L’enfasi con la quale,
ormai più di un mese fa, era stata preannunciata l’adozione di una app,
scaricabile sui nostri smartphone, in grado di segnalare ogni contatto a rischio
contagio è stata quanto meno ammorbidita da un lungo periodo di silenzio
raramente interrotto da brevi notizie. Allo stesso modo il dibattito che tale
annuncio aveva comunque attivato, come era prevedibile, attorno alla
opportunità di tale iniziative e ai rischi di violazione della privacy e di un
improprio uso dei dati così raccolti, si è via via affievolito. Ma ora dovremmo
esserci: è stata ufficializzata la disponibilità della app, da oggi scaricabile
e quindi, non a caso, molti quotidiani hanno pubblicato articoli che spiegano, seppure a grandi linee, il
concreto funzionamento di IMMUNI. Ma anche se scaricabile IMMUNI non è
attivabile in quanto si è deciso che in alcune Regioni parta in contemporanea una
sperimentazione che dovrebbe permettere di limare eventuali dettagli
perfezionabili. Non mancano dubbi in merito ad alcune questioni, in particolare
sulla sua reale efficacia e sui comportamenti da tenere in caso di avviso di
avvenuto contatto con una persona dichiarata contagiata. Conviene quindi attendere
la fine della sperimentazione per valutare la versione finale effettiva. Per
intanto pubblichiamo il seguente articolo, che ci è stato segnalato dalla
nostra socia Daria Bosio, che offre interessanti informazioni e valutazioni
sullo stato dell’arte delle varie app anticovid
che in tutto il mondo, ed in Europa in particolare, sono state messe a
punto. Dire che alcune perplessità trovino ulteriore conferma è un eufemismo.
Non solo
IMMUNI
le app anticovid in ritardo in tutta Europa
Articolo di Antonio Cavaciuti del 1 giugno
sito online “Gli Stati Generali”
A un mese
dalla fine del lockdown, l’Italia
ancora aspetta la sua app contro il Coronavirus. Ma il nostro paese è, per così
dire, in buona compagnia. In Francia l'applicazione dovrebbe finalmente fare il suo debutto solo domani. In Germania il lancio è previsto non prima di metà Giugno. E in Spagna una data d'uscita neanche c'è. Ma
anche tra i paesi in giro per il mondo che sono un passo avanti, le difficoltà
non mancano. In Australia, ad
esempio, la app è pronta da tempo, ma sono mancati i download. Stessa storia in
Norvegia e a Singapore. E intanto sono spuntati
fuori pure possibili problemi di precisione e falsi allarmi. Insomma,
le Corona-app dovevano diventare la panacea high-tech capace di bloccare il
contagio. Non è andata proprio così. Almeno per ora. Cosa non ha funzionato? La celebre testata online "The Correspondent" “, alcune
settimane fa, ha dato il via ad un'inchiesta sulle tecnologie di sorveglianza impiegate per combattere la pandemia. Il progetto si chiama “Track(ed) Together” e ha coinvolto
esperti e giornalisti di tutto il mondo, ciascuno chiamato a raccontare cosa
stava succedendo nel proprio paese. Tra
questi giornalisti c’eravamo anche noi de “Gli Stati Generali”. Queste
sono le risposte che abbiamo trovato.
Il giro
del mondo in 80 app
L’idea di
usare le app per fermare il virus pare avere contagiato i quattro angoli del
pianeta. L’inchiesta Track(ed) Together
ne ha contate in tutto un’ottantina. Alcune sono più trasparenti: hanno
regole sulla privacy chiare e un software open source, in modo che chiunque
possa controllare come funzionano, come accade ad esempio da noi in Italia. Ma
in parecchi casi, purtroppo, non è così ed è di fatto impossibile capire
esattamente cosa succeda ai dati raccolti dagli utenti. L’obiettivo di queste
app è sostanzialmente sempre lo stesso: registrare gli incontri tra persone e
avvisare gli utenti se sono entrati in contatto con un malato. Ma spostandosi
da paese a paese, cambia la tecnologia. Ben 29 app sfruttano il sistema Bluetooth. Altre 11, invece, usano la tecnologia Gps, che non solo è in
grado di registrare “l’incontro” tra due telefonini come fa appunto il
Bluetooth, ma anche di seguire lo spostamento delle persone. E’ una scelta più
“invasiva” per la privacy, ma che è stata adottata, per esempio, anche da paesi
tradizionalmente molto attenti ai diritti cittadini come l’Islanda e anche da
Israele che ha lanciato una applicazione che si chiama Shield che è già stata
scaricata mezzo milione di volte ed utilizza oltre al Gps anche il Wifi.Quindici app, poi, funziona con un’altra
soluzione ancora: i codici a barre;
con l’utente che deve fare check-in come all’ingresso dei gate negli aeroporti.
