martedì 15 gennaio 2019

Elites e popolo (Baricco, Mauro, Mazzucato)


Elites e popolo

Si è aperta sulle pagine di La Repubblica una interessante e importante discussione attorno al tema del rapporto tra “elites” e “popolo”, visto come chiave di lettura dell’attuale avanzare del populismo e della collegata crisi dell’idea di Europa così come è stata finora portata avanti. Ha aperto le danze un articolo di Alessandro Baricco, seguito da una prima replica a firma di Ezio Mauro e da una seconda di Mariana Mazzucato. Pubblichiamo questi tre interventi e, laddove altri di pari interesse dovessero seguire, faremo il possibile per recuperarli

E ora le élites
 si mettano in gioco

There Is No Alternative” (M. Thatcher). Dunque, riassumendo: è andato in pezzi un certo patto tra le élites e la gente, e adesso la gente ha deciso di fare da sola. Non è proprio un’insurrezione, non ancora. È una sequenza implacabile di impuntature, di mosse improvvise, di apparenti deviazioni dal buon senso, se non dalla razionalità. Ossessivamente, la gente continua a mandare – votando o scendendo in strada – un messaggio molto chiaro: vuole che si scriva nella Storia che le élites hanno fallito e se ne devono andare. Come diavolo è potuto succedere? Capiamoci su chi sono queste famose élites. Il medico, l’insegnante universitario, l’imprenditore, i dirigenti dell’azienda in cui lavoriamo, il Sindaco della vostra città, gli avvocati, i broker, molti giornalisti, molti artisti di successo, molti preti, molti politici, quelli che stanno nei consigli d’amministrazione, una buona parte di quelli che allo stadio vanno in tribuna, tutti quelli che hanno in casa più di 500 libri: potrei andare avanti per pagine, ma ci siamo capiti. I confini della categoria possono essere labili, ma insomma, le élites sono loro, son quegli umani lì. Sono pochi (negli Stati Uniti sono uno su dieci), possiedono una bella fetta del denaro che c’è (negli Stati Uniti hanno otto dollari su dieci, e non sto scherzando), occupano gran parte dei posti di potere. Riassumendo: una minoranza ricca e molto potente. Osservati da vicino, si rivelano essere, per lo più, umani che studiano molto, impegnati socialmente, educati, puliti, ragionevoli, colti. I soldi che spendono li hanno in parte ereditati, ma in parte li guadagnano ogni giorno, facendosi un mazzo così. Amano il loro Paese, credono nella meritocrazia, nella cultura e in un certo rispetto delle regole. Possono essere di sinistra come di destra. Una sorprendente cecità morale – mi sento di aggiungere – impedisce loro di vedere le ingiustizie e la violenza che tengono in piedi il sistema in cui credono. Dormono dunque sereni, benché spesso con l’ausilio di psicofarmaci. Forti di questo andare per il mondo vivono in un habitat protetto che ha poche interazioni con il resto degli umani: i quartieri in cui vivono, le scuole a cui mandano i figli, gli sport che praticano, i viaggi che fanno, i vestiti che indossano, i ristoranti in cui mangiano: tutto, nella loro vita, delimita una zona protetta all’interno della quale quei privilegiati difendono la loro comunità, la tramandano ai figli e rendono estremamente improbabile l’intrusione, dal basso, di nuovi arrivi. Da quell’elegante parco naturale, tengono per i coglioni il mondo. Oppure, volendo: lo tengono in piedi. Se non addirittura: lo salvano. Ultimamente ha preso piede la prima versione. Ed è lì che è saltato quel tacito patto di cui parlavamo, e che descriverei così: la gente concede alle élites dei privilegi e perfino una sorta di sfumata impunità, e le élites si prendono la responsabilità di costruire e garantire un ambiente comune in cui sia meglio per tutti vivere. Tradotto in termini molto pratici descrive una comunità in cui le élites lavorano per un mondo migliore e la gente crede ai medici, rispetta gli insegnanti dei figli, si fida dei numeri dati dagli economisti, sta ad ascoltare i giornalisti e volendo crede ai preti. Che piaccia o no, le democrazie occidentali hanno dato il meglio di sé quando erano comunità del genere: quando quel patto funzionava, era saldo, produceva risultati. Adesso la notizia che ci sta mettendo in difficoltà è: il patto non c’è più. Ha iniziato a traballare una ventina d’anni fa, ora si sta sbriciolando. Lo sta facendo più in fretta dove la gente è più sveglia (o esasperata): l’Italia, ad esempio. La gente qui ha iniziato a non fidarsi neanche più dei medici, o degli insegnanti. Quanto al potere politico, prima lo ha affidato a un super-ricco che odiava le élites (trucco che poi gli americani avrebbero copiato), poi ha provato un’ultima volta con Renzi, scambiandolo per uno che non c’entrava con le élites: alla fine ha decisamente stracciato il patto e se n’è andata direttamente a comandare. Cos’è che li ha fatti così arrabbiare? Una prima risposta è facile: la crisi economica. Intanto le élites non l’avevano prevista. Poi hanno tardato ad ammetterla. Infine, quando tutto ha iniziato a franare, hanno messo al sicuro se stesse e hanno rimbalzato i sacrifici sulla gente. Possiamo dire, ripensando alla crisi del 2007-2009 che sia accaduto veramente questo? Non lo so con certezza, ma è vero che la percezione della gente è stata quella. Dunque, superata l’emergenza, la gente si è presentata a regolare i conti, per così dire. È andata, letteralmente, a riprendersi i propri soldi: il reddito di cittadinanza, o il cancellamento delle cartelle di Equitalia, non sono altro che quello. Non sono politica economica o visioni del futuro: sono riscossione crediti. La seconda ragione è più sofisticata e l’ho veramente capita solo quando mi son messo a studiare la rivoluzione digitale e ho scritto The Game. La riassumerei così. Tutti i device digitali che usiamo quotidianamente hanno alcuni tratti genetici comuni che vengono da una certa visione del mondo, quella che avevano i pionieri del Game. Uno di questi tratti è decisamente libertario: polverizzare il potere e distribuirlo a tutti. Tipico esempio: mettere un computer sulla scrivania di tutti gli umani. Potendo, nelle tasche di ogni umano. Fatto. Non va sottovalutata la portata della cosa. Oggi, con uno smartphone in mano, la gente può fare, tra le altre cose, queste quattro mosse: accedere a tutte le informazioni del mondo, comunicare con chiunque, esprimere le proprie opinioni davanti a platee immense, esporre oggetti (foto, racconti, quello che vuole) in cui ha posato la propria idea di bellezza. Bisogna essere chiari: questi quattro gesti, in passato, potevano farli solo le élites. Erano esattamente i gesti che fondavano l’identità delle élites. Nel Seicento, per dire, erano forse qualche centinaio le persone che in Italia potevano farli. Ai tempi di mio nonno, forse qualche migliaio di famiglie. Oggi? Un italiano su due ha un profilo Facebook, fate voi. Così – occorre capire – il Game ha abbattuto delle barriere psicologiche secolari, allenando la gente a sconfinare nel terreno delle élites e togliendo alle élites quei monopoli che la rendevano mitologicamente intoccabile. È chiaro: da lì in poi