La
parola del mese
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri
collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
GENNAIO
2019
Per
affrontare le tante sfide dei nostri tempi appare ormai evidente l’importanza
di recuperare una maggiore coesione sociale, il senso di appartenenza ad una
collettività condivisa e partecipata, il ruolo della “comunità” nel senso più
pieno del termine. La nostra recente discussione sui rischi del peso sempre più
ingombrante della tecnologia ci ha fatto riflettere sull’importanza dei “centri
minori”, quelli nei quali appare più a portata di mano questo recupero, grazie
alla loro maggiore e migliore conservazione di un tessuto di relazioni e
pratiche collettive. Questa necessità, questo indispensabile sforzo, si
scontrano però con diffusi stili di vita, strettamente legati alla cultura
consumistica ed edonistica della nostra epoca, che sono, oggettivamente,
penalizzanti per una condivisione sociale vera e non filtrata. Questi stili di
vita, indotti e promossi da precisi interessi economici, sollecitati e
strumentalizzati da politiche mirate all’isolamento e alla chiusura, esaltano
il nemico mortale della “comunità” (”Parola del mese” di Aprile 2016):
l’individualismo, l’eccesso di chiusura su sé stessi, un rapporto con la
società troppo condizionato dalla considerazione dell’io. Ci è sembrato quindi opportuno scegliere, per
questo mese, una parola che ci aiuti a riflettere su questo scontro tra il
“noi” e l’”io” ed i rischi che derivano dal prevalere del secondo.
EGOCRAZIA
Questo
termine non compare sui dizionari, si tratta in effetti di un neologismo “tecnico”
di recente adozione, utilizzato però sempre più frequentemente in diversi
ambiti e da molti protagonisti della scena culturale e pubblica. Ai testimoniare
la sua crescente presenza nel discorso pubblico citiamo, come semplice esempio
e senza risvolto politico alcuno, una dichiarazione di Nicola Zingaretti,
Governatore della Regione Lazio e candidato alla Segreteria PD, che in una
recente intervista ha testualmente affermato “Il problema del PD è
l’egocrazia”. Il significato di questo termine è di facile comprensione: il
potere dell’io, ma se la storia ci testimonia che il comando consegnato
ad uno solo, il potere basato sugli interessi e le aspettative di un solo
individuo, si configurano come dittatura, allora è possibile sostenere che il
significato di egocrazia altri non è che “dittatura dell’io”.
Tanto è semplice definire la sua etimologia tanto è complessa, articolata,
impattante, la sua presenza nella odierna realtà sociale e culturale, tanto essa
viene utilizzata per leggere l’oggi e per richiamare l’attenzione su rischi
futuri. In questo senso riportiamo alcune significative e variegate riflessioni:
Innamorarsi di sé il vizio capitale oltre ogni limite (articolo di Massimo Recalcati,
La Repubblica.it – 26/09/2016)
Per i padri della Chiesa
la superbia è il peccato narcisistico per eccellenza. Tommaso d'Aquino lo
specifica con eleganza: «Il superbo è innamorato della propria eccellenza». Si
tratta di una forma di idolatria che l'epoca ipermoderna ha particolarmente
esaltato: al posto del culto di Dio avviene il culto del proprio Io assimilato
alla potenza di Dio. Non è forse questo il peccato principe del nostro tempo? Egocrazia,
"Iocrazia", afferma Lacan. L'ordine della creazione viene capovolto:
l'uomo compete con Dio - come figura radicale dell'alterità - negando il suo
debito simbolico. Farsi un nome da sé senza passare dall'Altro è la cifra più
delirante del nostro tempo. Il culto superbo di se stessi implica, infatti, il
disprezzo cinico per l'altro. La vita umana smarrisce ogni senso di solidarietà
per dedicarsi a senso unico al potenziamento di se stessa. Per i padri della
Chiesa è questa la "vanagloria" di cui si nutre il superbo: farsi
autonomo, indipendente, cancellare il debito, credere alla follia del proprio
Io autonomo e sovrano. Per questa ragione Lacan ha associato al culto
narcisistico per se stessi la tentazione suicidaria e la pulsione aggressiva
come due facce di una sola medaglia. Il superbo può essere facilmente preda
dell'ira perché il suo bisogno di attaccare l'Altro coincide con il suo rifiuto
di ogni esperienza del limite. Il superbo come l'iracondo si considera sempre
dalla parte del giusto. La sua esaltazione di se stesso mostra una totale
assenza di autocritica che può sfociare facilmente nella paranoia e nella
megalomania. Il superbo è esente da critica perché è sempre innocente e
ingiustamente perseguitato, allontanato, emarginato, escluso. La colpa è sempre
degli altri che non riconoscono mai appieno il suo valore assoluto. Non è un
caso che la clinica psicoanalitica abbia individuato – in linea qui con la
grande saggezza buddista – nell'eccessivo attaccamento al proprio Io il denominatore
comune delle malattie mentali. Ma, al tempo stesso, la vita del superbo è una
vita triste perché egli si trova nell'impossibilità di entrare in relazione con
un Altro che disprezza supremamente. Il suo destino non può che essere quello
del più acuto isolamento. Non a caso la passione più prossima a quella della
superbia è l'invidia che, sempre per i padri della Chiesa, viene considerata
come il "peccato dei peccati", il vizio capitale più grande. Il
termine invidia deriva dal latino in-videre che significa guardare male, con
occhio malevolo, con malocchio. L'invidia è una patologia dello sguardo?
