domenica 1 aprile 2018

La parola del mese - Aprile 2018


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

Aprile 2018

Il vocabolario politico, il cosiddetto “politichese”, è ricco di termini “tecnici”. Molti di questi nascono sull’onda del momento e sono di più facile e sicura interpretazione, ma per molti altri, venendo da lontano ed essendo nati in contesti sotto molti aspetti specifici, il significato originario si è spesso fatto confuso ed equivoco. In alcuni casi con lo stesso termine si è passati, senza una adeguata chiarezza e consapevolezza diffusa, a definire concetti e prassi politiche molto diverse da quelle originarie, quando non alternative. La “Parola del mese” di questo mese riguarda proprio uno di questi “enigmi” terminologici del parlar politico, una parola che, ricorrendo con frequenza nel dibattito politico, merita sicuramente attenzione. Si parla infatti di……….


 


Riformismo


 (dal vocabolario on-line Treccani) riformismo s. m. [der. di riforma]. Movimento e metodo d’azione politica che, ripudiando sia i sistemi rivoluzionari sia il conservatorismo, riconosce la possibilità di modificare l’ordinamento politico, economico e sociale esistente attraverso l’attuazione di organiche, ma graduali riforme - In senso limitativo =  politica, sostanzialmente conservatrice, che si limita a marginali riforme in un dato sistema sociale, senza modificare le fondamentali strutture del sistema stesso


 Tutti i dizionari on-line riportano per “riformismo” una definizione simile a quella qui utilizzata. Fanno cioè riferimento al significato “classico” del termine, evidenziando la sua natura di percorso, nell’alveo delle idee “di sinistra”, alternativo a quello rivoluzionario. Sembra ormai evidente che “riformismo” abbia assunto, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso in coincidenza con il pieno affermarsi della globalizzazione, una nuova accezione radicalmente diversa, ossia quella di una sostanziale modifica “a ritroso”, nell’alveo delle idee “di destra”, di quanto era stato in precedenza “riformato” da sinistra. Eppure la parola “riformismo” tale è rimasta, creando di conseguenza inevitabili confusioni nella sua interpretazione.

Per meglio entrare nel merito è necessaria una ricostruzione storica del riformismo. Quella che qui proponiamo, una miscellanea di testi raccolti in Rete, per quanto inevitabilmente sintetica, evidenzia che già la versione classica di “riformismo” contiene esperienze molto articolate, pur restando nell’ambito, ampio, di modifica delle contraddizioni più evidenti del capitalismo……………

 