la situazione prometteva di diventare esplosiva. Non sarebbe forse successo niente se non fosse per un altro tratto del Game, una sua imprecisione fatale. Il Game ha ridistribuito il potere, o almeno le possibilità: ma non ha ridistribuito il denaro. Non c’è nulla, nel Game, che lavori a una ridistribuzione della ricchezza. Del sapere, della possibilità, dei privilegi, sì. Della ricchezza, no. La dissimmetria è evidente. Non poteva che ottenere, alla lunga, una rabbia sociale che è dilagata silenziosamente come un’immensa pozzanghera di benzina. Devo aver già detto che poi la crisi economica ci ha tirato un fiammifero dentro. Acceso. Dopo, quel che è successo lo sappiamo. Ma non sempre lo vogliamo veramente sapere. Riassumo io, per comodità. La gente, senza perdere un certo aplomb, si è recata a prendere il potere; perfino in modo composto, ma con una sicurezza di sé e un’assenza di timore reverenziale che da tempo non si vedeva. Lo ha fatto, per lo più, votando. Cosa? Il contrario di quello che suggerivano le élites. Chi? Chiunque non facesse parte delle élites o fosse odiato dalle élites. Quali idee? Qualsiasi idea che fosse l’opposto di cosa avevano in mente le élites. Semplice, ma efficace. Posso fare un esempio sgradevole che però riassume bene la situazione? L’Europa. Quella dell’unità europea è chiaramente un’idea forgiata dalle élites. Di certo non l’ha chiesta la gente, scendendo in strada e invocandola a gran voce. È un’intuizione di pochi illuminati che si può facilmente spiegare così: spaventata da cosa era riuscita a combinare nel ‘900, e incalzata dalle due grandi potenze americana e sovietica, l’élite europea ha capito che le conveniva piantarla lì con questa lotta selvaggia e secolare, tirare giù le frontiere e formare un’unica forza politica ed economica. Naturalmente non era un piano di facilissima realizzazione. Per secoli l’élite aveva lavorato a costruire il sentimento nazionalista, di cui aveva avuto bisogno per affermarsi, e perfino l’odio per lo straniero, che le era stato utile quando si era trattato di menar le mani: adesso bisognava smontare tutto, e invertire il senso di marcia. Prima le erano serviti milioni di soldati, adesso le servivano milioni di pacifisti. Gente che aveva da poco finito di sgozzarsi l’un l’altro con la baionetta in mano avrebbe dovuto trasformarsi in un unico popolo, con una moneta comune e un’unica bandiera: non proprio un passeggiata. Per questo, con indubbia abilità, l’élite impose un modello di unità europea che potremmo definire ad alta drammaticità: una volta fatta, l’unità doveva diventare irreversibile. Bruciarono le navi alle spalle, per evitare che alla gente (o magari anche alle frange dissidenti delle élites) potesse venire voglia di tornare indietro. Non lo avrebbero fatto perché era tecnicamente impossibile farlo. Se alla gente veniva qualche dubbio, il metodo era la pazienza: su Le Monde Diplomatique (non esattamente un organo di informazione populista) mi è accaduto di leggere, recentemente, una bel riassuntino che mi permetto di copiare e incollare qui: “Nel 1992, i Danesi hanno votato contro il trattato di Maastricht: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2001 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Nizza: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 2005 i Francesi e gli Olandesi hanno votato contro il trattato costituzionale europeo (Tce): gliel’hanno poi imposto con il nome di Trattato di Lisbona. Nel 2008 gli Irlandesi hanno votato contro il trattato di Lisbona: sono stati obbligati a tornare alle urne. Nel 20015, il 61,3% dei Greci ha votato contro il piano di austerità di Bruxelles: gli è stato inflitto lo stesso”. Impressionante litania, bisogna ammetterlo. Dice che un piano B non c’era. There Is No Alternative. Il tratto limpidamente elitario dell’Europa Unita si è rafforzato quando, fatta l’Europa, si è sedimentato il sistema di potere europeo: le istituzioni, gli organi di governo, e perfino le personalità deputate a governare. Difficile immaginare qualcosa che renda meglio l’idea di un’élite magari sapiente ma lontana, irraggiungibile, detentrice di ragioni e numeri incomprensibili, e scarsamente consapevole della vita reale della gente. Non è escluso che nel frattempo facciano anche molte cose a favore della gente: ma certo la loro prima funzione sembra essere quella di ricordare in modo definitivo che il pianoforte c’è chi lo suona e chi lo porta su per le scale, e a suonarlo, qui, è l’élite. Così, nell’istante in cui ne ha avuto basta del patto, la gente si è voltata verso di loro, subito: l’Europa era il simbolo più evidente, era il bersaglio immediatamente visibile all’orizzonte. Aveva un’aura di invincibilità che però, si è scoperto il giorno dopo il referendum sulla Brexit, funzionava solo per le élites: per gli altri cittadini del Game, l’incantesimo si era spezzato. Potremmo dire, alla luce di tutto questo, che la gente è contro l’Europa? No, non potremmo veramente dirlo. Contro questa Europa, piuttosto, contro l’Europa come simbolo del primato delle élites, questo sì. Antieuropeista, oggi, significa più che altro anti-élite. Circola già la formuletta buona: l’Europa dei popoli. Non vuole dire niente ma vuol dire una cosa chiarissima: non è l’unità in sé che vogliamo spezzare, è l’unità voluta e gestita in quel modo dalle élites. L’Europa è solo un esempio. Quel che sto cercando di dire è che soppesare l’opportunità di tutto ciò che la gente oggi sembra volere (che sia il ritorno alla Lira come la gogna della Società Autostrade o la libertà sui vaccini) è una perdita di tempo se non si legge in filigrana l’unica cosa che davvero la gente vuole: liberarsi delle élites. Il punto è quello, ed è lì che si ci si deve chinare e osservare bene, per quanto faccia schifo, o paura, o fatica. Perché è in quel preciso punto che si gioca una battaglia decisiva per il nostro futuro. La prima cosa che accadrà di notare, volendo davvero andare a guardare là dentro, è come si è mossa l’élite una volta che si è trovata sotto attacco. Si è irrigidita nelle proprie certezze allestendo rapidamente una narrazione che mettesse le cose a posto: la gente si era bevuta il cervello, probabilmente manovrata da una nuova generazione di leader privi di responsabilità, disposti a giocare sporco, e furbi nel rivolgersi alla pancia dei cittadini dribblandone l’eventuale intelligenza. Termini vaghi e inesatti come fake news, populismo, se non addirittura fascismo, sono stati ingaggiati per veicolare meglio il messaggio a etichettare sommariamente gli insorti. Sullo sfondo, una certezza: There Is No Alternative, ripetuta come un mantra, coltivata come un’ossessione, inflitta come una profezia e una minaccia. Neanche per un attimo, sembrerebbe, l’élite si è fermata a chiedersi se per caso non avesse sbagliato da qualche parte, e in modo così marchiano da generare, a slavina, quel gran casino. Se l’avesse fatto, non le sarebbe stato poi così difficile registrare almeno tre fenomeni che a me, come a molti, sembrano di un’evidenza solare:

