La parola del mese
A
turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di
aprirsi verso nuove riflessioni
Marzo
2018
Questa “parola del
mese” è riferita prima ancora che ad un concetto filosofico, ad un
atteggiamento ormai divenuto istintivo, ad una forma mentis ormai così
profondamente radicata, in tutti noi, perlomeno nelle culture “occidentali”, da
rendere molto difficile se non impossibile la sua stessa consapevolezza.
Cresciuta parallelamente allo svilupparsi della civiltà umana in questa parte
del mondo guida e uniforma gran parte dei nostri pensieri e delle nostre azioni.
Proprio per questo sarebbe quanto mai utile, per non restare accecati dalla sua
forza, averne maggiore coscienza. Farlo potrebbe inoltre meglio indirizzare
buona parte del nostro agire ed aiuterebbe nella risoluzione di non pochi dei
tanti problemi che assillano l’umanità. Parliamo di…..
ANTROPOCENTRISMO
(da Wikipedia) = L'antropocentrismo
(dal greco anthropos, "uomo” e kentron
"centro" è la tendenza - che può essere propria anche di una teoria,
di una religione o di una semplice opinione - a considerare l’uomo e tutto ciò
che gli è proprio, come centrale nell’intero Universo. Una centralità che può
essere intesa secondo diversi accenti e sfumature: semplice superiorità
rispetto al resto del mondo animale, preminenza ontologica su tutta la realtà,
in quanto si intende l'uomo come espressione immanente dello spirito che è alla
base dell'Universo.
L’aspetto che accomuna le più rilevanti posizioni filosofiche
occidentali apparse prima della metà del XX secolo pare essere la tendenza ad
assumere una prospettiva human-centered, incapace cioè di decentrare la
riflessione etica, ontologica ed epistemologica dagli agenti umani.
Un primo esempio di concezione antropocentrica si ha nel V
secolo a.C. con Socrate ed i sofisti. I filosofi presocratici si interessavano
principalmente della natura circostante e del cosmo visto nel suo insieme. Con
Socrate e i sofisti, invece, l'attenzione si sposta sull'uomo. Protagora sostiene
che l'uomo è la misura di tutte le cose, ponendo quindi l'essere umano
come criterio al centro dell'universo. Conosci
te stesso diceva Socrate, proprio indicando la superiorità della conoscenza
dell'uomo stesso rispetto alla conoscenza della natura. Con il periodo
medioevale, con Agostino si mantiene e si rafforza la visione antropocentrica e
mistica dell'universo, ponendo l'uomo al centro del mondo in quanto maggiore
creazione di Dio e nel fare questo si affida alla visione aristotelica del
cosmo, l'uomo ha la responsabilità di scegliere tra bene e male, ed in questo è
unico tra i viventi, essendo l'unico dotato di intelletto. Nel corso di questo
lungo periodo saranno in pochi a contestare la visione di un mondo
antropocentrico, Giordano Bruno contesterà la finitezza dell'universo,
l'esclusiva umana dell'intelletto e sosterrà addirittura la metempsicosi, tutto
questo gli costerà la vita, vittima della Santa Inquisizione nel 1600. Galileo
Galilei riuscirà invece a salvare la sua vita, abiurando alla visione
copernicana dell'universo, che toglieva la terra dal centro del cosmo. Ma
bisognerà aspettare il secolo dei lumi per ridimensionare definitivamente l'ego
della cultura europea da vertice della creazione. Il più grande colpo contro la
prospettiva antropocentrica viene sferrato nel 1859 ad opera di Charles Darwin
che esporrà il meccanismo della selezione naturale, del quale l'uomo sarebbe un
prodotto casuale assieme alle altre creature che convivono con noi nel nostro
pianeta. Bisogna precisare che l'antropocentrismo è una caratteristica
peculiare delle civiltà euroasiatiche, le culture africane, precolombiane e
aborigena non contemplano tale visione del cosmo, è probabile che le visioni
antropocentriche del mondo siano infatti inevitabili in tutte le civiltà che
sviluppano un certo livello tecnologico, con relativa antropizzazione del
territorio.