(parola “riformismo”)………la sua origine si fa in genere risalire all'età illuministica, caratterizzata dall'ottimistica e illimitata fiducia nelle capacità razionali e scientifiche dell'uomo. L'illusione di un governo affidato alla virtuosa sapienza dei filosofi illuministi cadde però già con la Rivoluzione francese. In questi stessi anni in Inghilterra i progressi dell'industrializzazione e la crescente egemonia economico-sociale della borghesia favorirono la nascita di un riformismo liberal-radicale,  in buona parte influenzato dal pensiero filosofico di J. Bentham, che per primo, nel 1811,usò  il termine reformer.. Diverse furono, nella prima parte dell’Ottocento,  le vie concretamente imboccate dal riformismo degli Stati ottocenteschi, ma tutte riconducibili a quello che è stato definito “riformismo paternalistico” o “riformismo dall’alto” – sono tali in Francia i governi sotto Napoleone III, quello di Disraeli in Inghilterra e quello di Bismarck in Germania. Tuttavia questo riformismo paternalistico si rivelò incapace di contenere i conflitti sociali, soprattutto allorché si trattò di passare dai diritti civili a quelli politici e sociali. Un potente corrosivo di tutte le concezioni riformistiche fu il socialismo scientifico di K. Marx, la cui visione di un'irriducibile lotta di classe implicava l'idea che l'unico sbocco possibile fosse quello rivoluzionario. Tuttavia già in seno al movimento socialista, e persino comunista, si svilupparono via via atteggiamenti riformistici con una conseguente  crescente dicotomia fra la teoria, rimasta intransigente e ortodossa, e la prassi, mirante a riformare anche radicalmente ma non a distruggere l'ordinamento esistente, delineando così un dualismo tra il “programma minimo”, di stampo riformista, e il “programma massimo”, proteso al rovesciamento rivoluzionario della società capitalistica.
Dall'inizio del Novecento, pertanto, il termine riformismo cominciò a essere comunemente usato per indicare quelle correnti del movimento socialista internazionale che, pur non abbandonando del tutto la visione marxiana del mondo e della storia, respingevano le interpretazioni del marxismo “ortodosso” e le sue strategie politiche rivoluzionarie, adottando come criterio ispiratore della loro azione i principi legalitari della lotta parlamentare. Ma proprio il compromesso con le formazioni politiche governative borghesi cominciò a dare un senso negativo e spregiativo al termine, associato, soprattutto da parte dei massimalisti,  alle posizioni teoriche del “revisionismo” (lettura riduttivistica del pensiero marxista), un movimento particolarmente vivace nell'ambito della socialdemocrazia tedesca per opera di E. Bernstein. Il riformismo socialista italiano dei primi decenni del Novecento non può tuttavia essere definito revisionista, F. Turati e C. Treves, ad esempio, non vennero mai meno ad una certa coerenza con i principi marxisti. Le  energiche critiche contro il riformismo condotte da Lenin e dal comunismo russo forte del successo della rivoluzione del 1917, con la collegata nascita della III Internazionale (1919) in reazione ai fallimenti della II (sorta nel 1889) portarono la polemica antiriformista a toni violentissimi, spingendo i partiti comunisti a rifiutare qualsiasi contatto con i socialisti riformisti. L'insuccesso in Germania del riformismo statalista (declinato in termini di pianificazione economica) tentato con la Repubblica di Weimar, il mancato successo del biennio rosso italiano, spianarono la strada all'avvento del nazismo e del fascismo. Per un lungo ventennio, nell’Europa continentale, il riformismo-non ebbe modo alcuno di rivelarsi fatta salva l’eccezione francese del “fronte popolare” di Léon Blum.  Nello stesso lasso di tempo invece il riformismo trovava nuove strade negli Stati Uniti, dove già tra fine Ottocento e primi del Novecento i problemi creati dalla concentrazione industriale avevano fatto nascere un movimento riformatore di matrice liberale e liberista dal quale trasse origine, ad esempio, una coraggiosa legislazione antimonopolistica. I dislivelli di ricchezza, interpretati come indici della degenerazione della democrazia americana, spinsero, durante la cosiddetta Progressive Era, a realizzare profonde riforme che toccarono anche la sfera sociale. Successivamente, di fronte al crollo della Borsa di New York del 1929 e alla catastrofica crisi depressiva del capitalismo americano, il riformismo fu assunto come indirizzo centrale nella politica del New Deal. Basato sulle teorie economiche keynesiane di uno Stato riformatore e attivamente interventista in economia, avviò concrete politiche finalizzate a sostituire l'indiscriminato e selvaggio liberismo con un sistema di regolamentazione del mercato in grado di  riversare i benefici delle dinamiche produttive anche sui lavoratori e i ceti meno abbienti (primo abbozzo di Welfare State). Venne così affermandosi il paradigma di un riformismo moderno, pragmatico e incentrato sulle leve della spesa pubblica, della crescita della domanda interna e dei redditi, e dei principi solidaristici dell'assistenzialismo e della tutela previdenziale. Politiche analoghe presero più timidamente forma, in questi stessi anni, in Gran Bretagna e in Svezia, accompagnate dai contraddittori ed eterogenei esperimenti riformistici tentati in Francia, con la politica delle riforme di struttura proposta dal Fronte Popolare, e in Belgio, Ma solo nel secondo dopoguerra, sconfitte a caro prezzo le dittature fascista e nazista, in Europa si adottarono politiche dichiaratamente “riformiste”. Il risoluto programma di riforme sociali dei laburisti inglesi, saliti al potere nel 1945, divenne un punto di riferimento per il socialismo riformista europeo. La costruzione di un moderno Stato sociale, la politica della concertazione tra capitale e lavoro, la perequazione fiscale, lo sviluppo di sistemi di previdenza sociale e sanitaria ispirarono così le politiche socialdemocratiche dei Paesi Scandinavi, della Danimarca, dei Paesi Bassi e della Germania, dove il Partito socialdemocratico, specialmente dopo il Congresso di Bad Godesberg (1959), abbandonò esplicitamente il riferimento al marxismo ponendosi l'obiettivo di controbilanciare l'economia di mercato attraverso lo sviluppo della democrazia e del Welfare State. In Italia ai principi del riformismo si richiamò per primo il PSDI sin dall'atto della sua fondazione nel 1947, seguito a pochi anni di distanza dal PSI, dopo aver abbandonato i patti di unità d'azione con il PCI. Ma anche i comunisti italiani, specialmente dopo il XX Congresso del PCUS (1956), che avviò il processo di destalinizzazione dell'URSS, imboccarono di fatto la strada del riformismo (“riforme di struttura”, “strategia delle riforme”) già ampiamente visibile durante la segreteria di E. Berlinguer. Questa linea venne definitivamente sancita, subito dopo il crollo del Muro di Berlino e la fine dell’egemonia culturale e politica dell’URSS, con la trasformazione del PCI in PDS. Con la fondazione del PDS, e la sua 'adesione all'Internazionale socialista, il riformismo entra ufficialmente nel repertorio identitario del maggior partito della sinistra italiana. Meno travagliato appare il panorama delle altre grandi forze popolari del Paese nel loro rapporto con i valori, la cultura e la pratica del riformismo. I cattolici e le forze di democrazia laica – soprattutto il movimento repubblicano – hanno fin dal dopoguerra declinato il loro rapporto con il riformismo in termini pragmatici, senza porlo a livello di percorso ideologico. La stessa Unione Europea, perlomeno fino agli Ottanta, ha fatto esplicito riferimento all'originale e peculiare contributo del riformismo nella costruzione dell'Europa sociale.

