domenica 14 ottobre 2018

"The game" di Baricco, un altro modo di vedere i "futuri"




"The game" di Baricco
un altro modo di vedere i "futuri"

Pressochè in contemporanea con “Il grido” di Antonio Moresco (il nostro “Saggio del mese”) è uscito, per i titoli dell’Einaudi, “the game” di Alessandro Baricco.

Due approcci ai “futuri” diametralmente opposti, diversissimi come i due autori. Baricco è scrittore di grande seguito mediatico e quindi, come sempre, anche l’uscita di “the game” è stata celebrata sui media, molto meno, inevitabilmente,  quella de “Il grido”. Con questo libro Baricco riprende il filo delle riflessioni a suo tempo contenute nel celebre “I barbari” del 2006, e lo fa incoraggiandoci ad avere verso gli scenari tecnologici del futuro prossimo venturo (ed ormai del presente) un atteggiamento più rilassato, meno timoroso, più improntato alla “appropriazione” di una realtà che si è posta definitivamente alle spalle il “novecento” e dalla quale è comunque impossibile rifuggire. Va da sé che questi timori appartengono alle generazioni che nel “novecento” si sono formate, dimenticando però che ci troviamo oggi a misurarci con lo sbocco concreto di una utopia “rivoluzionaria” nata proprio in pieno novecento da parte di avanguardie, al tempo visionarie, in netta contrapposizione alla cultura allora imperante (in particolare negli USA). Come si è detto l’approccio, lucidamente ed appassionatamente, proposto da Baricco è anni luce lontano da quello di Moresco. Vale la pena, avendo iniziato con la prima conferenza il nostro percorso di conoscenza e valutazione dei “futuri”, tenere conto di entrambi. Per “the game” non proponiamo qui una sintesi da “Il saggio del mese” ma ci affidiamo a commenti e recensioni estratti dai molti immediatamente apparsi in Rete subito dopo la sua uscita. E’ d’obbligo iniziare dalla presentazione che Baricco stesso ha fatto su “Repubblica.it”

