Uno dei più sottolineati effetti collegati alla
pandemia è stata la diffusa attenzione verso il mondo della scienza, ed in
particolare verso quelle sue specializzazioni più inerenti alla epidemia. E,
conseguentemente, mai come in questo periodo media, Rete, social hanno dedicato
ampio spazio a servizi, notizie, dati e dibattiti sul tema e più in generale
sul mondo della scienza. Una valanga di momenti divulgativi strettamente
connessa ad una richiesta ed un attenzione del tutto comprensibili e per molti versi
confortanti, che si spera possano sedimentare in molti un interesse duraturo.
L’esperienza concreta avvenuta in questi mesi ha evidenziato però che questo
incontro tra “popolo” e “scienza” ha colto ambedue in qualche modo impreparati.
Per il “popolo” si è trattato ovviamente di recuperare almeno in parte un
notevole deficit di conoscenza e informazione, la “scienza” invece è stata
chiamata a calibrare su questa platea amplissima i suoi consolidati canali di
comunicazione di norma specialistici e selettivi anche quando divulgativi. Al
di là della effettiva capacità di soddisfare le diffuse esigenze di
approfondimento la stessa speranza che questa eccezionalità si confermi in una
attenzione costante è quindi affidata a quella di ottimizzare tale comunicazione
garantendo i due requisiti fondamentali: chiarezza, comprensione e validità
scientifica. Il seguente articolo riflette sull’esperienza concreta di questi
mesi ed offre interessanti indicazioni in questo senso
Comunicare la scienza in tempo di crisi
Come è stata affrontata l’emergenza COVID-19 dal
mondo della divulgazione? Un dialogo a più voci su nuovi ostacoli e antiche
incomprensioni.
Articolo di Fabio Gironi
(filosofo, traduttore,
giornalista) – sito online Il Tascabile
Se c’è
una lezione, semplice ma cruciale, che possiamo trarre dalla pandemia che ha
colpito il pianeta negli ultimi tre mesi, è che il mondo della ricerca
scientifica è un sistema incredibilmente complesso, composto da centinaia di
migliaia di persone, centri di ricerca, laboratori, fondi, ipotesi,
esperimenti, conferme e smentite. Cercare spiegazioni semplici di fenomeni
complessi è nella natura umana, ma non sempre è possibile, neanche restringendo
il campo di analisi a una sola sfera del sapere, o a una singola disciplina
scientifica. Lo sa bene chi, per mestiere, cerca di rendere accessibile il
mondo della ricerca scientifica al pubblico: divulgatori, comunicatori e
giornalisti scientifici. Se già prima di quest’emergenza la comunicazione della
scienza richiedeva la costante e niente affatto banale ricerca di un equilibrio
tra rigore e accessibilità, nel pieno della crisi coronavirus la mole di
pubblicazioni scientifiche da assimilare e presentare al pubblico — nuovi
studi, dati, preprint, trend statistici, e così via — è aumentata, per
una volta è il caso di dirlo, esponenzialmente. Grandi e piccole testate
giornalistiche che, normalmente, avrebbero pubblicato poche notizie
scientifiche al mese hanno iniziato a parlare quasi unicamente di concetti che,
di solito, sono relegati alla stampa di settore: virus a RNA, curve
logaritmiche e esponenziali, il parametro R0, droplets, mascherine N95 —
tutti termini di cui, nostro malgrado, siamo diventati improvvisamente esperti.
Come è stata affrontata la crisi da parte del mondo della comunicazione
scientifica? Quali problemi sono emersi, e quali sono i più importanti da
affrontare, sia di forma che di contenuto? Ho voluto parlarne con tre persone
che, in maniera diversa, durante i mesi dell’emergenza sanitaria hanno provato
a fare ordine, a riportare al pubblico in modo chiaro un quadro epidemiologico
complesso e, soprattutto, in costante evoluzione. Roberta Villa è una giornalista scientifica, scrive anche per il
Tascabile: specializzata in medicina e biologia, da anni si distingue per
una strategia comunicativa accessibile ma sempre responsabile e cauta, e per il
suo uso dei social media, delle storie video si Istangram, per raggiungere
direttamente il pubblico. Giorgio
Sestili è un fisico, coordinatore e fondatore di “Coronavirus: dati e
analisi scientifiche” , un gruppo di
analisi dei dati emerso prima su Facebook e poi su altri canali social, che ha
fornito un eccezionale servizio di interpretazione e “sistematizzazione
formale” dei tantissimi dati e grafici che hanno provato a tracciare
l’evoluzione della pandemia in Italia e nel mondo. Alexander Bird è professore di filosofia della medicina al King’s
College di Londra, e ha prodotto una serie di testi e video divulgativi mirati
a chiarire gli aspetti più formali dell’analisi dei dati e della costruzione di
modelli epidemiologici, il concetto di immunità di gregge e la risposta alla
pandemia del governo britannico.
