domenica 2 settembre 2018

Approfondimenti sulla parola del mese - Settembre 2018


Approfondimenti sulla “Parola del mese – Settembre 2018”

REIFICAZIONE



Tornando al suo utilizzo “principale” in ambito filosofico integriamo, per chi fosse eventualmente interessato ad approfondirlo, la presentazione della “Parola del Mese” con due testi: il primo, tratto dalla rivista on-line Perspective Internationaliste, è un pregevole sunto della sua declinazione da parte di Marx, di Lukacs e della Scuola di Francoforte, il secondo un articolo di Carlo Crosato (Filosofo presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia) di presentazione  del saggio “Teorie della reificazione curato da Alessandro Bellan per Mimesis.


Sulla reificazione
da Perspective Internationaliste, n.53, 2010

………………………….Questo concetto di alienazione non è nuovo. Esistono varie sensi. Raymond Carver, Harold Brodkey, Michel Houellebecq utilizzano anche loro questo termine. Nell’etica, Martha Nussbaum chiama reificazione il trattare strumentalmente le altre persone. Esso può essere considerato come trasgressione dei principi morali. Si tratta di un comportamento umano, che mette in evidenza i finti sentimenti, l'opportunismo, l’auto- manipolazione, la gestione delle emozioni messa in evidenza nelle opere contemporanee. Inoltre l’approccio strettamente naturalistico che spiega gli effetti e le azioni umane attraverso la sola analisi delle connessioni neuronali nel cervello è qualificato come reificante. Ma molto tempo prima, Marx utilizzò il concetto di alienazione per spiegare l'evoluzione del proletariato in funzione dei rapporti sociali trasformati dal capitalismo e dell'effetto dello sviluppo del valore. Egli vedeva la  reificazione come un fenomeno specifico, con il quale i rapporti tra gli esseri umani prendono la forma di relazione tra le cose. Lukacs riprese questo concetto e teorizzò l'azione del proletariato come risposta alla reificazione. Questo prestò il fianco ad una critica della Scuola di Francoforte, negli anni cinquanta. Questa teorizzava l’insufficienza del superamento della reificazione e sosteneva l'impossibilità di un movimento rivoluzionario del proletariato.

Questa discussione fu importante. Ed è importante riprenderla precisando i concetti. Nel capitalismo, le relazioni umane si dissolvono in rapporti di valore, ma, mentre i capitalisti traggono potere e ricchezza e si fanno agenti volontari del capitale, i lavoratori vivono questa dissoluzione come una perdita, un alienazione di se stessi, una forma di schiavitù. Si tratta di un processo storico che ha assunto forme diverse a seconda dello sviluppo dei rapporti di produzione. La reificazione è il processo che trasforma il soggetto in oggetto. Questo è il processo in corso all'interno della accumulazione capitalistica.

È quindi importante cogliere l'evoluzione del concetto:

1. In Marx.

2. In Lukacs.

3. Nella Scuola di Francoforte.

1. Reificazione in Marx:

Il concetto di reificazione appare in Marx nel 1859, dove dice che "i rapporti sociali tra le persone appaiono per così dire come invertiti, come un rapporto sociale tra le cose" Più tardi, nel primo volume del Capitale, egli afferma che "la materialità dei rapporti di produzione deriva dalla struttura interna dell'economia di mercato. Il feticismo non è solo un fenomeno di coscienza sociale, ma di esseri sociali" Ma nell'opera di Marx, questo concetto assumer varie forme. Nei primi tempi, Marx parla di alienazione o di separazione. Più tardi, quando sviluppa la teoria del feticismo della merce, userà le nozioni di lavoro fisso o reificato, feticismo o teoria del valore. Queste tre formulazioni sono diversi approcci per lo stesso problema, la determinazione della attività creativa dei lavoratori nella forma capitalistica dell'economia.Per Marx il primo approccio dell’analisi delle relazioni sociali nella società capitalistica si fa attraverso il concetto di alienazione o di separazione. Nel 1844, Marx pose l'alienazione come inerente ai rapporti sociali in una società capitalistica in cui una classe si appropria del lavoro che un'altra classe aliena. Definendo attraverso l'analisi critica l'alienazione dell'uomo da se stesso, l'alienazione del prodotto del suo lavoro e anche della sua stessa attività, Marx solleva la questione dell’abolizione di queste forme di disumanizzazione, e la possibilità di ripristinare una società umana. In alcuni passaggi dei Manoscritti del 1844, Marx identifica il comunismo come un ritorno alla natura umana, “il ritorno all'essenza dell'uomo". Marx prese a prestito questo concetto da Hegel, pur criticando i contenuti che quest’ultimo gli aveva dato. Eppure nel 1845, nel suo Tesi su Feuerbach, Marx critica chi ha detto che l'essenza dell'uomo rimane isolata, antistorica, e, quindi, astratta. Per Marx "l'essenza dell'uomo non è un'astrazione inerente all'individuo isolato. Nella realtà, è l'insieme dei rapporti sociali.". Secondo Marx, Feuerbach "... Non conosce altri rapporti umani, tra uomo e uomo che l'amore e l'amicizia, e anch’essi idealizzati… quindi non arriva mai a comprendere il mondo sensibile come la somma delle attività vivente e fisica degli individui che lo compongono ". Nell’Ideologia tedesca (1845-46), poi nella Miseria della filosofia (1847), Marx considerò l'uomo in termini più concreti. Considerò il mondo degli oggetti come un mondo di attività umane concrete, di attività creatrici: "acquisendo nuove forze produttive, gli uomini cambiano il loro modo di produzione e cambiando il modo di produzione ... cambiano tutti i loro rapporti sociali ... ". Successivamente, Marx porta l'"essenza" umana nella storia, che equivale ad affermare che l'uomo non ha altra essenza che la sua esistenza storica. Sul progetto di portata storica, "gli uomini hanno ogni volta raggiunto il livello di emancipazione che gli era prescritto e permesso non dal loro ideale di uomo ma dalle forze produttive esistenti". Marx ha risolto l'essenza dell'uomo nelle condizioni storiche in cui l'uomo vive ed è stato quindi portato ad abbandonare il conflitto tra l'uomo alienato della società capitalistica e la sua essenza umana non alienata.

