lunedì 14 gennaio 2019

Dialogo sulla coscienza - Intervista a David Chalmers


Pubblichiamo questo articolo/intervista a David Chalmers, uno dei più importanti neuroscienziati, che affronta un tema strettamente correlato ad altri nostri post, in particolare al recente “Saggio del mese – La mente alterata”, e a diversi contenuti delle recenti nostre conferenze/seminari sui possibili futuri. Condividere o meno il suo ottimismo rientra ovviamente nel novero delle opinioni, ma è sicuramente interessante la panoramica che ci offre sull'attuale livello di conoscenze e studi sul tema della coscienza

Dialogo sulla coscienza

David Chalmers e il “problema difficile della coscienza”, tra neuroscienze e filosofia.

Articolo di Paolo Pecere ("La filosofia della natura in Kant" (2009) - "Dalla parte di Alice. La coscienza e l'immaginario" (2015). Nel 2018 ha pubblicato il romanzo "La vita lontana") dal sito on-line “La Tascabile”

David Chalmers insegna Filosofia e Neuroscienza alla New York University, dove è condirettore del Center for Mind, Brain and Consciousness. In seguito alla pubblicazione di La mente cosciente  (1996) è stato tra i protagonisti della ricerca interdisciplinare sulla coscienza. Ha definito “problema difficile della coscienza” i tentativi di spiegare come l’esperienza soggettiva (sensazioni e sentimenti) emerga dall’attività cerebrale, e ha dato numerosi contributi al tema, considerandolo dal punto di vista delle neuroscienze, dell’intelligenza artificiale e della metafisica. Attualmente sta lavorando a un libro sui concetti di reale e virtuale.

Paolo Pecere: Il problema di spiegare come la coscienza sia prodotta dai processi cerebrali si è posto fin dagli albori della scienza moderna. Trovo che fosse formulato nei termini attuali già da diversi scienziati e filosofi del Diciannovesimo secolo. In quegli anni si cominciarono a immaginare universi popolati di automi identici agli uomini ma privi di sensazioni. Serviva a domandarsi che cosa le sensazioni aggiungessero alla descrizione fisica della natura – era un periodo in cui lo sviluppo delle scienze e l’ascesa del materialismo filosofico portarono a interrogarsi sul significato e sui limiti dell’immagine scientifica del mondo. Questi esperimenti mentali sono stati poi riscoperti, un secolo dopo, dai filosofi analitici. Immaginiamo allora un filosofo-scienziato del Ventiduesimo secolo, che si metta a studiare retrospettivamente il “problema difficile” della coscienza: che cosa troverebbe di nuovo nel dibattito di questi ultimi trent’anni?

David Chalmers: Il problema della coscienza ha una lunghissima storia. In effetti è interessante chiedersi perché non si trovi già tra gli antichi filosofi Greci e Romani. In parte questo dipende dal fatto che ci voleva la diffusione del materialismo, cioè della concezione secondo cui il mondo è fondamentalmente fisico, perché la mente e la coscienza apparissero particolarmente problematiche. Questa concezione cominciò ad affermarsi nel Diciassettesimo secolo: per esempio Descartes contrappose la mente al corpo. Ma forse soltanto dalla metà del Diciannovesimo secolo si cominciò a formulare la concezione secondo cui possiamo spiegare diversi aspetti della mente, come il comportamento, ma non la parte esperienziale, la coscienza. Rispetto alla mia espressione “problema difficile della coscienza”, coniata negli anni Novanta, bisogna dire che scienziati del secolo scorso come Emil du Bois-Reymond e John Tryndall l avevano già riconosciuto la difficoltà del problema. Ma cosa c’è di nuovo? Il cambiamento più profondo ha riguardato la scienza, non la filosofia. All’inizio del Ventesimo secolo la coscienza cominciò a essere considerata una proprietà troppo soggettiva, mentre si assumeva che la scienza dovesse essere oggettiva, perciò la psicologia ha cominciato a essere intesa come una scienza del comportamento (comportamentismo). Anche quando il comportamentismo tramontò, negli anni Cinquanta, restò l’idea che la scienza della mente dovesse essere oggettiva. Soltanto negli anni Novanta neuroscienziati, psicologi e altri scienziati hanno ricominciato a considerare la coscienza come un tema di ricerca. È stata questa la grande novità: persone come Francis Crick e Christof Koch hanno cominciato a pensare che la neuroscienza deve studiare i correlati neurali della coscienza [cioè i processi cerebrali che corrispondono alla coscienza], e gli psicologi hanno cominciato a approfondire la distinzione tra processi coscienti e inconsci.