Completiamo questa breve descrizione con un intervento, centrato sugli
aspetti più filosofici dell’antropocentrismo, del filosofo Leonardo Caffo (Università degli Studi di Torino, autore di
diversi testi sul tema) pubblicato nell’Aprile 2017 sulla rivista on-line “SCIENZE E RICERCHE”, con
l’avvertenza di armarsi per leggerlo al meglio, di una piccola dose di
pazienza, stante la sua relativa lunghezza ed articolazione, e di attenzione vista una sua
certa complessità
I due dogmi dell’antropocentrismo
Esistono
due dogmi, due false verità socialmente e filosoficamente accettate, che
riguardano l’antropocentrismo. L’antropocentrismo è quel sistema metafisico
secondo cui una particolare specie, Homo Sapiens, abbia un
qualche tipo di relazione privilegiata con gli oggetti del mondo. I suoi due
dogmi sono: (a) che sia
impossibile uscirne; (b) che lo
stesso tentativo di uscirne sia esso stesso antropocentrismo (un
antropocentrismo più forte, paradossalmente). Il mio scopo, nelle pagine che
seguono, è innanzitutto quello di esplorare i due dogmi nelle loro ragioni essenziali:
una volta compresi gli argomenti mostrerò la loro inconsistenza verso una
strategia concreta di uscita dall’antropocentrismo.
Impossibile uscirne
Nel suo
storico articolo “What Is it Like to Be a Bat?” del 1974 Thomas Nagel (filosofo statunitense contemporaneo) dà un
argomento importante: qualsiasi cosa si possa immaginare dell’essere un
pipistrello al massimo sapremmo cosa proveremmo noi ad esserlo, e mai cosa si prova ad essere un pipistrello in quanto pipistrello. L’antropocentrismo, come
atmosfera, diventa qualcosa da cui davvero diventa impossibile uscire e che è
legato ai nostri limiti cognitivi: le forme di vita, come argomentato da
Wittgenstein, sono incommensurabili. In questo senso l’antropocentrismo è
appunto cognitivo: la nostra vita mentale consente di immaginarsi come se fossimo
altri animali (è dunque un meccanismo finzionale), ma non di comprendere cosa
si prova a esserlo davvero. La prima cosa da fare, dunque, è tentare di
comprendere cosa si intenda per antropocentrismo senza partire direttamente dal
limite identificato da Nagel ma ragionando, piuttosto, in positivo.
L’antropocentrismo
si articola su tre assi: metafisico, scientifico ed etico. Si considerino le
tre immagini che seguono:
immagine 1
immagini 2
– 3
La
contrapposizione tra specismo e antispecismo è l’etica, quella tra scienza e
religioni positive è l’asse scientifico, e quella tra sistema tolemaico e
copernicano è la metafisica. L’antropocentrismo è specismo, perché Homo Sapiens
è unico e privilegiato ente morale, è tolemaico perché Homo Sapiens è al centro
o al vertice della metafisica, e infine è anti-darwinista perché considera Homo
Sapiens come un processo di derivazione top-down (dall’alto al basso) e non, come
nell’evoluzionismo, come processo bottom-up (dal basso all’alto). In
questo senso l’antropocentrismo è un sistema a tre posti, dove solo le tre
stazioni contemporaneamente agiscono creando un sistema comune: la narrazione
che ne emerge è quella di una forma di vita che più che impossibilitata a
uscire dalla propria atmosfera cognitiva (come in Nagel) è forse, piuttosto,
intrappolata in una false immagine di sé. È utile in tal senso riportare alla
mente l’aforisma 115 della Gaia Scienza di Friedrich Nietzsche “L’uomo è stato educato dai suoi errori:
in primo luogo si vide sempre solo incompiutamente, in secondo luogo si
attribuì qualità immaginarie, in terzo luogo si sentì in una falsa condizione
gerarchica in rapporto all’animale e alla natura, in quarto luogo escogitò
sempre nuove tavole di valori considerandole per qualche tempo eterne e
incondizionate, di modo che ora questo, ora quello degli umani istinti e stati,
venne a prendere il primo posto e in conseguenza di tale apprezzamento fu
nobilitato. Se si esclude dal computo l’effetto di questi quattro errori, si
escluderà anche l’umanesimo, l’umanità, e la “dignità dell’uomo”.
