La parola del mese
A
turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di
aprirsi verso nuove riflessioni
Aprile
2018
Il vocabolario politico, il cosiddetto “politichese”, è ricco di termini “tecnici”. Molti di questi nascono sull’onda del momento e sono di più facile e sicura interpretazione, ma per molti altri, venendo da lontano ed essendo nati in contesti sotto molti aspetti specifici, il significato originario si è spesso fatto confuso ed equivoco. In alcuni casi con lo stesso termine si è passati, senza una adeguata chiarezza e consapevolezza diffusa, a definire concetti e prassi politiche molto diverse da quelle originarie, quando non alternative. La “Parola del mese” di questo mese riguarda proprio uno di questi “enigmi” terminologici del parlar politico, una parola che, ricorrendo con frequenza nel dibattito politico, merita sicuramente attenzione. Si parla infatti di……….
Riformismo
(dal vocabolario on-line Treccani) riformismo s. m. [der. di riforma]. – Movimento e metodo d’azione politica che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico, economico e sociale esistente attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme - In senso limitativo = politica, sostanzialmente conservatrice, che si limita a marginali riforme in un dato sistema sociale, senza modificare le fondamentali strutture del sistema stesso
Tutti i dizionari on-line riportano per “riformismo” una definizione simile a quella qui utilizzata. Fanno cioè riferimento al significato “classico” del termine, evidenziando la sua natura di percorso, nell’alveo delle idee “di sinistra”, alternativo a quello rivoluzionario. Sembra ormai evidente che “riformismo” abbia assunto, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso in coincidenza con il pieno affermarsi della globalizzazione, una nuova accezione radicalmente diversa, ossia quella di una sostanziale modifica “a ritroso”, nell’alveo delle idee “di destra”, di quanto era stato in precedenza “riformato” da sinistra. Eppure la parola “riformismo” tale è rimasta, creando di conseguenza inevitabili confusioni nella sua interpretazione.
Per meglio entrare nel merito è necessaria una ricostruzione storica del riformismo. Quella che qui proponiamo, una miscellanea di testi raccolti in Rete, per quanto inevitabilmente sintetica, evidenzia che già la versione classica di “riformismo” contiene esperienze molto articolate, pur restando nell’ambito, ampio, di modifica delle contraddizioni più evidenti del capitalismo……………
(parola “riformismo”)………la
sua origine si fa in genere risalire all'età illuministica, caratterizzata dall'ottimistica e illimitata fiducia nelle
capacità razionali e scientifiche dell'uomo. L'illusione di un governo affidato
alla virtuosa sapienza dei filosofi illuministi cadde però già con la Rivoluzione francese. In questi stessi anni in Inghilterra i progressi dell'industrializzazione e la crescente egemonia economico-sociale della borghesia favorirono la nascita di un riformismo liberal-radicale, in buona parte influenzato dal pensiero
filosofico di J. Bentham, che per primo, nel 1811,usò il termine reformer..
Diverse furono, nella prima parte dell’Ottocento, le vie concretamente imboccate dal riformismo
degli Stati ottocenteschi, ma tutte riconducibili a quello che è stato definito
“riformismo paternalistico” o “riformismo dall’alto” – sono tali in Francia i
governi sotto Napoleone III, quello di Disraeli in
Inghilterra e quello di Bismarck in Germania. Tuttavia questo riformismo paternalistico si
rivelò incapace di contenere i conflitti sociali, soprattutto allorché si
trattò di passare dai diritti civili a quelli politici e sociali. Un potente
corrosivo di tutte le concezioni riformistiche fu il socialismo scientifico di K. Marx, la cui visione di un'irriducibile lotta
di classe
implicava l'idea che l'unico sbocco possibile fosse quello rivoluzionario.
Tuttavia già in seno al movimento socialista, e persino comunista, si
svilupparono via via atteggiamenti riformistici con una conseguente crescente dicotomia fra la teoria, rimasta
intransigente e ortodossa, e la prassi, mirante a riformare anche radicalmente
ma non a distruggere l'ordinamento esistente, delineando così un dualismo tra
il “programma minimo”, di stampo riformista, e il “programma massimo”, proteso al rovesciamento rivoluzionario della società
capitalistica.