Fin qui il percorso della versione “classica” di riformismo. Gli ultimi decenni del secolo scorso vedono l’irrompere sulla scena di due elementi decisivi per un radicale cambio di rotta: la globalizzazione dei mercati e della produzione e il sorgere di teorie economiche, e conseguenti politiche governative, definite con il termine di “neoliberismo”.
In quel percorso che anni dopo Luciano Gallino definirà “lotta di classe all’incontrario, quella dei primi contro gli ultimi” il termine riformismo inizia ad assumere un significato radicalmente diverso……

…….Il riformismo classico inizia già ad avere fiato corto nel misurarsi, a partire dagli anni settanta, con le nuove domande poste da movimenti innovativi – il Sessantotto ed il femminismo in particolare – e le  nuove problematiche dell’ambientalismo e dei diritti civili e dei crescenti flussi immigratori. Il sistema sin lì consolidato del Welfare State fatica a rispondere alle nuove sfide. Questa evidenti difficoltà di adeguamento ad una fase diversa sono poi definitivamente fatte emergere dall’avvento della globalizzazione. Il fenomeno della globalizzazione fin dal suo primo manifestarsi investe tanto la sfera delle relazioni propriamente economiche (finanziarie e produttive), quanto quella delle istituzioni politiche. La mondializzazione dei mercati, accelerata dalla fine della guerra fredda e dall'avvento delle tecnologie telematiche, si salda alle prospettive di integrazione sovranazionale che mettono in discussione il ruolo dei vecchi Stati nazionali. Questa ridefinizione del riformismo classico inserito in un contesto totalmente diverso da quelli in cui esso era nato e cresciuto non pare essere stata finora affrontata, e tanto meno risolta. Sembra difficile sostenere che con il termine riformismo, inteso nella sua accezione “originaria”, siano identificabili proposte, strategie, politiche nazionali piuttosto che sovranazionali sufficientemente definite e conosciute. Esso suona sempre più stanco, inadeguato.
Non per caso quindi è in questo quadro di progressivo svuotamento di valore e significato del “riformismo”, intesa nella sua versione classica, si innesta l’occupazione totale della scena delle “riforme” operata dall’offensiva neo-liberista. Una occupazione avvenuta in tempi brevissimi e con modalità di immediato forte impatto.

Su quali basi si è definita questo capovolgimento del senso delle riforme, del riformismo? Come è potuto succedere tutto ciò?

