lunedì 15 giugno 2020

Comunicare la scienza in tempo di crisi


Uno dei più sottolineati effetti collegati alla pandemia è stata la diffusa attenzione verso il mondo della scienza, ed in particolare verso quelle sue specializzazioni più inerenti alla epidemia. E, conseguentemente, mai come in questo periodo media, Rete, social hanno dedicato ampio spazio a servizi, notizie, dati e dibattiti sul tema e più in generale sul mondo della scienza. Una valanga di momenti divulgativi strettamente connessa ad una richiesta ed un attenzione del tutto comprensibili e per molti versi confortanti, che si spera possano sedimentare in molti un interesse duraturo. L’esperienza concreta avvenuta in questi mesi ha evidenziato però che questo incontro tra “popolo” e “scienza” ha colto ambedue in qualche modo impreparati. Per il “popolo” si è trattato ovviamente di recuperare almeno in parte un notevole deficit di conoscenza e informazione, la “scienza” invece è stata chiamata a calibrare su questa platea amplissima i suoi consolidati canali di comunicazione di norma specialistici e selettivi anche quando divulgativi. Al di là della effettiva capacità di soddisfare le diffuse esigenze di approfondimento la stessa speranza che questa eccezionalità si confermi in una attenzione costante è quindi affidata a quella di ottimizzare tale comunicazione garantendo i due requisiti fondamentali: chiarezza, comprensione e validità scientifica. Il seguente articolo riflette sull’esperienza concreta di questi mesi ed offre interessanti indicazioni in questo senso

Comunicare la scienza in tempo di crisi
Come è stata affrontata l’emergenza COVID-19 dal mondo della divulgazione? Un dialogo a più voci su nuovi ostacoli e antiche incomprensioni.

Articolo di Fabio Gironi (filosofo, traduttore,  giornalista) – sito online Il Tascabile

Se c’è una lezione, semplice ma cruciale, che possiamo trarre dalla pandemia che ha colpito il pianeta negli ultimi tre mesi, è che il mondo della ricerca scientifica è un sistema incredibilmente complesso, composto da centinaia di migliaia di persone, centri di ricerca, laboratori, fondi, ipotesi, esperimenti, conferme e smentite. Cercare spiegazioni semplici di fenomeni complessi è nella natura umana, ma non sempre è possibile, neanche restringendo il campo di analisi a una sola sfera del sapere, o a una singola disciplina scientifica. Lo sa bene chi, per mestiere, cerca di rendere accessibile il mondo della ricerca scientifica al pubblico: divulgatori, comunicatori e giornalisti scientifici. Se già prima di quest’emergenza la comunicazione della scienza richiedeva la costante e niente affatto banale ricerca di un equilibrio tra rigore e accessibilità, nel pieno della crisi coronavirus la mole di pubblicazioni scientifiche da assimilare e presentare al pubblico — nuovi studi, dati, preprint, trend statistici, e così via — è aumentata, per una volta è il caso di dirlo, esponenzialmente. Grandi e piccole testate giornalistiche che, normalmente, avrebbero pubblicato poche notizie scientifiche al mese hanno iniziato a parlare quasi unicamente di concetti che, di solito, sono relegati alla stampa di settore: virus a RNA, curve logaritmiche e esponenziali, il parametro R0, droplets, mascherine N95 — tutti termini di cui, nostro malgrado, siamo diventati improvvisamente esperti. Come è stata affrontata la crisi da parte del mondo della comunicazione scientifica? Quali problemi sono emersi, e quali sono i più importanti da affrontare, sia di forma che di contenuto? Ho voluto parlarne con tre persone che, in maniera diversa, durante i mesi dell’emergenza sanitaria hanno provato a fare ordine, a riportare al pubblico in modo chiaro un quadro epidemiologico complesso e, soprattutto, in costante evoluzione. Roberta Villa è una giornalista scientifica, scrive anche per il Tascabile: specializzata in medicina e biologia, da anni si distingue per una strategia comunicativa accessibile ma sempre responsabile e cauta, e per il suo uso dei social media, delle storie video si Istangram, per raggiungere direttamente il pubblico. Giorgio Sestili è un fisico, coordinatore e fondatore di “Coronavirus: dati e analisi scientifiche”  , un gruppo di analisi dei dati emerso prima su Facebook e poi su altri canali social, che ha fornito un eccezionale servizio di interpretazione e “sistematizzazione formale” dei tantissimi dati e grafici che hanno provato a tracciare l’evoluzione della pandemia in Italia e nel mondo. Alexander Bird è professore di filosofia della medicina al King’s College di Londra, e ha prodotto una serie di testi e video divulgativi mirati a chiarire gli aspetti più formali dell’analisi dei dati e della costruzione di modelli epidemiologici, il concetto di immunità di gregge e la risposta alla pandemia del governo britannico.

