Chiudiamo con questo
post il 2020 del blog di CircolarMente. Dire che ci lasciamo alle spalle un
anno quantomeno anomalo è dire cosa ovvia e persino limitata. In particolare
per questo blog - nato con la finalità di affiancare le iniziative pubbliche di
Circolarmente, preparando, accompagnando ed approfondendo, le loro varie tematiche
- è stato un anno in cui ha dovuto, in qualche modo, supplire alla loro forzata
assenza. Ed è’ possibile, purtroppo, che sia così ancora per alcuni mesi, nel
corso dei quali vedremo di rimediare in qualche modo a questo “antipatico” stato
di cose. In attesa di tornare ad iniziative, relatori e temi che, come sempre,
ci aiutino a comprendere, in tutti i suoi aspetti, la realtà che ci circonda al
fine di meglio affrontarla, questo post presenta un aspetto che sta “a monte”
del nostro rapporto con la realtà. Pubblichiamo infatti un articolo,
estrapolato dalla rivista on-line “Il tascabile”, che riteniamo offra una
sintetica e chiara panoramica su come scienza e filosofia attualmente affrontino
“la realtà”, sul contraddittorio concetto di “libero arbitrio” e sulla
difficoltà di meglio comprenderla nell’epoca della “infodemia” (la “Parola del mese” di questo Dicembre 2020). L’immancabile
e quanto mai sentito augurio di “Buon Anno nuovo” che
il Blog di Circolarmente fa a tutti voi quest’anno vale davvero di più!!!!!!
Riscoprire la realtà
Un’intervista
a Mario De Caro
(filosofo italiano, insegna
filosofia morale presso l’Università Roma Tre)
Da diversi anni Mario De Caro si occupa di ripensare alcune delle categorie
fondamentali della filosofia contemporanea: realismo e naturalismo. Le
questioni di fondo di queste ricerche sono: perché dobbiamo difendere l’idea di
“realtà” in filosofia e come bisogna intenderla? Qual è il contributo che la
filosofia e le scienze possono dare per far progredire la nostra conoscenza della
realtà, e in che modo possono collaborare? In che senso la conoscenza
scientifica deve restare un punto di riferimento imprescindibile della
filosofia, ma al tempo stesso non può esaurire i metodi e i concetti con cui
conosciamo la realtà? De Caro ha esaminato questi temi concentrandosi sul
problema classico del libero arbitrio e sulla teoria dell’azione, pubblicando
diversi volumi tra cui “Il libero
arbitrio. Un’introduzione” - Siamo davvero liberi? Le neuroscienze e il mistero del libero
arbitrio” - “Bentornata realtà. Il nuovo realismo in
discussione (con Maurizio Ferraris)”. In questa conversazione
attraversiamo questi temi, a partire dal suo ultimo libro “Realtà” (Bollati Boringhieri, 2020).
Qualche anno fa hai curato, con Maurizio Ferraris,
una miscellanea intitolata Bentornata realtà, in cui erano raccolti
gli studi di diversi filosofi accomunati dalla difesa dell’idea di realtà in
filosofia. Nel tuo ultimo libro difendi l’idea di “una realtà, internamente
strutturata già prima che la mente la concettualizzi, che pone vincoli
ineludibili alla correttezza dei nostri giudizi sul mondo esterno”. Come si è
arrivati a preoccuparci di difendere questo presupposto della conoscenza?
Nelle versioni più serie, le filosofie antirealiste
sostengono che la realtà non è qualcosa di già dato, qualcosa di internamente
strutturato, indipendentemente dal pensiero: secondo queste filosofie, senza le
categorie della mente o del linguaggio la realtà è amorfa, destrutturata. E
questa è stata una prospettiva comune alla maggior parte delle concezioni
filosofiche che hanno dominato la seconda metà del Novecento. I filosofi
realisti in quegli anni erano come i marsupiali: bestie molto rare, viste come
un bizzarro retaggio del passato. Nel frattempo, però, l’antirealismo, che
originariamente era ispirato da nobili ragioni intellettuali e politiche, ha
esaurito la sua forza propulsiva e oggi porta spesso a risultati, teorici e
pratici, francamente dannosi, come il diffondersi di forme estreme di
relativismo culturale e morale o di atteggiamenti radicalmente antiscientifici.