Comunicare la scienza, in condizioni normali, non è
un compito facile, e la situazione in cui ci troviamo ha aggiunto difficoltà:
ad esempio non è solo il contenuto o i meccanismi interni della disciplina
scientifica che va comunicato, ma c’è una situazione di evoluzione costante, e
un flusso continuo di dati che richiede un’analisi “formale” (epidemiologica,
statistica, e probabilistica) che forse è ancora più difficile da interpretare
senza una preparazione matematica. Ci sono state moltissime iniziative da parte
di scienziati e comunicatori per cercare di rendere la situazione più chiara,
riassumendo le informazioni più attendibili. Quale è stato l’ostacolo più
grande in questa situazione di mutamento continuo delle informazioni
disponibili?
GIORGIO
SESTILI = La difficoltà di comunicazione più ovvia,
ma più importante, durante la pandemia, è stata avere a che fare con un virus
di cui quattro/cinque mesi fa non conoscevamo nemmeno l’esistenza. Gli
scienziati in tutto il mondo si sono messi rapidamente a fare ricerca, cercando
di capirne il funzionamento: cosa che però ha prodotto uno spaventoso
sovraccarico di informazioni. In pochissimi mesi, sono stati prodotti migliaia
di paper e preprint scientifici. Questa marea di informazioni è composta
da una piccola parte di ricerche eccellenti, una buona parte di pubblicazioni
che generano solo rumore di fondo, e una grandissima parte che non supera
neanche una fase di review. È una rincorsa che ha reso il nostro lavoro
ancora più complicato, dato che è necessario scegliere attentamente le fonti e
capire cosa, di ciò che viene pubblicato dalla comunità scientifica, meriti un
ragionamento pubblico. Il secondo
ostacolo è quello relativo ai dati: ogni giorno ci troviamo di fronte a dati
che vanno prima analizzati e poi comunicati, e ci siamo resi conto, giorno dopo
giorno, di aver a che fare con dati spesso completamente falsati: numeri che si
discostano molto dalla reale fotografia della situazione (questo è vero in
Italia ma anche in tanti altri paesi, tutti quelli che sono stati presi di
sorpresa dal virus e si sono visti costretti a rincorrere una situazione in
evoluzione, senza poterla affrontare fin dal suo inizio). Considera ad esempio
il fatto che ora sappiamo che il virus in Italia ha circolato per almeno un
mese senza che nessuno se ne accorgesse (tra gennaio e febbraio), e che il
numero dei casi conteggiati è ampiamente sottostimato, cosa che sembra
dimostrata da quel 14% di letalità – una percentuale che chiaramente non è
attendibile. Lo abbiamo visto anche più recentemente: il Ministero della salute
ha emanato un protocollo in 21 indicatori per il monitoraggio della diffusione,
ma le regioni non sembrano essere in grado di comunicare tutti i dati
richiesti.
ROBERTA
VILLA = In questa situazione c’è un concetto
chiave da considerare: quello di responsabilità. In “tempo di pace” una
comunicazione della scienza scorretta può avere poco impatto, o averlo pian
piano nel tempo, lasciando così la possibilità di essere corretta in seguito.
Ma, in una situazione di emergenza come questa, una comunicazione scorretta
porta con sé una responsabilità sociale enorme, che si può contare in termini
di vite umane. Ritengo che un’accurata presentazione dell’incertezza e la
responsabilità di una comunicazione corretta sono stati i due elementi più
delicati di questa crisi – non solo per quello che riguarda potenziali notizie
false, ma anche riguardo a notizie vere. Il comunicatore ha anche il compito di
gestire l’emotività della popolazione, e a volte si trova a dover gestire
situazioni difficili. Ad esempio, quando ho visto per la prima volta il documento
della SIAARTI — che specificava le linee guida per i rianimatori, e i criteri
da seguire in caso di necessità — pur sapendo che queste cose succedono
abitualmente, nondimeno ho deciso di aspettare qualche ora a parlarne, e ho
meditato un po’ sul da farsi. Poi la notizia è uscita con titoloni
acchiappa-click sui giornali, e a quel punto ho cercato di spiegarne il significato
a chi mi seguiva. Tuttavia ho esitato, perché mi sono resa conto che riportare
quella notizia poteva dar luogo a fraintendimenti (come infatti è successo) ma
soprattutto poteva generare disperazione, in casi estremi spingendo le persone
a non rivolgersi agli ospedali per paura di non ricevere assistenza.