L'invidioso soffre per ciò che vede. Egli non sa tollerare la felicità e la
gioia altrui. Come scrive Tommaso d'Aquino la passione invidiosa sorge dalla
tristezza causata dai beni altrui. L'invidioso è un essere che vive nelle
tenebre, nell'oscurità, covando rancore e frustrazione verso il mondo. È,
paradossalmente, l'altra faccia, la faccia in ombra, della superbia. Il suo
sguardo, come mostra Nietzsche nella Genealogia della morale, è
"torvo" e "risentito". L'invidioso non sopporta la vita
degli altri, che immagina, contrariamente alla propria, sempre piena. Non è poi
così strano che la superbia e l'invidia siano considerate anche da Tommaso
passioni collegate. Il superbo non può sopportare la vista di altri che vantano
maggior prestigio del suo; l'invidia aderisce alla superbia come l'edera al
muro. Anche, o soprattutto, quando la superbia si maschera di falsa umiltà. È
una patologia tipica dell'uomo religioso: la mortificazione e il sacrificio di
sé vengono esibiti come manifestazione di un'elevazione morale superiore
finalizzata a scavare nell'altro senso di colpa e di indegnità. Il carattere
unico dell'invidia tra tutti i vizi capitali è che è il solo peccato dove il
godimento diretto viene escluso. Non è peccato di gola, non è peccato di ira,
di lussuria, né di affermazione superba di sé. L'invidioso non gode di qualcosa
se non del suo tormento senza pace. La sua carriera, come quella dell'odio, secondo
una sottile definizione di Lacan, è sempre "senza limiti". Non c'è,
infatti, mai un fondo, una sazietà, un appagamento definitivo per l'invidia.
Nemmeno la morte dell'invidiato può placare la spinta invidiosa. Perché
l'invidia non è mai invidia "di qualcosa" (di una proprietà o di una
qualità particolare dell'invidiato), ma della sua vita, della vitalità
dell'altro. Quello che l'invidioso non sopporta è la manifestazione della vita
differente dell'altro nella sua forza generativa. Mentre muore d'invidia osservando
l'invidiato, il soggetto invidioso riconosce implicitamente – senza mai
ammetterlo - l'eccellenza di chi invidia e si tormenta dall'impossibilità di
raggiungere lo stesso prestigio. L'invidioso è, in realtà, già morto e per
questo non può che invidiare la vita dell'altro. Non si invidiano mai povere
anime, ricorda Aristotele, ma solo coloro che avvertiamo prossimi a noi stessi,
così come originariamente Caino ha invidiato Abele. Invidiamo l'Altro come
incarnazione del nostro Ideale inconfessato. Per questo l'invidia è sempre
tendenzialmente tra simili e mai tra diversi; tra vicini, tra fratelli, tra
colleghi, persino tra amanti, ma non tra sconosciuti. Non è un caso che la
diffamazione sia una della sue manifestazioni più pure: essa punta a fare cadere
l'invidiato, ad umiliarlo, a infangarlo colpendolo nella sua immagine perché la
sua presenza nella vita dell'invidioso è talmente costante e invadente da
risultare insopportabile. La maldicenza vorrebbe corrodere definitivamente
l'essere dell'invidiato, quell'essere che è molto frequentemente il più
inconsciamente amato dall'invidioso.