Dall'inizio del
Novecento, pertanto, il termine riformismo cominciò a essere comunemente usato
per indicare quelle correnti del movimento socialista internazionale che, pur
non abbandonando del tutto la visione marxiana del mondo e della storia,
respingevano le interpretazioni del marxismo “ortodosso” e le sue strategie
politiche rivoluzionarie, adottando come criterio ispiratore della loro azione
i principi legalitari della lotta parlamentare. Ma proprio il compromesso con le formazioni politiche
governative borghesi cominciò a dare un senso negativo e spregiativo al
termine, associato, soprattutto da parte dei massimalisti, alle posizioni teoriche del “revisionismo” (lettura riduttivistica del
pensiero marxista), un movimento particolarmente vivace nell'ambito della
socialdemocrazia tedesca per opera di E. Bernstein. Il riformismo socialista italiano dei primi decenni del
Novecento non può tuttavia essere definito revisionista, F. Turati e C. Treves, ad esempio, non vennero mai meno ad una certa coerenza con i
principi marxisti. Le energiche critiche
contro il riformismo condotte da Lenin e dal comunismo russo forte del successo della rivoluzione del
1917, con la collegata nascita della III Internazionale (1919) in reazione ai fallimenti della II (sorta nel 1889)
portarono la polemica antiriformista a toni violentissimi, spingendo i partiti
comunisti a rifiutare qualsiasi contatto con i socialisti riformisti. L'insuccesso
in Germania del riformismo statalista (declinato in termini di pianificazione
economica) tentato con la Repubblica di Weimar, il mancato successo del biennio rosso italiano, spianarono la strada all'avvento del nazismo e del fascismo. Per un lungo
ventennio, nell’Europa continentale, il riformismo-non ebbe modo alcuno di
rivelarsi fatta salva l’eccezione francese del “fronte popolare” di Léon Blum. Nello stesso lasso di tempo invece il
riformismo trovava nuove strade negli Stati Uniti, dove già tra fine Ottocento
e primi del Novecento i problemi creati dalla concentrazione industriale
avevano fatto nascere un movimento riformatore di matrice liberale e liberista dal quale trasse
origine, ad esempio, una coraggiosa legislazione
antimonopolistica. I dislivelli di ricchezza, interpretati come indici della
degenerazione della democrazia americana, spinsero, durante la cosiddetta Progressive Era, a realizzare profonde
riforme che toccarono anche la sfera sociale. Successivamente, di fronte al
crollo della Borsa di New York del 1929 e alla catastrofica crisi depressiva
del capitalismo americano, il riformismo fu assunto come indirizzo centrale nella
politica del New Deal. Basato sulle teorie
economiche keynesiane di uno Stato riformatore e attivamente interventista in economia, avviò concrete politiche finalizzate a sostituire
l'indiscriminato e selvaggio liberismo con un sistema di regolamentazione del
mercato in grado di riversare i benefici
delle dinamiche produttive anche sui lavoratori e i ceti meno abbienti (primo
abbozzo di Welfare State). Venne così affermandosi il paradigma di un riformismo
moderno, pragmatico e incentrato sulle leve della spesa pubblica, della
crescita della domanda interna e dei redditi, e dei principi solidaristici dell'assistenzialismo e della tutela previdenziale. Politiche analoghe presero più
timidamente forma, in questi stessi anni, in Gran Bretagna e in Svezia,
accompagnate dai contraddittori ed eterogenei esperimenti riformistici tentati
in Francia, con la politica delle riforme di struttura proposta dal Fronte Popolare,
e in Belgio, Ma solo nel secondo dopoguerra, sconfitte a caro prezzo le
dittature fascista e nazista, in Europa si adottarono politiche dichiaratamente
“riformiste”. Il risoluto programma di riforme sociali dei laburisti inglesi, saliti al potere nel 1945, divenne un punto di riferimento per
il socialismo riformista europeo. La costruzione di un moderno Stato sociale,
la politica della concertazione tra capitale e lavoro, la perequazione fiscale, lo sviluppo di sistemi di previdenza sociale e
sanitaria ispirarono così le politiche socialdemocratiche dei Paesi Scandinavi,
della Danimarca, dei Paesi Bassi e della Germania, dove il Partito socialdemocratico, specialmente dopo il Congresso di Bad Godesberg (1959), abbandonò esplicitamente il riferimento al marxismo
ponendosi l'obiettivo di controbilanciare l'economia di mercato attraverso lo
sviluppo della democrazia e del Welfare State. In Italia ai principi del riformismo si richiamò per primo il PSDI
sin dall'atto della sua fondazione nel 1947, seguito a pochi anni di distanza
dal PSI, dopo aver abbandonato i patti di unità d'azione con il PCI.