Più tardi, nel primo libro del Capitale, egli afferma che "che la materializzazione dei rapporti di produzione deriva dalla struttura interna dell'economia di mercato.” Marx riduce così l'essenza umana nella storia ciò equivale ad affermare che l'uomo non ha altra essenza che la sua esistenza storica, questo fa dire a dire che Marx "la somma delle forze di produzione, del capitale, delle forme di rapporti sociali che ogni individuo e ogni generazione trovano come dati, è il fondamento reale di ciò che i filosofi hanno rappresentato come –sostanza- e -essenza dell'uomo-". Per trasformare la teoria dell'alienazione dei rapporti umani in una teoria della reificazione dei rapporti sociali, Marx solleva la questione del rapporto tra alienazione e feticismo della merce. Egli considera che è qui che risiede il fondamento del concetto di reificazione (o materializzazione o oggettivazione) dei rapporti sociali. Queste tre formulazioni sono diversi approcci per lo stesso problema, la determinazione della attività creativa dei lavoratori nella forma capitalistica dell'economia. Il feticismo non è solo un fenomeno di coscienza sociale, ma per di “essere sociale" Ma ponendo questo problema, Marx supera il socialismo utopistico che rimane alla negazione della realtà in nome di un ideale e pone la necessità di una ricerca in questa stessa realtà, delle forze di sviluppo e del movimento. Mette in evidenza che il legame tra alienazione e feticismo della merce risiede nel concetto di reificazione (oggettivazione o materializzazione) dei rapporti sociali.

2. Reificazione in Lukacs

Lukacs riprende, da Marx, da Weber, e da Simmel, una definizione elementare di reificazione. Sviluppa i suoi elementi nel suo più importante libro Storia e coscienza di classe, in particolare nel capitolo La reificazione e la coscienza del proletariato. Lukacs considera la reificazione come il fatto che una relazione tra persone prende il carattere di una cosa. La reificazione si riferisce al processo cognitivo con cui viene percepito un essere umano come una cosa. Si tratta di una definizione di base che considera che un essere umano, che non possiede nulla è considerato come cosa. Per Lukacs, la reificazione non è vista come una violazione dei principi morali, ma come una mancanza di riconoscimento della pratica umana, della razionalità umana. Egli difende una certa ontologia sociale. Ma questa spiegazione elementare, deve per Lukacs essere ricollocata in un contesto sociale basato sull'estensione dello scambio mercantile, che con la costituzione delle società capitaliste è diventato il modo dominante dell’attività umana. Per Lukacs, nel modo di scambio capitalistico, le relazioni tra gli individui vengono valutate in base agli interessi specifici. Si tratta dello scambio mercantile che, con la costituzione delle società capitalistiche, è diventato il modo dominante dell’attività intersoggettiva. Con l'evoluzione del capitale, i soggetti sono costretti a registrare il loro rapporto con la società come un rapporto reificato. Cose da cui si  può trarre profitto. Si parla di cosificazione, dove il soggetto, il trattamento strumentale, le capacità personali sono trasformate in elementi economicamente redditizi. Così Lukacs riunisce questi elementi per spiegare le cause della reificazione: la comprensione quantitativa dell'oggetto, il trattamento strumentale degli altri, la trasformazione delle sue qualità in competenze per la ricerca del profitto. Non si tratta di una semplice fenomenologia, di cambiamenti di atteggiamenti, così Lukacs ritrova la descrizione di Marx del fenomeno del feticismo della merce.

