La
parola del mese
A turno si propone una parola, evocativa di pensieri
collegabili ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni
GIUGNO
2020
La “Parola” dello scorso mese era,
provocatoriamente, talmente di nuovo conio da poterla immaginare inserita nei
vocabolari solo fra qualche anno. Quella di questo mese di Giugno, altrettanto
di nuovo conio, quantomeno è già presente in molti vocabolari, visto che da
alcuni anni è entrata a far parte del linguaggio tecnico di urbanisti,
scienziati del cibo e dell’ambiente nell’ambito delle nuove idee sulla
organizzazione, sulla sostenibilità, sulla socialità in particolare degli spazi
urbani. In quanto tale è ovviamente in stretto collegamento con le ampie
riflessioni imposte dall’emergenza ambientale e dalla conseguente revisione di
tutte le attività umane, compresa quella del “cibo”, della sua produzione e del
suo consumo. Il tema del cibo era stato pensato come il filo conduttore di
alcune iniziative della seconda parte del nostro programma 2019/2020, sospeso
per una ben nota ragione (magari non pronunciarne il nome favorisce il suo
eclissarsi!) che, se sarà possibile, è rimandato al prossimo autunno. La scelta
di questa parola per Giugno 2020 è quindi motivata anche dalla opportunità che
offre di mantenere un poco di attenzione su questo tema, che già del suo è
comunque tornato “di moda” nel
riaffacciarsi delle pratiche culinarie casalinghe incentivate dal lochdown.
SITOPIA
Sitopia: dal greco antico "sitos", cibo, e "topos", luogo,
indica l’organizzazione degli spazi urbani anche sulla base delle attività di
produzione e consumo del cibo
Per comprenderne meglio il significato è utile il seguente articolo di di Carolyn
Steel (architetto
e docente, è una delle principali teoriche sul tema del cibo in relazione alle
città. Il suo libro Hungry City: How Food Shapes Our Lives (Vintage
Publishing, 2008) ha ottenuto un ampio riconoscimento. Il suo nuovo libro, Sitopia:
How Food Can Save the World, è uscito per Chatto & Windus quest’anno) non a caso
fra le prime ad usare questo termine, scelto anche come titolo del suo ultimo
saggio, nel quale riassume la filosofia, e le linee guida, che dovrebbero
ispirare il luoghi abitati dall’uomo per recuperare una armonica sostenibilità
della sua ingombrante presenza sul pianeta Terra. Carolyn Steel sottolinea che SITOPIA non è, come potrebbe sembrare,
una UTOPIA, ma una logica che
dovrebbe essere alla base di molte delle scelte non solo in campo urbanistico.
Se non deve essere intesa come utopia rappresenta comunque una notevole sfida
per una umanità che a breve sarà di otto miliardi di persone
Sitopia: come il
cibo può salvare il mondo
Come vivremo nel futuro? Più
precisamente: come possiamo sperare di prosperare sul nostro pianeta affollato
e surriscaldato? Quali siano le risposte, una cosa è certa: il nostro modo di
mangiare sarà fondamentale. Abitando in città, è difficile capire il ruolo
centrale del cibo nel plasmare il nostro mondo. L’industrializzazione ha
nascosto i collegamenti vitali senza cui la città stessa subirebbe una rapida
battuta d’arresto: la complessa filiera che porta il cibo dalle campagne, dove
è coltivato, ai supermercati, ai caffè e alle nostre cucine.