……..IL FATTO È che mi son messo in mente di scrivere una sorta di Barbari 2, un po’ di tempo fa. Continuava ad affascinarmi questa storia di capire se la rivoluzione digitale ci stava fregando, o cosa. Oltre tutto, nel frattempo, erano arrivate un sacco di novità, adesso era tutto più chiaro. Nel 2006, quando avevo scritto I Barbari, si andava a fari spenti, per così dire. Non c’era neanche l’iPhone. Non esisteva Youporn e col cavolo che potevi twittare. Insomma, si imponeva un aggiornamento. Così mi sono messo a studiare, e a vagabondare qua e là. Un paio d’anni. E adesso sono alle pagine finali. Un po’ esausto, ma come quelli che hanno fatto il giro del mondo in solitaria e si sentono tremendamente a posto con se stessi, a parte uno strano tremolio agli occhi e incubi ricorrenti la notte. Per I Barbari, le ultime pagine le andai a scrivere sulla Muraglia Cinese: allora il problema era far capire che alzare muri contro l’ondata del digitale era splendido e imbecille come quella Muraglia, che, storicamente, non era mai riuscita a fermare un’invasione dei popoli del nord. Quindi mi sciroppai ore di volo e andai a camminare per sette ore su quel muro. A un certo punto incontrai due americani che se la stavano facendo tutta di corsa. Per quanto uno faccia cose sceme, c’è sempre qualcuno che è più scemo di te. Insomma, questa volta, invece, mi sono spedito alla Silicon Valley. Luogo mitico, ma di tutt’altro genere, come potete ben capire. L’ho fatto perché tra le cose che ho realizzato, studiando in questi due anni, c’è che in effetti tutto è nato davvero qua, nel giro di pochissimi chilometri, e tutto continua ad accadere qua, nel giro degli stessi pochissimi chilometri. L’ombelico del mondo. Una specie di Firenze nel Rinascimento, o Parigi degli anni Venti. Quindi ho pensato che andare a scrivere lì le ultime righe fosse una cosa giusta, puntuale, perfino bella. Erano due anni che li studiavo, da lontano, questi padri dell’insurrezione digitale. Tutti americani, tutti bianchi, tutti maschi, quasi tutti ingegneri (spaventoso, vero?). Ormai mi sembrava di averli capiti: sapevo i loro tic, i loro miti, quello che facevano da giovani e come si muoveva la loro mente. Mi mancava di sapere cosa si vedeva fuori dalla loro finestra e com’erano i posti in cui facevano colazione. Per cui, eccomi lì. Non un granché. Quel che si vede dalla loro finestra, dico. Non un granché. La Silicon Valley è uno di quei pezzi d’America che potrebbero essere ovunque, in America. È quel genere di posto in cui per andare dal barbiere prendi l’autostrada. In alternativa ti perdi in giganteschi quartieri di villette, disegnati come parole crociate, ogni casella una villetta, le caselle nere sono quelle in cui il padre ha perso il lavoro e vedi le erbacce in giardino (qui non ce ne sono, peraltro: tutti hanno un lavoro). In una di quelle caselle, per inciso, son andato a omaggiare uno dei luoghi sacri dell’insurrezione digitale: il garage dove Steve Jobs e Steve Wozniack, ragazzetti, iniziarono a lavorare. Aveva due cassonetti davanti, il portone bianco e l’aria di non ricordarsi di nulla. Tipico della civiltà digitale. Non sa cosa farsene del sacro. Le città hanno nomi che sono diventati epici: Palo Alto, Mountain View, Cupertino, Menlo Park. Ti immagini posti fighissimi, ma alla fine, a parte villette e villone, c’è la solita via centrale, downtown, elegantina, dove i ristoranti sono amabili ma i negozi d’arredamento, per dire, sono da querela. Certi salotti che in Brianza sono passati di moda ai tempi di Fanfani. È difficile capire. Cerchi i segni di un’umanità che dovrebbe stare anni davanti a tutti gli altri e alla fine ti ritrovi con i sofà in stile gotico country. Mah.
Che poi, per uno spiritoso equivoco, mi sono ritrovato in un motel in stile Indiani d’America, nel senso che c’erano le abat-jour di vacchetta, le volpi di legno sul comodino e ritratti di indiani Pawnee alle pareti: ma non una roba etnica, o politicamente corretta, no, proprio quel genere di immaginario chip che poteva avere una signora coi bigodini negli anni ’50. Infatti all’ingresso c’era la foto dell’inaugurazione, 1959, tutti in bianco e nero a sorridere al fotografo. La fierezza aleggia ancora nell’aria, come sono ancora lì le pelli di vacca alle pareti e i tappeti falso-Comanche per terra. È una cosa che mi ha fatto pensare, perché a dieci minuti da lì ci sono i quartieri generali della Apple, per dire, e quindi ho finito per fare una sorta di equazione: se questi, che stanno a uno sputo da Google, dalla Apple, da Facebook, e da migliaia di start up digitali, se questi stanno ancora qua con le abat-jour in vacchetta, archi e frecce alle pareti, e piccoli bisonti di legno come suppellettili, cosa diavolo stiamo a preoccuparci noi, a migliaia di chilometri di distanza, che ci portino via le madonne fiamminghe e la musica di Schubert? No, dico sul serio, sarà mica che ci facciamo delle paranoie senza senso? Ce le facciamo, è ovvio, e appunto per questo ho scritto questo libro: che in certo modo è la continuazione dei Barbari, ma anche non lo è, perché questa volta mi sono spinto più lontano, o più vicino, secondo le volte — avevo in mente di uscirne con un atlante attendibile e per quanto possibile