Quando il processo di reificazione sta avvenendo, il soggetto non è più coinvolto in modo attivo nei processi attraverso i quali agisce sul mondo circostante. Sembra ignorare i vari eventi. Lukacs ritiene che con l'espansione del rapporto mercantile, gli uomini abbandonano la loro posizione di soggetti, perché costretti a comportarsi in relazione alla vita sociale in osservatori distaccati. Nella sfera in continua espansione dello scambio mercantile, i soggetti sono costretti a comportarsi in relazione alla vita sociale, come osservatori distaccati piuttosto che come partecipanti attivi. Questa è la ricerca del profitto che razionalizza il comportamento. A causa della socializzazione, il sistema di comportamento reificante si sviluppa. Il trattamento strumentale degli altri è un fatto sociale, prima di essere morale. In realtà vi è una trasformazione, nel senso che l'uomo è portato a non partecipare più all’azione sociale. Diventa uno spettatore, contemplatore non coinvolto. Nello scambio mercantile i "soggetti" si costringono reciprocamente a percepire gli oggetti solo come "cose" da cui si può trarre profitto, a vedere i partner come oggetti di una transazione interessata, a rapportarsi alle loro proprie facoltà solo come risorse o competenze per aumentare il profitto. Questa posizione richiede una postura razionale, il più possibile esente dalle emozioni. Per uscirne, basterebbe rovesciare il rapporto con l'oggetto. Tutto l'approccio classico alla educazione va in questa direzione. Si tratta di sviluppare la capacità del soggetto perchè egli possa partecipare allo scambio in termini di competenze misurabili, della loro utilità. E’ necessario che i soggetti cosi formati considerino a loro volta il mondo come un'entità cosificabile, modificabile. La trasformazione è vista così dal lato dell'oggetto. Lukacs ritiene che la reificazione trovi i suoi limiti nella coscienza del proletariato, in quanto critica della merce.

3. La concezione della Scuola di Francoforte

Perché, contrariamente alle previsioni di Marx, la polarizzazione di classe e la rivoluzione proletaria non si sono ancora manifestate? Si chiede la Scuola di Francoforte. Se Lukacs pensava che la reificazione trovava i suoi limiti nella coscienza del proletariato, in quanto critica della merce, la Scuola di Francoforte denuncia questo concetto come una dichiarazione di un principio idealista. La tesi di Lukacs, che considera che nel proletariato l’identità del soggetto e dell’oggetto permette il superamento della reificazione, è idealista. La critica della Scuola di Francoforte porta ad una negazione del carattere rivoluzionario del proletariato. Per la Scuola di Francoforte, la società capitalista si sta muovendo verso una reificazione totale. La teoria critica è stata sviluppato nel 1920-1930, in particolare da Horkheimer e Adorno. Gli altri principali partecipanti a questa corrente sono Benjamin, Marcuse e Habermas. La Teoria Critica è una nuova critica della ragione, dei suoi vicoli, delle sue aporie, delle sue antinomie. La Scuola di Francoforte si oppose al neo-kantismo (che separa i giudizi di fatti e i giudizi di valore), al realismo di Lukacs, al realismo socialista, alla fenomenologia di Husserl quanto a quella di Hegel nella filosofia, così come allo stalinismo e al fascismo in politica. C'è un certo ritorno a Kant, passando attraverso Nietzsche, che è anche lui un critico della ragione, ma non a beneficio della comprensione e del giudizio. Anche Nietzsche sviluppa una critica della civiltà e del progresso. Ma questo meriterebbe di essere approfondito. Come Assoun e Raulet hanno dimostrato in Marxismo e teoria critica, si tratta anche di una integrazione dei concetti kantiani in un quadro storico nuovo. La ragione diventa un riferimento essenziale della Teoria Critica, perché soltanto essa può armare il soggetto storico di una coscienza critica, una coscienza di sé come soggetto della storia e coscienza del mondo come un oggetto, insieme ostacolo e strumento di emancipazione. Ma se la ragione è emancipatrice, ha anche fondato la nascita del capitalismo, attraverso una appropriazione razionale della natura. E questo porta al disastro. Questa opposizione, paradossalmente in se perderà la sua natura dialettica, e si rivelerà essere l'ostacolo strumentalizzato che spingerà il mondo verso la riproduzione dell’olocausto. Il contatto spesso critico con la fenomenologia e la filosofia esistenzialista riflette la necessità per la Scuola di Francoforte di prendere posizione non solo rispetto alle deviazioni di una filosofia esistenzialista deviata ai fini della legittimazione dello stato autoritario, e più in particolare dello stato stalinista, ma anche sulla questione fondamentale delle relazioni dell’essere nel mondo, in particolare attraverso la critica dell’irrazionalismo e il rifiuto di sopravvalutazione della singolarità dell’esistenza individuale in un processo che reintroduce un idealismo che perde il contatto con il mondo della storia materiale. La tesi filosofica fondamentale della 'teoria critica' è la sfida della 'teoria dell'identità' alla quale Hegel ha dato la sua forma compiuta. E’ Horkheimer che l’ha espressa più chiaramente nello scritto del 1932 su Hegel e la metafisica. Dopo Hegel, scrive Horkheimer, la Ragione e la realtà sono considerati identiche: la Ragione consente l'accesso alla realtà, essa apprende la realtà in modo oggettivo e positivo. Vi è identità di soggetto e oggetto. E' questa identità che la teoria critica cercherà di decostruire e respingere: "Negare la dottrina dell’identità, significa ridurre la conoscenza a una semplice manifestazione, condizionata da molteplici aspetti, determinati della vita degli uomini [...]. [Ma] l'affermazione dell’identità è fede pura [...]. Conosciamo unità estremamente diverse nella natura e nei campi più diversi, ma l'identità del 'pensiero' e dell'essere è solo un "dogma" filosofico, in quanto presuppone che ciascuno di questi momenti sia uno solo: cosi il pensiero, l’essere, la storia, la natura". Horhkeimer, Hegel e la metafisica . La Scuola di Francoforte deve seguire un sentiero stretto. Bisogna offrire una critica e una riflessività del sapere senza cadere in modi di risoluzione fallaci del paralogismo dell’identità, positivismo e irrazionalismo tra gli altri. Dobbiamo, allo stesso tempo confermare il razionalismo rinnovandolo. Gli esempi di dominazione abbondano e sembrano essere presenti in tutti i settori della vita: la dominazione delle donne da parte degli uomini nel matrimonio borghese, degli animali negli esperimenti, del salariato nell’impresa, del cittadino nello stato, del paesaggio da parte dell'industria turistica, dell'ecosistema da parte dell'industria, della ricerca musicale da parte della sua immediata recezione o redditività, ecc. Per Adorno, questa visione di dominio che si esprime principalmente nella Dialettica dell’illuminismo, scritto in collaborazione con Horkheimer nel contesto storico della seconda guerra mondiale, è presente in altre opere come estensione in diverse aree di analisi critica della Ragione. Ha la duplice natura di sviluppare il potenziale di libertà con la realtà di oppressione, tenendo separate le istanze della ragione e della natura.