La vita umana ha smarrito ogni senso di solidarietà
per dedicarsi unicamente al potenziamento di se stessa È il tempo dell' "Egocrazia" come nuova forma d' idolatria
Articolo di Salvatore Santoru del 09/12/2018 –
Blog “Informazione consapevole
Dalla fine
della Seconda Guerra Mondiale nell'Europa occidentale e via via in altre parti
del mondo si è diffuso a macchia d'olio il dominio degli USA, a livello
geopolitico così come militare e culturale. Il dominio geopolitico degli USA ha
portato alla nascita di un mondo fortemente unipolare e basato sull'adozione
"universale" di uno specifico modello fondato sul consumismo, il
culto dell'egoismo e il dominio della società dell'immaginazione e dello
spettacolo, costituenti di fatto una degenerazione e un'interpretazione deviata
dell'autentico "american way of life". Indubbiamente, rispetto ai
concorrenti modelli nazifascisti e comunisti (così come teocratici e
tecnocratici) questo modello è stato ed è sicuramente migliore ma non è mancato
e non manca in esso una certa strutturazione "totalitaria" e
"estremista". Difatti, il dominio culturale dell'egocrazia e della società dello spettacolo imposto dagli USA ha portato, su larga
scala e a livello di cultura di massa, a una decisa minimizzazione e
demonizzazione dei valori non necessariamente materialisti e
"superficiali" e a un'adozione indirettamente "obbligata" e
estrema di tale stile di vita, che in fin dei conti è l'altra faccia del
puritanesimo "reazionario" assai forte negli States. La diffusione
dell'imperialismo culturale statunitense e l'adozione dell'egocrazia hanno portato al culto dell'effimero, alla diffusione e adozione
"normativa" del narcisismo sociale, alle assai diffuse ansie da
prestazione e l'eccessivo culto dello "Star System", veicolato
tramite Hollywood o i mass media e così via. Ora come ora, c'è da dire che è
venuto il momento di superare questo modello culturale tenendo conto che
comunque è alquanto inutile e controproducente l'effimero antiamericanismo
tanto diffuso, antiamericanismo che in fin dei conti non è nient'altro che
l'altra faccia della medaglia di questo sistema. Difatti, non bisogna
certamente buttare l'acqua con il bambino e non bisogna dimenticare che
l'adozione del modello "americanista" ha garantito un miglioramento
sociale così come c'è da dire che il ruolo esercitato dai media o da Hollywood
è stato ed è per molti aspetti positivo, mentre il problema è stato semmai
l'adozione troppo "estrema" e la "degenerazione" del
modello "americanista" o "egocratico".
La ribellione, indispensabile ed indifferibile,
alla dittatura dell’io passa attraverso il rilancio della dimensione del noi.
Un rilancio che è auspicato ed incoraggiato da molti e diversificati punti di
vista. A testimonianza di questa interessante trasversalità ne riportiamo due:
uno di matrice religiosa ed uno di spirito laico
Risvolto di copertina del libro dell’arcivescovo
Vincenzo Paglia (Presidente della
Pontificia Accademia per la vita) “Il crollo del noi” in questi giorni nelle
librerie
Smettiamo
di chiederci «Chi sono io?» e chiediamoci invece «Per chi sono io?». Solo così
possiamo ragionare su una nuova forma di prossimità. Se vogliamo ritessere il
‘noi’ del convivere contemporaneo, sfidato e indebolito dalla globalizzazione,
dobbiamo porci con forza e intelligenza questa domanda che apre la nuova frontiera
della libertà. Una libertà che non è sinonimo di autonomia ma di pienezza di
legami, la sola che può riportare al centro un contenuto essenziale del testo
biblico: «non è bene che l’uomo sia solo». Una delle voci più autorevoli e
rispettate della Chiesa italiana. Un’analisi lucida ma non rassegnata sulla più
grave emergenza del presente: il crollo dei legami umani. Connessi gli uni agli
altri, non per questo siamo davvero interessati ai destini di chi ci è
prossimo. Al contrario, l’umanità sta attraversando una gravissima crisi di
solidarietà. Ciascuno pensa a se stesso. Si è passati dal giusto riconoscimento
dei diritti dell’uomo a una sorta di ‘egocrazia’. Il risultato è un vuoto
insostenibile. Tanti sono i sintomi di un malessere esteso, che testimoniano la
richiesta di ascolto e di aiuto. Attraverso una lettura del presente che trae
spunto dalla ricca esperienza pastorale e intellettuale dell’autore, questo
libro ci parla di una nuova cultura, di un nuovo sogno, di una nuova visione
fondata sul riconoscimento dell’importanza del bene comune
Il noi mancante
Il sociologo americano Erik Klinenberg in Palaces