ALEXANDER
BIRD = In generale esistono diverse categorie di
problemi. Come hai accennato, ci sono problemi relativi a ciò che il pubblico è
in grado di comprendere, considerato il tipo di educazione scientifica che
abbiamo. L’ostacolo più ovvio forse è il fatto che molti, comprese persone
istruite, “spengono” la propria attenzione quando vedono un numero o
un’equazione. Usare diagrammi e altre immagini per trasmettere un’idea può
essere di aiuto, ma ci sono limiti a ciò che si può ottenere in questo modo. È
un peccato, soprattutto perché questa reazione negativa anche al più semplice
formalismo matematico è un riflesso mentale — il solo vedere qualcosa del
genere porterà molte persone a dirsi, inconsciamente: “questo non lo capirò,
quindi non ci provo neanche”. Un’altra categoria di ostacolo riguarda i
comunicatori scientifici. Devono fare delle scelte, in particolare scegliere
tra accuratezza e intelligibilità. Immagina di voler trasmettere un’idea scientifica
complessa: un modo per farlo è quello efficace ma rozzo, un metodo inaccurato,
che lascia fuori molti dettagli, e che per certi versi può anche essere
fuorviante. Un altro modo è molto più fedele ai fatti scientifici, ma non sarà
comprensibile a buona parte del pubblico. Quale scegliere? Si può essere
tentati di provare il secondo approccio: dopotutto, ci interessano la verità e
l’accuratezza scientifica. Inoltre, il comunicatore scientifico non vuole
apparire ingenuo, o essere accusato di semplificare eccessivamente i temi che
affronta — in particolare vuoi essere preso sul serio dagli stessi scienziati.
Tuttavia, se vogliamo comunicare, scegliere il primo metodo potrebbe spesso
essere la scelta migliore.
Quello dell’incertezza sembra essere un concetto
chiave, spesso non molto chiaro al pubblico. Allo stesso modo, l’idea di
“disaccordo” tra gli scienziati viene spesso fraintesa come una cronica
mancanza di consenso che rende qualsiasi opinione inattendibile.
ROBERTA
VILLA = Sì, la criticità maggiore è l’incertezza, soprattutto in un mondo — come
quello della cultura italiana — in cui negli ultimi anni è circolata un’idea
della scienza come qualcosa di granitico, capace di asserire verità con la
stessa certezza che 2+2=4. Questo è un messaggio controproducente, che offre
una descrizione erronea di una disciplina che si nutre di dubbi e di domande. È
stato difficile per chi comunica la scienza, ma probabilmente anche per il
pubblico, affrontare una situazione dove domina l’incertezza e, come si diceva,
in continuo divenire: queste circostanze hanno presentato una visione della
scienza che è sicuramente più realistica, ma in contrasto con quella che è
stata diffusa negli anni passati.
GIORGIO SESTILI = Nel lavoro che abbiamo fatto con il nostro gruppo, abbiamo sempre cercato
di inserire il dato all’interno di una tendenza: da dove veniamo e a che punto
siamo della curva epidemica, per esempio, cosa ci aspettiamo per i prossimi
giorni? Facendo il paragone con altri modelli e altri paesi abbiamo cercato di
presentare degli andamenti, sempre tenendo ben presenti i dubbi e le
incertezze. Questo è molto importante: chi fa comunicazione scientifica non
deve vendere certezze. Dove non ci sono certezze è molto importante che questo
stato di incertezza sia comunicato, ammettendo apertamente: “questo la comunità
scientifica ancora non lo sa”. Noi lo abbiamo sempre fatto e mi sembra che il
nostro pubblico lo abbia molto apprezzato.
ALEXANDER BIRD = Sì, spesso il pubblico ha difficoltà a metabolizzare il disaccordo tra
scienziati, e questo problema può essere aggravato dai media, quando danno
l’impressione che ci sia ancora più disaccordo di quanto non ne esista
realmente. Ad esempio, ricordo che quando Andrew Wakefield pubblicò il suo
famigerato articolo che ipotizzava un legame tra l’autismo e il vaccino
trivalente contro morbillo parotite e rosolia, in radio gli fu dato lo stesso
tempo che fu destinato ai medici che presentavano l’opinione condivisa (allora
e oggi) che tale legame non esistesse affatto. Di conseguenza, agli ascoltatori
sembrò, erroneamente, che ci fosse una vera incertezza scientifica — questo
“equilibrio” non rifletteva la divisione dell’opinione tra gli esperti medici.
La stessa cosa succede oggi con i negazionisti climatici. Quindi, nella comunicazione
scientifica, è importante non sopravvalutare il disaccordo e sottolineare
l’alto grado di accordo, quando esiste. Quando discutiamo delle previsioni
degli scienziati riguardo al clima, è importante che i comunicatori scientifici
spieghino chiaramente che, benché vari scienziati usino modelli che potrebbero
non essere d’accordo su alcuni dettagli delle loro previsioni, tutti concordano
sull’esistenza di cambiamenti climatici antropogenici, e che questo rappresenta
per tutti un problema serio. La domanda è a questo punto: come mai molte
persone fraintendono il disaccordo scientifico e l’incertezza della ricerca
scientifica? Personalmente attribuisco questo problema all’educazione
scientifica a scuola, che si concentra sui prodotti della scoperta scientifica
piuttosto che sui processi della scoperta scientifica. Ci viene
insegnato il contenuto della scienza, e quel contenuto è limitato ai fatti
accertati. Veniamo esaminati sulla nostra conoscenza di tali fatti e sulla
nostra capacità di manipolarli, e ragionare con essi. Da un certo punto
di vista questo è giusto, dal momento che ci sono fatti scientifici consolidati
che è necessario capire. Ma è un quadro incompleto di cosa sia la scienza.