Ma anche i comunisti italiani, specialmente dopo il XX Congresso del PCUS
(1956), che avviò il processo di destalinizzazione dell'URSS, imboccarono di fatto la strada del riformismo
(“riforme di struttura”, “strategia delle riforme”) già ampiamente visibile
durante la segreteria di E. Berlinguer. Questa linea venne definitivamente sancita, subito dopo il
crollo del Muro di Berlino e la fine dell’egemonia culturale e politica
dell’URSS, con la trasformazione del PCI in PDS. Con la fondazione del PDS, e la sua 'adesione
all'Internazionale socialista, il riformismo entra ufficialmente nel repertorio
identitario del maggior partito della sinistra italiana. Meno travagliato
appare il panorama delle altre grandi forze popolari del Paese nel loro
rapporto con i valori, la cultura e la pratica del riformismo. I cattolici e le
forze di democrazia laica – soprattutto il movimento repubblicano – hanno fin dal dopoguerra declinato il loro rapporto con il riformismo
in termini pragmatici, senza porlo a livello di percorso ideologico. La stessa
Unione Europea, perlomeno fino agli Ottanta, ha fatto esplicito riferimento
all'originale e peculiare contributo del riformismo nella costruzione
dell'Europa sociale.
Fin qui il percorso della versione “classica” di riformismo. Gli
ultimi decenni del secolo scorso vedono l’irrompere sulla scena di due elementi
decisivi per un radicale cambio di rotta: la globalizzazione dei mercati e
della produzione e il sorgere di teorie economiche, e conseguenti politiche
governative, definite con il termine di “neoliberismo”.
In quel percorso che anni dopo Luciano Gallino definirà “lotta
di classe all’incontrario, quella dei primi contro gli ultimi” il termine
riformismo inizia ad assumere un significato radicalmente diverso……
…….Il riformismo
classico inizia già ad avere fiato corto nel misurarsi, a partire dagli anni
settanta, con le nuove domande poste da movimenti innovativi – il Sessantotto
ed il femminismo in particolare – e le
nuove problematiche dell’ambientalismo e dei diritti civili e dei
crescenti flussi immigratori. Il sistema sin lì consolidato del Welfare State
fatica a rispondere alle nuove sfide. Questa evidenti difficoltà di adeguamento
ad una fase diversa sono poi definitivamente fatte emergere dall’avvento della
globalizzazione. Il fenomeno della globalizzazione fin dal suo primo
manifestarsi investe tanto la sfera delle relazioni propriamente economiche
(finanziarie e produttive), quanto quella delle istituzioni politiche. La
mondializzazione dei mercati, accelerata dalla fine della guerra fredda e
dall'avvento delle tecnologie telematiche, si salda alle prospettive di
integrazione sovranazionale che mettono in discussione il ruolo dei vecchi
Stati nazionali. Questa ridefinizione del riformismo classico inserito in un
contesto totalmente diverso da quelli in cui esso era nato e cresciuto non pare
essere stata finora affrontata, e tanto meno risolta. Sembra difficile
sostenere che con il termine riformismo, inteso nella sua accezione
“originaria”, siano identificabili proposte, strategie, politiche nazionali
piuttosto che sovranazionali sufficientemente definite e conosciute. Esso suona
sempre più stanco, inadeguato.
Non per caso quindi è
in questo quadro di progressivo svuotamento di valore e significato del “riformismo”,
intesa nella sua versione classica, si innesta l’occupazione totale della scena
delle “riforme” operata dall’offensiva neo-liberista. Una occupazione avvenuta
in tempi brevissimi e con modalità di immediato forte impatto.
Su quali basi si è definita questo capovolgimento del senso
delle riforme, del riformismo? Come è potuto succedere tutto ciò?
