martedì 1 gennaio 2019

La parola del mese- Gennaio 2019


La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

GENNAIO 2019

Per affrontare le tante sfide dei nostri tempi appare ormai evidente l’importanza di recuperare una maggiore coesione sociale, il senso di appartenenza ad una collettività condivisa e partecipata, il ruolo della “comunità” nel senso più pieno del termine. La nostra recente discussione sui rischi del peso sempre più ingombrante della tecnologia ci ha fatto riflettere sull’importanza dei “centri minori”, quelli nei quali appare più a portata di mano questo recupero, grazie alla loro maggiore e migliore conservazione di un tessuto di relazioni e pratiche collettive. Questa necessità, questo indispensabile sforzo, si scontrano però con diffusi stili di vita, strettamente legati alla cultura consumistica ed edonistica della nostra epoca, che sono, oggettivamente, penalizzanti per una condivisione sociale vera e non filtrata. Questi stili di vita, indotti e promossi da precisi interessi economici, sollecitati e strumentalizzati da politiche mirate all’isolamento e alla chiusura, esaltano il nemico mortale della “comunità” (”Parola del mese” di Aprile 2016): l’individualismo, l’eccesso di chiusura su sé stessi, un rapporto con la società troppo condizionato dalla considerazione dell’io.  Ci è sembrato quindi opportuno scegliere, per questo mese, una parola che ci aiuti a riflettere su questo scontro tra il “noi” e l’”io” ed i rischi che derivano dal prevalere del secondo.

EGOCRAZIA

Questo termine non compare sui dizionari, si tratta in effetti di un neologismo “tecnico” di recente adozione, utilizzato però sempre più frequentemente in diversi ambiti e da molti protagonisti della scena culturale e pubblica. Ai testimoniare la sua crescente presenza nel discorso pubblico citiamo, come semplice esempio e senza risvolto politico alcuno, una dichiarazione di Nicola Zingaretti, Governatore della Regione Lazio e candidato alla Segreteria PD, che in una recente intervista ha testualmente affermato “Il problema del PD è l’egocrazia”. Il significato di questo termine è di facile comprensione: il potere dell’io, ma se la storia ci testimonia che il comando consegnato ad uno solo, il potere basato sugli interessi e le aspettative di un solo individuo, si configurano come dittatura, allora è possibile sostenere che il significato di egocrazia altri non è che “dittatura dell’io”. Tanto è semplice definire la sua etimologia tanto è complessa, articolata, impattante, la sua presenza nella odierna realtà sociale e culturale, tanto essa viene utilizzata per leggere l’oggi e per richiamare l’attenzione su rischi futuri. In questo senso riportiamo alcune significative e variegate riflessioni:

Innamorarsi di sé il vizio capitale oltre ogni limite (articolo di Massimo Recalcati, La Repubblica.it – 26/09/2016)