Mi sembra che questa situazione abbia anche
evidenziato problemi riguardo al modo in cui i media mainstream riportano le
notizie, spesso in modo poco accurato o sensazionalistico.
GIORGIO
SESTILI = A me piacerebbe che tutti i media di
informazione istituissero al proprio interno una redazione scientifica, dal
momento che sono veramente pochi quelli che hanno giornalisti scientifici a
tempo pieno. Benché ci siano anche stati casi di ottima informazione (e vorrei
citare il canale Ansa “Scienza e Tecnica” come esempio virtuoso), mi sono reso
conto, collaborando con alcuni importanti quotidiani sia cartacei che online,
di come queste testate si siano ritrovate a parlare di scienza tutti i giorni
senza avere le competenze, all’interno delle loro redazioni, per farlo. Questo
ovviamente ha generato problemi, dato che si sono dovuti rapidamente adattare a
questa situazione di emergenza. Ma considerato che dovremo fronteggiare anche
in futuro dei temi importanti che ci porteremo avanti tutta la vita — come
questo virus — è necessario affrontare questo problema di competenza
giornalistica in modo più sistematico.
ROBERTA
VILLA = La situazione in cui ci siamo trovati,
durante la quale si è reso necessario coprire la notizia 24 ore al giorno su
tutte le televisioni e giornali, ha messo in luce il fatto che nella maggior
parte delle redazioni mancano giornalisti scientifici, mentre di solito ci sono
esperti di economia o di sport. I pochi che, come me, sono stati coinvolti,
sono stati intervistati in qualità di “esperti”, ma solo raramente hanno potuto
svolgere il loro ruolo, quello di gestire la comunicazione, mediandone la
complessità e rivolgendo in prima persona domande appropriate a medici e
scienziati. Aggiungo un aneddoto piuttosto curioso: io ho dovuto spesso insistere
per essere presentata, appunto, come “giornalista scientifica”, perché nel
mondo della stampa italiana la figura di “giornalista scientifico” è
misconosciuta: al massimo vengo definita giornalista e divulgatrice
scientifica, ma il termine “giornalista scientifico” — che indica una
competenza specifica, come nel caso di un “giornalista sportivo” o un
“giornalista economico” — non viene considerato.
Certe distinzioni e idee importanti — ad esempio la
differenza tra il concetto di prova scientifica e quello di trend statistico;
epidemia e pandemia, o l’ormai famoso indice di riproduzione R0 — vanno
spiegati con chiarezza a un pubblico che potrebbe non sempre esserne al
corrente. Personalmente mi sembra che ci sia una grande difficoltà a
comprendere quello che succede nella “scatola nera” della scienza, nel momento
di attività pratica che va dalla scoperta di un problema alla sua risoluzione
(ad esempio, dall’isolamento di un nuovo virus allo sviluppo di un vaccino).
ALEXANDER BIRD = Sì, penso che tu abbia ragione. L’attuale crisi ha permesso alle persone di
vedere ciò che gli scienziati fanno in tempo reale, e hanno anche potuto vedere
che la produzione scientifica può essere molto disordinata. Spero che si
sviluppi una consapevolezza del fatto che è del tutto normale, e che la
confusione che caratterizza il processo non compromette l’affidabilità del
prodotto. Ma una cosa più specifica che spero che il pubblico comprenda meglio
è il fatto che gli scienziati lavorano molto spesso con i modelli. I modelli
possono essere strumenti molto potenti. Tuttavia hanno dei limiti: in genere
comportano una sorta di semplificazione, che in alcune circostanze potrebbe
essere eccessiva, e controproducente. Oppure il modello potrebbe essere
appropriato, ma i dati necessari per comprendere e prevedere un particolare
fenomeno potrebbero essere inaffidabili. La probabilità è un altro aspetto
generale del pensiero scientifico che è estremamente importante, e che dovrebbe
essere compreso meglio. La ricerca psicologica ci ha dimostrato che noi tutti
facciamo fatica a ragionare con le probabilità. Per farlo bene, è necessario
utilizzare metodi formali. Ma, come abbiamo detto, ci sono molte resistenze a
qualsiasi approccio formale o matematico.