I tre assi
dell’antropocentrismo sono la traduzione nel linguaggio contemporaneo dei
quattro errori identificati da Nietzsche da cui, tuttavia, una via di uscita
sembra possibile. Il primo dogma dell’antropocentrismo è tutto costruito sulla
sua struttura cognitiva: non posso pensare come se non fossi colui che sta
pensando, dunque sono chiuso in me stesso. In realtà l’antropocentrismo più che
un meccanismo cognitivo è una descrizione dell’umano o, più precisamente, una
metafisica: centrato, moralmente isolato e sconnesso dal resto del vivente.
Ovviamente esistono almeno due tipi di antropocentrismo, diciamo una sua
versione “debole” secondo cui Homo Sapiens sia ovviamente portato a vedere le
cose del mondo dalla sua specifica immagine specie-specifica, e una “forte” che
deriva da questa ovvietà l’idea che il proprio modo di vedere le cose sia anche
il miglior se non, talvolta, addirittura l’unico. Che l’antropocentrismo sia
soprattutto un sistema che vizia dalle fondamenta le possibilità della ricerca
in metafisica è la tesi di base della cosiddetta Object-oriented ontology
(OOO): scuola di pensiero che rifiuta che l’esistenza umana abbia un qualche
privilegio rispetto all’esistenza degli oggetti non umani. L’idea è che la
maggior parte delle tassonomie ontologiche, quelli che vengono chiamate in
gergo tecnico “gli inventari del mondo”, siano in realtà inventari del mondo di
Homo Sapiens e dunque il risultato non sarebbe mai un’ontologia in quanto tale
ma una nostra
ontologia. Se il primo dogma dell’antropocentrismo fosse vero, e dunque uscire
dall’antropocentrismo forte impossibile, ne deriverebbe anche una impossibilità
della metafisica in quanto tale: tutto si risolverebbe in ermeneutica anche
quando la chiamiamo ontologia.
Il
tentativo di uscita dal primo dogma da parte della Object-oriented ontology
risiede nella inaugurazione di una ontologia degli oggetti stessi senza
alcuna valorizzazione di azioni concrete che ci leghino a essi piuttosto che a
reti di significazione per palesarne l’esistenza entro il nostro dominio
linguistico. Secondo Graham Harman (filosofo statunitense contemporaneo) uno dei primi tentativi in
tal senso in metafisica è quello dello Zuhandenheit di
Heidegger: il ritiro degli oggetti da azioni pratiche e teoriche in modo tale
che la realtà oggettiva delle cose non possa mai essere esaurita da una
praticità d’uso o da una compressione categoriale di una qualche indagine
teorica (gli oggetti si ritirano, secondo Harman, non solo dalla interazione
umana ma anche dalle relazioni con gli altri oggetti). Si tratta di concepire
una forma di metafisica che trascenda dal fatto, quasi banale, che siamo noi
stessi a pensarla come metafisica: cosa sono gli oggetti in quanto oggetti?
Se Harman
cerca la soluzione in Heidegger, tuttavia, l’uscita dall’antropocentrismo è
sempre parziale e il dogma resta perché si continua a ragionare in modo
controfattuale: come vedrei le cose io se non le vedessi ma sapessi comunque
che esistono? Sembra una forma meno animalista del paradosso di Nagel ma la
sostanza non cambia: quale che sia il mio potere immaginativo, o la mia
comprensione dell’ontologia oggettuale di Heidegger, resta sempre un filtro tra
me e gli oggetti. La strategia di uscita dall’antropocentrismo, per
salvaguardare la possibilità della metafisica, sta invece nell’ecologia
filosoficamente intesa: il passaggio, momentaneo e strumentale dagli oggetti
come campo di indagine primario, alle relazioni tra gli oggetti – il tra delle
cose. Questa forma di ecologia, che nella sua fase iniziale si inaugura con
Jakob Johann von Uexküll (filosofo, biologo e zoologo estone, 1864-1944) e che non
a caso influenza anche Heidegger, concentra il suo potenziale sulla relazione
tra un oggetto X e il modo con cui questo viene visto da un’altra forma di vita
di cui possiamo studiare con buona precisione la ricostruzione dello spazio
visivo.