La dialettica della ragione presa come dialettica negativa. Questo superamento non può essere fatto attraverso il "positivismo della società". Al positivismo, la Scuola di Francoforte oppone la "dialettica negativa", cioè la consapevolezza del mondo come negazione del soggetto storico, e questo momento critico dello spirito che tende, per utopia o per rivolta sociale, a negare questa negazione per superare ogni alienazione. La Dialettica dell’illuminismo (1944) è una descrizione apocalittica della ragione (auto) distruttiva. Lungi dal illuminare il mondo, l'Illuminismo e la ragione lo portano inevitabilmente al disastro. L'intero sistema di pensiero della modernità è il portatore di questo disastro. Questo tema centrale di Adorno è accoppiato con l'Aufklarung, gli illuministi, o come lo definisce in apertura della Dialettica dell’illuminismo, "il pensiero in progresso che aumenta sicuramente il controllo sulla natura, ma allo stesso tempo è una regressione, che impoverisce la sua esperienza della natura, incluso la propria." Ciò che l’essere umano cerca di imparare dalla natura è come usarla per dominare lei e l’essere umano stesso. Null’altro conta. La specie umana, guidata dal principio di auto-conservazione o conservazione di se, priva di dialettica a causa della contraddizione persistente tra la sua pretesa e la sua realizzazione, tra il suo concetto e come è in realtà, lavora parzialmente, nella direzione opposta del progresso, progresso che va verso una felicità diffusa, specialmente sostituendo i mezzi previsti dalla ragione, quindi lo scopo di questi mezzi. Ciò si traduce attraverso l'irrazionalità delle attività dell'uomo in cieca storia naturale. Così l'uomo è spinto a sviluppare questo negativismo, per spiegare i disastri, l'Olocausto.

Lo scopo della razionalità, la felicità, è dimenticato. Se lei nomina tutti i mezzi destinati a dominare la natura, il suo scopo resta un mezzo, e la ragione non razionale. L'autoconservazione attaccata alle sue risorse, impoverisce la vita del soggetto e mutila il mondo, in particolare la capacità umana di differenziazione, qualitativa, la sua capacità di sperimentare il mondo e gli altri, che a poco a poco non è più praticata ed è sostituita con prestabiliti schemi di pensiero, che cercano di preformare e standardizzare gli individui e i loro impulsi sul modello della merce, al fine di lavorare alla conservazione della società così com'è. Il compito della filosofia è quindi di criticare questo spirito di autoconservazione per aiutare gli altri a se stessa per una consapevolezza, preludio a una possibile trasformazione delle condizioni di vita determinate, Adorno è d'accordo con Marx, dal modo di produzione capitalistico della società. Nel campo della conoscenza questa dominazione di un principio limitato dall’auto-conservazione implica che il soggetto ritrovi se stesso come oggetto del suo studio invece di trovare un oggetto vero, l'ideale della conoscenza per Adorno è l'amore, portare vicino l’oggetto che è distante.

