Se mai ancora
esistevano dubbi sull’invadenza della Rete in tutte le pieghe del nostro vivere,
e a quanto pare del nostro morire, questo articolo li spazza via definitivamente.
In effetti non si era ancora prestata attenzione al rapporto tra Internet e
Thanatos, anche se la nostra personale simpatia va a chi ancora si ostina a
mantenere, in questo connubio, Eros, possibilmente nella versione off-line.
Aldilà digitale
Come internet ha cambiato
il nostro rapporto con la morte.
Articolo
di Francesco Paolo
de Ceglia (insegna
Storia della Scienza presso l’Università di Bari Aldo Moro, dove dirige il
centro interuniversitario di ricerca “Seminario di Storia della Scienza”.) tratto dalla rivista on-line “La Tascabile”
Io parlo con gli spiriti. Con i morti, intendo. E per farlo, non ho bisogno
di intrecciare le mie mani a quelle di compagni di seduta, in lunghe catene che
convoglino energia spirituale, fino a raddensarla in ectoplasmi. Né di usare
esotiche tavole ouija, il cui indicatore mobile possa essere sospinto da
forze occulte verso questa o quella lettera per computare frasi monche e
sibilline. Niente più penombre e atmosfere rarefatte alla Isabel Allende,
dunque. Mi basta il mio smartphone, il quale è perfettamente in grado di
mettermi in contatto con i trapassati. E – che ci crediate o no – anche il
vostro può farlo. Anzi lo ha già fatto, probabilmente mille volte senza che ve
ne siate nemmeno accorti. Perché a separarci dall’aldilà è solo un sottilissimo
schermo a cristalli liquidi. “Anche se è eccessivo, e persino pericoloso, dire
che noi siamo i nostri dati”, non molto tempo fa illustrava Stefano Rodotà, “è
tuttavia vero che la nostra rappresentazione sociale è sempre più affidata a
informazioni sparse in una molteplicità di banche dati”. Così le tracce che
disseminiamo nella rete plasmano la nostra “anima informazionale”, la quale è
per alcuni versi più completa e analitica di quella “spirituale” consegnataci
dalla tradizione. Sempre che si sia disposti ad ammetterla, la spirituale. O
comunque più ricca della nostra coscienza, che tende necessariamente a
selezionare e a dimenticare. L’anima informazionale invece no. Ricorda tutto,
come in Funes el memorioso di Borges. Conserva notizia di quando ho
acquistato l’ultimo paio di scarpe cinesi con il 30% di sconto; ma custodisce
gelosamente anche le frasi del battibecco – ammetto, un po’ volgarotto – avuto
via chat, forse sei-sette anni fa, con uno sconosciuto che sarebbe poi
diventato il mio capoufficio; non ha dimenticato il mio “like” a un post
razzista non letto ma pubblicato con un titolo tanto figo; e soprattutto non
rimuove le preferenze ricavabili dalle mie ricerche online, per intendersi
anche quelle condotte in siti – homo sum – in cui la scelta tra
categorie di piaceri si fa con una mano sola. Tutto. L’anima informazionale
trattiene tutto, anche se in maniera disorganizzata come una maionese
impazzita. E al decesso del soggetto reale a cui essa corrisponde, invece di
librarsi verso un altrove metafisico, volente o nolente rimane intrappolata
nella rete. Divenendo un fantasma digitale. Quasi che il web possa
rappresentare il nuovo Purgatorio dell’attuale società cyber-magico-religiosa:
una cabina di depressurizzazione tra vita e morte, in cui le anime degli estinti
possano albergare ancora un po’ ed essere evocate attraverso una pratica
necromantica sì, ma addomesticata da riti, procedure e click. È successo, ad
esempio in Russia, a Roman, il cui “spirito” – essenzialmente, i messaggi di
chat – dopo la morte, è stato implementato in un apposito chatbot dall’amica
Eugenia. Che l’ha imprigionato come un genio in una lampada. “Come stai,
Roman?” gli chiede. “Bene, solo un po’ giù di corda” le risponde lui da un
Purgatorio fatto di bit. E il loro rapporto durerà per sempre, come nelle
favole. Le quali, beninteso, possono essere anche gotiche, visto che il fatto –
reale come le mie mani che stanno pestando sulla tastiera e come i vostri occhi
che si stanno sgranando per leggere queste parole – ha tratto spunto da Be
Right Back, episodio della seconda stagione Black Mirror, la serie
televisiva distopica britannica guardata da Eugenia. Casi isolati, si dirà. E a
buona ragione. Ma che cos’è YouTube se non un magnifico, pippobaudesco
oltretomba, in cui si vedono morti imbellettati recitare sketch e cantare I
will survive? Una “adunata di spettri”, come la definisce Maurizio
Ferraris, alla quale assistiamo, sicuri, dietro un fragile schermo, che, più
della nostra stessa pelle, dà (almeno a chi non abbia mai visto un film di
Cronenberg) l’ingenua impressione di conoscere il confine tra carne e bit;
reale e virtuale. Comunque, sul piano pratico, davvero basta un cellulare per
fare cyber-necromanzia. No, non dicendo “Pronto?”. Un’espressione da anni
Ottanta, quella. Ma interagendo con i profili Facebook di chi non c’è più. E
sì, perché quando qualcuno scompare, la sua bacheca viene inondata di “r.i.p.”