Non c’è dubbio che in filosofia sia l’ora di tornare al realismo, ma il
problema è: quale realismo?
Al centro della trattazione di Realtà c’è
una dicotomia tra realismo ordinario e realismo scientifico. Come spieghi nel
libro, il realismo ordinario “attribuisce realtà esclusivamente alle cose di
cui possiamo avere esperienza” mentre il realismo scientifico afferma che “il
mondo contiene soltanto le entità e gli eventi” – anche inosservabili – “che le
scienze naturali possono descrivere e spiegare”. Tu poni l’origine di questa
frattura nel conflitto tra l’aristotelismo e il platonismo matematico di Galilei:
il problema dei due realismi può essere fatto risalire quindi alla rivoluzione
scientifica, che avrebbe prodotto una rottura ancora non assorbita tra sensi e
realtà?
Sì. La rivoluzione scientifica comportò il divorzio
definitivo tra scienza e senso comune. I filosofi che da allora seguono la
scienza guardano con sospetto alle credenze basate sulla percezione. Viceversa,
quelli sospettosi della scienza, continuano a considerare la percezione come la
nostra unica chiave d’accesso alla realtà naturale. La discussione tra
aristotelici e i platonici del tardo Rinascimento (o almeno due sottogruppi di
queste scuole, che allora erano molto variegate) segnò l’inizio di una
discussione che continua ancora oggi.
Nel libro esamini pregi e difetti dei due realismi.
Entrambi sembrano capaci di cogliere un aspetto difficilmente sopprimibile
della nostra esperienza. Il realismo scientifico ha dalla sua il forte sostegno
dell’efficacia delle teorie scientifiche. Ma per stabilire una misura comune
dei nostri giudizi sulla realtà, deve affrontare quello che chiami “problema
della collocazione”, che concerne fenomeni costitutivi della concezione
ordinaria del mondo come il libero arbitrio, le proprietà morali, la coscienza,
che sembrano appunto non avere posto nel mondo descritto dalla scienza.
Se si assume che le scienze naturali sono le nostre
uniche chiavi di accesso genuino al mondo, si pone subito il problema che noti
tu: cosa dire delle proprietà della visione ordinaria del mondo che, almeno a
prima vista, non hanno a che fare con la visione scientifica del mondo? Così ha
posto il problema John Searle (1932, filosofo statunitense): “Come possiamo far
quadrare la concezione di noi stessi in quanto agenti dotati di mente, creatori
di significati, liberi, razionali e così via, con un universo che consiste
interamente di particelle fisiche brute, prive di mente, prive di significato,
non libere né razionali?”. Questo è il
cosiddetto “Problema della collocazione”.
In questo senso, al naturalismo scientifico si aprono due vie: o si mostra che
i fenomeni propri della visione ordinaria del mondo sono riducibili a fenomeni
scientifici oppure questi fenomeni non vanno considerati come qualcosa di reale
e dovrebbero essere trattati come nulla più che illusioni – magari socialmente
o epistemicamente utili, ma pur sempre illusioni. Il gran numero di progetti
che oggi vanno in queste due direzioni è l’espressione più chiara dell’attuale
fortuna di questa concezione. Che poi i tentativi di riduzione dei fenomeni della
visione ordinaria generalmente falliscano e quelli di eliminarli dalla nostra
ontologia si dimostrino velleitari sono temi che i naturalisti scientifici
tendono a ignorare.
La soluzione che proponi alla dicotomia tra i due
realismi è il realismo liberalizzato, secondo cui possiamo ammettere che
esistano metodi e oggetti diversi da quelli delle scienze naturali, ma dobbiamo
costruire la nostra immagine del mondo sempre in accordo con i risultati delle
migliori teorie scientifiche del presente. Come procede la “conciliazione” tra
scienza e filosofia secondo questa concezione?