La sua idea di sviluppo e di progresso non riesce a generare giustizia sociale, distribuisce la ricchezza in un modo delirante, distrugge lavoro più di quanto riesca a generarne, lascia il centro del gioco a potenze economiche scarsamente controllabili, continua a essere fondata su un feroce controllo di intere zone deboli del pianeta e mette in serio pericolo la Terra, dimenticandosi che è la casa di tutti, non la discarica di pochi.

1.    Le élites sono da tempo preda di un torpore profondo, una sorta di ipnosi da cui declinano un pensiero unico, allestendo raffinati teoremi i cui risultato è sempre lo stesso, totemico: There Is No Alternative. Si sarà notato che non reagiscono più a nulla, sono ipnotizzate da se stesse, hanno perso completamente contatto con la vita che fa la gente, spendono più della metà del tempo a contemplarsi e arredare i propri privilegi. Stanno arrestando la storia, e allevando degli eredi incapaci di pensare qualcosa di diverso dalle ossessioni dei padri.

2.    Una sola volta, negli ultimi cinquant’anni, le élites hanno generato un pensiero alternativo: ed è stato quando le son sfuggiti alcuni contro-pensatori, più che altro tecnici, dalla cui eresia è poi nata l’insurrezione digitale. Dal loro torpore, le élites l’hanno registrata in ritardo, bollandola come una deriva commerciale di dubbio gusto e pensando di risolverla così. Era invece una rivoluzione che si proponeva di azzerare proprio loro, le élites novecentesche, e di sostituirle con una nuova élite, una nuova intelligenza, perfino una nuova moralità.