Comunicare la scienza, in condizioni normali, non è un compito facile, e la situazione in cui ci troviamo ha aggiunto difficoltà: ad esempio non è solo il contenuto o i meccanismi interni della disciplina scientifica che va comunicato, ma c’è una situazione di evoluzione costante, e un flusso continuo di dati che richiede un’analisi “formale” (epidemiologica, statistica, e probabilistica) che forse è ancora più difficile da interpretare senza una preparazione matematica. Ci sono state moltissime iniziative da parte di scienziati e comunicatori per cercare di rendere la situazione più chiara, riassumendo le informazioni più attendibili. Quale è stato l’ostacolo più grande in questa situazione di mutamento continuo delle informazioni disponibili?

GIORGIO SESTILI = La difficoltà di comunicazione più ovvia, ma più importante, durante la pandemia, è stata avere a che fare con un virus di cui quattro/cinque mesi fa non conoscevamo nemmeno l’esistenza. Gli scienziati in tutto il mondo si sono messi rapidamente a fare ricerca, cercando di capirne il funzionamento: cosa che però ha prodotto uno spaventoso sovraccarico di informazioni. In pochissimi mesi, sono stati prodotti migliaia di paper e preprint scientifici. Questa marea di informazioni è composta da una piccola parte di ricerche eccellenti, una buona parte di pubblicazioni che generano solo rumore di fondo, e una grandissima parte che non supera neanche una fase di review. È una rincorsa che ha reso il nostro lavoro ancora più complicato, dato che è necessario scegliere attentamente le fonti e capire cosa, di ciò che viene pubblicato dalla comunità scientifica, meriti un ragionamento pubblico.  Il secondo ostacolo è quello relativo ai dati: ogni giorno ci troviamo di fronte a dati che vanno prima analizzati e poi comunicati, e ci siamo resi conto, giorno dopo giorno, di aver a che fare con dati spesso completamente falsati: numeri che si discostano molto dalla reale fotografia della situazione (questo è vero in Italia ma anche in tanti altri paesi, tutti quelli che sono stati presi di sorpresa dal virus e si sono visti costretti a rincorrere una situazione in evoluzione, senza poterla affrontare fin dal suo inizio). Considera ad esempio il fatto che ora sappiamo che il virus in Italia ha circolato per almeno un mese senza che nessuno se ne accorgesse (tra gennaio e febbraio), e che il numero dei casi conteggiati è ampiamente sottostimato, cosa che sembra dimostrata da quel 14% di letalità – una percentuale che chiaramente non è attendibile. Lo abbiamo visto anche più recentemente: il Ministero della salute ha emanato un protocollo in 21 indicatori per il monitoraggio della diffusione, ma le regioni non sembrano essere in grado di comunicare tutti i dati richiesti.

ROBERTA VILLA = In questa situazione c’è un concetto chiave da considerare: quello di responsabilità. In “tempo di pace” una comunicazione della scienza scorretta può avere poco impatto, o averlo pian piano nel tempo, lasciando così la possibilità di essere corretta in seguito. Ma, in una situazione di emergenza come questa, una comunicazione scorretta porta con sé una responsabilità sociale enorme, che si può contare in termini di vite umane. Ritengo che un’accurata presentazione dell’incertezza e la responsabilità di una comunicazione corretta sono stati i due elementi più delicati di questa crisi – non solo per quello che riguarda potenziali notizie false, ma anche riguardo a notizie vere. Il comunicatore ha anche il compito di gestire l’emotività della popolazione, e a volte si trova a dover gestire situazioni difficili. Ad esempio, quando ho visto per la prima volta il documento della SIAARTI — che specificava le linee guida per i rianimatori, e i criteri da seguire in caso di necessità — pur sapendo che queste cose succedono abitualmente, nondimeno ho deciso di aspettare qualche ora a parlarne, e ho meditato un po’ sul da farsi. Poi la notizia è uscita con titoloni acchiappa-click sui giornali, e a quel punto ho cercato di spiegarne il significato a chi mi seguiva. Tuttavia ho esitato, perché mi sono resa conto che riportare quella notizia poteva dar luogo a fraintendimenti (come infatti è successo) ma soprattutto poteva generare disperazione, in casi estremi spingendo le persone a non rivolgersi agli ospedali per paura di non ricevere assistenza.