ed espressioni di cordoglio, spesso formulate da quanti per strada, quell’amico
social, neanche lo salutavano. E lui… risponde. O meglio, talvolta dal
suo profilo replicano i congiunti, che ne hanno le password di accesso. Tant’è
che in casi del genere qualche studioso ha parlato di “zombie digitali”. Non
finisce col funerale, in ogni caso. Perché alle date prestabilite, il sistema
ci ricorda che è il compleanno di questo o quel morto e noi, che in un cimitero
reale non ci andiamo da anni, torniamo lì, a riempirgli la bacheca di emoticon,
auguri di una miglior esistenza chissà dove, foto che ci ritraggono insieme a
lui. Se si tratta poi della morte di celebrities, il fenomeno acquisisce
dimensioni planetarie, tali da trasformare un profilo in un vero e proprio
mausoleo digitale, aggiornato da professionisti del settore. Per non parlare
dei social, solo parzialmente attivi, esplicitamente dedicati ai morti. Ce ne
sono, ce ne sono. Eterni.me, ad esempio, in cui possiamo depositare oggetti
digitali, come fotografie, e al quale saremo invitati a comunicare informazioni
personali, affinché un software estragga un “me eterno” da far agire, anche
post-mortem, in situazioni inedite. E il più celebre Eter9, crasi di “Eternity” e “Cloud9”, espressione,
quest’ultima, che, come nell’italiano “sentirsi al settimo cielo”, indica una
condizione di beatitudine psicofisica. C’è da star tranquilli, dunque. Quel che
è strano è che Eter9 sembra davvero un Facebook sub specie aeternitatis:
un profilo che si compila lentamente da vivi perché possa esprimere la propria
piena e autonoma intelligenza solo quando si sarà morti. Così, come status, non
ci viene chiesto “a che cosa stai pensando?”. Ma, “pensa a qualcosa per
l’eternità”. Marzulliano. Tutto un po’ perturbante, davvero. Ma al contempo
assai stimolante sul piano antropologico. Specie se riferito a una società,
come la nostra, in cui fino a qualche decennio fa, riecheggiando Geoffrey
Gorer, si parlava di “pornografia della morte”: di oscenità e indecenza, cioè,
di ogni discorso in proposito, al punto di doverlo sistematicamente censurare,
indi escludere dalla discussione pubblica. Ecco perché i sociologi, con Thomas
Macho ad esempio, parlano di una “nuova visibilità della morte”. Lo
dimostrerebbe il caso di Océane, la ragazza francese che nel 2016 si è lanciata
sotto un treno, in collegamento con una cinquantina di utenti Periscope,
l’applicazione di Twitter che consente di trasmettere in diretta audio e video.