Per un naturalista liberalizzato, quando una
concezione filosofica stride con una teoria scientifica, si pone un problema
che occorre affrontare. Secondo i naturalisti scientifici, in questi casi, è
sempre la scienza ad avere l’ultima parola. Il naturalista liberalizzato è meno
radicale, da questo punto di vista. Si pensi al ruolo positivo che la filosofia
ha giocato nell’evoluzione della scienza: per esempio, nelle discussioni sulla
logica matematica, sulla teoria della probabilità o, oggi, nelle discussioni
sulle interpretazioni della meccanica quantistica. Un altro aspetto da notare è
che non basta che una teoria filosofica sia logicamente coerente con la scienza
per essere accettabile. La concezione detta “disegno intelligente” è un
ottimo esempio in questo senso. Secondo questa concezione, l’evoluzione
biologica è guidata da un’intelligenza superiore. In realtà, però, non c’è
affatto bisogno di postulare il ruolo di questa presunta intelligenza superiore
perché il processo della selezione naturale scoperto da Darwin, insieme ai
meccanismi genetici, può dare ottimamente conto dell’evoluzione delle specie.
Pertanto, i fautori del naturalismo liberalizzato non possono che rifiutare la concezione
del disegno intelligente, con le sue implicazioni ontologiche.
Un caso esemplare, di cui ti sei occupato a lungo, è
il problema del libero arbitrio. Si tratta di un problema filosofico
scientifico antico, che di nuovo ha avuto importanti sviluppi in base
all’interazione con le scienze della natura, per esempio con il meccanicismo
moderno e, nel Ventesimo secolo, con la meccanica quantistica. Prima di tutto
ti chiederei di riassumere le principali opzioni in campo
Il determinismo è la tesi che tutti gli eventi sono
determinati da eventi passati, secondo le leggi di natura: la meccanica
newtoniana e la relatività generale sono teorie deterministiche. La negazione
del determinismo è l’indeterminismo: la maggior parte delle interpretazioni
della meccanica quantistica hanno questo carattere. Libertarismo e
compatibilismo sono le due principali famiglie di teorie che difendono
l’esistenza del libero arbitrio. Il libertarismo (difeso, per esempio, da
Epicuro, Kant e oggi da John Searle) radica il libero arbitrio
nell’indeterminismo; il compatibilismo, invece, sostiene che il libero arbitrio
è compatibile con il determinismo – e secondo alcuni fautori di questa
concezione, addirittura lo presuppone (Locke, Leibniz, Hume e oggi Daniel
Dennett (1942, filosofo e psicologo statunitense). Tuttavia, tutte queste concezioni incontrano gravi
difficoltà teoriche ed empiriche. E così molti oggi sostengono che il libero
arbitrio non esiste affatto – una posizione che però, secondo me, è ancora meno
convincente delle altre.
Un punto molto interessante è l’analisi degli
esperimenti neuroscientifici come quelli di Benjamin Libet (1916-2007, psicologo e neurofisiologo
statunitense) che proverebbero l’inesistenza del libero arbitrio. In
questi esperimenti viene misurata una preparazione cerebrale di movimenti come
la pressione di un pulsante che precede largamente la coscienza di prendere la
decisione. In che misura questi esperimenti hanno influenzato la discussione
filosofica sul libero arbitrio?