Non ci hanno capito niente, e questo vuol dire che il Game è cresciuto tra le pieghe del loro potere, e a poco a poco le ha delegittimate, consegnandole alla gente quando ormai non avevano la forza per difendersi. Nel tempo in cui questo accadeva, l’unico riflesso brillante delle élites è stato usare il Game per fare soldi: che vendessero le reliquie del Novecento o finanziassero start up, si sono messi a vendere i biglietti per assistere alla propria condanna a morte. Strano modo di cavalcare la Storia. Fai errori del genere e poi, con chi si presenta a staccarti la spina, pensi di cavartela dandogli del fascista? Altrettanto interessante, va detto, è andare a vedere come si è mossa la gente, quando ha deciso di sfasciare il patto e fare da sola. Potenzialmente aveva davanti una sorta di nuovo orizzonte, immenso: ma si è fermata al primo passo, quello della resa dei conti pura e semplice. Rimandati i sogni, sfoga risentimento. Incapace di futuro, recupera il passato. Si è scelta leader che le offrono una vendetta quotidiana e una retromarcia al giorno: è quello che sanno fare. Non riescono a immaginare un granché, si limitano a cercare di correggere l’esistente ereditato dalle élites. Spesso non riescono nemmeno tanto a farlo, per incompetenza, scarsa attitudine al governo, improvvisa scoperta dei propri limiti, obbiettiva tostaggine del nemico e vertiginosa complessità del sistema. Ritrovano coraggio in un sorta di tono di voce che è divenuta il loro vero segno distintivo, un misto di schiettezza, aggressività, urlo da mercato e slogan pubblicitario. La gente lo trova rassicurante e ha finito per assumerlo come un modo di pensare: ci trova una sorta di intelligenza elementare che sostituisce alle raffinatezze e ai sofismi della riflessione delle élites il movimento limpido, diretto, vagamente virile, a suo modo puro, di uomini che finalmente vano diritti alle cose, smantellando vecchi trucchi e ipocrisie. La santificazione di questo modo di pensare – è necessario capire – è l’arma con cui la gente, oggi, sta sferrando l’aggressione più violenta alle élites: è la vera breccia che sta aprendo nelle loro mura difensive. Se passa quel modo di leggere il mondo, le élites sono spacciate. Finita la pacchia. Il punto che a me, come a molti altri, risulta di un’evidenza solare è che una vittoria di questo genere avrebbe un prezzo devastante: non per le élites, chissenefrega, ma per tutti. Perché il mito di un accosto diretto, puro e vergine alle cose, opposto all’andatura decadente, complicata e anche un po’ narcisistica della riflessione colta, è una creatura fantastica che ci abbiamo messi secoli a smascherare: recuperarla sarebbe da dementi. Da un sacco di tempo abbiamo imparato che è meglio sapere molto delle cose prima di cambiarle, che è meglio conoscere molti uomini per capire se stessi, che è meglio condividere i sentimenti degli altri per gestire i nostri, che è meglio avere molte parole piuttosto che poche perché vince chi ne sa di più. Abbiamo un termine per definire questo modo di difenderci dalla durezza feroce della realtà grazie all’uso paziente e raffinato dell’intelligenza e della memoria: cultura. Sostituirla con l’apparente chiarezza di un pensiero elementare, quasi una sorta di furbizia popolare, equivale a disarmarsi volontariamente e andare al massacro. Voglio essere chiaro: ogni volta che ci facciamo bastare certe parole d’ordine di brutale semplicità, noi bruciamo anni di crescita collettiva spesi a non farci fottere dall’apparente semplicità delle cose: non noi élites, sto parlando di tutti quanti. Ci condanniamo a prendere cantonate colossali. Che so, considerare un’importante minaccia al nostro benessere l’ovvio transumare di un numero in fondo contenuto di umani da continenti che abbiamo stritolato e continuiamo a tenere per le palle. Cose così. Enormità. Alla fine, occorre registrare un fenomeno che a me, come a molti altri, sembra di una evidenza solare: la gente si sveglia ogni giorno per andare all’assalto della fortezza delle élites: e più lo fa, e più vince, più si fa del male. Così attraversiamo tempi cupi, e siamo come terra in cui passano eserciti, saccheggiando. Nessuno sembra in grado di vincere, per cui è difficile vedere la fine. Ogni giorno che passa, diminuiscono le scorte: di forza, di bellezza, di rispetto, di umanità, perfino di umorismo. Niente che non abbiamo già vissuto, in passato: ma noi che non immaginavamo questo, è questo che dobbiamo proprio vivere? C’è qualcosa che possiamo fare, per cambiare l’inerzia di questa disfatta? Che io sappia, ammettere che la gente ha ragione. Riprendere contatto con la realtà e accorgersi del casino che abbiamo combinato. Mettersi immediatamente al lavoro per ridistribuire la ricchezza. Tornare a occuparci di giustizia sociale. Staccare la spina alle vecchie élites novecentesche e affidarsi alle intelligenze figlie del Game: farlo con la dovuta eleganza ma con ferocia. Dare un significato nuovo a parole come progresso e sviluppo, quello che hanno è ormai avvelenato. Liberare le intelligenze capaci di portarci fuori dal pensiero unico del There Is No Alternative. Smetterla di dare alla politica tutta l’importanza che le diamo: non passa da lì la nostra felicità. Tornare a fidarci di coloro che sanno, appena vedremo che non sono più gli stessi. Buttare via i numeri con cui misuriamo il mondo (primo fra tutti l’assurdo Pil) e coniare nuovi metri e misure che siano all’altezza delle nostre vite. Riacquistare immediatamente fiducia nella cultura, tutti, e investire sull’educazione, sempre. Non smettere di leggere libri, tutti, fino a quando l’immagine di una nave piena di profughi e senza un porto sarà un’immagine che ci fa vomitare. Entrare nel Game, senza paura, affinché ogni nostra inclinazione, anche la più personale o fragile, vada a comporre la rotta che sarà del mondo intero. Usarlo, il Game, come una grande chance di cambiamento invece che come un alibi per ritirarci nelle nostre biblioteche o generare diseguaglianze economiche ancora più grandi. Ritirare su tutti i muri che abbiamo abbattuto troppo presto; abbatterli di nuovo non appena tutti saranno in grado di vivere senza di loro. Lasciare che i più veloci vadano avanti, a creare il futuro, riportandoli però tutte le sere a cenare al tavolo dei più lenti, per ricordarsi del presente. Fare la pace con noi stessi, probabilmente, perché non si può vivere bene nel disprezzo o nel risentimento. Respirare. Spegnere ogni tanto i nostri device. Camminare. Smetterla di sventolare lo spettro del fascismo. Pensare in grande. Pensare. Niente che non si possa fare, in fondo, ammesso di trovare la determinazione, la pazienza, il coraggio.