Consideriamo
l’immagine qui sopra. La parte sinistra mostra il nostro modo di percepire un
particolare oggetto, in questo caso concentriamoci sul fiore, mentre la parte
destra mostra il modo in cui percepiscono questo stesso oggetto gli uccelli.
Ora, a differenza degli esseri umani, gli uccelli hanno una capacità
percettiva tetracromatica: i quattro tipi di coni di cui sono dotati fanno
veder loro rosso, verde, blu e ultravioletto contemporaneamente (alcuni rapaci
hanno una visione più dettagliata degli esseri umani, una grande aquila vede con
una precisione risolutiva superiore circa 2,5 volte la nostra). Nelle proprietà
volte a classificare all’interno della nostra metafisica il fiore, per
posizionarlo in un qualche scaffale dell’essere, metteremo delle proprietà che
non esisterebbero nella metafisica del rapace. Eppure in questa diversità
risiede l’argomento di uscita dal primo dogma dell’antropocentrismo: affinché
possano esistere diversi modi di vedere X ci deve essere un modo che li
prescinde, in cui X comunque sta, e che consente poi alle sue qualità
secondarie di manifestarsi in modo diverso sulla base dei meccanismi
interpretativi, cognitivi o percettivi che si concentrano su di esso. Ogni
oggetto dell’antropocentrismo esiste al di fuori dell’antropocentrismo
spogliato delle sue proprietà contingenti umano-centrate. Se il primo dogma
dell’antropocentrismo è che sia impossibile uscirne perché non posso che
immaginare cosa significherebbe uscirne allora, attraverso la comparazione
percettiva, è superato: la realtà anticipa l’ermeneutica e la rende
possibile. Questa è anche la ragione per cui l’animalità è una forma
privilegiata di alterità quando si discute di metafisica: consente l’uscita
dell’antropocentrismo attraverso uno spazio terzo di confronto delle assunzioni
che pensiamo governare la nostra realtà (è, tecnicamente, una specie di
condizione di controllo dei nostri esperimenti mentali). Per governare l’uscita
l’azione sui tre assi geometrici che abbiamo osservato, in relazione al
cerchio, deve avvenire simultaneamente inserendo, tra le opzioni della nostra
sperimentazione, la possibilità che tutta la metafisica occidentale sia stata
viziata dal primo dogma come, del resto, argomenta magistralmente Jacques
Derrida quando nel 2001 viene insignito del Premio Adorno. Se è alla metafisica
che siamo interessati, e non alla nostra metafisica, è necessario
andare all’essenza degli oggetti al di là di come questi si inseriscano nel
nostro universo percettivo, linguistico e addirittura concettuale.
Un’uscita antropocentrica
Il secondo
dogma, conseguente al primo, è che il tentativo di uscire dall’antropocentrismo
sia esso stesso antropocentrismo: si genera così un paradosso volto a
consacrare il dogma come certezza. Il dogma ha un suo primo e intuitivo
fondamento: se il tentativo di uscire dall’antropocentrismo è volto a riportare
Homo Sapiens a una dimensione narrativa non umano-centrica perché mai dovrebbe
operare in tal senso, dato che sarebbe l’unica forma di vita animale a farlo?
Il gatto è per caso interessato a uscire dal gatto-centrismo? Ancora una volta,
dunque, assisteremmo a una sorta di antropocentrismo di ritorno per cui con la
scusa di abbandonarne gli assunti dobbiamo in realtà compierne un esercizio
duplice e assoluto. Essendo interessato a una prospettiva metafisica tralascerò,
volutamente, il fatto che questo, se è vero per l’antropocentrismo, allora lo è
anche per fenomeni di discriminazione morale come il sessismo o il razzismo: le
conseguenze etiche del secondo dogma, prese alla lettera, potrebbero infatti
essere devastanti. Concentriamoci invece sull’aspetto più genuinamente
speculativo della faccenda.