La teoria critica rifiuta cosi la teoria della coscienza di classe sviluppata da Lukacs. Assistiamo quindi ad una deriva di una posizione un marxista rivoluzionaria verso weberianismo malinconico di sinistra, o anche solo una sociologia critica di comunicazione sviluppata da Habermas, oggi. E' ovvio che la teoria di Lukacs, amputata del concetto di coscienza di classe, e soprattutto se il proletariato come una forza di emancipazione, non viene rimpiazzato, la negazione della reificazione diventa problematica. Infatti, se il proletariato non è più un vettore di una coscienza capace di trascendere la reificazione, allora può essere solo una vittima del dominio, della repressione. Inoltre, il processo sociale, anche nello sviluppo di una estrema reificazione, lascia sempre spazio per la disobbedienza. La Scuola di Francoforte, paradossalmente, non tiene conto della doppia dialettica delle classi sociali, e non riesce a vedere, storicamente, che una classe dominata è sempre sia una classe contestataria sia una classe reazionaria. Mentre giustamente critica l’identità tra ragione e realtà, considera però che si tratti di una entità data. Non fa più una distinzione tra soggetto e oggetto, sostenendo che tutto è ridotto a dominazione. La Scuola di Francoforte si trova di fronte a questo dilemma, e cerca di superarlo trovando una risposta per Horkheimer nella religione, per Adorno nell’estetica, per Marcuse nell'ambientalismo. L'abbandono della teoria della coscienza di classe ha spianato la strada al malinconismo di sinistra, difeso da Benjamin. Questi autori, pur criticando le difficoltà del proletariato di andare la reificazione, non oppongono in alcun modo al concetto di reificazione. Al contrario, essi sviluppano una visione universalizzante, assolutista e ontologica della reificazione. La conclusione è ovvia per loro, la reificazione è totale. Ma che dire di questa affermazione? Se la reificazione è totale, la critica diventa impossibile. Questa constatazione rifiuta la teoria critica……………………….