ALEXANDER BIRD = In generale esistono diverse categorie di problemi. Come hai accennato, ci sono problemi relativi a ciò che il pubblico è in grado di comprendere, considerato il tipo di educazione scientifica che abbiamo. L’ostacolo più ovvio forse è il fatto che molti, comprese persone istruite, “spengono” la propria attenzione quando vedono un numero o un’equazione. Usare diagrammi e altre immagini per trasmettere un’idea può essere di aiuto, ma ci sono limiti a ciò che si può ottenere in questo modo. È un peccato, soprattutto perché questa reazione negativa anche al più semplice formalismo matematico è un riflesso mentale — il solo vedere qualcosa del genere porterà molte persone a dirsi, inconsciamente: “questo non lo capirò, quindi non ci provo neanche”. Un’altra categoria di ostacolo riguarda i comunicatori scientifici. Devono fare delle scelte, in particolare scegliere tra accuratezza e intelligibilità. Immagina di voler trasmettere un’idea scientifica complessa: un modo per farlo è quello efficace ma rozzo, un metodo inaccurato, che lascia fuori molti dettagli, e che per certi versi può anche essere fuorviante. Un altro modo è molto più fedele ai fatti scientifici, ma non sarà comprensibile a buona parte del pubblico. Quale scegliere? Si può essere tentati di provare il secondo approccio: dopotutto, ci interessano la verità e l’accuratezza scientifica. Inoltre, il comunicatore scientifico non vuole apparire ingenuo, o essere accusato di semplificare eccessivamente i temi che affronta — in particolare vuoi essere preso sul serio dagli stessi scienziati. Tuttavia, se vogliamo comunicare, scegliere il primo metodo potrebbe spesso essere la scelta migliore.

Quello dell’incertezza sembra essere un concetto chiave, spesso non molto chiaro al pubblico. Allo stesso modo, l’idea di “disaccordo” tra gli scienziati viene spesso fraintesa come una cronica mancanza di consenso che rende qualsiasi opinione inattendibile.

ROBERTA VILLA =  Sì, la criticità maggiore è l’incertezza, soprattutto in un mondo — come quello della cultura italiana — in cui negli ultimi anni è circolata un’idea della scienza come qualcosa di granitico, capace di asserire verità con la stessa certezza che 2+2=4. Questo è un messaggio controproducente, che offre una descrizione erronea di una disciplina che si nutre di dubbi e di domande. È stato difficile per chi comunica la scienza, ma probabilmente anche per il pubblico, affrontare una situazione dove domina l’incertezza e, come si diceva, in continuo divenire: queste circostanze hanno presentato una visione della scienza che è sicuramente più realistica, ma in contrasto con quella che è stata diffusa negli anni passati.

GIORGIO SESTILI = Nel lavoro che abbiamo fatto con il nostro gruppo, abbiamo sempre cercato di inserire il dato all’interno di una tendenza: da dove veniamo e a che punto siamo della curva epidemica, per esempio, cosa ci aspettiamo per i prossimi giorni? Facendo il paragone con altri modelli e altri paesi abbiamo cercato di presentare degli andamenti, sempre tenendo ben presenti i dubbi e le incertezze. Questo è molto importante: chi fa comunicazione scientifica non deve vendere certezze. Dove non ci sono certezze è molto importante che questo stato di incertezza sia comunicato, ammettendo apertamente: “questo la comunità scientifica ancora non lo sa”. Noi lo abbiamo sempre fatto e mi sembra che il nostro pubblico lo abbia molto apprezzato.

ALEXANDER BIRD = Sì, spesso il pubblico ha difficoltà a metabolizzare il disaccordo tra scienziati, e questo problema può essere aggravato dai media, quando danno l’impressione che ci sia ancora più disaccordo di quanto non ne esista realmente. Ad esempio, ricordo che quando Andrew Wakefield pubblicò il suo famigerato articolo che ipotizzava un legame tra l’autismo e il vaccino trivalente contro morbillo parotite e rosolia, in radio gli fu dato lo stesso tempo che fu destinato ai medici che presentavano l’opinione condivisa (allora e oggi) che tale legame non esistesse affatto. Di conseguenza, agli ascoltatori sembrò, erroneamente, che ci fosse una vera incertezza scientifica — questo “equilibrio” non rifletteva la divisione dell’opinione tra gli esperti medici. La stessa cosa succede oggi con i negazionisti climatici. Quindi, nella comunicazione scientifica, è importante non sopravvalutare il disaccordo e sottolineare l’alto grado di accordo, quando esiste. Quando discutiamo delle previsioni degli scienziati riguardo al clima, è importante che i comunicatori scientifici spieghino chiaramente che, benché vari scienziati usino modelli che potrebbero non essere d’accordo su alcuni dettagli delle loro previsioni, tutti concordano sull’esistenza di cambiamenti climatici antropogenici, e che questo rappresenta per tutti un problema serio. La domanda è a questo punto: come mai molte persone fraintendono il disaccordo scientifico e l’incertezza della ricerca scientifica? Personalmente attribuisco questo problema all’educazione scientifica a scuola, che si concentra sui prodotti della scoperta scientifica piuttosto che sui processi della scoperta scientifica. Ci viene insegnato il contenuto della scienza, e quel contenuto è limitato ai fatti accertati. Veniamo esaminati sulla nostra conoscenza di tali fatti e sulla nostra capacità di manipolarli, e ragionare con essi.  Da un certo punto di vista questo è giusto, dal momento che ci sono fatti scientifici consolidati che è necessario capire. Ma è un quadro incompleto di cosa sia la scienza.