Se il
secondo dogma ha un senso lo ha nel momento in cui mostra che per dire di poter
abbandonare una teoria T, perché infondata, abbiamo paradossalmente bisogno
degli strumenti stessi di T. Dunque la risoluzione del problema, se è
possibile, passa dall’uso di una strumentazione diversa da quella di T per
contrastarla. L’Esercizio di T su T è una strategia forte, che effettivamente
alimenta il secondo dogma, mentre per aggirare il problema è necessaria una
strategia diciamo debole che avvicini all’esterno del cerchio senza utilizzare
il proprio che ha permesso la chiusura al suo interno. Cominciamo col dire che
l’antropocentrismo è sempre un meccanismo di relazione tra il dentro (mondo
interno) e il fuori (mondo “supposto” come esterno) e uscirne non
significherebbe altro che una relazione di consapevolezza del “filtro HS” sulla
realtà dei fenomeni che si manifestano. Formulando la sua teoria della
“Onticology” il filosofo Levi Bryant (filosofo statunitense contemporaneo) ha sostenuto che la
rivoluzione copernicana di matrice kantiana, considerata come una sorta di
manifesto dell’antropocentrismo, abbia ridotto tutta la ricerca filosofica alla
ricerca della relazione tra questo dentro e questo fuori: che sia stata la
fenomenologia in filosofia continentale, piuttosto che la svolta cognitiva in
filosofia analitica, gli oggetti in quanto tali della metafisica sono passati
in secondo piano rispetto al modo in cui noi ci relazioniamo a essi. Una cosa
che ci accade non accade mai e basta, non riusciamo che a concentrarsi sui modi
attraverso cui questa cosa è accaduta a noi mentre per un cane le cose,
semplicemente, avvengono. In parte tutto ciò ha a che fare con la temporalità complessa
di Homo Sapiens, dall’altra parte con il fatalismo tipico di certa
fenomenologia: le cose si manifestano, direbbe Husserl, in quanto a noi
manifeste. L’uscita dall’antropocentrismo che abbiamo analizzato contrastando
il primo dogma depotenzia il peso della nostra relazione con l’oggetto X
considerando altre relazioni diverse con quello stesso oggetto e
caratterizzandolo dunque, come parte dell’arredo della realtà, un pezzo di
resistenza all’antropocentrismo. Partire dalla resistenza delle cose significa
partire dagli oggetti (passività) e non dai soggetti (attività) dunque,
paradossalmente, significa situarsi nel “prima” delle condizioni di possibilità
stesse dell’antropocentrismo.
Partire
dagli oggetti è anche ciò che fanno gli animali (e di alcuni non è peregrino
dire che hanno una loro metafisica), ed è dove il secondo dogma comincia a
tremare: quando si scaricano le relazioni con gli oggetti sul corpo e non più
sulla vita mentale. Se è la relazione tra il corpo e gli oggetti che iniziamo a
considerare il secondo dogma dell’antropocentrismo cade perché costruito sul
presunto esercizio di ragione, ovvero di logica, per tentare l’uscita dal
cortocircuito dell’antropocentrismo. Se sia possibile una metafisica corporale
è tema ricorrente nella filosofia contemporanea almeno da Deleuze in poi: ma
cosa significa? Il nostro modo di classificare gli oggetti in ontologia è tutto
orientato da aspetti concettuali (elenco di proprietà) o visivi: eppure, al di
fuori dell’antropocentrismo esistono altre caratteristiche che riguardano il
corpo (gli odori, i suoni) che complicano di molto le ordinarie tassonomie
filosofiche. Uscire dall’antropocentrismo in modo non antropocentrico significa
farlo dalla porta di servizio: depotenziare le qualità specie-specifiche e
concentrarsi su quelle che possiamo definire “trasversali”. In questa direzione
la critica all’antropocentrismo si basa sull’osservazione delle qualità comuni
a tutta la vita animale e non sul nostro proprio specifico; se
l’antropocentrismo filosofico, pensiamo almeno ad alcune stazioni concettuali
come quelle di Aristotele, Cartesio o Heidegger, è costruito isolando presunte
proprietà univoche di Homo Sapiens (via mentale, linguaggio, mortalità