Per i padri della Chiesa la superbia è il peccato narcisistico per eccellenza. Tommaso d'Aquino lo specifica con eleganza: «Il superbo è innamorato della propria eccellenza». Si tratta di una forma di idolatria che l'epoca ipermoderna ha particolarmente esaltato: al posto del culto di Dio avviene il culto del proprio Io assimilato alla potenza di Dio. Non è forse questo il peccato principe del nostro tempo? Egocrazia, "Iocrazia", afferma Lacan. L'ordine della creazione viene capovolto: l'uomo compete con Dio - come figura radicale dell'alterità - negando il suo debito simbolico. Farsi un nome da sé senza passare dall'Altro è la cifra più delirante del nostro tempo. Il culto superbo di se stessi implica, infatti, il disprezzo cinico per l'altro. La vita umana smarrisce ogni senso di solidarietà per dedicarsi a senso unico al potenziamento di se stessa. Per i padri della Chiesa è questa la "vanagloria" di cui si nutre il superbo: farsi autonomo, indipendente, cancellare il debito, credere alla follia del proprio Io autonomo e sovrano. Per questa ragione Lacan ha associato al culto narcisistico per se stessi la tentazione suicidaria e la pulsione aggressiva come due facce di una sola medaglia. Il superbo può essere facilmente preda dell'ira perché il suo bisogno di attaccare l'Altro coincide con il suo rifiuto di ogni esperienza del limite. Il superbo come l'iracondo si considera sempre dalla parte del giusto. La sua esaltazione di se stesso mostra una totale assenza di autocritica che può sfociare facilmente nella paranoia e nella megalomania. Il superbo è esente da critica perché è sempre innocente e ingiustamente perseguitato, allontanato, emarginato, escluso. La colpa è sempre degli altri che non riconoscono mai appieno il suo valore assoluto. Non è un caso che la clinica psicoanalitica abbia individuato – in linea qui con la grande saggezza buddista – nell'eccessivo attaccamento al proprio Io il denominatore comune delle malattie mentali. Ma, al tempo stesso, la vita del superbo è una vita triste perché egli si trova nell'impossibilità di entrare in relazione con un Altro che disprezza supremamente. Il suo destino non può che essere quello del più acuto isolamento. Non a caso la passione più prossima a quella della superbia è l'invidia che, sempre per i padri della Chiesa, viene considerata come il "peccato dei peccati", il vizio capitale più grande. Il termine invidia deriva dal latino in-videre che significa guardare male, con occhio malevolo, con malocchio. L'invidia è una patologia dello sguardo? L'invidioso soffre per ciò che vede. Egli non sa tollerare la felicità e la gioia altrui. Come scrive Tommaso d'Aquino la passione invidiosa sorge dalla tristezza causata dai beni altrui. L'invidioso è un essere che vive nelle tenebre, nell'oscurità, covando rancore e frustrazione verso il mondo. È, paradossalmente, l'altra faccia, la faccia in ombra, della superbia. Il suo sguardo, come mostra Nietzsche nella Genealogia della morale, è "torvo" e "risentito". L'invidioso non sopporta la vita degli altri, che immagina, contrariamente alla propria, sempre piena. Non è poi così strano che la superbia e l'invidia siano considerate anche da Tommaso passioni collegate. Il superbo non può sopportare la vista di altri che vantano maggior prestigio del suo; l'invidia aderisce alla superbia come l'edera al muro. Anche, o soprattutto, quando la superbia si maschera di falsa umiltà. È una patologia tipica dell'uomo religioso: la mortificazione e il sacrificio di sé vengono esibiti come manifestazione di un'elevazione morale superiore finalizzata a scavare nell'altro senso di colpa e di indegnità. Il carattere unico dell'invidia tra tutti i vizi capitali è che è il solo peccato dove il godimento diretto viene escluso. Non è peccato di gola, non è peccato di ira, di lussuria, né di affermazione superba di sé. L'invidioso non gode di qualcosa se non del suo tormento senza pace. La sua carriera, come quella dell'odio, secondo una sottile definizione di Lacan, è sempre "senza limiti". Non c'è, infatti, mai un fondo, una sazietà, un appagamento definitivo per l'invidia. Nemmeno la morte dell'invidiato può placare la spinta invidiosa. Perché l'invidia non è mai invidia "di qualcosa" (di una proprietà o di una qualità particolare dell'invidiato), ma della sua vita, della vitalità dell'altro. Quello che l'invidioso non sopporta è la manifestazione della vita differente dell'altro nella sua forza generativa. Mentre muore d'invidia osservando l'invidiato, il soggetto invidioso riconosce implicitamente – senza mai ammetterlo - l'eccellenza di chi invidia e si tormenta dall'impossibilità di raggiungere lo stesso prestigio. L'invidioso è, in realtà, già morto e per questo non può che invidiare la vita dell'altro. Non si invidiano mai povere anime, ricorda Aristotele, ma solo coloro che avvertiamo prossimi a noi stessi, così come originariamente Caino ha invidiato Abele. Invidiamo l'Altro come incarnazione del nostro Ideale inconfessato. Per questo l'invidia è sempre tendenzialmente tra simili e mai tra diversi; tra vicini, tra fratelli, tra colleghi, persino tra amanti, ma non tra sconosciuti. Non è un caso che la diffamazione sia una della sue manifestazioni più pure: essa punta a fare cadere l'invidiato, ad umiliarlo, a infangarlo colpendolo nella sua immagine perché la sua presenza nella vita dell'invidioso è talmente costante e invadente da risultare insopportabile. La maldicenza vorrebbe corrodere definitivamente l'essere dell'invidiato, quell'essere che è molto frequentemente il più inconsciamente amato dall'invidioso.