Spesso la filosofia si è contraddistinta per l’utilizzo di un lessico divergente rispetto a quello quotidianamente utilizzato e per ragionamenti intorno a oggetti ritenuti assolutamente ovvi. Operando in questa maniera, essa ha però via via perso la propria centralità, spesso confusa con la poesia o con pratiche meditative. Un processo di marginalizzazione quanto mai notevole oggi, in un’epoca in cui è l’apparato economico e finanziario a determinare i fini delle attività: attività che, perciò, devono rispondere a esigenze in larga misura estranee alla riflessione filosofica. Di questo processo, tuttavia, la stessa filosofia ha a lungo parlato, attraverso una lunga serie di concetti, tra cui quello di “reificazione”. Alla esplicitazione di quest’ultimo è consacrato Teorie della reificazione (a cura del recentemente scomparso Alessandro Bellan, edito da Mimesis, nel 2013). L’obiettivo generale del libro, infatti, è chiarire il significato della reificazione, depurarlo da letture fuorvianti e da incomprensioni che lo identificano con altri concetti – quali l’alienazione (altro termine centrale nel pensiero marxiano) e il feticismo (su cui la Scuola di Francoforte ha molto ragionato, specie per voce di Adorno e Horkheimer) –; inquadrare la dinamica reificante all’interno delle relazioni che l’uomo intrattiene con il mondo, precisando in modo quanto più intensivo possibile il campo d’interesse. Ne emerge, così, un lavoro in cui a essere raccolti sono i numerosi interventi alternatisi in un periodo pluriennale nella sede del Dipartimento di Filosofia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, in occasione del seminario di Teoria Critica guidato da Lucio Cortella e Alessandro Bellan. L’esigenza espressa è quella di ripercorrere la nascita e lo sviluppo, in seno al pensiero occidentale, dell’idea della reificazione, a partire dalla teoria hegeliana e marxiana; ma ciò che si incontra confrontandosi con i saggi qui raccolti è qualcosa che forse supera le stesse intenzioni degli autori: una prosecuzione e una riattualizzazione del dibattito già animato a Francoforte, a quasi un secolo dall’opera lukácsiana che aveva per prima sfruttato la categoria marxiana della reificazione non tanto come voce di una dottrina o di una visione del mondo, quanto come strumento – descrittivo e critico al contempo – di lettura delle odierne trasformazioni sociali. Compito di una discussione filosofica davvero consapevole è allora quello di chiarire che cosa sia la reificazione e come il suo concetto possa fungere da elemento fondamentale dell’apparato categoriale di descrizione e critica della realtà contemporanea (1); e, per quanto riguarda chi scrive e il nostro lettore, la domanda è, infine, quella relativa al contributo che il dibattito veneziano ha rappresentato per la riconsiderazione di questa tema 1. Che cos’è reificazione?
In un epoca in cui lo spirito (in senso hegeliano) è guidato da un apparato tecnico-scientifico che impone i propri obiettivi, sovvertendo l’ordine teleologico tra mezzo e fine; in un’epoca in cui sono l’economia e la finanza le vere ispiratrici dei programmi di governo e le vere regolatrici dei rapporti intersoggettivi, è complesso introdurre un termine che riconsidera in modo critico ciò che oggi è considerato normale, indiscutibile e nient’affatto problematico: l’onnipervasività, immune da ogni istanza etica, del progresso tecnologico, e l’invadenza indiscussa e accettata dell’economia liberista e neoliberista, ci hanno assuefatti e gradualmente resi indifferenti al rovesciamento dei rapporti umani e dei rapporti dell’uomo con il mondo, organizzati attorno a “corpi mercificati” – vendibili, acquistabili, così come sono vendibili e acquistabili il loro tempo e le loro energie –, e a “merci personificate” – oggetti, cioè, che riescono a riconsegnare a chi le acquista il grado di riconoscimento che, in realtà, può derivare solo da un incontro con un altro uomo. Come forse si è già intuito, la reificazione ci parla di una dinamica che non coinvolge solo l’ambito economico, come si potrebbe pensare in prima battuta: essa tocca tutti i lati dello spirito umano, modificando i rapporti che l’uomo intrattiene con se stesso, con gli altri esseri umani e con il mondo entro cui è chiamato a progettare un sistema semantico condiviso. Ne viene trasformata l’essenza stessa dell’uomo: essa è plasmata dalla violenza di processi di reificazione rilevabili e placabili solo mediante una consapevole e impegnata critica immanente, che riesca a liberarsi dagli accecanti pregiudizi di chi vive in prima persona un dato evento, senza però perderne di vista i contorni. È, questo, il compito che Marx indica al dibattito filosofico intorno alla società capitalistica, entro cui i rapporti tra persone si trasformano in rapporti tra “cose”. Un compito raccolto nei primi decenni dello scorso secolo dal pensiero dialettico di Lukács: il pensatore ungherese, rileggendo l’analisi della merce condotta da Marx nel Capitale, ne estende il valore a tutta la società. Facendo propri alcuni degli esiti del pensiero weberiano e della più matura riflessione husserliana, Lukács può indicare come primo carattere peculiare della reificazione la riduzione della categoria umana della qualità a quella della quantità. Alle relazioni soggettive, insomma, vengono a sostituirsi delle relazioni oggettive che, oltretutto, tendono ad autonomizzarsi rispetto all’umano, arrivando addirittura a contrapporsi all’uomo stesso. L’attualità e l’efficacia di un simile processo è quanto di più evidente, ovunque delle dinamiche che solo per un malinteso vengono ancora definite “umane” si contrappongano all’individuo: si pensi, come esempio, alle necessità avanzate dal “super-ente” impersonale del mercato, tanto forti da guidare la politica dei paesi, costringendoli a cedere parte della loro sovranità e facendo loro dimenticare gli individui concreti che in