consapevole), la sua critica non può effettivamente avvenire seguendo il
paradosso del secondo dogma ovvero stendendo una sorta di “velo di ignoranza”
sulla nostra appartenenza di specie esercitando proprio una delle
caratteristiche che hanno edificato l’antropocentrismo. L’uscita, dunque,
guidata da quella che è stata definita una “filosofia del corpo” che ci
consente di tornare a quel paragone, per nulla sarcastico, con il
gatto-centrismo. Perché noi usciamo dal loro cerchio e “loro” no? Prima di
tutto perché il nostro cerchio è un sistema-mondo e non semplicemente un filtro
sul reale: il secondo caso, se non in relazione alle imposture metafisiche che
possono derivarne, è quasi naturale. Considerare la realtà come
umano-orientata, in senso debole, non ha niente di patologico ed è una
conseguenza di quelle che la psicologia della visione chiama “affordance”: gli
oggetti del mondo vengono verso di noi e stimolano intuizioni sul loro corretto
utilizzo – da questo fenomeno percettivo, effettivamente, può seguire
l’inferenza fallace che quegli stessi oggetti siano lì dove sono soltanto per
noi. Altro discorso è invece l’antropocentrismo che stiamo considerando, quello
che abbiamo definito “forte”, che del filtro sul reale fa un’istituzione
piuttosto che un limite; l’uscita attraverso il corpo consente un’uscita dal
cerchio in orizzontale piuttosto che in verticale: La prima figura mostra
l’uscita su cui si edifica il dogma che stiamo prendendo in considerazione,
mentre la seconda un’uscita diversa che è la rappresentazione geometrica del
“divenire animale” teorizzato proprio da Gilles Deleuze. Non un
antropocentrismo che si fortifica addirittura uscendo consapevolmente dal suo
privilegio quanto, piuttosto, una ricerca delle proprietà che rendono tutta la
vita animale intrinsecamente legata. È in questa cornice che propongo di
inquadrare il progetto metafisico più recente della Object-oriented ontology,
ovvero la cosiddetta “ecologia decadente” teorizzata da Timothy Morton (filosofo inglese
contemporaneo) secondo cui l’ecologia, intesa in senso ontologico, sia un sistema da
sostituire alla metafisica classica. Morton, in una sorta di spinozismo
recente, propone il concetto di “maglia” secondo cui tutte le forme di vita
sono sempre già implicate nella ecologia, che non è mai qualcosa di cui ci si
possa occupare oppure no rendendola paradossalmente un’attività
antropocentrica, quanto piuttosto la condizione di possibilità del
riconoscimento di una differenza «coesistenziale» per affrontare lo studio
dell’ambiente e la classificazione dei suoi oggetti. Cosa significa prendere il
posto della metafisica? Morton ha difeso in tal senso la nozione di
“iper-oggetto”: un’entità descrittiva che si propone di sostituire quella di
oggetti, su cui l’ontologia contemporanea lavora almeno dalla pubblicazione del
celebre articolo “On What There Is” di Quine (filosofo e logico statunitense 1908-2000) in poi, e
che descrive le entità come liquide, viscose, decentrate, graduali e
intersoggettive. Per andare direttamente al punto: ogni ente è definibile solo
in relazione (pur non essendo la relazione stessa) e l’ecologia, come
disciplina che si occupa del “tra” delle cose, è molto più utile della
metafisica che si occupa del “proprio” delle cose. Viene dunque a svilupparsi
una sorta di “altra ecologia”, non più come pratica semi-paternalista o
quantomeno interna al vocabolario della filosofia morale, ma come narrazione
del mondo che evidenzia appunto le caratteristiche di questa «maglia»:
l’insieme di tutte le forme di vita, ma anche l’insieme di tutte le forme di
vita che sono morte e hanno concimato e modificato la Terra, la sua struttura e
la sua storia. Tutto è vita, anche ciò che non sembrerebbe esserlo: il ferro è
un sottoprodotto del metabolismo batterico e così anche l’ossigeno. Le montagne
possono essere fatte di conchiglie e batteri fossili e la cosa decisiva è che
la maglia non ha nessun elemento più importane o essenziale degli altri.