Mi sembra che questa situazione abbia anche evidenziato problemi riguardo al modo in cui i media mainstream riportano le notizie, spesso in modo poco accurato o sensazionalistico. 

GIORGIO SESTILI = A me piacerebbe che tutti i media di informazione istituissero al proprio interno una redazione scientifica, dal momento che sono veramente pochi quelli che hanno giornalisti scientifici a tempo pieno. Benché ci siano anche stati casi di ottima informazione (e vorrei citare il canale Ansa “Scienza e Tecnica” come esempio virtuoso), mi sono reso conto, collaborando con alcuni importanti quotidiani sia cartacei che online, di come queste testate si siano ritrovate a parlare di scienza tutti i giorni senza avere le competenze, all’interno delle loro redazioni, per farlo. Questo ovviamente ha generato problemi, dato che si sono dovuti rapidamente adattare a questa situazione di emergenza. Ma considerato che dovremo fronteggiare anche in futuro dei temi importanti che ci porteremo avanti tutta la vita — come questo virus — è necessario affrontare questo problema di competenza giornalistica in modo più sistematico.

ROBERTA VILLA = La situazione in cui ci siamo trovati, durante la quale si è reso necessario coprire la notizia 24 ore al giorno su tutte le televisioni e giornali, ha messo in luce il fatto che nella maggior parte delle redazioni mancano giornalisti scientifici, mentre di solito ci sono esperti di economia o di sport. I pochi che, come me, sono stati coinvolti, sono stati intervistati in qualità di “esperti”, ma solo raramente hanno potuto svolgere il loro ruolo, quello di gestire la comunicazione, mediandone la complessità e rivolgendo in prima persona domande appropriate a medici e scienziati. Aggiungo un aneddoto piuttosto curioso: io ho dovuto spesso insistere per essere presentata, appunto, come “giornalista scientifica”, perché nel mondo della stampa italiana la figura di “giornalista scientifico” è misconosciuta: al massimo vengo definita giornalista e divulgatrice scientifica, ma il termine “giornalista scientifico” — che indica una competenza specifica, come nel caso di un “giornalista sportivo” o un “giornalista economico” — non viene considerato.

Certe distinzioni e idee importanti — ad esempio la differenza tra il concetto di prova scientifica e quello di trend statistico; epidemia e pandemia, o l’ormai famoso indice di riproduzione R0 — vanno spiegati con chiarezza a un pubblico che potrebbe non sempre esserne al corrente. Personalmente mi sembra che ci sia una grande difficoltà a comprendere quello che succede nella “scatola nera” della scienza, nel momento di attività pratica che va dalla scoperta di un problema alla sua risoluzione (ad esempio, dall’isolamento di un nuovo virus allo sviluppo di un vaccino).

ALEXANDER BIRD = Sì, penso che tu abbia ragione. L’attuale crisi ha permesso alle persone di vedere ciò che gli scienziati fanno in tempo reale, e hanno anche potuto vedere che la produzione scientifica può essere molto disordinata. Spero che si sviluppi una consapevolezza del fatto che è del tutto normale, e che la confusione che caratterizza il processo non compromette l’affidabilità del prodotto. Ma una cosa più specifica che spero che il pubblico comprenda meglio è il fatto che gli scienziati lavorano molto spesso con i modelli. I modelli possono essere strumenti molto potenti. Tuttavia hanno dei limiti: in genere comportano una sorta di semplificazione, che in alcune circostanze potrebbe essere eccessiva, e controproducente. Oppure il modello potrebbe essere appropriato, ma i dati necessari per comprendere e prevedere un particolare fenomeno potrebbero essere inaffidabili. La probabilità è un altro aspetto generale del pensiero scientifico che è estremamente importante, e che dovrebbe essere compreso meglio. La ricerca psicologica ci ha dimostrato che noi tutti facciamo fatica a ragionare con le probabilità. Per farlo bene, è necessario utilizzare metodi formali. Ma, come abbiamo detto, ci sono molte resistenze a qualsiasi approccio formale o matematico.