…….Nel  1975, si svolse un importante convegno di studi organizzato dalla Trilateral Commission, nata due anni prima come raccordo fra i circoli dirigenti finanziari, industriali di Usa, Europa e Giappone, che trova pieno accordo nel diagnosticare la crisi economica mondiale come prodotta dal "sovraccarico del sistema decisionale", che rendeva lo Stato facile preda del ricatto dei più diversi gruppi sociali- e dal conseguente indebolimento dell’autorità governativa. Da tale diagnosi discendeva la prescrizione di una riforma complessiva che riducesse il campo di intervento statale e, contestualmente, ridesse funzionalità decisionale e prestigio all’esecutivo. Si avviava, in questo modo, una sorta di “controrivoluzione culturale” tesa a restaurare, mediante riforme, un potere più ampio del capitale. In l’Europa e negli USA iniziò ad aggirarsi un nuovo spettro, non più quello del comunismo, ma quello delle: riforme (neo-liberiste).
Nell’immaginario collettivo le due figure che hanno personificato questa svolta fin da subito quanto mai aggressiva sono quelle di Ronald Reagan e di Margaret Thatcher; ma il cambiamento di rotta invocato dalla Trilateral, e concretizzata dai loro governi, nasce nell’ambito di una scuola economica, quella dei Chicago Boys di Milton Friedman che elabora una vera e propria “dottrina”.
In cosa consiste questa nuova dottrina? Consiste nella riproposizione del liberismo puro, un “nuovo liberismo” – il neoliberismo appunto - dopo quello visto a inizio Ottocento. Un’ideologia costruita intorno alla “visione” di un mondo ideale in cui domanda, inflazione, disoccupazione funzionano alla stregua di forze naturali, in cui il mercato viene visto come un ecosistema in grado di l’autoregolarsi. Ogni eventuale intoppo in questo ideale funzionamento dell’economia deriva allora dal fatto che il mercato non è abbastanza libero. La soluzione, ovvero i mezzi per creare la società perfetta, è un’applicazione più rigida e più completa di alcune norme (dogmi) fondamentali che sostanzialmente consistono in
Deregulation. = l’annullamento di tutte quelle regole e norme che limitano l’accumulazione del profitto.
Privatizzazione. = la sostituzione dei servizi pubblici, quali Sanità e Scuola, con servizi privati e privatizzati.
Riduzione spese sociali = il taglio delle spese per il sistema pensionistico, l’assistenza sanitaria, il salario di disoccupazione eccetera
Riduzione delle tasse = basse e con tassazione fissa indipendente dal reddito (flat tax).
Appare da subito evidente che una inversione di rotta così totale richiedeva l’avvio di una stagione riformista adeguata al cambiamento invocato.
Ed è quanto, da Reagan e Thatcher, in poi hanno sostanzialmente fatto, da allora fino ai nostri giorni, tutti i governi americani ed europei, di destra piuttosto che di sinistra.
Le “riforme” neo-liberiste si sono così appropriate dell’azione concreta della politica mondiale e dell’uso stesso della parola riforma

E’ questo, in estrema sintesi, il percorso storico che ha reso difficile, per il mitico “uomo della strada” così come per gli “addetti ai lavori”, dare un significato chiaro ed univoco alla parola “riformismo.
Un termine che, con buona probabilità, richiede, sgombrato il più possibile il campo da equivoci e confusioni, di essere nuovamente ridefinito e riempito di valori e idee adeguate ai tempi.
Completiamo questa illustrazione della “parola del mese” con uno stralcio di un intervento del 2013 sul tema di Paolo Leon, economista italiano recentemente scomparso, che ci sembra sintetizzare bene il non detto dietro la parola “riformismo”:

……….E’ facile osservarecome il termine “riformismo” sia usato da chiunque, a destra o a sinistra dello schieramento politico. Come spesso accade, il nome copre qualcosa che non si è in grado di esprimere, o che si teme di esprimere, o che può mutare a seconda delle circostanze. Si tratta, quasi sempre, di una fuga dalla responsabilità di dichiarare cosa effettivamente si vuol fare, che si limita a descrivere cosa cambierebbe in ciò che esiste….. alcuni degli elementi del riformismo di destra – specie in tema costituzionale – non sono troppo distanti da quelli del riformismo della sinistra. Per questo occorre diffidare del nome…..

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