…….Nel 1975, si
svolse un importante convegno di studi organizzato dalla Trilateral Commission,
nata due anni prima come raccordo fra i circoli dirigenti finanziari,
industriali di Usa, Europa e Giappone, che trova pieno accordo nel diagnosticare la crisi economica mondiale come prodotta dal "sovraccarico del sistema decisionale", che rendeva lo Stato facile preda
del ricatto dei più diversi gruppi sociali- e dal conseguente indebolimento
dell’autorità governativa. Da
tale diagnosi discendeva la prescrizione di una riforma complessiva
che riducesse il campo di intervento statale e, contestualmente, ridesse
funzionalità decisionale e prestigio all’esecutivo. Si avviava, in questo modo, una sorta
di “controrivoluzione culturale” tesa a restaurare, mediante riforme, un potere
più ampio del capitale. In l’Europa e negli USA iniziò ad aggirarsi
un nuovo spettro, non più quello del comunismo, ma quello delle: riforme
(neo-liberiste).
Nell’immaginario collettivo le due
figure che hanno personificato questa svolta fin da subito quanto mai aggressiva
sono quelle di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher; ma il cambiamento di rotta
invocato dalla Trilateral, e concretizzata dai loro governi, nasce nell’ambito
di una scuola economica, quella dei Chicago Boys di Milton Friedman che elabora
una vera e propria “dottrina”.
In cosa consiste
questa nuova dottrina? Consiste nella riproposizione del liberismo puro, un
“nuovo liberismo” – il neoliberismo
appunto - dopo quello visto a inizio Ottocento. Un’ideologia costruita intorno
alla “visione” di un mondo ideale in cui domanda, inflazione, disoccupazione
funzionano alla stregua di forze naturali, in cui il mercato viene visto come
un ecosistema in grado di l’autoregolarsi. Ogni eventuale intoppo in questo
ideale funzionamento dell’economia deriva allora dal fatto che il mercato non è
abbastanza libero. La soluzione, ovvero i mezzi per creare la società perfetta,
è un’applicazione più rigida e più completa di alcune norme (dogmi)
fondamentali che sostanzialmente consistono in
Deregulation. = l’annullamento di tutte quelle regole
e norme che limitano l’accumulazione del profitto.
Privatizzazione. = la sostituzione dei
servizi pubblici, quali Sanità e Scuola, con servizi privati e privatizzati.
Riduzione spese
sociali = il taglio delle spese per il sistema pensionistico, l’assistenza
sanitaria, il salario di disoccupazione eccetera
Riduzione delle
tasse = basse e con tassazione fissa indipendente dal reddito (flat tax).
Appare da subito
evidente che una inversione di rotta così totale richiedeva l’avvio di una
stagione riformista adeguata al cambiamento invocato.
Ed è quanto, da
Reagan e Thatcher, in poi hanno sostanzialmente fatto, da allora fino ai nostri
giorni, tutti i governi americani ed europei, di destra piuttosto che di sinistra.
Le “riforme”
neo-liberiste si sono così appropriate dell’azione concreta della politica
mondiale e dell’uso stesso della parola riforma
E’ questo, in estrema sintesi, il percorso storico che
ha reso difficile, per il mitico “uomo della strada” così come per gli “addetti
ai lavori”, dare un significato chiaro ed univoco alla parola “riformismo.
Un termine che, con buona probabilità, richiede,
sgombrato il più possibile il campo da equivoci e confusioni, di essere
nuovamente ridefinito e riempito di valori e idee adeguate ai tempi.Completiamo questa illustrazione della “parola del mese” con uno stralcio di un intervento del 2013 sul tema di Paolo Leon, economista italiano recentemente scomparso, che ci sembra sintetizzare bene il non detto dietro la parola “riformismo”:
……….E’ facile osservare– come il termine “riformismo” sia usato da chiunque, a destra o a sinistra dello schieramento politico. Come spesso accade, il nome copre qualcosa che non si è in grado di esprimere, o che si teme di esprimere, o che può mutare a seconda delle circostanze. Si tratta, quasi sempre, di una fuga dalla responsabilità di dichiarare cosa effettivamente si vuol fare, che si limita a descrivere cosa cambierebbe in ciò che esiste….. alcuni degli elementi del riformismo di destra – specie in tema costituzionale – non sono troppo distanti da quelli del riformismo della sinistra. Per questo occorre diffidare del nome…..
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