La vita umana ha smarrito ogni senso di solidarietà per dedicarsi unicamente al potenziamento di se stessa È il tempo dell' "Egocrazia" come nuova forma d' idolatria

Articolo di  Salvatore Santoru del 09/12/2018 – Blog “Informazione consapevole

Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale nell'Europa occidentale e via via in altre parti del mondo si è diffuso a macchia d'olio il dominio degli USA, a livello geopolitico così come militare e culturale. Il dominio geopolitico degli USA ha portato alla nascita di un mondo fortemente unipolare e basato sull'adozione "universale" di uno specifico modello fondato sul consumismo, il culto dell'egoismo e il dominio della società dell'immaginazione e dello spettacolo, costituenti di fatto una degenerazione e un'interpretazione deviata dell'autentico "american way of life". Indubbiamente, rispetto ai concorrenti modelli nazifascisti e comunisti (così come teocratici e tecnocratici) questo modello è stato ed è sicuramente migliore ma non è mancato e non manca in esso una certa strutturazione "totalitaria" e "estremista". Difatti, il dominio culturale dell'egocrazia e della società dello spettacolo imposto dagli USA ha portato, su larga scala e a livello di cultura di massa, a una decisa minimizzazione e demonizzazione dei valori non necessariamente materialisti e "superficiali" e a un'adozione indirettamente "obbligata" e estrema di tale stile di vita, che in fin dei conti è l'altra faccia del puritanesimo "reazionario" assai forte negli States. La diffusione dell'imperialismo culturale statunitense e l'adozione dell'egocrazia hanno portato al culto dell'effimero, alla diffusione e adozione "normativa" del narcisismo sociale, alle assai diffuse ansie da prestazione e l'eccessivo culto dello "Star System", veicolato tramite Hollywood o i mass media e così via. Ora come ora, c'è da dire che è venuto il momento di superare questo modello culturale tenendo conto che comunque è alquanto inutile e controproducente l'effimero antiamericanismo tanto diffuso, antiamericanismo che in fin dei conti non è nient'altro che l'altra faccia della medaglia di questo sistema. Difatti, non bisogna certamente buttare l'acqua con il bambino e non bisogna dimenticare che l'adozione del modello "americanista" ha garantito un miglioramento sociale così come c'è da dire che il ruolo esercitato dai media o da Hollywood è stato ed è per molti aspetti positivo, mentre il problema è stato semmai l'adozione troppo "estrema" e la "degenerazione" del modello "americanista" o "egocratico".

La ribellione, indispensabile ed indifferibile, alla dittatura dell’io passa attraverso il rilancio della dimensione del noi. Un rilancio che è auspicato ed incoraggiato da molti e diversificati punti di vista. A testimonianza di questa interessante trasversalità ne riportiamo due: uno di matrice religiosa ed uno di spirito laico