GIORGIO SESTILI = Bisogna anche dire che dipende dal livello di interesse e della cultura scientifica del pubblico a cui ci riferiamo. Chi segue giornalmente la nostra pagina Facebook ha avuto sempre modo di ricevere informazioni dettagliate e, ad esempio, abbiamo sempre detto che l’ipotesi di 12/18 mesi per sviluppare un vaccino è molto ottimistica, perché in passato non è mai stato raggiunto un vaccino in così poco tempo (se non il vaccino influenzale, ma quella era una situazione ben diversa, perché era un virus ben conosciuto). D’altro canto c’è anche un’enorme fetta di pubblico che non ha una grande cultura scientifica e rischia di prendere informazioni che riceve a pezzetti, senza un contesto appropriato: questo è un problema che si risolve solo incentivando l’educazione scientifica.

ROBERTA VILLA = Io vado forse un po’ controcorrente riguardo all’idea che il pubblico sia scientificamente poco colto o — soprattutto — poco interessato. Credo poco a questa emergenza di analfabetismo funzionale di cui si sente spesso parlare: non sono d’accordo perché i dati ci dicono diversamente, e perché è evidente che oggi ci sia una cultura maggiore di 40 o 50 anni fa — quando c’era un vero analfabetismo, un ben minore livello di scolarizzazione, e una scarsa comprensione delle notizie. Piuttosto credo che oggi ci sia una confusione causata da un eccesso di informazioni: le persone, proprio perché sono più scolarizzate, tendono a volersi fare un’idea riguardo a tutto, hanno a disposizione internet che gli permette di arrivare a tutte le fonti di conoscenza, e quindi possono facilmente rimanere confuse, accedendo a notizie per le quali non hanno un background sufficiente, per interpretarle e contestualizzarle nel migliore dei modi. Bisogna anche aggiungere che, quando diciamo che le persone non hanno competenza, ci dimentichiamo che la scienza è un mondo enorme, di grande complessità e che ha un suo linguaggio molto tecnico. Si pensi allo “spread” — termine che abbiamo iniziato a capire solo dopo la crisi del 2008 — o al “parametro R0” che abbiamo imparato in questi mesi. Questo è per dire che il rischio che si è sviluppato negli ultimi anni è quello di pensare che l’unico ambito che possa essere preso come metro di misura per le capacità cognitive del pubblico sia quello scientifico. Ci sono diversi ambiti di conoscenza: un avvocato può capire poco di buchi neri ma saprà interpretare una sentenza, mentre se io non comprendo una sentenza, sono più preparata per parlare di vaccini, e così via. Questa mi sembra una considerazione importante che ti permette, nell’ambito della comunicazione, di approcciarti in una maniera più rispettosa. Detto questo, sono d’accordo che raccontare meglio il processo pratico della scienza — piuttosto che i risultati, che possono sempre essere oggetto di cambiamento — sia importante ed affascinante. Ma soprattutto quando si parla di metodo scientifico l’obiettivo dovrebbe essere quello di correggere questo errore di comprensione, di convincere il pubblico che la scienza è un processo in divenire, che si nutre di domande e di dubbi, e che la sua bellezza è proprio questa capacità di farsi delle domande e di avanzare gradualmente. Spero che questa pandemia abbia perlomeno questo effetto, piuttosto che quello di diminuire la fiducia nella scienza. E spero che ci serva anche a capire che, anche per quanto riguarda questioni diverse dal coronavirus, se riceviamo informazioni contrastanti rispetto a questo o quell’argomento non è perché la scienza sbaglia, ma perché le evidenze cambiano, e spingono a volte in un senso, a volte un altro. In ogni dato momento sono la migliore guida a nostra disposizione, e non un vangelo immutabile. Difendere un’immagine granitica e immutabile della scienza significherebbe anche suggerire che la scienza non ha bisogno di essere sostenuta e finanziata: se abbiamo già la Verità in tasca, perché fare ricerca?

Per fronteggiare il sovraccarico di informazioni a cui siamo stati esposti in questi mesi, è legittimo pensare che il comunicatore scientifico debba fungere da filtro tra scienza e pubblico, spiegando risultati assodati ma evitando di riportare ogni singolo passo del processo di continuo disaccordo tra gli scienziati che, solo alla fine, conduce a un consenso? In altri termini: esporre il pubblico agli aspetti più “disordinati” della ricerca scientifica non rischia di diminuire la fiducia nella scienza?