L’ecologia non è altro che tutto ciò che possiamo pensare, ma anche tutto ciò
che non possiamo pensare: il futuro è collaborazione e non ha nulla a che fare
con la posizione umana che anche quando pensa di prendersi cura del pianeta sta
in realtà facendo esercizio di antropocentrismo. L’ecologia esiste al di qua e
al di là dell’umano: è ciò che ci ospita e ciò che abbandoneremo, una sorta di
“matrice”, e si tratta dunque di colmare una dicotomia piuttosto che di
risolverla. In questo senso l’uscita è dunque visibile come un immenso
allargarsi del cerchio o, più radicalmente, come una sua eliminazione
definitiva: se proprio si è affezionati alla parola, e l’ecologia richiama nel
nostro dizionario ancora più l’etica che l’ontologia, si tratta di
intraprendere una sorta di “metafisica della periferia”. Tutta la metafisica
occidentale è in fondo un’organizzazione verticistica, pensiamo almeno alle Categorie di
Aristotele, volta a evidenziare le caratteristiche speciali di Homo Sapiens
mentre con l’ecologia ontologica assistiamo a un capovolgimento di questa
procedura stratificata perché non ci sono né centri, né vertici. Il secondo
dogma cade quando si comprende che non c’è niente di antropocentrico nel
“sentirsi parte di” ma soltanto nel “sentirsi superiore a”.
La metafisica dopo i dogmi
Se i due
dogmi sono correttamente confutati le implicazioni per la metafisica, e per un
suo ripensamento, sono molteplici. Innanzitutto emerge che molto di ciò che
classifichiamo è classificato male, o comunque senza tenere conto del filtro.
Sempre Morton, sulla scia di Harman, ha sostenuto che uno di questi tipici
errori riguarda il nostro rapporto con l’ontologia degli oggetti naturali:
l’idea semplice, anche se disarmante per tutta la retorica del “naturalismo
filosofico” che da Thoreau a oggi ha influenzato centinaia di filosofi, è che
una qualsiasi critica ecologica debba essere ripulita dalla biforcazione
“natura/civiltà” o, più precisamente, dall’idea che la natura sia qualcosa che
esista al di fuori delle mura della società contemporanea. Non si tratta di
superare la solita dicotomia “natura/cultura”, perché altrimenti sarebbero
bastati Adorno, Horkheimer, e la Scuola di Francoforte in generale, ma
proprio di sovvertire la tassonomia dell’ontologia contemporanea: anche quelli
che chiamiamo “oggetti naturali” sono, in realtà, “oggetti sociali”. Ancora:
una multa per divieto di sosta e il lago di Walden nel Massachusetts non sono
poi così diversi nella loro struttura metafisica perché entrambi oggetti
costruiti dalle nostre credenze, intenzioni o documenti (ovviamente dipende
dalla diversa ontologia sociale che adottiamo). Questo è proprio uno di quei
tipici casi su cui agisce il filtro che porta a considerare come naturali o
indipendenti da noi anche entità che in realtà sono ben porzionzate dal nostro modo
di stare al mondo. Se la metafisica è lo studio delle qualità delle cose del
mondo allora, all’interno dell’antropocentrismo, la metafisica è totalmente
viziata: un’illusione, inverificabile, di sapere come e dove stanno le cose
della realtà.