essi abitano. Per restare a questo nostro esempio, oggi il mercato – processo nato come scambio tra uomini – si è oggettivato a tal  punto da costituire un apparato autonomo rispetto all’uomo e, anzi, spesso contrapposto alle stesse esigenze dell’uomo concreto. «Le relazioni umane assumono la parvenza di relazioni fra cose, i soggetti viventi diventano oggetti inanimati, il nostro mondo sociale si manifesta come un ambiente naturale, in cui motivazioni, sentimenti e impegni morali prendono la forma di rapporti meccanici e causali, gli automatismi si sostituiscono alle volontà e alle intenzioni». Le conseguenze di un simile ribaltamento dei rapporti umani sono facilmente rilevabili: la scomparsa dell’uomo come soggetto attivo; l’uomo è relegato a mero osservatore di simili dinamiche che subisce e sulle quali non può davvero intervenire: «diventa cosa ciò che non è cosa e non deve diventare cosa, perché è ciò che conferisce senso alle cose, perché la soggettività – comunque la si intenda –, la natura normativa e comunicativa delle relazioni intersoggettive, il carattere qualitativo della nostra esperienza, costituiscono la specifica forma umana di esistenza». E, se per Lukács la vera chiave di lettura e modificazione di un simile ribaltamento è il ravvivamento di una coscienza di classe, che spinga – in senso contrario – verso il recupero del soggetto attivo, diversa sarà – quindici anni dopo – l’opinione di Horkheimer, secondo cui la “coscienza di classe” sarebbe un punto di vista troppo ristretto rispetto alla prospettiva della totalità, di cui davvero la critica sociale necessita: la soluzione delineata da Horkheimer, allora, pare quella del compito decisivo affidato all’intellettuale. Soluzione che, però, torna a sbilanciare la questione dalla parte della teoria, anziché dalla parte della prassi – concessione involontaria all’assolutismo hegeliano.
2. Il passo avanti nel libro
L’obiettivo di ogni teoria critica che discuta il fenomeno della reificazione è ovviamente quello di delineare un’idea di società libera dal dominio dell’oggettivo sul soggettivo, della “cosa” sull’umano. La domanda che allora si impone è: che cos’è l’umano? Chi è l’uomo? Se, con Lukács, possiamo dire che la riflessione dialettica non può lasciare tutto così com’è, se con lui dobbiamo cercare una via per rilevare ciò che alla reificazione si oppone, per salvare ciò che va salvato, dobbiamo, allora, chiederci in che cosa consista il contributo offerto dal dibattito veneziano, compendiato da Bellan. Il contributo veneziano costituisce un passo in avanti allorché interroga non solo i pensatori che tradizionalmente sono intesi essere i principali investigatori di simili processi, ma tutti quegli autori che riflettono intorno alla reificazione: quello veneziano è un contributo che sottolinea, allora, la possibilità di riattualizzare l’argomento, ponendolo a tema anche al di fuori delle classiche coordinate marxiane entro cui l’aveva assestato Lukács. E questo, non per ridisegnare i contorni di una essenza umana regressivamente metafisica, ma per ricostruire una diagnosi unitaria, che comprenda processi che «oggi trovano per lo più una spiegazione differenziata». Questo è il punto di partenza degli interventi che troviamo in questa raccolta: il rifiuto di parlare della reificazione come di una patologia del collettivo, entro cui l’individuo cede parte della propria libertà, riducendosi a mero ingranaggio della macchina globale, in favore di uno sgravio di responsabilità; la consapevolezza che rassegnarsi a una simile visione sarebbe un accettare incondizionatamente un presunto spirito del tempo, senza la possibilità di intervenire attivamente. Proprio la passività a cui induce la stessa reificazione. Della reificazione, allora, si è discusso – e si continua a discutere – non come un peccato contro la morale, quanto invece come di qualcosa che investe l’essere sociale moderno. Essere sociale prodotto di una deformazione difficilmente rilevabile dagli individui che ne partecipano: «chi reifica non è certo colpevole di farlo, né gli può essere additata una qualche responsabilità sociale». Nel concreto questa moderna natura sociale è rinvenibile in un oblio della natura comunicativa dei rapporti intersoggettivi. I saggi raccolti nella prima parte di questo volume, danno un quadro della genesi della riflessione classica intorno al concetto di reificazione: si considerano – con Ranchio – la diagnosi e la critica hegeliane dei fenomeni dell’alienazione e dell’oggettivazione, cui farà poi riferimento la Scuola di Francoforte. Il problema che da Hegel i pensatori successivi mutueranno è quello della contraddizione di una società che si propone come garante dell’autonomia degli individui, ma che al contempo «impedisce ai singoli soggetti di rapportarsi riflessivamente e criticamente alle norme che costituiscono l’istituzione medesima», costringendo tali soggetti sociali a un semplice adattamento irriflessivo alle connessioni che le istituzioni impongono. In un simile compito è, inoltre, inclusa l’incombenza di specificare e distinguere la nozione di reificazione e quella di oggettivazione; incombenza di cui, per altro, si incaricano i partecipanti al dibattito veneziano, andando oltre alcuni limiti dell’originaria riflessione lukácsiana, come torneremo a dire. Si passa, poi, a rileggere i pensatori che alla reificazione hanno dedicato esplicitamente il loro pensiero; primo fra essi Marx, il quale – scrive Petrucciani –, riprendendo in chiave economico-politica le indicazioni di Hegel, denuncia il rischio che «la vita sociale ed economica degli individui» sia «sottratta al loro controllo» e venga invece «governata da leggi o dinamiche, che si impongono sopra la loro testa e su cui essi nulla possono». Si impone allora la domanda circa la possibilità di rendere libero l’uomo moderno: come proporre la libertà a un soggetto sociale che non si avvede