GIORGIO SESTILI = A mio parere bisogna fare un discrimine. Un conto è il normale dibattito interno alla comunità scientifica, tramite cui la scienza fa progressi: vengono pubblicati molti studi, alcuni vengono accettati altri rigettati. Il compito di chi fa comunicazione scientifica è quello di mettere ordine. Dobbiamo partire dal presupposto che una comunicazione errata può generare confusione. Faccio un esempio molto pertinente: i famosi studi sul particolato atmosferico tramite cui il virus si sarebbe diffuso. Perché, benché fossero studi senza evidenza scientifica, hanno avuto così tanta risonanza, ricevendo moltissima attenzione dai media nazionali? Probabilmente perché, per i giornali, era una notizia interessante da pubblicare, perché avrebbe fatto scalpore. Noi, come anche altri, abbiamo pubblicato un post spiegando perché queste ricerche non avessero ancora una solida base scientifica. Chi fa comunicazione scientifica è sia un collante che un filtro tra la comunità scientifica e la società, e saper metter ordine nelle informazioni è fondamentale. Detto questo, non direi che questa situazione abbia creato una maggiore sfiducia negli scienziati, anzi: noi proveniamo da un periodo durante il quale la scienza è stata messa molto in discussione (ad esempio nel contesto del dibattito attorno ai vaccini), ma questa pandemia mi sembra che abbia rimesso il ruolo della scienza e dello scienziato al centro della società. Ogni governo oggi ha una task force di scienziati a cui rivolgersi, e nessuna decisione viene presa senza prima consultare il loro parere. Questo non significa che gli scienziati si possano sostituire alla politica: guai a pensare che gli scienziati possano prendere il posto dei politici. Però la politica si può affidare al parere di esperti, per poter avere un quadro chiaro sulla base del quale prendere decisioni. 

ROBERTA VILLA = Aggiungo che è necessario distinguere diversi ruoli che spesso tendiamo ad assimilare: il comunicatore, il giornalista e il divulgatore. Questi sono ruoli diversi con compiti diversi. Oltre a questo, però, per rispondere alla tua domanda bisogna anche considerare chi si ha di fronte, e quale è il target della comunicazione. Io lo vedo bene con i miei follower su Instagram, ad esempio. Seguendomi da tempo hanno compreso che qualunque studio di cui parlo rappresenta sempre un piccolo, e provvisorio, pezzo del puzzle scientifico, e non una verità assodata. Faccio un esempio: la mammografia. Viene spesso presentata come un test assolutamente fondamentale e del tutto affidabile, sebbene a livello scientifico vi siano dei dibattiti: sul ruolo della sovradiagnosi, sull’età a quale sia più opportuno farla, e così via. Al pubblico generalmente si dà un messaggio molto più certo, e a volte anche parzialmente scorretto. Io mi sono interrogata a lungo su questo problema, e per molto tempo ho evitato di parlare dei dubbi che circondano questo tipo di screening, poiché ci sono voluti talmente tanti anni per convincere le persone alla necessità di sottoporvisi che sollevare dubbi rischiava di creare una confusione pericolosa. Quanto più i temi scientifici sono delicati, e hanno un impatto sulla vita delle persone, tanto più è necessaria cautela: il che non significa nascondere le cose, ma riportarle solo in maniera cauta e corretta.

ALEXANDER BIRD = Io credo che il fraintendimento del disaccordo tra scienziati derivi anche dalla trasformazione del metodo scientifico in un mito. Dal voler parlare cioè del metodo scientifico come di un mezzo unico e inequivoco per produrre conoscenza, comune a tutta la scienza e la cui corretta applicazione si traduce sempre e infallibilmente in nuove conoscenze. Se l’immagine della ricerca che uno ha è questa, o è influenzata da questo mito, allora il disaccordo scientifico risulta incomprensibile: come fanno due gli scienziati che stanno applicano entrambi il metodo scientifico in modo appropriato a essere in disaccordo? Dovrebbero necessariamente finire per essere d’accordo, proprio come due cuochi che, seguendo attentamente la stessa ricetta, devono finire con lo sfornare torte simili. Da qui può scatenarsi una reazione a catena di sfiducia – verso gli scienziati, le loro ricerche, il metodo scientifico – che, alla fine, può portare a mettere in dubbio l’affidabilità di tutta la scienza. L’obiettivo di una migliore educazione scientifica — e di un più accorto giornalismo e comunicazione scientifica — dovrebbe essere quello di dipingere un quadro più dettagliato e realistico dei processi di scoperta.  Bisogna eliminare il mito del metodo scientifico, non ne esiste uno  

Questa crisi ha mostrato con particolare urgenza i limiti della comunicazione che ha luogo tra la sfera politica e la sfera scientifica. La politica vuole indicazioni precise per prendere misure da attuare nell’immediato, la scienza fornisce risposte provvisorie e trend statistici. Questo mi sembra dipenda anche da una profonda differenza nella concezione del tempo: lo scienziato costruisce le proprie ipotesi sulla base di secoli di conoscenza pregressa, è consapevole del lento e cauto progresso della ricerca, e guarda al futuro della propria disciplina. Il politico ha un limite temporale preciso (il mandato) che è molto più breve, e quindi i due registri decisionali si vengono a scontrare. Qual è la strategia più efficace per colmare questo gap tra scienza e politica? Bisogna cercare di cambiare l’approccio dei per fare pressione indiretta sulla sfera politica?