PP: Come sono andate le cose in filosofia?

DC: In filosofia della mente c’è stato un processo più graduale, ma anche qui c’è stato dapprima un predominio di altri temi (come i desideri o il collegamento della mente con la capacità computazionale delle macchine), poi, negli anni Novanta, un ritorno alla coscienza. Per esempio il libro di Daniel Dennet "Coscienza, Che cosa è", Laterza 1991, attirò l’attenzione sul tema, e furono sviluppati strumenti analitici più raffinati per affrontarlo. Si cominciarono a concepire diversi esperimenti mentali il cui scopo era mostrare i limiti del paradigma dominante nelle scienze cognitive: per esempio Frank Jackson elaborò il suo “argomento della conoscenza” immaginando una scienziata, Mary, che conosce ogni informazione fisica sul mondo e vive in una stanza priva di luce colorata. Quando Mary esce dalla stanza e per la prima volta percepisce il colore rosso, si può dire che impari qualcosa di nuovo? Se sì, la descrizione fisica del mondo non è sufficiente a rendere conto della coscienza.

PP: Venticinque anni fa tu e Christof Koch avete fatto una scommessa. Lui ha scommesso che entro venticinque anni si sarebbe scoperto che la coscienza è una proprietà intrinseca di un piccolo gruppo di neuroni. Tu scommettesti di no. Come stanno le cose oggi? Quali teorie neuroscientifiche della coscienza ti sembrano più promettenti?

DC: Penso che la scommessa si metta bene per me: al momento non c’è alcuna seria proposta di considerare la coscienza come proprietà intrinseca di un determinato gruppo di neuroni. Gli scienziati tendono a riferirsi a proprietà globali del cervello. Un’idea è che la coscienza corrisponda a uno “spazio di lavoro globale” che attinge informazioni da alcune aree del cervello e le collega con altre. Un’altra idea è la teoria della integrazione dell’informazione (IIT) di Giulio Tononi, secondo cui la coscienza è integrazione dell’informazione nel cervello, misurata da una quantità chiamata Φ: più alta la Φ, migliore la tua integrazione dell’informazione, più alto il tuo grado di coscienza. Sono entrambe idee interessanti, che hanno un certo supporto. Ma nessuna di esse localizza la coscienza come proprietà intrinseca di un piccolo gruppo di neuroni; la considerano come una proprietà globale della rete di neuroni. Lo stesso Christof adesso sostiene la IIT, e sarebbe d’accordo che se questa teoria fosse vera allora la coscienza sarebbe una proprietà estrinseca e relazionale, piuttosto che intrinseca ad alcune cellule, nel qual caso vincerei la scommessa. La teoria di Tononi è molto interessante: non direi che la ritengo senz’altro vera, ma ha una precisa formulazione matematica e va presa sul serio. Al momento però mi sembra più una teoria filosofica che una conseguenza di dati sperimentali.

PP: Si tende a considerare la coscienza come un risultato dell’evoluzione associata alla comparsa della corteccia cerebrale. Che ne pensi delle tesi di quegli scienziati, come Jaap Panksepp e Antonio Damasio, secondo i quali la coscienza ha origine, piuttosto che dalla corteccia cerebrale, da aree inferiori del cervello associate a emozioni e sentimenti primordiali come la sete?