Il cibo che
troviamo nel piatto non è solo nutrimento: è l’emissario di un mondo
diverso, un luogo che ancora definiamo campagna, ma che raramente assomiglia al
bucolico paradiso della nostra fantasia. La maggior parte del cibo è oggi
prodotta in enormi impianti razionalizzati che possono stupire e turbare allo
stesso tempo. Dai vasti capannoni degli allevamenti, affollati di tragedie
animali, alle monoculture di cereali raccolte da falangi di mietitrebbiatrici,
alle catene di montaggio robotizzate che sfornano lattine di fagioli stufati,
gli spazi e i processi sottesi alla nostra esistenza, 24 ore su 24 e sette
giorni la settimana, sono tanto affascinanti quanto spietati. Per molti
aspetti, il settore agroalimentare riassume la fatale combinazione di
eccellenza tecnica e sconsideratezza che minaccia noi e il pianeta. Il nostro stile di vita si fonda
sull’illusione del cibo a buon mercato. Tuttavia, se si considera
che si tratta di una materia viva, allevata e uccisa da noi per permettere a
noi stessi di vivere, è chiaro che la situazione non regge. Anzi, se i tanti
fattori esterni – cambiamento climatico, deforestazione, estinzione di massa,
inquinamento, depauperamento idrico, degrado del suolo, obesità e malattie
causate dalla dieta – entrassero nel conto, questo diventerebbe subito
insostenibile. Questo ci porta a una domanda: che cosa succederebbe se lo
facessimo davvero? Si può rispondere che si verificherebbe una rivoluzione non
solo nel modo di nutrirsi, ma anche nel modo di vivere. Il cibo a buon mercato
è la base non solo del nostro sistema alimentare, ma anche della nostra
esistenza. Politica, economia, abitudini e valori – l’idea stessa di una vita
di qualità – riposa sull’illusione di avere risolto il problema del modo di
nutrirsi. Qualunque tentativo di riprendere in esame l’alimentazione
incontrerà perciò forti resistenze, non per ultimi tra i politici. Tuttavia,
questa azione è presumibilmente il gesto singolo, più forte possibile in
direzione di una transizione dalla
nostra società malsana, non sostenibile, disuguale, verso una società di gran
lunga migliore. Che si riesca o meno a realizzarla, il nostro corpo, la
nostra casa, la nostra città e il nostro paesaggio sono tutti configurati dal
cibo. Viviamo perciò in quella che definisco una sitopia. Non è
una bella cosa, dato che non diamo valore alla materia di cui è fatta. Una sitopia non è un’utopia – questo
è il punto – ma, imparando a
dar valore al cibo e controllandone il potere, è possibile avvicinarsi al
sogno utopico della creazione di una società equa, sana e capace di
adattamento. L’alimentazione è un tema di primo piano nel
pensiero utopico per l’ovvia vitale importanza che aveva per i nostri antenati.
Nell’epoca preindustriale nutrire le città era difficile, anche per la
difficoltà di trasportare gli alimenti. Per questo motivo le città rimanevano
per la maggior parte di piccole dimensioni ed erano ampiamente produttive:
circondate da orti, frutteti e vigneti, mentre in molte case si allevavano
maiali, polli e capre, si cuoceva il pane e si preparavano birra e conserve in
proprio. Secondo Platone e Aristotele questa autosufficienza era un obiettivo
fondamentale della polis, ovvero dello Stato. La loro concezione ideale si
fondava sull’oikonomia o
gestione domestica: l’idea che ogni cittadino dovesse avere una casa in città
e una fattoria in campagna con cui procurare alimenti alla prima. Su vasta
scala questa sistemazione avrebbe reso lo Stato autosufficiente e quindi
politicamente indipendente. Per riuscirci la polis doveva rimanere
relativamente piccola e l’idea viene ripresa da Tommaso Moro nel
suo Utopia del 1516 e da Ebenezer Howard nel suo Garden Cities
of To-Morrow del 1902. Oggi, sul nostro pianeta che si sta facendo
stretto, questi modelli ritornano a essere rilevanti, nel loro individuare
concetti necessari alla creazione di economie adattabili, locali e di tipo
stazionario che ci serviranno in futuro. Questi modelli suggeriscono inoltre
come il mondo possa cambiare, se si riesce a reintrodurre l’oikonomia nell’economia. A lungo confinato
nella periferia della nostra vita e della nostra mente, il cibo ritornerebbe al
centro del discorso. Architetti e urbanisti non progetterebbero più
appartamenti senza cucina, abitazioni senza orto urbano e città non
produttive. Al contrario, si farebbe a gara per attrezzare abitazioni e spazi
esistenti. Alloggi e case sarebbero incentrati su cucina, giardino, cottura,
condivisione del cibo e raccolta di concime organico. I mercati e le vie del
centro fiorirebbero; giardini e balconi scoppierebbero di coltivazioni
domestiche; e reti di piccoli produttori ricollegherebbero la città al suo
hinterland.