 ALEXANDER BIRD =  Abbiamo già citato le nostre difficoltà a ragionare con i concetti di probabilità e rischio. Siamo tutti soggetti a vari tipi di bias cognitivi, tendiamo tutti (anche gli scienziati) a commettere errori di ragionamento probabilistico. E invece, come dici, i politici vorrebbero risposte inequivocabili ed immediate, ma gli scienziati possono spesso fornire solo risposte probabilistiche, e risposte che, in più, cambiano nel tempo, man mano che vengono raccolte nuove prove, come nel caso di questa pandemia. Quando la scienza è incompleta e i politici vogliono risposte immediate il rapporto tra buona scienza e buona politica si lacera. Per ripararlo, pensare che la soluzione sia l’educazione dei soli politici o del solo pubblico è un’illusione. Una considerazione sobria della scienza e dei suoi limiti dovrebbe essere parte permanente del discorso pubblico, accessibile a tutti i partecipanti. Detto questo, se, per ipotesi, come comunicatori della scienza dovessimo scegliere un solo gruppo a cui parlare, penso che bisognerebbe mirare al pubblico, perché qualora l’opinione pubblica fosse allineata con la scienza, i politici sarebbero costretti a seguire la sua volontà.

ROBERTA VILLA = Credo anch’io che sia più importante puntare sulla sensibilizzazione del pubblico, dato che il politico cerca il consenso. Ma è anche importante fornire alla politica quelle competenze scientifiche che gli mancano. Ad esempio: io apprezzo molto l’esistenza, in alcuni paesi, di uffici parlamentari di consulenza scientifica – come il POST (Parliamentary Office of Science & Technology) nel Regno Unito. Si tratta di commissioni di esperti in grado di tradurre la scienza in un linguaggio comprensibile e utile ai politici, che vengono consultate nel momento in cui ci siano decisioni da prendere riguardo a temi scientifici. Raccolgono tutte le evidenze disponibili al momento, filtrando tutti i possibili conflitti di interesse che possono avere gli scienziati, e fornendo quindi alla politica dati e documenti rilevanti. Questi documenti vengono poi anche messi a disposizione del pubblico, per informarsi e per vedere in che modo verranno poi tradotte dai decisori politici – cosa che in Italia è sempre poco chiara.

GIORGIO SESTILI = Quello del rapporto tra scienza e politica è un punto fondamentale: c’è un problema temporale che pertiene alla gestione di grandi fenomeni come le pandemie, i cambiamenti climatici, o i terremoti: eventi ciclici, che siamo sicuri che avverranno, pur non sapendo quando, e per cui dobbiamo essere pronti. La prossima pandemia potrebbe arrivare tra 30 o 40 anni, come il mese prossimo. Come hai detto bene tu, la politica è abituata a ragionare di anno in anno, o al massimo in vista delle prossime elezioni e questo è un problema enorme, perché significa che saremo sempre impreparati a gestire questi fenomeni, come abbiamo visto nel caso di COVID-19. Come si risolve questo problema? Io credo molto nelle spinte dal basso, penso che dalla società possano venire importanti spinte di cambiamento, e che quindi il ruolo degli scienziati e dei comunicatori scientifici sia quello di creare una cultura scientifica e una consapevolezza dei problemi e dei rischi, così che da questa consapevolezza potranno nascere delle spinte a far meglio di come si sta facendo ora. Poi certo, esistono anche i culturale dall’alto, top-down, che va a investire tutta la società. Sarebbe necessario cominciare a delineare piani strategici a medio-lungo periodo, aggiornare i piani pandemici, attuare delle politiche a lungo termine relative ai problemi climatici, e via dicendo. Queste sono tutte misure che non servirebbero solo a salvarci in un momento di crisi, ma che produrrebbero cambiamenti culturali enormi.

Si sente spesso parlare della necessità di “non tornare a come eravamo prima”, ovvero di cercare di trasformare questa crisi in un’opportunità di cambiamento, per migliorare la nostra condizione (in campo sociale, economico, ambientale…) ed essere quindi più pronti ad affrontare un’inevitabile futura crisi — da una nuova pandemia alla spada di Damocle dei cambiamenti climatici. Seguendo questo sentimento, quali sono le ripercussioni più positive che potrebbero verificarsi nel campo della produzione e della comunicazione della scienza? Esistono nuove tensioni all’interno dell’opinione pubblica che sarà possibile sfruttare per promuovere un nuovo tipo di coinvolgimento?