DC: Ci sono idee molto diverse riguardo ai correlati neurali della coscienza, ma credo si debba dire che qualcosa di molto importante avviene nella corteccia: per esempio la percezione cosciente richiede in modo determinante l’attività di un’area della corteccia (la corteccia visuale). Detto questo può darsi che vi siano condizioni della coscienza che sono più basilari, e che essere cosciente richieda qualche contributo dal mesencefalo o dal tronco encefalico, mentre alcuni contenuti della coscienza dipendono dalla corteccia.

PP: Il 2018 è stato anche il cinquantesimo anniversario del libro A Materialist Theory of the Mind (una teoria materialista della mente) di David Armstrong, un libro molto importante che segna l’inizio di un dibattito filosofico ancora in corso. Aderire a una qualche specie di materialismo è stata a lungo la concezione più diffusa tra scienziati e filosofi della mente (tu stesso, qualche anno fa, hai fatto un interessante sondaggio in merito). Hai scritto in diverse occasioni che il materialismo non costituisce una prospettiva accettabile sul problema della coscienza, perché o non fornisce una soluzione o, se lo fa, si trasforma in una teoria differente: puoi spiegarci come la pensi?

DC:
 
Penso che ci sia una lacuna molto seria che qualsiasi teoria materialista della coscienza deve incontrare. Le teorie materialiste sono fondamentalmente meravigliose per spiegare la struttura dei processi fisici, la loro dinamica, e il funzionamento e comportamento di molti sistemi. Quando si tratta di spiegare la mente ci sono molti problemi centrali che si riducono a struttura, dinamica e comportamento, quelli che chiamerei, in opposizione al problema della coscienza, “problemi semplici”: per esempio, spiegare la discriminazione degli oggetti nella percezione, l’integrazione dell’informazione, la reazione agli stimoli, la capacità di rispondere. Per spiegare la coscienza come esperienza soggettiva, tuttavia, ci sono due opzioni. Una è arricchire la tua concezione della materia affermando che questa contiene qualcosa di mentale fin dall’inizio. Se si sceglie di seguire questa via si ha forse un modo di restare materialisti, ma non si tratta certo di un materialismo standard. Se invece mantieni il tuo concetto normale di materia allora hai bisogno di aggiungere qualcosa all’immagine fisica del mondo per ottenere la coscienza, e così vai oltre il materialismo.

PP: Di fatto la coscienza è correlata alla materia, in particolare ai sistemi nervosi. Ma a quali? La ricerca più recente sta approfondendo il problema di quali organismi possono essere considerati coscienti, e se la coscienza si presenta in natura in diversi gradi: pensa al lavoro di Peter Godfre-Smith sui polpi, o alle occasionali speculazioni di Antonio Damasio sulla “proto-coscienza” delle cellule. In effetti alcuni sostengono perfino che le piante, essendo capaci di apprendimento e memoria, potrebbero essere annoverate tra gli esseri coscienti. Dove pensi che possiamo mettere un limite alla presenza della coscienza tra gli esseri naturali?