Risvolto di copertina del libro dell’arcivescovo Vincenzo Paglia  (Presidente della Pontificia Accademia per la vita) “Il crollo del noi” in questi giorni nelle librerie
Smettiamo di chiederci «Chi sono io?» e chiediamoci invece «Per chi sono io?». Solo così possiamo ragionare su una nuova forma di prossimità. Se vogliamo ritessere il ‘noi’ del convivere contemporaneo, sfidato e indebolito dalla globalizzazione, dobbiamo porci con forza e intelligenza questa domanda che apre la nuova frontiera della libertà. Una libertà che non è sinonimo di autonomia ma di pienezza di legami, la sola che può riportare al centro un contenuto essenziale del testo biblico: «non è bene che l’uomo sia solo». Una delle voci più autorevoli e rispettate della Chiesa italiana. Un’analisi lucida ma non rassegnata sulla più grave emergenza del presente: il crollo dei legami umani. Connessi gli uni agli altri, non per questo siamo davvero interessati ai destini di chi ci è prossimo. Al contrario, l’umanità sta attraversando una gravissima crisi di solidarietà. Ciascuno pensa a se stesso. Si è passati dal giusto riconoscimento dei diritti dell’uomo a una sorta di ‘egocrazia’. Il risultato è un vuoto insostenibile. Tanti sono i sintomi di un malessere esteso, che testimoniano la richiesta di ascolto e di aiuto. Attraverso una lettura del presente che trae spunto dalla ricca esperienza pastorale e intellettuale dell’autore, questo libro ci parla di una nuova cultura, di un nuovo sogno, di una nuova visione fondata sul riconoscimento dell’importanza del bene comune
Articolo di Filippo Barbera – Rivista online “Il mulino” Ottobre 2018
Il noi mancante
Il sociologo americano Erik Klinenberg in Palaces for the people. How social infrastructure can help fight inequality, polarization and the declin of civic life (Penguin Random House, 2018) sostiene che il futuro delle società democratiche si costruisce non solo, o non tanto, in base a valori comuni, quanto a partire dalla presenza di spazi condivisi. Biblioteche, centri per l'infanzia, librerie, chiese, moschee, sinagoghe, fablab, spazi di coworking, cooperative di comunità e parchi possono costituire contesti in cui le persone interagiscono in modi che hanno conseguenze dirimenti per la qualità democratica della società e, quindi, della politica che questa riesce a esprimere. Sono spazi, questi, in cui le persone si riuniscono per soddisfare contemporaneamente – tramite azioni pratiche – un obiettivo privato e un progetto pubblico. Klinenberg definisce questi luoghi come tasselli cruciali per la nascita e la crescita della “infrastruttura sociale” delle società. Quando tale infrastruttura è robusta, la qualità democratica delle società è ben salvaguardata; quando è debole, gli individui perdono la capacità di aspirare collettivamente a un progetto comune. La filosofa analitica Margaret Gilbert ne Il noi collettivo (Cortina, 2015) avverte che senza un progetto congiunto non può esistere un attore plurale: senza un orientamento collettivo a un futuro condiviso, cioè senza un progetto comune, non c’è un vero noi, ma solo una somma di “io”. E da una somma di “io”, come dai diamanti, non nasce niente. La classe dirigente della sinistra italiana – con poche eccezioni – si è dimenticata che senza un “noi” orientato al futuro in modo aperto e inclusivo vengono a mancare le basi sociali della democrazia e, di conseguenza, i presupposti per la costruzione di un consenso politico di sinistra. Non ogni tipo di società è ugualmente adatta a esprimere un orientamento di sinistra, così come non lo è ogni tipo di economia. Questi temi sono stati dimenticati a favore dell’idea che il controllo – effimero – dell’opinione pubblica sarebbe stato un elemento sufficiente per guidare un’azione politica progressista. Ma l’opinione pubblica non esaurisce la rilevanza della sfera pubblica, dei suoi spazi vivi, dei suoi luoghi concreti, delle sue ramificazioni territoriali. E della loro insostituibile capacità – come evocato in apertura dal richiamo al libro di Klinenberg – di generare progetti comuni e orientati al futuro. Oggi, ciò che è drammaticamente assente – e che dovrebbe informare le strategie politiche di una classe dirigente di sinistra all’altezza dei tempi – è proprio la diffusa e pervasiva mancanza di meccanismi di costruzione del “noi”, oggi alle corde a favore di un “noi” nativista e impaurito che lascia spazio solo a ripiegamenti sulla propria individualità disperata, facile preda di una politica della nostalgia. Osservazione, questa, corroborata anche dalla recente ricerca di Loris Caruso e collaboratori ("Popolo chi? Rappresentazioni della politica tra le classi popolari". Inchiesta del “Cantiere delle idee” di prossima pubblicazione) svolta su un campione di residenti nei quartieri periferici di alcune medio-grandi città italiane. In questo lavoro si legge infatti che il sentimento secondo il quale io partecipo di una condizione comune a quella di altri, cooperando e lottando per cambiarla, sembra ormai assente. Non si individuano né le possibilità, né gli strumenti