bello della terra che siamo andati ad abitare, fuggendo dal disastro del Novecento. E in effetti, dopo un po’ mi son visto crescere sotto agli occhi una mappa, sicuramente imprecisa, ma abbastanza credibile, zeppa di cose che non sapevo, e di continenti che intuivo ma non avevo mai misurato bene, o oceani che non sapevo esistessero e adesso erano lì. E man mano che cresceva — ogni tanto lasciandomi secco dalla sorpresa, per certe combinazioni di eventi, o meraviglie di design mentale — man mano che cresceva vedevo salire su da non so dove un nome che non ne voleva sapere di andarsene, tanto che alla fine sono arrivato a concludere che probabilmente è il nome della civiltà in cui viviamo. E quindi il titolo del libro che stavo scrivendo “The game”. Non sono mai cose casuali, comunque: se il Game è nato proprio lì, nella Silicon Valley, la cosa aveva le sue ragioni. Nel giro di pochi chilometri c’erano: i militari, l’industria aerospaziale, una valanga di produttori di microchip, un’Università come Stanford, Hollywood (senza sogni non si va da nessuno parte), i pionieri della science computer (la Hewlett-Packard), e soprattutto: una gran numero di sciroccati hippy: la controcultura californiana. Mescolate, shakerate, e ottenete Steve Jobs. Questa è una cosa che ci ho messo un po’ a capire: mi sembrava una rivoluzione tutta guidata da ingegneri e tecnocrati, ma non avevo fatto i conti con l’anomalia californiana. Da noi se negli anni Settanta avevi un cognato ingegnere informatico, non è che ci passavi le sere fumando spinelli, ecco, né pensavi che potesse avere in mente di sfasciare il sistema. Era già tanto se non andava in Chiesa. Ma lì, in California, il cognato ingegnere spesso aveva i capelli lunghi, si lavava poco, aveva tendenze nerd, si chiamava hacker, spendeva tutto il suo tempo in oscuri laboratori di computer science e sul mondo aveva un’idea molto elementare: era da rifare. Di fatto, in quei posti, ai tempi, se c’erano dieci ventenni a cui la way of life dei padri faceva schifo, cinque sfilavano contro la guerra in Vietnam, tre praticavano il libero amore su un pullmino Volkswagen e due stavano in un laboratorio a programmare videogame. È bene sapere che noi viviamo nella civiltà immaginata dagli ultimi due. Volevano cambiare il mondo, ho poi capito, e lo fecero con un sistema da ingegneri, da cui ho finito per imparare molto. Nel modo migliore l’ha sintetizzato, in un’intervista, Stewart Brand, un uomo di cui non sapevo nulla, fino a qualche mese fa. Era (è) una specie di profeta, molto noto nella Silicon Valley, un beat che girava con il giubbotto di daino con le frange, sperimentava gli effetti dell’LSD e nel frattempo bazzicava i migliori laboratori di computer science. Be’, una volta, in un’intervista, disse questa cosa: «Puoi cercare di cambiare la testa alla gente, ma perderai solo il tuo tempo. Quello che puoi fare è cambiare gli strumenti che usa. Fallo e cambierai la civiltà». Pensateci bene e d’improvviso vi sembrerà molto più chiaro quello che è successo negli ultimi trent’anni. Stewart Brand è anche il primo uomo che abbia messo nero su bianco l’idea che ogni umano dovesse avere sulla scrivania un suo computer. Lo disse quando la cosa suonava tipo «fra vent’anni tutti si opereranno alle adenoidi da soli, a mani nude, davanti alla tivù». Lui lo scrisse, in un articolo poi diventato mitico su Rolling Stone, e la cosa interessante è che l’articolo, in effetti, era una sorta di reportage su un oggetto molto preciso: Spacewar, il primo videogioco della storia. La ragione era semplice: Spacewar, scrisse Brand, è la sfera di cristallo in cui si può leggere il futuro della computer science. Qualche anno dopo, a un convegno di designer, chiamarono Steve Jobs a fare uno speech. Lui non era ancora Steve Jobs, semplicemente andò perché lo pagavano. Arrivato in sala si rese conto che non c’era uno, neanche uno, che sapeva cos’era un software. Va be’, provo a spiegare, disse. E per spiegare, che esempio fece? Pong, un videogame, sapete quello con le due racchette che andavano su e giù, e quella bastarda di pallina… C’era da uscirne pazzi. No, lo dico per farvi capire com’è che quel nome, The Game, più studiavo più spuntava fuori. Ah. Vi ricordate «Stay hungry, stay foolish», la famosa frase che compare su tutte le immaginette di Steve Jobs? Be’, non era sua. Lo ammise lui stesso, citandola, non era sua. Sapete di chi era? Stewart Brand. No, lo dico per farvi capire che mi sono molto divertito a scrivere The Game. Venivano fuori certe connessioni nascoste… Certi colpi di scena… Sto cercando di convincere l’editore che non è un saggio, è un thriller. È la storia di un archeologo piuttosto ignorante che si mette a indagare tutte le grandi fortezze digitali — da Google alla Apple, da Facebook a YouTube — come se fossero rovine di una misteriosa civiltà scomparsa. Scava, esamina, studia, riporta in superficie, sfida maledizioni secolari, spolvera fossili, rischia la vita, e tutto per riuscire a scoprire chi erano quegli uomini, in che modo ragionavano, di cosa avevano paura, cosa volevano e come gli era andata a finire. La cosa interessante è che quegli uomini siamo noi, quella civiltà è la nostra, e quella storia la nostra storia.