DC: Non c’è un modo diretto di risolvere la questione, perché non abbiamo un metodo per misurare la coscienza dall’esterno. Sarebbe molto più facile se avessimo il favoloso “coscienzoscopio”, che ti dice se un sistema è cosciente o no. Pertanto dobbiamo affidarci a inferenze indirette basate sul comportamento e su argomenti molto astratti su quali sarebbero le condizioni della coscienza. Detto questo, la tendenza negli ultimi anni è di essere più liberali sulle condizioni della coscienza rispetto al passato. Una volta si richiedeva il linguaggio per poter attribuire la coscienza, e direi che forse questo può essere vero per certe caratteristiche speciali della coscienza, come l’autocoscienza o la coscienza concettuale. Ma se ci riferiamo soltanto all’esperienza soggettiva, il tipo di esperienza che hai quando vedi o provi dolore, è molto implausibile che questa richieda qualcosa di così complicato come il linguaggio. La tendenza oggi è di rifiutare queste condizioni restrittive e considerare coscienti molti esseri privi di linguaggio verbale: non solo i primati, ma certamente tutti i mammiferi sono coscienti, probabilmente tutti gli uccelli. Si discute ancora sui pesci, ma credo che gradualmente ci si sta orientando a includerli tra gli esseri coscienti. Il dibattito più attuale riguarda gli insetti: per esempio se le api, o le formiche, sono coscienti. Sospetto che questa tendenza proseguirà. Ma semplici vermi, piante, cellule, sono coscienti? Non lo so. Credo che quando si arriva alle piante e alle cellule oggi in molti direbbero ancora che non sono coscienti. La cosa interessante è che non c’è un chiaro requisito per essere definiti coscienti che, per esempio, una cellula potrebbe soddisfare. Perciò non abbiamo una chiara prova del fatto che le cellule non siano coscienti. Allo stesso tempo, non abbiamo forti prove del fatto che lo siano. La mia impressione è che non avremo presto un consenso diffuso riguardo alla coscienza di esseri al di fuori del regno animale.

PP: A partire dalla critica del materialismo che hai riassunto prima, negli ultimi decenni c’è stato un consistente ritorno verso ipotesi metafisiche alternative. Tra queste c’è il panpsichismo, cioè la tesi che attribuisce la coscienza alla materia. In passato si è discusso molto del panpsichismo, ed è interessante pensare che oggi la questione possa essere ripresa in base a nuovi dati empirici e nuovi argomenti. D’altra parte, tu stesso hai sostenuto che il panpsichismo può essere formulato in diverse versioni tra cui bisognerebbe scegliere (a seconda che si attribuisca la coscienza a singole parti della materia, o all’intero universo materiale, e così via), e comporta diversi problemi. Pensi che possa essere accettato come soluzione del problema della coscienza?

DC: Penso che sia certamente una delle concezioni che dobbiamo prendere sul serio rispetto al problema della coscienza. Ha alcuni chiari vantaggi: inserisce la coscienza al livello fondamentale, perciò non ha bisogno di farla emergere in qualche strano modo; garantisce la possibilità che la coscienza eserciti un potere causale all’interno dei processi fisici, perché è già presente a livello fisico. Il problema più grande per il panpsichismo è mostrare come le piccole parti di coscienza che si trovano a livello fondamentale si sommino fino a formare il tipo di coscienza che abbiamo noi umani: questo è il problema della combinazione. Se non si risolve torniamo a un dualismo in cui la coscienza umana non è il risultato della fisica e di una coscienza più elementare, e così perdiamo i vantaggi di cui parlavo prima. Molti panpsichisti stanno cercando di risolvere il problema. Credo sia corretto dire che nessuna soluzione finora ha ottenuto molto consenso. Si tratta di un problema che sarà probabilmente difficile da risolvere. Se risolviamo il problema della combinazione allora sì, forse il panpsichismo è la soluzione migliore, altrimenti è solo un’ipotesi tra le tante. Secondo me le opzioni più serie sono una specie di panpsichismo, o forse di dualismo, in cui la coscienza sia una proprietà irriducibile, distinta dalle proprietà della fisica.