Alessandro Baricco, La Repubblica 10 gennaio 2019.



Così l’Uomo Nuovo abbatte
 il sapere delle élites decadute

Come si è arrivati alla scissione tra classe dirigente e popolo? Perché si perde fiducia nella rappresentanza? Quando la politica è arrivata al suo grado zero? Riflessioni dopo l’intervento su “Repubblica” di Alessandro Baricco. La prima domanda, leggendo il breve saggio di Alessandro Baricco, è se possiamo vivere senza un’élite. La seconda è quanto tempo impiegheremo a considerare élite questa nuova classe di comando che ha spodestato la vecchia. E la terza, quella che conta, è dove, come e quando ha sbagliato il ceto dirigente del Paese, fino a suicidarsi nella disapprovazione generale del cosiddetto popolo ribelle. Fino a trasportare il termine élite nell’inferno delle parole dannate. La teoria classica delle élite presuppone che sia sempre una minoranza a governare i sistemi complessi, nell’interesse generale. La massa dei governati, dunque, non può invocare il criterio di quantità per delegittimare le élite, in quanto il principio democratico della rappresentanza trasferisce ogni volta con il voto il potere dai molti ai pochi, che dovrebbero governare in nome di tutti. La guida di una società politica da parte dell’élite non è quindi di per sé in contrasto con il principio democratico, naturalmente a due condizioni: che esista una contrapposizione e una contendibilità permanente del potere, e non un blocco elitario unico, impermeabile e permanente, e che la formazione stessa dell’élite sia trasparente, aperta, dinamica, accessibile e revocabile, basata su criteri di merito riscontrabili e giudicabili dalla pubblica opinione. Sono esattamente i due punti- cardine del meccanismo che ha messo in crisi l’élite davanti ai cittadini. Ovviamente c’è stato nell’ultimo quinquennio un forte criterio distintivo tra forze e storie diverse all’interno del parlamento e degli altri corpi elettivi e decisionali che amministrano il Paese. Ma al di là delle appartenenze, degli schieramenti e delle tradizioni differenti, il ” pensiero” – e, direi, la postura, il linguaggio, il costume, dunque l’antropologia – della classe politica nazionale è stato percepito come omogeneo, unificato, parificato, soprattutto teso a sostenere una lettura della fase che il Paese stava vivendo sostanzialmente omogenea. E nello stesso tempo, la classe dirigente italiana non è mai riuscita a diventare un vero establishment, capace di coniugare i legittimi interessi particolari con l’interesse generale, piegandosi in una serie di network autopromossi, autoriferiti, autogarantiti, capaci di perpetuarsi ma non di rigenerarsi, intrisi come sono di familismo, di corporativismo, avviluppati nei vincoli di relazione, nello scambio reciproco di garanzie.
Una bolla chiusa, dentro la quale – affinché nessuno si senta facilmente assolto – sono precipitati pezzi interi di quella società che continuiamo automaticamente a chiamare civile, vale a dire intellettuali, professori, giornalisti, imprenditori, vescovi, artisti e infine scienziati, tutti considerati portatori per quota di un privilegio elitario per aver contribuito a formare una cultura di vertice, e dunque tutti chiamati senza distinzione a rendere conto della funzione dirigente che hanno esercitato, ma più ancora – ognuno per la sua quota – dell’egemonia culturale che l’esercizio di quel potere d’influenza ha disteso sul Paese.
Colpevoli per definizione, dunque, non per come hanno esercitato il potere intellettuale, ma per averlo fatto. Trattandosi non di una rivoluzione, ma comunque di un moto, la spinta di questo assalto alle élite nasce da un’emozione più che da una teoria. Potremmo definirlo il sentimento della confisca. C’è come la sensazione diffusa ( non importa che sia fondata: trattandosi di un turbamento basta che agisca) di un esproprio di un pezzo di realtà, di una parte del meccanismo decisionale, di una quota di rappresentanza. Un atto abusivo, quasi un furto, comunque un’interposizione illegittima. Si potrebbe dire in termini giuridici: un abuso di posizione dominante, l’esercizio di un monopolio sull’interpretazione del reale, sulla rappresentazione del contemporaneo. Come se dal basso fosse salita improvvisamente questa denuncia: chi vi ha dato il diritto di sceneggiare il presente e di immaginare il futuro per noi? L’élite, nel suo tempo libero dai compiti primari, in fondo fa proprio questo, e ovunque nel mondo libero: diffonde modelli di società, piega alla sua lettura la storia e la interpreta, detta le mode, fissa le consuetudini, costruisce un paesaggio indicando i libri, i film, la musica ( e oggi bisogna aggiungere i cibi) da seguire, stabilisce cosa è ” in” e ciò che è ” out”, deposita la tela di una tradizione. Tuttavia non è una banale guida alle tendenze, ma molto di più. Col suo agire egemonico di vertice, fissa ogni giorno il metro che misura il divenire della società, disegna una razionalità del percorso collettivo indicando anche le nicchie in cui può sfogarsi l’irrazionale, costruisce cioè un’idea in continuo movimento di normalità, così come arbitra ogni effimera modernità, distinguendo tra ciò che va conservato e ciò che può essere speso, decretando fortune e oblio.