di esserne stato privato? Si può “imporre” la libertà? La risposta pare volerla fornire Lukács, nei termini già prima ricordati: solo con una consapevole coscienza di classe si può pervenire a una vera teoria del riconoscimento capace di «mostrare il paradosso di un’individualità decretata come essenziale e che invece è reale-effettiva solo nel suo esser tolta».Altre le risposte alla questione della reificazione fornite dai pensatori più strettamente francofortesi: Benjamin – la cui riflessione intorno al feticcio e a una “escatologia” messianica è curata da Tassinari – ma soprattutto Adorno e Horkheimer, i quali, pur non occupandosi tematicamente dell’argomento che ci sta a cuore, riescono a legare strettamente la nozione di reificazione con quella dello spirito: «è intorno alla nozione di spirito che la reificazione come processo prende significato» come dimensione che investe, poi, dalla relazione intrapersonale, anche la relazione interpersonale e il rapporto con la natura – scrive Testa. Si configura, allora, nella Dialettica dell’illuminismo, la necessità di una rinnovata relazione con il corpus, dalla quale sola può derivare una più chiara «prospettiva da cui devono essere inquadrate le altre forme di reificazione». Esplorando, poi, luoghi filosofici che classicamente non sono stati reputati essere gravitanti attorno al tema della reificazione – questo uno degli aspetti di assoluta novità del dibattito veneziano –, nella seconda parte del volume, la discussione si sofferma – con Mora – sul punto di vista di Simmel, il quale indica l’esigenza di guardare ai fenomeni che caratterizzano il sociale moderno non più in una prospettiva utopica, quanto in una prospettiva quasi fenomenologica, capace di vedere nella «cultura oggettiva» ciò che specifica l’uomo: «la sua capacità di trasformare i progetti dello spirito soggettivo in forme stabili e oggettive». Un’insuperabilità, quella evidenziata da Simmel, da cui tentano di smarcarsi Husserl e Heidegger: il primo – del cui pensiero scrive Giannasi –, rintracciando il punto di leva della reificazione nel modello naturalistico, che guarda all’uomo come oggetto di sperimentazione e osservazione oggettivante; il secondo – di cui relaziona Galanti Grollo –, estendendo la denuncia husserliana al modello coscienzialistico, entro cui ancora si muove Husserl: «la presenza dell’oggetto, o meglio, il coglimento di qualcosa in quanto oggetto rappresenta una tentazione irresistibile […], la quale si riverbera sulla vita stessa, sul soggetto che comprende se stesso nella forma dell’oggettività».È, infine, affidato alla terza parte dell’opera l’intento di inserire la questione della reificazione nei contesti più attuali e concreti di riconoscimento, comunicazione e diritto. E, forse, è soprattutto in questa sezione che i maggiori limiti dell’idea di reificazione di Lukács vengono superati, prima fra tutti l’equivalenza perpetrata dal pensatore ungherese tra oggettivazione e reificazione. L’idea di reificazione proposta da Lukács, infatti, ponendosi all’origine di una discussione molto ricca e risentendo parecchio dell’influenza weberiana, pretendeva di estendersi a ogni situazione di innovazione sociale che tendesse a neutralizzare il riconoscimento della soggettività, per istituzionalizzarlo in maniera permanente. In altri termini, tutto il processo weberiano di razionalizzazione della società moderna cadrebbe sotto il dominio della reificazione, tale processo richiedendo un certo grado di oggettivazione dei rapporti partecipativi fondanti la società moderna. Si comprende allora quale sia il limite principale di considerare equivalenti l’oggettivazione e la reificazione, primo fra tutti l’impossibilità di uscire da una soggettività insuperabile perfino nei rapporti sociali di politica e giustizia. Fra i progressi proposti dal dibattito veneziano sul tema, dunque, va segnalata questa specificazione, oltre il pensiero lukácsiano, di che cosa sia l’oggettivazione e di che cosa – più specificamente – sia invece la reificazione. Questo progresso è reso possibile dall’uscita dal soggettivismo in cui rimaneva invischiata la riflessione del filosofo ungherese; e, cosa più importante, permette di considerare il tema della reificazione non più sotto una luce soggettivistico-individualistica – ovvero secondo una prospettiva destinata a ridimensionare la considerazione da dedicare a ogni progresso dell’oggettività nello sviluppo sociale –, bensì sotto la più preziosa prospettiva intersoggettiva e del riconoscimento. Le tappe, con cui questa missione è eseguita, sono tre e, a nostro avviso, mirano proprio a evitare l’errore di Lukács, da un lato, tentando di comprendere dove sia indispensabile l’apertura al riconoscimento e dove, invece, sia persino buono l’atteggiamento oggettivante; dall’altro, cercando di orientare la riflessione sul contesto della relazione di riconoscimento intersoggettivo e politico anziché su quello ermeticamente soggettivo. La prima di queste tappe è per lo più di attinenza morale, e riguarda il pensiero di Sartre, dalla cui fenomenologia “conflittuale” dei rapporti intersoggettivi non si può prescindere. La seconda tappa è costituita dal pensiero politico di Habermas, il quale ambisce a introdurre, nella riflessione critica, la componente normativa, indicando nella comunicazione libera la via emancipativa per la società moderna: la discussione intorno alla reificazione – rileva con chiarezza Gregoratto – subisce con Habermas una svolta, per cui non è tanto la perdita della soggettività a essere lamentata, quanto piuttosto la perdita di rapporti comunicativi autentici (processo che Honneth chiama l’“oblio del riconoscimento”). La tappa conclusiva è una riflessione intorno alle forme oggettivanti del complesso giuridico – la cui componente etica non può mai essere prescissa, pena la deriva reificante.

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