Infine: undici app usano un mix di
tecnologie per essere più efficaci: Bluetooth e Gps; Bluetooth e codici
a barre; o addirittura Bluetooth, Gps e codice a barre.
Soluzione
europea: missione fallita
Una buona
fetta di queste applicazioni, comunque, per ora esiste solo sulla carta.
L’Europa, per esempio. Nonostante gli annunci (tanti) e i titoli sui giornali
(altrettanti) molte app nel Vecchio
Continente sono ancora in fase di test o di sviluppo. Eppure è da tre
mesi che ci si lavora sopra senza sosta. A fare il primo passo era stata la
Germania che a marzo aveva dato il via a un piano molto ambizioso: dar vita ad una soluzione tecnologica che potesse essere
utilizzata da tutti i paesi europei. Il progetto, che si chiama Pan European Privacy-Protecting Proximity
Tracing (PEP-PPT), però ha avuto vita breve. Gli scienziati europei che
stavano lavorando al “PEP-PPT” avevano previsto che la app usasse il Bluetooth
per registrare i contatti tra le persone che l’avevano scaricata per poi
inviarli ad un server centrale per essere elaborati. Ma questa soluzione non è
piaciuta a tutti. Anzi. Oltre 300 esperti di tecnologia, con una lettera aperta che ha fatto molto rumore, l’hanno bocciata per il timore che
si stesse costruendo un Grande Fratello, capace di tenere sott’occhio gli
incontri tra i cittadini. A dare il colpo di grazia, però, non sono stati i
dubbi di scienziati e tecnici del diritto, ma uno dei due giganti degli
smartphone: Apple ha rifiutato di cambiare le impostazioni dei suoi telefoni per permettere alle app che dovevano nascere con il
sistema PEP-PPT di raccogliere i dati. Risultato: la Germania, per prima, ha
abbandonato il progetto e così l’idea di una soluzione made in Europe è
naufragata.
Giganti
Usa: avanti adagio
Tramontato
il progetto europeo, è tornata alla carica la Silicon Valley. Apple e l’altro grande big dell’alta
tecnologia a stelle strisce, Google,
hanno lavorato fianco a fianco per mettere in campo una soluzione diversa:
registrare, sempre via Bluetooth,
gli incontri degli utenti, ma lasciare questi dati sul telefonino; sarà poi la
app stessa ad elaborarli per capire se tra i contatti registrati ci sia pure
quello con una persona infetta. La tecnologia messa a punto dal duopolio dei
telefonini mondiali è piaciuta agli esperti della privacy e anche ai governi:
la userà la Germania, ma anche Spagna e Italia; mentre la Francia ha deciso di
provare comunque a realizzare una app nazionale con le proprie forze. I tempi,
nel mentre, si sono però allungati praticamente ovunque. Google e Apple hanno
rilasciato la Api (application programming interfaces) che permette ai
programmatori di sviluppare le singole app nazionali solo il 20 Maggio, cioè una manciata di giorni fa,
quando l’epidemia aveva già cominciato a battere in ritirata e le misure più
stringenti di lockdown erano diventate ormai un ricordo nelle maggior parte dei
paesi europei. Paesi europei, tra cui appunto l’Italia, che infatti una app non
ce l’hanno ancora, proprio perché mancavano alcuni pezzi fondamentali per
costruirla. Ma anche la Gran Bretagna
che pure come la Francia ha deciso di fare da se, senza cioè appoggiarsi a
Google e Apple, è ancora alle prese con problemi tecnici e non ha una data
ufficiale di lancio. Dubbi sulla
privacy e guai tecnologici, dunque, hanno frenato una buona fetta di Europa. Ma
anche gli Stati Uniti non stanno certo procedendo a passo di carica.