C’è un’unica cosa che l’élite non ha saputo fare: prendere la temperatura del Paese. Non ha ascoltato l’eco del Big Bang clamoroso tra la società più aperta della storia umana e la chiusura imposta dalla crisi economica più lunga del secolo. In questo, è uscita fuori dalla dialettica governanti- governati, si è separata, impegnata come spiega Baricco a proteggere se stessa dalle conseguenze della crisi. Quella dialettica si è interrotta e si è sventrata, e non producendo più uno scambio politico si è bloccata su un’altra coppia: dominanti/dominati. Ecco dove nasce la sensazione della confisca. Per elaborare la sua lettura della fase e della società, all’élite infatti non basta il comando. E questa è una buona notizia per la democrazia: occorre il consenso, una relazione costante con la cittadinanza, un dispositivo continuamente operante di riconoscimento reciproco. Sempre i classici spiegano che l’élite siede ( si suppone scomoda) in cima alle tre piramidi della ricchezza, della deferenza e della sicurezza, che formano la cuspide del comando, e lo legittimano. Ma la ricchezza si è spostata tutta nel vertice della prima piramide, e l’élite non ha saputo tutelarla per tutti, e redistribuirla per molti. Insieme, se n’è andata la sicurezza, perché la crisi attaccando il presente si mangia il futuro, arriva la paura, i fenomeni globali sono talmente ingovernabili da scavalcare il ruolo guida delle élite, svuotandolo, e diffondendo la sensazione di un mondo fuori controllo, con la politica – tutta – fuorigioco. In queste condizioni, può resistere la deferenza? Non c’è più il riconoscimento di un ruolo, per l’élite, perché salta la condivisione della sua funzione. La posizione che occupa appare quindi nuda, giustificata solo da se stessa. Appunto, una rendita di posizione. Un moderno patriziato. Un’aristocrazia dopo l’abolizione dei titoli nobiliari. Il venir meno di questa interpretazione riconosciuta e accettata del momento, da parte dell’élite, e della sua trasformazione in pensiero comune, genera il passaggio da cittadino a individuo, la solitudine repubblicana dei singoli, alimentata dall’unico sentimento collettivo superstite, il risentimento, che però per definizione si consuma in privato. Il risultato è che ognuno si sente autorizzato a pensare per sé, sciolto dai vincoli del sociale, libero non in quanto capace di esprimere al massimo le sue facoltà e i suoi diritti, ma in quanto liberato da ogni obbligazione di comunità, nei confronti degli altri. Un superstite solitario, dopo il naufragio collettivo della crisi. Ma con la convinzione di aver accumulato un credito politico che non riuscirà mai a riscuotere, e che appunto per questo si porta in tasca come una lunghissima cambiale di rancore privato, da sventolare ogni giorno in pubblico. Col rancore non si costruisce un progetto politico: ma il rancore autorizza a presentare a chiunque il saldo delle insoddisfazioni, a chiedere conto dei fenomeni incontrollabili che ci sovrastano, soprattutto a dare una colpa universale alla classe generale che ha governato la crisi. E autorizza il populismo a ingigantire questa resa dei conti, ideologizzandola e mettendola a base non solo della sua politica, ma della sua natura.
Così l’élite diventa responsabile di tutto, al di là dei suoi limiti, dei suoi errori e delle sue colpe. Soprattutto, poiché l’individuo ribelle vuole essere trasportato nel luogo immaginario del ” Punto Zero”, dove non c’è contaminazione col passato e tutto può essere reinventato sul momento, l’élite è colpevole della custodia della memoria e della trasmissione di una cultura che nasce dalla storia e dal divenire del Paese, e le interpreta. Tutto questo nel mondo nuovo in cui stiamo entrando è sospetto. Come è sospetto il sapere, la vera e fondamentale causa dello spodestamento delle élite. Il racconto dell’inganno permanente delle classi dirigenti, del loro autogolpe perenne, rende infida la scienza, pericolosa la perizia, nociva la cognizione. Se tutto quel sapere – ragiona l’uomo nuovo – non è servito a proteggere le mie condizioni di vita, ma viene consumato soltanto nella cerchia dei sapienti e dei garantiti, allora è una sorta di bitcoin a circolazione limitata e protetta, una valuta di riserva di cui soltanto l’élite conosce l’uso. Il sapere suscita diffidenza perché è il linguaggio dell’élite, dunque ha un riflesso castale, quindi viene dal demonio. Il concetto di ” nuovo” diventa vecchio. Bisogna andare oltre, fino all’uomo- vergine, incontaminato perché digiuno di politica, garantito perché viene dalla luna: innocente perché ignorante, nel senso più alto del termine, abitante dell’Anno Zero, senza vincoli di storia, di ideologia, di inclinazioni a destra o a sinistra. Asettico e spoglio di qualsiasi eredità, di qualunque coscienza del bene e del male che hanno segnato la vicenda del Paese, di ogni eredità pubblica e di ogni tradizione comune, è l’Uomo Qualunque del nuovo secolo, soggetto ideale per una politica ribaltata dove il carisma si è spostato nell’indistinto e chiunque può scendere in campo se fin lì lo porta l’onda del sovvertimento generale. Lo aveva già detto vent’anni fa Bourdieu: la forza degli uomini nuovi della politica sta proprio nella mancanza dei requisiti specifici che di solito definiscono la competenza, dando così garanzie a tutti. È il rovesciamento dell’élite: oggi la garanzia viene dal non sapere, dal non essere conformi al linguaggio degli esperti. Così si bruciano, insieme coi vizi dell’élite, un deposito di conoscenza, un accumulo di sapienza repubblicana, una riserva di esperienza, una provvista di conoscenza. La figura politica che nasce da questo impasto è un governante d’opposizione, il tribuno romano che Max Weber fondava proprio sulla rottura, addirittura sull’illegittimità, senza alcun legame con lo Stato, e tuttavia ” sacrosantus” perché protetto dall’indignazione e dalla vendetta popolare, oltre che dagli dei, corrivi. Ma in fondo, avevamo già visto tutto nell’età democristiana, con la vecchia polemica contro il Palazzo. E allora, anche per la nuova élite rivoluzionaria vale la pena di ricordare la profezia di Pasolini: « I potenti che si muovono dentro il Palazzo agiscono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari, in quanto potenti essi sono già morti e il loro vivere è un sussultare burattinesco »