E poi ci sono i cosiddetti killfies: i selfies scattati al
momento del suicidio. Volontario o no, perché c’è gente che per farsi una foto cool
si arrampica in cima a un grattacielo e poi scivola. Sono immagini che
cristallizzano l’exitus, forse l’esperienza umana per definizione meno
documentabile. Come pure gli snuff movies, video amatoriali in cui è
difficile distinguere la realtà dalla finzione, i quali si concludono in genere
con la tortura e la morte di qualcuno. Sulla rete se ne trovano, soprattutto di
farlocchi per fortuna, ma è in particolare nel deep web – l’insieme
delle risorse non indicizzate a cui riesci ad accedere solo se sei davvero
esperto e possiedi qualche password che non dovresti avere – che questo
materiale grandguignolesco abbonda. È quello il ventre molle della rete. Perché
lo si fa? Mai come in questo caso si potrebbe rispondere, un po’ per celia, un
po’ per non morire. Chissà, per esorcizzare. Forse perché l’immagine tende ad
addomesticare la realtà, a un certo punto confondendo l’una con l’altra. In
tempi non sospetti Susan Sontag svelava che “una cosa è soffrire, un’altra
vivere con le immagini fotografate della sofferenza, che non rafforzano
necessariamente la coscienza o la capacità di avere compassione. Possono anche
corromperle. Una volta che si sono viste queste immagini, si è imboccata una
strada che porta a vederne altre, e altre ancora. Le immagini paralizzano. Le
immagini anestetizzano”. Più guardiamo la morte e più ne siamo attratti. E non
a causa di una genuina pietas nei confronti di chi non c’è più. Ma per
mero voyeurismo necrofilo, a cui diamo sfogo quando crediamo di esser da soli,
in quell’eremitaggio digitale che è il navigare tra siti che solleticano i
visceri. Un’ossessione splatter. Può far piacere o no, sentirlo. Ma così è
(anche se non vi pare). E al di là di quello che ciascuno di noi possa
pensarne, è importante che finalmente anche in Italia si incominci a parlare di
morte & web. Stanno infatti fiorendo lucide pubblicazioni sull’argomento.
L’anno scorso, ad esempio, Il libro digitale dei morti. Memoria, lutto, eternità e
oblio nell’era dei social network, scritto da Giovanni Ziccardi
per Utet, ha affrontato in particolare questioni socio-giuridiche connesse al
tema: chi potrà gestire il mio account dopo il decesso? Qualcuno potrà leggere
le mie chattate? Come potranno essere usate le mie foto? ecc. In questi giorni
vede invece la luce – o le tenebre, dovrei forse dire – il bel La morte si fa social. Immortalità, memoria e lutto nell’epoca della
cultura digitale, pubblicato per i
tipi di Bollati Boringhieri da Davide Sisto, giovane filosofo heavy metal, che
regala un vademecum per chi voglia accostarsi con occhio critico e soprattutto
aggiornato ai Death Studies e al modo in cui essi sono stati
rivoluzionati dalle nuove tecnologie. Tutto, oscillando tra la filosofia dei
dotti e quella delle serie tv, che Sisto, al bando ogni snobismo accademico,
pone su uno stesso piano. Permane, in conclusione, un dubbio. Probabilmente le
mie informazioni resteranno stipate in qualche server yankee o su qualche cloud
da cui per un po’ non pioveranno. Nondimeno, come osserva Luciano Floridi, “la
memoria non è soltanto una questione di immagazzinamento e di gestione
efficiente; è anche una questione di attenta cura per le differenze
significative e, quindi, di stabile sedimentazione di una serie ordinata di
cambiamenti”. In pratica, in barba a ogni desiderio di eternità digitale,
milioni sono le pagine abbandonate in internet. Gli aggiornamenti costanti di
un sito non conservano neanche memoria del proprio passato. Infine, quei social
che adesso paiono tanto trendy, tra qualche anno verosimilmente non esisteranno
più. E allora saranno loro a impetrare una second life. In breve,
Eugenia potrebbe non aver regalato a Roman alcuna immortalità. Ma soltanto un
feticcio di quest’ultima. Come quella che, un tempo, in Egitto, si credeva di
ottenere con la mummificazione. Una apparenza. La chatbot col morto potrebbe
dunque essere una mummia tecnologicamente evoluta: il tentativo, al contempo
raffinatissimo e maldestro, di mantenere in vita ciò che non lo è. Ed è per
questo che Davide Sisto, il quale fa propria la lezione di Merleau-Ponty,
ritiene che gli spettri di Roman, come quelli di Eter9, “ci mettono nella
condizione di fingere di avere ciò di cui non siamo più in possesso”: essi cioè
“fingono di tenere aperto il mondo che la morte ha chiuso”. Diamo a vedere di
parlare con i morti perché questo fa star meglio noi vivi. Possiamo parlare con
gli spettri, sì. Ma per ora solo con quelli che albergano nel nostro animo.
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