ALEXANDER BIRD = Sarebbe bello se questa crisi potesse avere un effetto positivo di questo tipo. Vale la pena tentare. Un pessimista potrebbe dirti che, per molti, il consumo di informazioni viene comunque fortemente influenzato dai propri pregiudizi. Ma voglio pensare che ora ci sarà maggiore desiderio di conoscere alcune delle cose di cui abbiamo discusso: i processi della scienza, la natura e l’uso dei modelli scientifici e il concetto di rischio. Comprendere queste idee è essenziale per poter affrontare molte sfide che richiedono una risposta scientifica: citi giustamente la scienza del cambiamento climatico come esempio chiave. Sinceramente non so come sarà possibile sfruttare al meglio un tale desiderio: sospetto che voi giornalisti siate in una posizione migliore per rispondere a questa domanda!

GIORGIO SESTILI = C’è un nuovo interesse nei confronti della scienza, questo è indubbio. Si trova a vari livelli, e potrebbe produrre — per esempio — un incremento del numero dei ragazzi che, nei prossimi anni, si iscriveranno a facoltà scientifiche: potrebbe esserci un maggior interesse verso le facoltà di biologia, o di matematica e fisica che studiano modelli epidemiologici, e così via. Per quanto riguarda direttamente la comunicazione io penso sempre che ci siano tre attori fondamentali: scienziati, società e, nel mezzo, i comunicatori scientifici. Laddove ci fosse un aumento dell’interesse nella scienza, il ruolo dei comunicatori sarà fondamentale. Va anche detto che “comunicatori scientifici” è un termine piuttosto ampio, perché può indicare giornalisti, addetti all’ufficio stampa di istituti di ricerca, chi fa divulgazione o anche chi produce video e animazioni – sono tantissime le professioni in questo campo. Una tendenza positiva potrebbe essere un aumento di opportunità di fare comunicazione scientifica, nelle redazioni dei giornali, in nuovi media e nuove riviste, nell’ambito di nuovi progetti finanziati a livello europeo. Abbiamo anche visto come, nel corso di questa pandemia, i governi hanno avuto difficoltà a comunicare, e quindi ci potrebbero essere spinte per la creazione di organi istituzionali che siano in grado di comunicare meglio in queste situazioni di crisi. Io me lo auguro.

ROBERTA VILLA = Viene da pensare che, in questi mesi, le persone si siano rese ben conto dell’impatto che la scienza può avere sulle loro vite, e quindi da questo punto di vista possiamo auspicare una nuova sensibilità e attenzione per la scienza, e un maggiore interesse a far pressioni sulla politica. Tu hai giustamente citato la crisi climatica: sono decenni che la comunità scientifica cerca di convincere la politica e il pubblico dell’importanza di questi problemi. Qualche scettico oggi potrebbe magari ricredersi, e pensare che se gli scienziati avevano ragione riguardo al rischio di una pandemia, forse hanno anche ragione riguardo all’importanza dei cambiamenti climatici. Io spero che ci sia anche una nuova consapevolezza dell’importanza del ruolo dei giornalisti scientifici e dei comunicatori, che ci si renda conto di quanto è importante la scienza ma anche di quanto sia fondamentale comunicarla bene. E questo dovrebbe andare al di là della facile narrazione di fake news contro verità accertate, bot russi contro esperti affidabili. Abbiamo visto come informazioni scorrette siano arrivate da ogni parte, incluse fonti in teoria “affidabili” come agenzie di stampa, grossi quotidiani nazionali, o fonti istituzionali. scientifiche, si produca anche una consapevolezza di quanto sia facile essere ingannati: le “notizie” virali che rimbalzano nei gruppi WhatsApp sono spesso inaffidabili, ma anche i pareri dei singoli esperti possono essere errati. Quello che conta sono i dati accertati e condivisi. Voglio aggiungere che lo spauracchio delle fake news e il mito del popolo bue che crede a tutto rischiano di portare all’eccesso opposto, a una limitazione delle libertà individuali. Abbiamo visto YouTube bloccare arbitrariamente i video che ritiene stiano diffondendo fake news — a volte censurando contenuti del tutto validi — o come Amazon abbia rimosso dal proprio catalogo un libro sulla COVID-19 di un giovane divulgatore come Gianluca Pistore (che include un’introduzione di Walter Ricciardi) perché ha deciso di vendere (su un sito che di solito raccoglie anche ebook amatoriali e autoprodotti) solo ebook sul coronavirus che vengono da “fonti ufficiali”. E la censura è ancora più grave se è di stato. Siamo fortunati a vivere in una democrazia, ma il modello di censura cinese (che abbiamo visto avere effetti tragici all’inizio di questa epidemia) è sempre un rischio da tener presente. Già oggi, ad esempio, i dipendenti del Servzio Sanitario Nazionale in Lombardia non sono autorizzati a rilasciare interviste ai giornalisti, e quindi non possono lamentarsi delle condizioni in cui svolgono il loro lavoro. Sebbene queste siano misure eccezionali mirate a controllare la situazione, dobbiamo comunque essere molto vigili e prudenti.

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