Gli agricoltori non lavorerebbero più
contro la natura, ma insieme con essa: con fattorie agroecologiche di piccole
dimensioni e terreni restituiti alla natura al posto di coltivazioni intensive
e grandi industrie agricole. Invece di essere disumanizzate e ispirate allo
sfruttamento, le industrie alimentari diventerebbero fonti di rigenerazione
fondate su competenze artigianali. Vero è che tutto ciò suona alquanto
utopistico: quando si dà valore al cibo, la sitopia tende a diventare utopia.
Tuttavia, questa trasformazione è già in atto. Il food movement –
unione internazionale di agricoltori, produttori, gruppi e organizzazioni
come Slow Food e Via Campesina (il
movimento internazionale dei contadini) – si costruisce intorno
alla conoscenza, alla tutela e alla produzione di cibo che sia, nelle parole di
Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, “buono, pulito e giusto”. Nel
mondo industrializzato progetti come giardini condivisi, spazi di CSA
(Community Supported Agriculture), sistemi di fornitura senza intermediari e
mercati dei produttori hanno già dimostrato come valorizzare il cibo trasformi vita, economia e spazi. Nel
frattempo, nel Sud del mondo, va crescendo la consapevolezza della necessità
di tutelare le culture alimentari indigene e le pratiche agricole tradizionali.
Se il food movement dimostra le potenzialità della
trasformazione dal basso, realizzare invece una vera utopia richiederà anche
un intervento statale. Solo gli Stati hanno il potere di rivoluzionare
l’equilibrio tra città e campagna tanto essenziale alla civiltà. Quando nel
1338 Ambrogio Lorenzetti dipinse la sua “Allegoria del buon governo” nel
Palazzo pubblico di Siena – probabilmente la miglior rappresentazione di questo
rapporto fondamentale – il titolo dell’opera era pieno di significato. I
governanti di Siena sapevano, come Platone e Aristotele prima di loro, che
conservare l’equilibrio tra città e campagna era la loro prima
responsabilità. La polis greca e il Comune medievale italiano sono
rari esempi di un’epoca in cui questo principio era ben compreso. “La città
giardino” di Letchworth di Howard e la “Green Belt” londinese di Patrick
Abercrombie (1944) usano l’urbanistica per limitare l’ampliamento della città
e fanno, come disse Patrick Geddes, “vincere il campo sulla via, non
semplicemente facendo prevalere la via sul campo”. Geddes propose
un’alternativa all’idea di “cintura verde” suggerendo la conservazione di fasce
di campagna che s’irradiassero dal centro cittadino a creare metropoli a
stella, dove il mondo urbano e quello rurale rimanessero vicini. La legge sui
terreni agricoli di Tokyo del 1952 ottenne risultati simili, tutelando nel
nucleo centrale metropolitano la presenza di un mosaico di fattorie biologiche,
che ancora nutrono le comunità locali. I moderni tentativi di riconciliare
città e campagna comprendono il piano regolatore di Almere Oostervold, di
MVRDV, con fattorie, fabbriche e abitazioni in un progetto fluido, e l’idea dei
CPUL (Continuous Productive Urban Landscapes) degli architetti Viljoen e Bohn,
che collegano spazi urbani non sfruttati, come parcheggi e cigli erbosi, a
creare corridoi verdi fino alla campagna, in un’eco della visione stellare di
Geddes. In qualunque modo ci si arrivi, la chiave del nostro futuro si fonda
sulla rivalutazione del cibo,
sull’agricoltura in armonia con la natura e sulla riconnessione tra città e
campagna. Riportando l’oikonomia nell’economia potremo
ricostruire le comunità vivibili e reattive di cui abbiamo bisogno per
crescere nel XXI secolo. Facendo dell’alimentazione la nostra guida e
rispettando chi ci nutre con amore, potremo cambiare la nostra idea di qualità
della vita e guardare a un florido futuro sitopico.
(Articolo pubblicato su Domus
1040)
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