Integra questa presentazione in prima persona, e lo fa a nostro avviso in modo criticamente interessante, la recensione di Andrea Coccia (giornalista e fondatore del progetto “Slow news”) apparsa sulla rivista on-lne “LINKiesta”

Angoscia per il futuro? Leggetevi “The Game” di Alessandro Baricco,

 e almeno lo capirete……..

C'è un breve scritto di Walter Benjamin che parla di un quadro che gli ha regalato un amico, Paul Klee. Il quadro si intitola Angelus Novus e ritrae il volto di un angelo che, per come lo descrive Benjamin, somiglia molto di più alla faccia che abbiamo noi, abitanti di questo periodo storico così complesso e mutevole, piuttosto che agli uomini del suo tempo. Come noi, quell'angelo ha lo sguardo volto al passato; come noi, vede solo macerie dove invece gli uomini del suo tempo vedevano catene di eventi e strutture lineari; come noi, non ce la fa a lasciarsi trasportare via, vuole rimetterle a posto, vuole capirle. Se non può, scrive Benjamin, è perché «una tempesta che spira dal paradiso» lo porta via, «lo spinge irresistibilmente nel futuro». Come noi. Fino ad oggi questa immagine dava conto di due tipi di reazione di fronte al progresso: da una parte, quello degli Apocalittici, ovvero coloro che rimanevano fedeli allo sguardo impaurito dell'angelo anche a costo di risultare luddisti fuori tempo massimo; dall'altra, invece, quello degli Integrati, che tifavano tempesta e che speravano che quell'angelo mollasse la sua presa nostalgica sul passato e si facesse trasportare via, verso le meravigliose sorti e progressive. Ora, forse, abbiamo trovato la terza via. Apocalittici contro Integrati. Questo, in buona sostanza, è anche lo stallo alla messicana in cui gran parte del mondo intellettuale contemporaneo si trova: gridare all'apocalisse o tifare un luminoso futuro? Al di là delle ingenuità che caratterizzano sia l'una che l'altra posizione, questo stallo dava anche conto di un clima del pensiero totalmente controproducente, un clima che sapeva di tifo, di fumogeni e di cori da stadio, di voglia di distruggere invece che di creare. Questo, in altrettanta buona sostanza, è il cul de sac dal quale riesce ad uscire Alessandro Baricco con il suo nuovo libro, intitolato The Game, pubblicato il 2 ottobre dalla casa editrice Einaudi e destinato sicuramente a restare come una testimonianza importante di questi anni così incasinati e così difficili da comprendere anche per noi che ci siamo nati dentro. Baricco ha studiato. E si legge. Si legge perché è riuscito a mettere insieme un sacco di intuizioni che serpeggiano da qualche tempo in molte nicchie intellettuali e a renderle comprensibili. Non sono di certo tra gli ammiratori di Baricco. Non lo sono mai stato e, quando dieci anni fa uscì I barbari lo stroncai come un libro disonesto, che mi pareva ripetere cose già dette nella prima parte del Novecento, senza aggiungere nulla alla comprensione di qualcosa che stava già accadendo e che invece ora, a distanza di dieci anni, in questo libro c'è tutta. Baricco ha studiato. E si legge. Si legge perché è riuscito a mettere insieme un sacco di intuizioni che serpeggiano da qualche tempo in molte nicchie intellettuali e a renderle comprensibili. Si vede, e si vede che lo sa. E lo scrive: «alla fine abbiamo troppo bisogno di una sintesi leggibile per attardarci troppo nel culto della precisione». Per i più giovani, probabilmente, i primi due capitoli sembreranno peccare di riduzionismo, somiglieranno alle istruzioni testuali di un device che loro hanno già capito solo tenendolo in mano e giocandoci due minuti. È vero, ed è lo stesso Baricco che lo ammette dopo un po' — «Se tornate ai primi due capitoli e li rileggete vi sembreranno quasi preistorici» —, ma abbandonare alle prime difficoltà sarebbe un errore e uno spreco, perché Baricco, a differenza di alcune delle sue ultime opere romanzesche, questa volta ha qualcosa di dire c'è l'ha sul serio: ha trovato la terza via. Oltre l'apocalisse e oltre l'integrazione. Se ci fosse una telecamera tra gli angeli forse ora vedremmo Umberto Eco che si strofina le mani a sentire robe del genere, ma realmente in The Game ci sono tante delle intuizioni intellettuali che ci servono per affrontare il futuro senza fuggirlo come l'angelo di Benjamin, ma anche senza agognarlo acriticamente come l'ultimo dei neopositivisti. C'è tutto, o quasi: dalla meravigliosa intuizione di invertire causa ed effetto e vedere finalmente la rivoluzione digitale come figlia del mondo che l'ha preceduta piuttosto che come semplice causa di una rivoluzione mentale e comportamentale nel mondo che si è ritrovata a cambiare, fino a quella, onesta e tragica, di aver capito che l'onda di disruptive del digitale, nata dalle menti anarco-nerd di gente che voleva spazzare via i nuclei di potere e le rendite di posizione del Novecento, lungi dal disciogliere le classi e rendere tutti uguali, è al contrario foriera di nuove dittature di classe, di nuove rendite di posizione, di nuove élite. In The Game ci sono tante delle intuizioni intellettuali che ci servono per affrontare il futuro senza fuggirlo come l'angelo di Benjamin, ma anche senza agognarlo acriticamente come l'ultimo dei neopositivisti. Con questo libro Baricco manda in pensione il Novecento, almeno a livello intellettuale. Lo fa prendendosi le sue responsabilità e riconoscendosi élite — «post-verità è il nome che noi élite diamo alle menzogne quando a raccontarle non siamo noi ma gli altri. In altri tempi le chiamavamo eresie» — ma lo fa anche trovando e finalmente, da filosofo, indicando una strada percorribile per il mondo intellettuale umanista, che fino a ieri non sapeva effettivamente più dove sbattere la testa per riuscire a non fare la figura della mandria di luddisti. È tutto in una frase, questa: «Non è il Game che deve tornare all’umanesimo. È l’umanesimo che deve colmare un ritardo e raggiungere il Game». È una intuizione fondamentale. Perché il Game lo hanno sognato, elaborato e poi creato degli ingegneri, gente che ha bisogno di regole, gente pratica che per cambiare la testa della gente si limita a cambiargli gli strumenti, ma gente che rappresenta soltanto una parte del nuovo grande cuore che potrebbe avere la prossima modernità umana. Un cuore che ha bisogno di due ventricoli e che, oltre a quello digitale della velocità e della superficialità, ha bisogno anche di quello analogico della lentezza e della profondità. Due ventricoli che sembrano in contraddizione, certo, ma non molto di più di quelli che fanno confluire nel medesimo organo i flussi di sangue opposti delle vene e delle arterie. Se fino a qualche anno fa pensavamo di dover risolvere la contraddizione per superarla, oggi forse abbiamo una prova in più del fatto che quello contraddizione bisogna semplicemente avere il coraggio di assumerla, ritornando umanisti alla fine dell'umanesimo. Solo così, aggiungo io, potremmo salvare il Game, che ormai è il mondo, dalla deriva che ha preso: una specie di malattia autoimmune i cui sintomi sono cose come la legge sul Copyright, per esempio, le leggi americane contro la Net Neutrality, tra i cui effetti c'è anche quello di trasformare ciò che nella testa dei padri fondatori era nato libero, in una prigione. Una prigione fatta di cose che dovremmo proprio avere il coraggio di abbandonare nel Novecento, cose come gli orgogli, i confini e gli egoismi.