GIORGIO
SESTILI = Bisogna anche dire che dipende dal livello
di interesse e della cultura scientifica del pubblico a cui ci riferiamo. Chi
segue giornalmente la nostra pagina Facebook ha avuto sempre modo di ricevere
informazioni dettagliate e, ad esempio, abbiamo sempre detto che l’ipotesi di
12/18 mesi per sviluppare un vaccino è molto ottimistica, perché in passato non
è mai stato raggiunto un vaccino in così poco tempo (se non il vaccino
influenzale, ma quella era una situazione ben diversa, perché era un virus ben
conosciuto). D’altro canto c’è anche un’enorme fetta di pubblico che non ha una
grande cultura scientifica e rischia di prendere informazioni che riceve a
pezzetti, senza un contesto appropriato: questo è un problema che si risolve
solo incentivando l’educazione scientifica.
ROBERTA
VILLA = Io vado forse un po’ controcorrente
riguardo all’idea che il pubblico sia scientificamente poco colto o —
soprattutto — poco interessato. Credo poco a questa emergenza di analfabetismo
funzionale di cui si sente spesso parlare: non sono d’accordo perché i dati ci
dicono diversamente, e perché è evidente che oggi ci sia una cultura maggiore
di 40 o 50 anni fa — quando c’era un vero analfabetismo, un ben minore livello
di scolarizzazione, e una scarsa comprensione delle notizie. Piuttosto credo
che oggi ci sia una confusione causata da un eccesso di informazioni: le
persone, proprio perché sono più scolarizzate, tendono a volersi fare un’idea
riguardo a tutto, hanno a disposizione internet che gli permette di arrivare a
tutte le fonti di conoscenza, e quindi possono facilmente rimanere confuse,
accedendo a notizie per le quali non hanno un background sufficiente, per
interpretarle e contestualizzarle nel migliore dei modi. Bisogna anche
aggiungere che, quando diciamo che le persone non hanno competenza, ci
dimentichiamo che la scienza è un mondo enorme, di grande complessità e che ha
un suo linguaggio molto tecnico. Si pensi allo “spread” — termine che abbiamo
iniziato a capire solo dopo la crisi del 2008 — o al “parametro R0” che abbiamo
imparato in questi mesi. Questo è per dire che il rischio che si è sviluppato
negli ultimi anni è quello di pensare che l’unico ambito che possa essere preso
come metro di misura per le capacità cognitive del pubblico sia quello
scientifico. Ci sono diversi ambiti di conoscenza: un avvocato può capire poco
di buchi neri ma saprà interpretare una sentenza, mentre se io non comprendo
una sentenza, sono più preparata per parlare di vaccini, e così via. Questa mi
sembra una considerazione importante che ti permette, nell’ambito della
comunicazione, di approcciarti in una maniera più rispettosa. Detto
questo, sono d’accordo che raccontare meglio il processo pratico della scienza
— piuttosto che i risultati, che possono sempre essere oggetto di cambiamento —
sia importante ed affascinante. Ma soprattutto quando si parla di metodo
scientifico l’obiettivo dovrebbe essere quello di correggere questo errore di
comprensione, di convincere il pubblico che la scienza è un processo in
divenire, che si nutre di domande e di dubbi, e che la sua bellezza è proprio
questa capacità di farsi delle domande e di avanzare gradualmente. Spero che
questa pandemia abbia perlomeno questo effetto, piuttosto che quello di
diminuire la fiducia nella scienza. E spero che ci serva anche a capire che,
anche per quanto riguarda questioni diverse dal coronavirus, se riceviamo
informazioni contrastanti rispetto a questo o quell’argomento non è perché la
scienza sbaglia, ma perché le evidenze cambiano, e spingono a volte in un
senso, a volte un altro. In ogni dato momento sono la migliore guida a nostra
disposizione, e non un vangelo immutabile. Difendere un’immagine granitica e
immutabile della scienza significherebbe anche suggerire che la scienza non ha
bisogno di essere sostenuta e finanziata: se abbiamo già la Verità in tasca,
perché fare ricerca?
Per fronteggiare il sovraccarico di
informazioni a cui siamo stati esposti in questi mesi, è legittimo pensare che
il comunicatore scientifico debba fungere da filtro tra scienza e pubblico, spiegando
risultati assodati ma evitando di riportare ogni singolo passo del processo di
continuo disaccordo tra gli scienziati che, solo alla fine, conduce a un
consenso? In altri termini: esporre il pubblico agli aspetti più “disordinati”
della ricerca scientifica non rischia di diminuire la fiducia nella scienza?
GIORGIO
SESTILI = A mio parere bisogna fare un discrimine.