per farlo. Un vero e proprio “noi mancante”, incapace di costituirsi come soggetto plurale, base sociale per una politica della speranza collettiva. Ciò che è urgente ricostruire è, come la definisce l’antropologo Arjun Appadurai, la capacità di aspirare a un futuro comune dove i bisogni individuali si intrecciano senza soluzione di continuità a concezioni del buon vivere, a modelli di società e a dimensioni collettive. Un “noi” siffatto non può non essere prioritario, oggi, per la classe dirigente che ha ereditato una delle più gloriose tradizioni politiche della sinistra europea. Un “noi” di questo tipo richiede la presenza di opportunità quotidiane per sperimentarsi come persone in ruoli di cittadinanza, di spazi e luoghi for the people. Ci sentiamo parte di qualcosa di collettivo solo se, in uno spazio dedicato, ci mettiamo alla prova come cittadini. Solo se esistono luoghi terzi dove i problemi e i bisogni individuali qui e ora diventano soluzioni collettive proiettate nel futuro. In quali occasioni, oggi, abbiamo questa possibilità? Quante “opportunità di cittadinanza” ci offre lo spazio pubblico? Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni pratiche dove i nostri bisogni trovano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali? Dove, cioè, un legittimo problema privato – occupazionale, di abitazione, di salute, di qualità della vita – si traduce in una soluzione futura che coinvolge idee, valori e meccanismi di funzionamento collettivi? Pensiamoci: quante volte nell’ultima settimana siamo concretamente stati dei cittadini? La battaglia per difendere e costruire tali spazi – dalle piccole biblioteche di quartiere aperte fino a sera, ai community center, agli spazi per la gestione dei beni comuni – permettono alle persone di vivere i tempi e gli eventi del “mio”, dell’acquisizione di comfort nella “mia” casa, della salute “mia”, della crescita dei “miei” figli, vivendo nel contempo i tempi e gli eventi della “adesione al noi”. Anche l’apparentemente prosaico atto di fruizione di un bosco, di un giardino o di un cortile in modo condiviso acquista valore simbolico e stabilisce un nesso emotivo-cognitivo con l’ideale della solidarietà collettiva. La battaglia del Labour di Jeremy Corbin per “altri modelli di proprietà” e per “un’economia della vita quotidiana” o la prospettiva dell’economia fondamentale trova anche qui la sua ragion d’essere. Con l’erosione dei pilastri della cittadinanza industriale e con la crisi del capitalismo organizzato non sono venuti meno solo o tanto i corpi intermedi, ma sono venuti a mancare soprattutto i luoghi intermedi, gli spazi della socievolezza quotidiana dove bisogni privati e progetti pubblici si intrecciano senza soluzione di continuità. La sfera privata del consumo e della riproduzione si è schiacciata sulla competizione di status, il cui valore sociale, al di là di quello strumentale, è la distanza guadagnata rispetto agli altri. I vissuti di successo sono gravidi di mitemi che rimandano alle capacità personali, del tutto sganciate dalla collettività di appartenenza rispetto cui non sente alcuna gratitudine e responsabilità. I fallimenti e le deprivazioni sono, al contrario, vissute con rabbia e frustrazione. Donne e uomini che vivono la loro individualità in negativo, come impossibilità di essere riconosciuti come persone e perciò esposti a crisi di autostima, perdita di capacità di aspirare e di inserire “il futuro nel quotidiano” (Il futuro nel quotidiano, a cura di O. de Leonardis e M. Deriu, Egea, 2012).  La dicotomia secca vincente-perdente fornisce il criterio sociale di classificazione predominante e la regola di “riconoscimento” è quella sprezzante del winners-take-all. Quale consenso di sinistra può nascere da una società con una sfera pubblica di questo tipo? Quale rilevanza può avere l’opinione pubblica se gli spazi e i meccanismi di formazione del “noi” sono ridotti a narrative centrate sulle qualità individuali o sulla loro mancanza? La priorità per una classe dirigente all’altezza dei tempi dovrebbe essere questa. Impegnarsi per ricostruire spazi, luoghi e modalità per sperimentare in modo pratico la capacità di aspirare a un futuro condiviso. Luoghi intermedi, una volta tipici delle fabbriche e della solidarietà di classe, oggi diffusi e radicati nei territori, dalle periferie alle aree interne, nei luoghi dello sfruttamento e in quelli dell’innovazione sociale, dalle nuove forme associative a ciò che resta di quelle tradizionali, ma anche nei luoghi della produzione della riproduzione. Luoghi intermedi capaci di intercettare la domanda di cittadinanza e il policentrismo territoriale, normativo ed esperienziale, caratterizzato da bisogni in parte simili e in parte unici. Un lavoro lungo e faticoso di costruzione politica e istituzionale che non si risolve con una cena tra amici, i cui effetti benefici si potranno vedere solo nel tempo e che, se mai ci saranno, potranno in futuro costituire le basi sociali per una nuova domanda di sinistra.

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