Ezio Mauro, La Repubblica 12 gennaio 2019



Chi manovra la collettività 
è la vera élite

Nel suo articolo dell’11 gennaio Alessandro Baricco riassume un dibattito largamente diffuso e trattato in diversi ottimi recenti libri come Strangers in their own land di Arlie Hochschild. Secondo Baricco la crisi che stiamo attraversando e’ innanzitutto una crisi di fiducia delle masse nei confronti delle élite. Mi pare una lettura semplificante. Se non comprendiamo chi sono e come funzionano le élite, rischiamo di consolidarne le posizioni e il potere. Quindi, raccogliendo la sua sfida a “non farci fottere dalla apparente semplicità delle cose”, proviamo a guardare meglio dentro la sua analisi. Baricco afferma che la democrazia funziona quando le élite, pur proteggendo e incrementando i loro privilegi, riescono magnanimamente a dispensare una forma di convivenza accettabile per le masse. Non credo sia così. La democrazia ha creato società meno inique quando gli “esclusi” hanno saputo rappresentarsi e strappare alle élite concessioni che hanno reso meno penosa e più piena la vita di tutti (spesso anche delle élite stesse). Ma qui non c’è niente di deterministico. Ci sono voluti sindacati, movimenti ecologisti, movimenti femministi. Le otto ore di lavoro, condizioni decenti in fabbrica, il sistema sanitario nazionale, il voto alle donne, anche qui si potrebbe andare avanti per pagine… non sono stati graziosamente concessi dalle élite. Anzi, in quasi tutti questi casi, le élite hanno pervicacemente tentato di negare questi diritti.
Sono state conquiste costate carissime ai milioni che hanno saputo organizzarsi, rappresentarsi, creando piattaforme comuni e forme di dibattito, ma anche di lotta. Certo, è vero che queste conquiste si sono consolidate quando una parte delle classi agiate le ha riconosciute come giuste e non più rimandabili. Ma c’è voluto il sangue. E, ancora più importante, dopo aver ottenuto il minimo dei diritti necessari, queste “non élite” hanno anche saputo tenerli in vita e innovarli, riempirli di senso. Prendiamo la scuola per tutti o il sistema sanitario nazionale. Milioni di donne e uomini, che non sono élite e a cui non interessa essere élite, hanno lavorato e continuano a lavorare giorno dopo giorno nelle scuole e negli ospedali, combattendo con mezzi limitati contro le inerzie sfinenti dell’ignoranza e della malattia, contro l’ignavia dei colleghi scansafatiche e le furberie degli amorali, per far sì che quelle istituzioni collettive fossero bene comune e dispensassero il meglio per tutti. Dove sono questi milioni nell’equazione di Baricco? È ristretta la veduta di chi considera solo le élite che incontra ogni giorno, in quel recinto protetto che Baricco pennella così bene, e l’oklos, la massa che sbraita in tv con i gilerini gialli. Guardando così, sembra che tutto stia avvenendo irrevocabilmente, come per influsso astrale. Nel mio libro Il valore di tutto parlo del bisogno di riscoprire il valore collettivo, proprio per lottare contro la logica delle disuguaglianze che hanno creato rabbia nella “gente”. L’odio per le élite, l’averne abbastanza, hanno ragioni profonde, inclusa la sequenza dei trattati comunitari, fatti trangugiare come oche da ingrasso ai cittadini europei. Ma questo odio è stato attizzato, rinfocolato e indirizzato da chi scientemente ha costruito una narrazione semplificatoria, ma articolata, e ha capito prima di tutti che la diffusione planetaria del web avrebbe permesso di registrare ed elaborare miliardi di frammenti, componendoli in tanti ritratti individuali. Così da poter inoculare quella narrazione nei soggetti predisposti, con gli ingredienti giusti e il dosaggio necessario ad indirizzare l’odio e quindi usarlo. Il problema non è che un italiano su due stia su Facebook: ma che cosa c’è dentro Facebook e come lo usa chi lo controlla. E non succede tutto a Cupertino. Il Movimento 5 Stelle, che continuiamo ad analizzare come movimento ultramoderno e populista, è controllato da una piattaforma digitale posseduta in termini pressoché feudali da una famiglia, i Casaleggio, che secondo lo statuto del movimento può farne ciò che vuole. Prendiamo l’Europa. L’omeopatia dell’odio che passa attraverso Facebook eviterà sempre di raccontare come l’Unione Europea sia anche una forza collettiva che ha migliorato le condizioni di lavoro, imposto regole severe contro lo strapotere delle multinazionali, cercato di limitare la devastazione dell’ambiente, investito largamente nella costruzione di una cultura comune, speso miliardi per la ricerca scientifica collaborativa e collettiva laddove nessun soldo privato si arrischierebbe, laddove però si trovano i risultati più inattesi e dirompenti per curare. E, soprattutto, nasconderà che questi progressi ottenuti non sono stati una gentile concessione delle élite, ma sono frutto della pressione continua di cittadini, movimenti, gruppi ecologisti, avvocati dei diritti umani. Solo alla fine di un processo, fatto di lotte, sconfitte e vittorie, queste proposte diventano leggi e regolamenti. Intendiamoci: la Ue ha fatto molti errori – fra cui l’ossessione di ridurre il deficit – non è riuscita a farsi sentire vicina alla vita quotidiana. Chi ha creato gli strumenti di manipolazione collettiva non l’ha fatto per il piacere di veder ballare i burattini. L’ha fatto perché è pagato da persone che hanno interessi economici precisi. Da persone che vedono nell’Unione Europea uno dei pochi ostacoli all’espansione planetaria del capitalismo senza regole. Infangare la Ue rende soldi perché un’istituzione pubblica indebolita e insicura di sé sarà più prona ai desiderata della grande industria, come pare già stia succedendo nell’agricoltura. E di che cosa parliamo quando parliamo di “usare i dati”? I dati possono essere usati per controllare e manipolare, ma possono essere anche adoperati per diffondere il bene comune. Prendiamo l’esempio di Barcellona, dove la sindaca Ada Colau con il progetto Decode sta provando a usare i dati sugli spostamenti dei cittadini generati da app come Citymapper per informare e disegnare un sistema di trasporto pubblico migliore per tutti. O i movimenti che, in molti paesi, vogliono che i dati sulla salute personale vengano usati non per arricchire le case farmaceutiche, ma per migliorare il servizio sanitario. Tutte queste nuove soluzioni arrivano alla Commissione europea e vengono poi discusse dalla DG-Connect, che elabora le politiche in materie di digitale e innovazione. Ma non sono le élite che le hanno proposte. Sono i movimenti, grazie a questa nuova ed evoluta forma di interazione tra élite e cittadini. La soluzione di Baricco è “lasciare il telefono a casa, camminare, e affidarsi alle intelligenze del Game”. No. Bisogna guardare queste nuove forme di relazione, capirle e moltiplicarle. Smettere di usare parole come “gente” e pensarci invece tutti come “cittadini”. Smettere di descrivere l’Unione Europea come un pachiderma sonnacchioso, irrazionale e imperscrutabile, e provare veramente a capire come funziona, denunciare le sue sclerosi e proporre soluzioni diverse. E lottare, con o senza telefonino, per questo.