PP: Esistono due grandi associazioni dedicate allo studio scientifico della coscienza, con annesse conferenze annuali. Una di queste si è tenuta per la prima volta a Tucson oltre vent’anni fa col titolo “Toward a science of consciousness” (Verso una scienza della coscienza). I contributi solitamente accettati in questa conferenza comprendono, oltre a filosofia e neuroscienza, ardite interpretazioni della meccanica quantistica, filosofia indiana e saggezza dei nativi americani. Ogni tanto, tra chi frequenta la conferenza, viene rilanciato il dubbio  che alcuni di questi contributi sarebbero più che altro “scienza di confine” (fringe science), speculazioni o pezzi di folklore, se non addirittura sfrenate fantasie New Age. Bisogna dire, d’altra parte, che il folklore e la speculazione sono stati presenti nella ricerca scientifica in età moderna, e come abbiamo appena visto in questo campo si discute normalmente di coscienza di cellule, piante e dell’intero universo. Ma ti chiedo: pensi che la possibilità di sottoporre le ipotesi a prove sperimentali, o altri criteri, possano tracciare un limite di ciò che è proponibile in questo campo, oppure pensi che una libertà incondizionata possa essere un beneficio?

DC: Penso sia una questione complicata, che è al centro delle discussioni ormai da decenni. Personalmente sono stato coinvolto nella nascita dei gruppi che citi: sono tra i fondatori dell’“Associazione per lo studio scientifico della coscienza” (ASSC), il gruppo più ristretto dal punto di vista disciplinare (psicologia, neuroscienza e filosofia), e ho partecipato alla prima conferenza di Tucson, dopo la quale sono stato co-organizzatore della conferenza, fino a qualche anno fa. Penso sia un bene per questo campo avere sia un approccio più ristretto, sia uno più ampio. Se avessimo soltanto l’approccio più ristretto, riservato alle idee con un certo livello di rispettabilità scientifica, ci sarebbe il pericolo di perdere ogni genere di idea speculativa che alla lunga potrebbe risultare promettente. Il fatto è che negli studi sulla coscienza non si è ancora costituito un paradigma disciplinare, perciò ci sono buone ragioni per far sbocciare mille fiori. Allo stesso tempo, se lasci sbocciare mille fiori in lungo e in largo, c’è il grave pericolo che questa scienza appaia a molti una cosa non seria e non rigorosa, e questo danneggerebbe lo sviluppo del serio approccio neuroscientifico. Avere il doppio approccio, in modo tale che neuroscienziati e psicologi più “conservatori” vadano a una conferenza, mentre le persone con idee più speculative possono andare all’altra, è salutare. Devo aggiungere che anche la conferenza di Tucson ha sempre privilegiato la scienza, solo che ha anche dato voce a altri approcci – come la spiritualità, la meccanica quantistica, la parapsicologia – che non sarebbero stati ammessi dall’altra società. Alla fine, la conferenza di Tucson stava andando un po’ troppo in questa direzione perché io mi sentissi a mio agio, e ne sono uscito. È stata rinominata “La scienza della coscienza”, ma mi piaceva l’umiltà dell’espressione “Verso…”. Detto questo: dovremmo limitarci a ipotesi sperimentalmente testabili? Naturalmente no. La maggior parte delle idee in filosofia non lo sono, è la natura di tanta filosofia. Significa che non vale niente? No, significa che c’è una differenza tra filosofia e scienza. E resisto all’idea di una ricerca sulla coscienza da cui sia esclusa la filosofia.

PP: Ma c’è una qualche teoria della coscienza sperimentalmente testabile?

DC: Anche all’interno della scienza della coscienza ci sono diversi gradi di testabilità. La teoria dell’integrazione dell’informazione sarebbe testabile, ma è molto difficile effettuare le prove perché è molto difficile misurare l’integrazione dell’informazione. Alla lunga potrebbero esserci degli esperimenti. Al momento io sono coinvolto in un progetto insieme a neuroscienziati e altri ricercatori con l’obiettivo di sottoporre a test sperimentali le maggiori teorie della coscienza (teoria dell’informazione integrata, teoria dello spazio globale di lavoro, eccetera). Alcuni degli autori di queste teorie sono coinvolti nel progetto, e lo scopo comune è gettare luce su quale di queste sia corretta. Non si tratta di esperimenti che potrebbero di volta in volta stabilire come stanno le cose, ma potrebbero fornire prove a sostegno di una teoria o dell’altra. Credo che dobbiamo proseguire su questi binari paralleli e accumulare informazioni, ammettendo che si tratta di un progetto a lungo termine. Abbiamo bisogno di formulare idee speculative, di raffinarle fino a farne filosofia seria, per poi, gradualmente, farne teorie scientifiche. Possiamo sperare di fare progressi nel corso dei prossimi decenni.