Decisamente caustico, ma nel mare di peana che hanno accompagnato l’uscita di “The game” una voce discordante è bene che ci sia, l’articolo di Marco Ciriello (giornalista, scrive su La Repubblica, Il Fatto Quotidiano) apparso nel blog “barbadillo” Chiudiamo con questa la carrellata di recensioni, che speriamo abbiano offerto sufficienti elementi per “farsi un’idea” del libro di Baricco e restiamo in attesa di conoscere il vostro personale parere

“The game”: ovvero perché Baricco non è (e non sarà mai) Joseph Roth

Tutta l’opera di Alessandro Baricco è riassumibile in: «adesso ti spiego come è andata veramente», detto a Marco Polo, a Beethoven, a Omero, fino ad arrivare a Steve Jobs, come nel suo ultimo libro: “The Game” (Einaudi). È fatto così. In molti vorrebbero avere le sue certezze, il suo ego, la sua naturale propensione a spiegare. Quello che lo frega è che mentre illustra si compiace, e compiacendosi viene posseduto da se stesso, una sorta di doppio Baricco, che, però, è quello che emette i Pof (divenuti panattiani col film di Zerocalcare), che sono, in realtà, i rumori di fondo del suo piacere. L’idea di “The Game” è capire perché si è abbandonato il gesto per il movimento, i blocchi geometrici per il presente liquido, come internet e web hanno cambiato le nostre vite, e tutto viene riassunto nei passaggi calciobalilla-flipper-SpaceInvaders, ma Baricco non è Joseph Roth né Nassim Taleb, tanto che un solo capitolo – su programmi e social network – di Roberto Cotroneo in “Niente di personale” riassume quello che nel suo Game viene spalmato in trecento e fischia pagine tra mappe e repliche del web. I capitoletti baricchiani sembrano trenini, nella sua stanza dei giochi, che arrivano in orario – con diversi refusi qua e là – portando idee e discussioni che tutti abbiam fatto, un giornale già letto – persino sull’oltremondo più reale: “Second Life”, che stranamente manca – con conclusioni azzardate: il sovranismo dilagante come risposta all’eccesso di irrealtà, e grandi notizie: il Novecento è morto, ma non l’ha ucciso lui.

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