Mariana Mazzucato, La Repubblica 13 gennaio 2019

2 commenti:

  1. L'innamoramento per "Tina" mi pare rimanga travolgente sia per le élite sia per il populismo e l'accesso alla comunicazione avviene sotto l'egemonia della "alienazione accelerata" ossia manifestazioni immediate e compulsive risposte, il tutto racchiuso nella "sfera" per usare la metafora di Sloterdijk, della "società dello spettacolo" (Debord) pertanto le richieste delle periferie si identificano con il dio denaro, l'accesso al consumo non con il "riconoscimento" e la richiesta di un lavoro che emancipi e liberi.
    Come prima impressione mi sembra un poco edulcorata la descrizione che Baricco fa di una élite per lo più colta e laboriosa, questo aspetto c'é ma prevale su di esso di gran lunga il "moderno cinismo" con seri pericoli ..."distopici" ... Ambiente, guerre commerciali e militari... Sempre più difficile tenere insieme critica e capacità propositiva da parte di una sinistra ormai ridotta a fantasma.

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  2. Penso che Baricco abbia fatto centro per lo stile della denuncia e per la schiettezza della critica alle elites. Le cause del distacco elites-popolo sono già state analizzate da molti commentatori, ma l'originalità dell'intervento di Baricco sta a mio avviso nell'associare gli errori e i limiti delle elites con l'avvento della rete e delle relative potenzialità. L'accusa di Baricco che sento più vera è quella rivolta allo spirito di separazione e di autoconservazione delle elites. E' questo spirito che ha privato le elites di spirito critico e le ha spinte a giustificare e a favorire un'economia vorace e generatrice di ingiustizia. Una svolta è sicuramente necessaria. La sfida è: come identificare nuove prospettive di sviluppo e come perseguirle costruendo giustizia sociale, consapevolezza e partecipazione. E' una sfida di enorme portata ed ha sicuramente a che fare con i meccanismi di formazione e di diffusione della cultura. Si tratta di uno stimolo anche per la nostra Associazione!

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