PP: Non sembra una situazione tanto diversa da quella di alcuni campi della fisica teorica.

DC: Sì, la teoria delle stringhe, per esempio, è lontana dall’essere sperimentalmente testabile, ma si spera che lo diventi più avanti.

PP: L’ascesa dell’intelligenza artificiale ha costituito una grande novità per la filosofia della mente. Alcune teorie della coscienza ammettono la possibilità che le macchine possano essere coscienti (o che possano diventarlo in futuro). Pensi sia un’ipotesi plausibile?

DC: Non vedo perché le macchine non dovrebbero diventare coscienti. In un certo senso sappiamo già che esistono macchine coscienti, perché, sai, a un certo livello sembra che noi stessi siamo macchine: i nostri cervelli sono macchine complicate, e a quanto pare siamo coscienti. La domanda allora è: solo le macchine biologiche possono essere coscienti, o potrebbero esserlo anche le macchine di silicio? Non ho ancora trovato ragioni convincenti del fatto che ci sia qualcosa di specificamente biologico nella coscienza. Penso che ciò che conti per la coscienza sia il modo in cui le parti di un sistema sono collegate, e non la loro intrinseca natura biologica. Se le cose stanno così, allora potresti in linea di principio sostituire i neuroni del tuo cervello con dei chip di silicio che fanno le stesse cose, e restare cosciente. Forse in futuro la gente avrà veramente dei neuroni artificiali, così come ora si hanno cuori artificiali. In tal caso, verrebbe meno la coscienza? Beh, io credo di no. Questo suggerisce che in linea di principio i sistemi di silicio potrebbero essere coscienti. Fatta questa premessa ci si domanda: entro quali limiti? Ogni sistema di intelligenza artificiale potrebbe essere cosciente? Si devono porre delle condizioni restrittive? Se il panpsichismo è vero, allora esistono già dei sistemi di intelligenza artificiale coscienti, anche semplici circuiti. Se invece la coscienza richiede condizioni più restrittive, allora forse solo alcune forme complesse di intelligenza artificiale sarebbero coscienti. In ogni caso, non vedo ostacoli teorici alla possibilità che le macchine siano coscienti.

PP: Una possibile critica di questa concezione è collegata non tanto alla base materiale della mente, ma al fatto che le macchine coscienti dovrebbero avere un corpo come il nostro, perché la coscienza è collegata all’intero animale e forse – come ha ribadito di recente Siri Hustvedt – è inseparabile dal nostro sviluppo graduale e dal rapporto con altri individui. Ma l’intelligenza artificiale concepisce la coscienza piuttosto come un software, che come tale può girare su diversi supporti. Questo ha dato luogo a congetture che stanno tra la scienza e la fantascienza.  Mark O'Connell ha raccontato il gruppo dei “transumanisti” della Silicon valley, convinti della possibilità di superare i limiti naturali della vita umana trasferendo la coscienza in altri corpi. L’ipotesi di “scaricare” la coscienza, ripresa anche dalla serie tv Black mirror, sviluppa proprio questa immagine della coscienza come software separabile dal suo deperibile hardware. Che ne pensi di queste idee?