for the people. How social infrastructure can help fight inequality,
polarization and the declin of civic life (Penguin Random House,
2018) sostiene che il futuro delle società democratiche si costruisce non solo,
o non tanto, in base a valori comuni, quanto a partire dalla presenza di spazi
condivisi. Biblioteche, centri per l'infanzia, librerie, chiese, moschee,
sinagoghe, fablab, spazi di coworking, cooperative di comunità e parchi possono
costituire contesti in cui le persone interagiscono in modi che hanno
conseguenze dirimenti per la qualità democratica della società e, quindi, della
politica che questa riesce a esprimere. Sono spazi, questi, in cui le persone
si riuniscono per soddisfare contemporaneamente – tramite azioni pratiche – un
obiettivo privato e un progetto pubblico. Klinenberg definisce questi luoghi come tasselli
cruciali per la nascita e la crescita della “infrastruttura sociale” delle
società. Quando tale
infrastruttura è robusta, la qualità democratica delle società è ben
salvaguardata; quando è debole, gli individui perdono la capacità di aspirare
collettivamente a un progetto comune. La filosofa analitica Margaret Gilbert ne
Il noi collettivo (Cortina, 2015) avverte che
senza un progetto congiunto non può esistere un attore plurale: senza un
orientamento collettivo a un futuro condiviso, cioè senza un progetto comune,
non c’è un vero noi, ma solo una somma di “io”. E da una somma di “io”, come
dai diamanti, non nasce niente. La classe dirigente della sinistra italiana –
con poche eccezioni – si è dimenticata che senza un “noi” orientato al futuro in modo aperto e
inclusivo vengono a mancare le basi sociali della democrazia e, di conseguenza, i presupposti per
la costruzione di un consenso politico di sinistra. Non ogni tipo di società è
ugualmente adatta a esprimere un orientamento di sinistra, così come non lo è
ogni tipo di economia. Questi temi sono stati dimenticati a favore dell’idea
che il controllo – effimero – dell’opinione pubblica sarebbe stato un elemento
sufficiente per guidare un’azione politica progressista. Ma l’opinione pubblica
non esaurisce la rilevanza della sfera pubblica, dei suoi spazi vivi, dei suoi
luoghi concreti, delle sue ramificazioni territoriali. E della loro
insostituibile capacità – come evocato in apertura dal richiamo al libro di
Klinenberg – di generare progetti comuni e orientati al futuro. Oggi, ciò che è drammaticamente assente
– e che dovrebbe informare le strategie politiche di una classe dirigente di
sinistra all’altezza dei tempi – è
proprio la diffusa e pervasiva mancanza di
meccanismi di costruzione del “noi”, oggi alle corde a
favore di un “noi” nativista e impaurito che lascia spazio solo a ripiegamenti
sulla propria individualità disperata, facile preda di una politica della
nostalgia. Osservazione, questa, corroborata anche dalla recente ricerca di
Loris Caruso e collaboratori ("Popolo chi? Rappresentazioni della politica
tra le classi popolari". Inchiesta del “Cantiere delle idee” di prossima
pubblicazione) svolta su un campione di residenti nei quartieri periferici di
alcune medio-grandi città italiane. In questo lavoro si legge infatti che il sentimento
secondo il quale io partecipo di una condizione comune a quella di altri,
cooperando e lottando per cambiarla, sembra ormai assente. Non si individuano
né le possibilità, né gli strumenti per farlo. Un vero e proprio “noi
mancante”, incapace di costituirsi come soggetto plurale, base sociale per una
politica della speranza collettiva. Ciò che è urgente ricostruire è, come la
definisce l’antropologo Arjun Appadurai, la
capacità di aspirare a un futuro comune dove i bisogni individuali si
intrecciano senza soluzione di continuità a concezioni del buon vivere, a
modelli di società e a dimensioni collettive. Un “noi” siffatto
non può non essere prioritario, oggi, per la classe dirigente che ha ereditato
una delle più gloriose tradizioni politiche della sinistra europea. Un “noi” di
questo tipo richiede la presenza di opportunità quotidiane per sperimentarsi
come persone in ruoli di cittadinanza, di spazi e luoghi for the
people. Ci sentiamo parte di qualcosa di collettivo solo se, in uno
spazio dedicato, ci mettiamo alla prova come cittadini. Solo se esistono luoghi
terzi dove i problemi e i bisogni individuali qui e ora diventano soluzioni
collettive proiettate nel futuro. In quali occasioni, oggi, abbiamo questa
possibilità? Quante “opportunità di cittadinanza” ci offre lo spazio pubblico?
Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni
pratiche dove i nostri bisogni trovano soluzioni che chiamano in causa gli
assetti sociali più generali? Dove, cioè, un legittimo problema privato –
occupazionale, di abitazione, di salute, di qualità della vita – si traduce in
una soluzione futura che coinvolge idee, valori e meccanismi di funzionamento
collettivi? Pensiamoci: quante volte nell’ultima settimana siamo concretamente
stati dei cittadini? La battaglia per difendere e costruire tali spazi – dalle
piccole biblioteche di quartiere aperte fino a sera, ai community
center, agli spazi per la gestione dei beni comuni – permettono alle
persone di vivere i tempi e gli eventi del “mio”, dell’acquisizione di comfort
nella “mia” casa, della salute “mia”, della crescita dei “miei” figli, vivendo
nel contempo i tempi e gli eventi della “adesione al noi”. Anche
l’apparentemente prosaico atto di fruizione di un bosco, di un giardino o di un
cortile in modo condiviso acquista valore simbolico e stabilisce un nesso
emotivo-cognitivo con l’ideale della solidarietà collettiva. La battaglia del
Labour di Jeremy Corbin per “altri modelli di proprietà” e
per “un’economia della vita quotidiana” o la
prospettiva dell’economia fondamentale trova
anche qui la sua ragion d’essere. Con l’erosione dei pilastri della
cittadinanza industriale e con la crisi del capitalismo organizzato non sono
venuti meno solo o tanto i corpi intermedi, ma sono venuti a mancare soprattutto i luoghi intermedi,
gli spazi della socievolezza quotidiana dove bisogni privati e progetti
pubblici si intrecciano senza soluzione di continuità. La sfera privata del consumo e della
riproduzione si è schiacciata sulla competizione di status, il cui valore sociale,
al di là di quello strumentale, è la distanza guadagnata
rispetto agli altri. I vissuti di successo sono gravidi di mitemi che rimandano
alle capacità personali, del tutto sganciate dalla collettività di appartenenza
rispetto cui non sente alcuna gratitudine e responsabilità. I fallimenti e le
deprivazioni sono, al contrario, vissute con rabbia e frustrazione. Donne e
uomini che vivono la loro individualità in negativo, come impossibilità di
essere riconosciuti come persone e perciò esposti a crisi di autostima, perdita
di capacità di aspirare e di inserire “il futuro nel quotidiano” (Il futuro
nel quotidiano, a cura di O. de Leonardis e M. Deriu, Egea, 2012).
La dicotomia secca vincente-perdente fornisce il criterio sociale di
classificazione predominante e la regola di “riconoscimento” è quella
sprezzante del winners-take-all. Quale consenso di sinistra
può nascere da una società con una sfera pubblica di questo tipo? Quale rilevanza può avere l’opinione
pubblica se gli spazi e i meccanismi di formazione del “noi” sono ridotti a
narrative centrate sulle qualità individuali o sulla loro mancanza? La
priorità per una classe dirigente all’altezza dei tempi dovrebbe essere questa.
Impegnarsi per ricostruire spazi, luoghi e modalità per sperimentare in modo
pratico la capacità di aspirare a un futuro condiviso. Luoghi intermedi, una
volta tipici delle fabbriche e della solidarietà di classe, oggi diffusi e
radicati nei territori, dalle periferie alle aree interne, nei luoghi dello
sfruttamento e in quelli dell’innovazione sociale, dalle nuove forme
associative a ciò che resta di quelle tradizionali, ma anche nei luoghi della
produzione della riproduzione. Luoghi intermedi capaci di intercettare la
domanda di cittadinanza e il policentrismo territoriale, normativo ed
esperienziale, caratterizzato da bisogni in parte simili e in parte unici. Un
lavoro lungo e faticoso di costruzione politica e istituzionale che non si
risolve con una cena tra amici, i cui effetti benefici si potranno vedere solo
nel tempo e che, se mai ci saranno, potranno in futuro costituire le basi
sociali per una nuova domanda di sinistra.
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