Secondo l'Associated Press soltanto 3
stati su 50 hanno lanciato delle loro app nazionali senza aspettare Apple e
Google – e senza grande successo. Nello Utah i dati sui contatti sono stati
raccolti, ma non utilizzati. In Sud Dakota, solo il 2% della popolazione ha
scaricato la app e in Nord Dakota ancora meno.
Pochi
download e meno utenti
Se anche le app ci sono, però, il problema più grosso pare essere quello
di convincere le persone a scaricarle. A Singapore portata spesso ad esempio come faro high-tech nella
lotta al Coronavirus, la app anti-contagio esiste già da un pezzo,
precisamente da marzo. Si chiama TraceTogether. Ma, dati di maggio alla mano,
l’aveva scaricata solo una persona su quattro. Un’eccezione? No. In Australia i numeri erano grosso modo
gli stessi: solo cinque milioni di abitanti su 25 hanno effettuato il download.
E in India, dove pure scaricare
la applicazione sarebbe obbligatorio, è andata anche peggio: lì i download sono
stati cento milioni, peccato che il paese faccia 1,35 miliardi di abitanti. Scaricare
una app, poi, come sanno tutte le persone che hanno in tasca un telefonino, non
vuol dire usarla. In Norvegia,
altro paese che già lanciato una app anti-contagio, circa il 25% dei cittadini
ha fatto download. Ma in un rapporto di fine aprile l’istituto di salute
pubblica norvegese sottolineava che solo il 20% di questo 25% la stava
effettivamente utilizzando.
Punti
interrogativi e falsi allarmi
I numeri,
col passare dei mesi e delle settimane, potrebbero migliorare. Ma quanto poi le
persone effettivamente useranno queste app rimane un punto interrogativo. E non
è l’unico. «Finora non abbiamo nessuna
prova che le applicazioni siano più efficaci dei metodi tradizionali di
tracciamento dei contagi», dice Meru
Sheel, epidemiologo dell’Australian National University, uno degli
esperti intervistato per l’inchiesta Track(ed) Together. In Australia la app è
in uso da tempo: è stata lanciata già il 26 aprile. E, spiega Sheel, potrebbe
rivelarsi decisiva in caso di una seconda ondata di epidemia. Per ora, però,
non è andata così. Altra questione
aperta: che fare con i dati raccolti? In Italia, dove i test sulla nostra applicazione che dovrebbe cominciare a giorni in tre Regioni pilota, non
è ancora chiaro al cento per cento che si farà con le informazioni ricavate dal
tracciamento dei contagi: cosa dovranno
fare esattamente le persone che sono state a contatto con un malato? Anche
in questo caso, però, il nostro paese è in buona compagnia: sono domande,
queste, che si stanno facendo un po’ tutti i governi. «Supponiamo di scoprire che ci siano 50 persone che sono state a contatto
con un infetto. Facciamo il test a tutti? Le teniamo tutte in quarantena? Ci
sono davvero abbastanza risorse per farlo?», si chiede Paul Olivier Dehaye, altro esperto
intervistato per l’inchiesta Track(ed) Together. Matematico, esperto di big
Data, Dehaye sottolinea che i dati non basta raccoglierli, poi bisogna saperli
usare nel modo giusto e non dimenticare mai una cosa fondamentale: lasciare
spazio ai dubbi: «Potrebbe anche accadere che l’app identifichi contatti a
basso rischio e ignori altri che sono più in pericolo o perché le persone non
la usano correttamente o perché la tecnologia non funziona correttamente»,
dice. In effetti nessuna delle tecnologie impiegate dalle app è precisa al
100%. «Con il Bluetooth, ad esempio,
c’è tanto il rischio di mandare falsi allarmi che di non mandare l’allarme
quando si dovrebbe», spiega
Jaap-Henk Hoepman, professore associato di Computer Science alla
università di Radboud, in Olanda. Intervistato per l’inchiesta Track(ed)
Together, Hoepman fa due esempi: una app che funziona con il Bluetooth può
registrare un contatto che magari non c’è mai stato tra vicini di casa che
vivevano in appartamenti diversi, ma che avevano un muro in comune; oppure può
anche succedere che il contatto con un infetto non venga segnalato, perché i
segnali Bluetooth sono bloccati dal corpo e così se si ha il telefono nella
tasca posteriore dei pantaloni, la app potrebbe non vedere quello della persona
con cui si sta parlando. Il Gps, poi, ricorda Hoepman, non è sempre preciso,
soprattutto negli spazi chiusi.