DC: È possibile caricare la coscienza dal tuo cervello in un sistema di intelligenza artificiale, o nel cloud, e poi scaricarla di nuovo in un robot? Penso si tratti di una prospettiva interessante: in linea di principio quel che è essenziale alla coscienza è l’elaborazione e l’organizzazione dell’informazione. Dovrebbe essere possibile implementarla in un altro sostrato, spostandola dalla base neurale a quella di silicio. Ci sono molti modi in cui questo potrebbe avvenire. Per me il più diretto sarebbe un caricamento graduale, per cui sostituisci i tuoi neuroni gradualmente, uno per uno, con dei chip di silicone: alla fine forse ci saresti ancora tu. Invece caricare la coscienza nel cloud tutta in una volta e scaricarla in un nuovo sistema porrebbe due problemi filosofici. Primo: il nuovo sistema sarebbe cosciente? Beh, sì, potrebbe esserlo. Secondo: quel sistema sarei ancora io, o sarebbe qualcun altro? Potresti caricarmi dal mio cervello e scaricarmi in un robot mentre il mio cervello esiste ancora: in questo caso sarei tentato di dire che io sono qui, nel mio corpo biologico, mentre nel corpo robotico c’è qualcun altro. Forse è un mio doppio, ma non sono io. Altra questione: se carico la mia coscienza nel cloud, e il mio cervello muore, e poi la scarico nel robot: a quel punto ci sarei io? Ragionando come prima ci sono ragioni di dubitare che sarei io. Questo pone un’obiezione molto pratica all’idea del caricamento come forma di sopravvivenza personale. In Black Mirror succede proprio così: il caricamento è una forma di vita dopo la morte. Ma sarebbe una vita dopo la morte per me? Penso che una volta che queste cose diventeranno praticamente possibili l’analisi filosofica diventerà molto importante, perché avremo a che fare con problemi di identità personale. Non ho opinioni molto nette su quest’ultimo problema. Ma confido nel fatto che il sistema caricato sarebbe cosciente: là ci sarebbe qualcuno, che si tratti di me o no.

PP: Di recente hai lavorato su virtuale e reale, un’opposizione cruciale non soltanto per la filosofia, ma per l’intera cultura contemporanea. La tua tesi è che non ci sia dopotutto una netta opposizione, e che il virtuale sia una specie di realtà. Puoi spiegarci in breve come la pensi?

DC: La tecnologia della realtà virtuale sta diventando sempre più diffusa come mezzo per interagire nel mondo reale. Per anni la gente che gioca ai videogiochi, a World of Warcraft, a Second life, ha interagito con mondi virtuali. Ora sta diventando possibile interagire con questi mondi virtuali mediante cuffie che rendono l’esperienza completamente immersiva e interattiva. Questo pone molte domande filosofiche. Per esempio, come sappiamo che non stiamo già vivendo in una realtà virtuale? (questa è una versione della domanda di Descartes: come sappiamo che la nostra esperienza percettiva non sia l’inganno di un demone malvagio?) Altra domanda: se siamo in una realtà virtuale, questa è una specie di illusione, una finzione, o è reale? Io voglio sostenere con decisione che la realtà virtuale è una specie di realtà vera e propria, e non una realtà di seconda classe. Quando interagisci nel mondo virtuale stai interagendo con reali oggetti virtuali, solo che sono oggetti digitali, fatti fondamentalmente di informazione in un computer. Se tutta la nostra vita vissuta fosse una simulazione, come avviene in film come Matrix, qualcuno dice che la realtà sarebbe un’illusione. Io dico di no. Se viviamo nella matrice tutto ciò che ci circonda è reale; solo che è digitale. È un altro modo di essere reale, non una falsa realtà. Credo che questo ragionamento possa avere la sua importanza non soltanto riguardo a astratte domande filosofiche, ma anche per il nostro modo di pensare agli ambienti virtuali in futuro. Potremmo avere l’opportunità di trascorrere sempre più tempo in questi ambienti, per lavoro, piacere, viaggio, o semplicemente per vivere le nostre vite, e allora si porrebbe la questione: si tratta in qualche modo di una vita di seconda classe? La mia opinione è che in linea di principio nulla impedisce di vivere una vita pienamente sensata in una realtà virtuale.

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