Un conto è il normale dibattito interno alla comunità scientifica, tramite cui
la scienza fa progressi: vengono pubblicati molti studi, alcuni vengono
accettati altri rigettati. Il compito di chi fa comunicazione scientifica è
quello di mettere ordine. Dobbiamo partire dal presupposto che una
comunicazione errata può generare confusione. Faccio un esempio molto
pertinente: i famosi studi sul particolato atmosferico tramite cui il virus si
sarebbe diffuso. Perché, benché fossero studi senza evidenza scientifica, hanno
avuto così tanta risonanza, ricevendo moltissima attenzione dai media
nazionali? Probabilmente perché, per i giornali, era una notizia interessante
da pubblicare, perché avrebbe fatto scalpore. Noi, come anche altri, abbiamo
pubblicato un post spiegando perché queste ricerche non avessero ancora una
solida base scientifica. Chi fa comunicazione scientifica è sia un collante che
un filtro tra la comunità scientifica e la società, e saper metter ordine nelle
informazioni è fondamentale. Detto questo, non direi che questa situazione
abbia creato una maggiore sfiducia negli scienziati, anzi: noi proveniamo da un
periodo durante il quale la scienza è stata messa molto in discussione (ad
esempio nel contesto del dibattito attorno ai vaccini), ma questa pandemia mi
sembra che abbia rimesso il ruolo della scienza e dello scienziato al centro
della società. Ogni governo oggi ha una task force di scienziati a cui
rivolgersi, e nessuna decisione viene presa senza prima consultare il loro
parere. Questo non significa che gli scienziati si possano sostituire alla
politica: guai a pensare che gli scienziati possano prendere il posto dei
politici. Però la politica si può affidare al parere di esperti, per poter
avere un quadro chiaro sulla base del quale prendere decisioni.
ROBERTA VILLA = Aggiungo che è necessario distinguere diversi ruoli che spesso tendiamo ad
assimilare: il comunicatore, il giornalista e il divulgatore. Questi sono ruoli
diversi con compiti diversi. Oltre a questo, però, per rispondere alla tua
domanda bisogna anche considerare chi si ha di fronte, e quale è il target della
comunicazione. Io lo vedo bene con i miei follower su Instagram, ad
esempio. Seguendomi da tempo hanno compreso che qualunque studio di cui parlo
rappresenta sempre un piccolo, e provvisorio, pezzo del puzzle scientifico, e
non una verità assodata. Faccio un esempio: la mammografia. Viene spesso
presentata come un test assolutamente fondamentale e del tutto affidabile,
sebbene a livello scientifico vi siano dei dibattiti: sul ruolo della
sovradiagnosi, sull’età a quale sia più opportuno farla, e così via. Al
pubblico generalmente si dà un messaggio molto più certo, e a volte anche
parzialmente scorretto. Io mi sono interrogata a lungo su questo problema, e
per molto tempo ho evitato di parlare dei dubbi che circondano questo tipo di
screening, poiché ci sono voluti talmente tanti anni per convincere le persone
alla necessità di sottoporvisi che sollevare dubbi rischiava di creare una
confusione pericolosa. Quanto più i temi scientifici sono delicati, e hanno un
impatto sulla vita delle persone, tanto più è necessaria cautela: il che non
significa nascondere le cose, ma riportarle solo in maniera cauta e corretta.
ALEXANDER BIRD = Io credo che il fraintendimento del disaccordo tra scienziati derivi anche
dalla trasformazione del metodo scientifico in un mito. Dal voler parlare cioè
del metodo scientifico come di un mezzo unico e inequivoco per produrre
conoscenza, comune a tutta la scienza e la cui corretta applicazione si traduce
sempre e infallibilmente in nuove conoscenze. Se l’immagine della ricerca che
uno ha è questa, o è influenzata da questo mito, allora il disaccordo
scientifico risulta incomprensibile: come fanno due gli scienziati che stanno
applicano entrambi il metodo scientifico in modo appropriato a essere in
disaccordo? Dovrebbero necessariamente finire per essere d’accordo, proprio
come due cuochi che, seguendo attentamente la stessa ricetta, devono finire con
lo sfornare torte simili. Da qui può scatenarsi una reazione a catena di
sfiducia – verso gli scienziati, le loro ricerche, il metodo scientifico – che,
alla fine, può portare a mettere in dubbio l’affidabilità di tutta la scienza. L’obiettivo
di una migliore educazione scientifica — e di un più accorto giornalismo e
comunicazione scientifica — dovrebbe essere quello di dipingere un quadro più
dettagliato e realistico dei processi di scoperta. Bisogna eliminare il
mito del metodo scientifico, non ne esiste uno
Questa crisi ha mostrato con particolare urgenza i
limiti della comunicazione che ha luogo tra la sfera politica e la sfera
scientifica. La politica vuole indicazioni precise per prendere misure da
attuare nell’immediato, la scienza fornisce risposte provvisorie e trend
statistici. Questo mi sembra dipenda anche da una profonda differenza nella
concezione del tempo: lo scienziato costruisce le proprie ipotesi sulla base di
secoli di conoscenza pregressa, è consapevole del lento e cauto progresso della
ricerca, e guarda al futuro della propria disciplina. Il politico ha un limite
temporale preciso (il mandato) che è molto più breve, e quindi i due registri
decisionali si vengono a scontrare. Qual è la strategia più efficace per
colmare questo gap tra scienza e politica? Bisogna cercare di cambiare
l’approccio dei per fare pressione indiretta sulla sfera politica?