Entusiasmo
in calo
Qui in Italia, Il commissario straordinario all’emergenze Coronavirus,
Domenico Arcuri aveva definito la applicazione anti-contagio indispensabile per
uscire dal lockdown. Era il 26 aprile. L’obiettivo iniziale del nostro governo era ambizioso:
farla scaricare almeno dal 60% delle persone. Poi il ministro dell’Innovazione,
Paola Pisano ha abbassato l’asticella
al 25%, prevedendo una adesione non proprio massiccia e un ruolo
evidentemente ridimensionato nel combattere l’epidemia. Le settimane sono
passate, il lockdown è finito, ma la app non si è ancora vista.
Della app italiana Immuni
per ora circolano solo alcune immagini dimostrative, come questa, tratta dal
sito del Ministero dell’Innovazione
Attenzione, però: lo stesso copione è andato in scena in Olanda. Anche
nei Paesi Bassi il ministro della Salute aveva presentato la app come una
precondizione per porre fine alle misure di contenimento, ma anche l’Olanda ha
riaperto e della app nessuna traccia. Il governo olandese, poi, ha cambiato narrazione:
la app, oggi, è presentata solo come una specie di supporto digitale al
tracciamento manuale dei contagi, quello – per capirci – che i medici di tutto
il mondo hanno per altro sempre fatto finora parlando con i malati per sapere
chi era entrato in contatto con loro. E pure in Irlanda, dove era stata
presentata come un elemento chiave per combattere l’epidemia, la
app-anticontagio è finita in secondo piano. «Si è fatto un gran battage pubblicitario attorno a queste app all’inizio
e sembrava dovessero avere grande importanza. Poi ci sono stati problemi
tecnici e preoccupazioni sulla privacy che hanno fatto sì che la loro
diffusione rimanesse bassa.E più passa il tempo e meno i politici ne
parlano», osserva in una intervista per l’inchiesta Track(ed) Together
Antonio O Lachtain attivista della associazione no-profit Digital Ireland.
App e non
solo
Visti i problemi con questa prima generazione di app anti-contagio, c’è
già chi sta cercando di aggiustare il tiro. E’ il caso di Singapore che ora ha lanciato un sistema di
check in digitale chiamato SafeEntry: per entrare in negozi
uffici ora è in molti casi obbligatorio registrarsi con la carta di identità o
un codice a barre sul cellulare e sempre una app che funziona con il codice a
barre è appena stata lanciata, il 20 maggio, anche in Nuova Zelanda. Ma ci sono anche paesi che l’app hanno scelto di
non utilizzarla proprio. Il Belgio, ad
esempio, ha puntato tutto sui sistemi di tracciamento “umani”. «Non c’è
bisogno di una app, tutto può essere fatto a mano, così come è stato fatto per
anni», aveva detto, a fine aprile, Philippe de Backer, il ministro belga per le
Telecomunicazioni. Così è stato: il Belgio non ha puntato sui telefoni, ma
sugli esseri umani in carne ed ossa e ha assunto 2000 persone per tracciare la
diffusione del virus. E anche la Gran
Bretagna, che pure sta testando la sua app sull’isola di Wight in attesa
prima o poi di renderla disponibile, ha reclutato la bellezza di circa 20mila persone per tracciare i contagi.
«Abbiamo quindi spostato l’enfasi delle nostre comunicazioni e piani per
mettere prima il lavoro di tracciamento umano e poi la applicazione che verrà
d’aiuto in un secondo momento», ha detto Lord Bethle, junior minister
all’innovazione al dipartimento della Salute. Se e quanto di aiuto, al momento
non si sa.
I dubbi
del Consiglio d’Europa
«Considerata che manca prova della loro efficacia, val la pena affrontare
i prevedibili rischi sociali e legali?», si chiedevano a fine
aprile in una nota congiunta Alessandra Pierucci, presidente del
comitato della Convenzione 108 e Jean-Philippe
Walter, commissario per la protezione dei dati del Consiglio d’Europa.
Le app, nel frattempo, sono arrivate o stanno arrivando. Il dubbio, però,
rimane.
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