Riconsideriamo
un’altra immagine volta a correlare gli oggetti con diversi soggetti, ma questa
volta non pensiamo a un’immagine visiva ma temporale. Come percepiscono il
tempo le altre forme di vita? Alcuni animali possono percepire un movimento per
noi veloce come molto più lento perché esiste, in relazione alla percezione
temporale, una grande differenza tra grandi e piccole specie. Gli animali più
piccoli di noi vedono il mondo in slow-motion e se la metafisica del tempo
andasse oltre l’orizzonte degli animali vertebrati, per esempio le mosche,
scopriremmo che gli insetti possono percepire la luce fino a quattro volte più
velocemente di quanto possiamo noi. In questo caso l’oggetto X è il tempo e le
relazioni, nei suoi confronti, sono molteplici quante sono le forme di vita. Spesso
per spiegare l’ontologia del tempo consideriamo più i paradossi generati dalla
fisica o dalla logica che l’incredibile variazione delle percezioni temporali
che esistono tra i viventi. Esattamente come per il fiore anche il secondo è un
oggetto polimorfo: la sua forma cambia sulla base dell’apparato percettivo che
lo approccia. Se come suggerisce Levi Bryant, dunque, usciamo dalla relazione
per concentrarci sull’oggetto cosa resta? Come classifichiamo oggetti che
cambiano, spesso in modo anche radicale, sulla base dell’obiettivo che li
inquadra? La metafisica interna al sistema narrativo dell’antropocentrismo, una
volta palesata, è come un’aggiunta di un quantificatore ai nostri enunciati
ontologici – il quantificatore “Per Homo Sapiens” da aggiungere, per esempio,
all’enunciato “tutte le mele alpine sono rosse”. L’uscita è l’eliminazione di
questo quantificatore e una ricerca della struttura delle cose e dunque degli
oggetti in quanto oggetti che forse, dunque, non sarebbero altro che “cose”
perché “oggetto” è sempre un ente relato. Lungi da portare a una qualche forma
di relativismo questo approccio conduce all’ontologia reale al di là di quella
descrittiva; una buona metafora da richiamare è quella tra mappa e territorio –
la mappa (ontologia descrittiva) non è il territorio (ontologia reale) però
perfezionarne la toponomastica consente di avvicinarsi al vero. Una mappa del
mondo antropocentrica è come un planisfero in cui manchino alcuni continenti o
forse, addirittura, come una rappresentazione del nostro pianeta come piatto. I
due dogmi dell’antropocentrismo sono infondati; le conseguenze di un tale
abbandono, fra l’altro, sono un offuscarsi della distinzione fra metafisica ed
ecologia; per un altro verso, invece, un accostarsi all’etologia filosofica.
Tutte le nostre conoscenze, credenze e convinzioni, dalle più futili questioni
e alle leggi più profonde dell’universo, sono un edificio fatto dall’uomo che
tocca ciò che lo trascende solo lungo i suoi margini. O, per mutare immagine,
la scienza nella sua globalità è come un campo di forza i cui punti limite sono
dati dall’antropocentrismo. Un disaccordo con ciò che troviamo fuori
dall’antropocentrismo, ovvero alla periferia una volta che abbiamo fissato il
centro sul nostro asse, provoca un riordinamento all’interno del campo; si
devono riassegnare certi valori di verità ad alcune nostre proposizioni. Una
nuova valutazione di certe proposizioni implica una nuova valutazione di altre
a causa delle loro reciproche connessioni: la rottura dei due dogmi
dell’antropocentrismo mette in discussione l’intero sistema-mondo della
filosofia. Ogni proposizione avente significato deve essere traducibile in una
proposizione (vera o falsa che sia) su esperienze non antropocentriche: o in
senso comparativo, per dire che una cosa vale all’interno del nostro dominio ma
non all’esterno (di fatto relativizzandola), oppure per mostrare che anche
fuori dal nostro dominio una determinata entità può essere presa in
considerazione. In questo senso emerge anche l’idea che l’antropocentrismo sia
una specie di principio del contesto di ordine superiore, perché al suo interno
poi ne operano degli altri, con la prerogativa di essere opaco (blind): chi lo
utilizza non sa di utilizzarlo falsando, de facto, i risultati di una ricerca
(detto di passaggio: questa ricerca può essere la vita stessa).
In
conclusione: se i due dogmi sono falsi, è falsa (o quantomeno falsificabile)
anche la maggior parte della metafisica contemporanea. L’antecedente del
condizionale sembra vero, e forse ha senso cominciare a provare e orientarsi
nel mondo guardandolo dal punto di vista del mondo stesso, e non più dal
nostro.
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