ALEXANDER BIRD = Abbiamo
già citato le nostre difficoltà a ragionare con i concetti di probabilità e
rischio. Siamo tutti soggetti a vari tipi di bias cognitivi, tendiamo
tutti (anche gli scienziati) a commettere errori di ragionamento
probabilistico. E invece, come dici, i politici vorrebbero risposte
inequivocabili ed immediate, ma gli scienziati possono spesso fornire solo
risposte probabilistiche, e risposte che, in più, cambiano nel tempo, man mano
che vengono raccolte nuove prove, come nel caso di questa pandemia. Quando la
scienza è incompleta e i politici vogliono risposte immediate il rapporto tra
buona scienza e buona politica si lacera. Per ripararlo, pensare che la
soluzione sia l’educazione dei soli politici o del solo pubblico è
un’illusione. Una considerazione sobria della scienza e dei suoi limiti
dovrebbe essere parte permanente del discorso pubblico, accessibile a tutti i
partecipanti. Detto questo, se, per ipotesi, come comunicatori della scienza
dovessimo scegliere un solo gruppo a cui parlare, penso che bisognerebbe mirare
al pubblico, perché qualora l’opinione pubblica fosse allineata con la scienza,
i politici sarebbero costretti a seguire la sua volontà.
ROBERTA VILLA = Credo anch’io che sia più importante puntare sulla sensibilizzazione del
pubblico, dato che il politico cerca il consenso. Ma è anche importante fornire
alla politica quelle competenze scientifiche che gli mancano. Ad esempio: io
apprezzo molto l’esistenza, in alcuni paesi, di uffici parlamentari di
consulenza scientifica – come il POST (Parliamentary Office of Science &
Technology) nel Regno Unito. Si tratta di commissioni di esperti in grado
di tradurre la scienza in un linguaggio comprensibile e utile ai politici, che
vengono consultate nel momento in cui ci siano decisioni da prendere riguardo a
temi scientifici. Raccolgono tutte le evidenze disponibili al momento,
filtrando tutti i possibili conflitti di interesse che possono avere gli
scienziati, e fornendo quindi alla politica dati e documenti rilevanti. Questi
documenti vengono poi anche messi a disposizione del pubblico, per informarsi e
per vedere in che modo verranno poi tradotte dai decisori politici – cosa che
in Italia è sempre poco chiara.
GIORGIO SESTILI = Quello del rapporto tra scienza e politica è un punto fondamentale: c’è un
problema temporale che pertiene alla gestione di grandi fenomeni come le
pandemie, i cambiamenti climatici, o i terremoti: eventi ciclici, che siamo
sicuri che avverranno, pur non sapendo quando, e per cui dobbiamo essere
pronti. La prossima pandemia potrebbe arrivare tra 30 o 40 anni, come il mese
prossimo. Come hai detto bene tu, la politica è abituata a ragionare di anno in
anno, o al massimo in vista delle prossime elezioni e questo è un problema
enorme, perché significa che saremo sempre impreparati a gestire questi
fenomeni, come abbiamo visto nel caso di COVID-19. Come si risolve questo
problema? Io credo molto nelle spinte dal basso, penso che dalla società
possano venire importanti spinte di cambiamento, e che quindi il ruolo degli
scienziati e dei comunicatori scientifici sia quello di creare una cultura
scientifica e una consapevolezza dei problemi e dei rischi, così che da questa
consapevolezza potranno nascere delle spinte a far meglio di come si sta
facendo ora. Poi certo, esistono anche i culturale dall’alto, top-down,
che va a investire tutta la società. Sarebbe necessario cominciare a delineare
piani strategici a medio-lungo periodo, aggiornare i piani pandemici, attuare
delle politiche a lungo termine relative ai problemi climatici, e via dicendo.
Queste sono tutte misure che non servirebbero solo a salvarci in un momento di
crisi, ma che produrrebbero cambiamenti culturali enormi.
Si sente spesso parlare della necessità di “non
tornare a come eravamo prima”, ovvero di cercare di trasformare questa crisi in
un’opportunità di cambiamento, per migliorare la nostra condizione (in campo
sociale, economico, ambientale…) ed essere quindi più pronti ad affrontare
un’inevitabile futura crisi — da una nuova pandemia alla spada di Damocle dei cambiamenti climatici. Seguendo questo sentimento, quali sono le
ripercussioni più positive che potrebbero verificarsi nel campo della
produzione e della comunicazione della scienza? Esistono nuove tensioni
all’interno dell’opinione pubblica che sarà possibile sfruttare per promuovere
un nuovo tipo di coinvolgimento?
