCORRERE DEI VOLTI CHIAMATI, AGGIUNGO IO.
…
E ANCHE SE LE VOCI DEL MONDO SI APPUNTISCONO
E
QUALCOSA DIVIDE L’OMBRA DALL’OMBRA
MENO
SOLO MI PARE DI ANDARE, PREMENDO UN PIEDE
DOPO
L’ALTRO, SECONDO LA FORMULA DEL LUOGO,
DAL
BASSO ALL’ALTO, SEGUENDO UNA SALITA.
(dalla
raccolta “Azzurro elementare”, di Pierluigi Cappello)
Nessun commento:
Posta un commento