ALEXANDER
BIRD = Sarebbe bello se questa crisi potesse
avere un effetto positivo di questo tipo. Vale la pena tentare. Un pessimista
potrebbe dirti che, per molti, il consumo di informazioni viene comunque
fortemente influenzato dai propri pregiudizi. Ma voglio pensare che ora ci sarà
maggiore desiderio di conoscere alcune delle cose di cui abbiamo discusso: i
processi della scienza, la natura e l’uso dei modelli scientifici e il concetto
di rischio. Comprendere queste idee è essenziale per poter affrontare molte
sfide che richiedono una risposta scientifica: citi giustamente la scienza del
cambiamento climatico come esempio chiave. Sinceramente non so come sarà
possibile sfruttare al meglio un tale desiderio: sospetto che voi giornalisti
siate in una posizione migliore per rispondere a questa domanda!
GIORGIO
SESTILI = C’è un nuovo interesse nei confronti della
scienza, questo è indubbio. Si trova a vari livelli, e potrebbe produrre — per
esempio — un incremento del numero dei ragazzi che, nei prossimi anni, si
iscriveranno a facoltà scientifiche: potrebbe esserci un maggior interesse
verso le facoltà di biologia, o di matematica e fisica che studiano modelli
epidemiologici, e così via. Per quanto riguarda direttamente la comunicazione
io penso sempre che ci siano tre attori fondamentali: scienziati, società e,
nel mezzo, i comunicatori scientifici. Laddove ci fosse un aumento
dell’interesse nella scienza, il ruolo dei comunicatori sarà fondamentale. Va
anche detto che “comunicatori scientifici” è un termine piuttosto ampio, perché
può indicare giornalisti, addetti all’ufficio stampa di istituti di ricerca,
chi fa divulgazione o anche chi produce video e animazioni – sono tantissime le
professioni in questo campo. Una tendenza positiva potrebbe essere un aumento
di opportunità di fare comunicazione scientifica, nelle redazioni dei giornali,
in nuovi media e nuove riviste, nell’ambito di nuovi progetti finanziati a
livello europeo. Abbiamo anche visto come, nel corso di questa pandemia, i
governi hanno avuto difficoltà a comunicare, e quindi ci potrebbero essere
spinte per la creazione di organi istituzionali che siano in grado di
comunicare meglio in queste situazioni di crisi. Io me lo auguro.
ROBERTA
VILLA = Viene da pensare che, in questi mesi, le
persone si siano rese ben conto dell’impatto che la scienza può avere sulle
loro vite, e quindi da questo punto di vista possiamo auspicare una nuova
sensibilità e attenzione per la scienza, e un maggiore interesse a far
pressioni sulla politica. Tu hai giustamente citato la crisi climatica: sono
decenni che la comunità scientifica cerca di convincere la politica e il
pubblico dell’importanza di questi problemi. Qualche scettico oggi potrebbe
magari ricredersi, e pensare che se gli scienziati avevano ragione riguardo al
rischio di una pandemia, forse hanno anche ragione riguardo all’importanza dei
cambiamenti climatici. Io spero che ci sia anche una nuova consapevolezza
dell’importanza del ruolo dei giornalisti scientifici e dei comunicatori, che
ci si renda conto di quanto è importante la scienza ma anche di quanto sia
fondamentale comunicarla bene. E questo dovrebbe andare al di là della facile
narrazione di fake news contro verità accertate, bot russi contro
esperti affidabili. Abbiamo visto come informazioni scorrette siano
arrivate da ogni parte, incluse fonti in teoria “affidabili” come agenzie di
stampa, grossi quotidiani nazionali, o fonti istituzionali. scientifiche, si
produca anche una consapevolezza di quanto sia facile essere ingannati: le
“notizie” virali che rimbalzano nei gruppi WhatsApp sono spesso inaffidabili,
ma anche i pareri dei singoli esperti possono essere errati. Quello che conta
sono i dati accertati e condivisi. Voglio aggiungere che lo spauracchio delle fake
news e il mito del popolo bue che crede a tutto rischiano di portare
all’eccesso opposto, a una limitazione delle libertà individuali. Abbiamo visto
YouTube bloccare arbitrariamente i video che ritiene stiano diffondendo fake
news — a volte censurando contenuti del tutto validi — o come Amazon abbia
rimosso dal proprio catalogo un libro sulla COVID-19 di un giovane divulgatore
come Gianluca Pistore (che include un’introduzione di Walter Ricciardi) perché
ha deciso di vendere (su un sito che di solito raccoglie anche ebook amatoriali
e autoprodotti) solo ebook sul coronavirus che vengono da “fonti
ufficiali”. E la censura è ancora più grave se è di stato. Siamo fortunati a
vivere in una democrazia, ma il modello di censura cinese (che abbiamo visto
avere effetti tragici all’inizio di questa epidemia) è sempre un rischio da
tener presente. Già oggi, ad esempio, i dipendenti del Servzio Sanitario
Nazionale in Lombardia non sono autorizzati a rilasciare interviste ai
giornalisti, e quindi non possono lamentarsi delle condizioni in cui svolgono
il loro lavoro. Sebbene queste siano misure eccezionali mirate a controllare la
situazione, dobbiamo comunque essere molto vigili e prudenti.
Nessun commento:
Posta un commento