Nel più celebre dei suoi esperimenti, Libet chiese al
soggetto sperimentale di compiere un semplice movimento come la flessione di un
dito; questo movimento doveva essere compiuto spontaneamente, quando il
soggetto abbia avvertito l’impulso a compierlo. Allo stesso tempo, il soggetto
doveva controllare, usando uno speciale orologio, il momento esatto in cui
avvertiva l’impulso a flettere il dito; nel frattempo, un’apparecchiatura
misurava l’attività elettrica del suo cervello. Sulla base di centinaia di
ripetizioni dell’esperimento, Libet osservò che i soggetti avvertivano
l’impulso a flettere il dito circa 200 millisecondi prima dell’azione. Il dato
più interessante, tuttavia, è che 550 millisecondi prima del compimento di
quest’azione (e dunque 250 millisecondi prima che il soggetto sia consapevole
dell’impulso a flettere il dito) nel cervello dei soggetti si verificava un rilevante
incremento dell’attività elettrica (Readiness Potential, ovvero
“potenziale di prontezza”) che l’analisi statistica mostrava essere causalmente
correlato all’esecuzione dell’azione. Tutto ciò dovrebbe indurci a concludere,
secondo Libet, che l’atto di esercitare una volontà in realtà ha una causa
inconscia e dunque non può essere definito libero nel senso che la tradizione
filosofica ha dato a questo termine. Al soggetto resta però, secondo Libet, una
sorta di “libertà di veto”, nel senso che nei 200 millisecondi che separano la
consapevolezza dell’impulso a piegare il dito e l’effettivo compimento di
quest’azione l’agente può decidere di interrompere la catena causale che
porterebbe a tale azione. Molti interpreti, tuttavia, sono stati più radicali
di Libet e hanno concluso che i suoi esperimenti dimostrano, o almeno
suggeriscono l’infondatezza dell’idea tradizionale del libero agire nel suo
complesso. In realtà varie ragioni dovrebbero portarci a ritenere che gli
esperimenti di Libet, per quanto interessanti e certo degni di analisi, non
hanno conseguenze tanto ovvie. In primo luogo, bisogna considerare che un
imponente filone della filosofia occidentale (Agostino e Tommaso, Locke,
Leibniz, Hume, Mill) ha sostenuto che la libertà è perfettamente compatibile
con la determinazione e, anzi, secondo molti, addirittura la richiede.
L’argomento è, nella sostanza, semplice: ciò che veramente conta nella nostra
intuizione della libertà è che il soggetto possa fare quanto vuole fare ed, in
questo senso, è irrilevante che la sua volontà possa essere predeterminata.). Contro
il compatibilismo sono state mosse rilevanti obiezioni: ciò non significa però
che lo si possa placidamente ignorare, come fanno invece quanti sulla base
degli esperimenti di Libet concludono immediatamente che la libertà umana non
esiste. Un analogo discorso si può fare per la famiglia di concezioni del
libero arbitrio che si richiamano a Kant: secondo questo punto di vista, il
discorso sulla libertà non va collocato al livello fenomenico ma su un piano
puramente razionale, quello noumenico e, a questo livello, la libertà si
dimostra condizione di possibilità della responsabilità morale e
dell’imperativo categorico, dunque la sua realtà non può in alcun modo essere
posta in dubbio. In tempi recenti sono stati sviluppati autorevoli tentativi di
riprendere questa concezione in una direzione naturalistica e anche queste
proposte non possono essere ignorate da chi voglia sostenere che gli
esperimenti di Libet dimostrano l’illusorietà del libero arbitrio.
In ogni caso, diversi studi hanno messo in dubbio
che gli esperimenti di Libet (e altri esperimenti simili condotti
successivamente) siano in genere pertinenti per la questione del libero
arbitrio.
Contro la tesi che gli esperimenti di Libet dimostrino
l’illusorietà del libero arbitrio si possono muovere infatti obiezioni più
specifiche. Per esempio, si pongono domande di carattere metodologico: è
corretto equiparare la valutazione soggettiva delle esperienze coscienti con la
misurazione oggettiva degli eventi neurali? E in che senso l’azione di piegare
il dito “spontaneamente” può essere considerata il paradigma dell’azione
libera? Inoltre, come va interpretato esattamente il cosiddetto “potenziale di
prontezza”? Ma le obiezioni più importanti sono altre due. Innanzi tutto,
l’esperimento sembra presupporre un’analisi fenomenologica poco accurata dei
processi volitivi: l’esperimento di Libet si incentra sul momento in cui nel
soggetto insorge la consapevolezza dell’impulso a piegare il proprio dito, in
realtà il darsi di tale impulso non è né condizione necessaria né condizione
sufficiente di un’azione volontaria. Non è condizione necessaria (e dunque
possono esserci azioni volontarie senza l’impulso a compierle) perché spesso quando
compiamo volontariamente un’azione non avvertiamo alcun impulso a compierla, si
pensi a quando, guidando, sterziamo per curvare o a quando, mangiando portiamo
una posata verso la bocca o, ancora, a quando pronunciamo intenzionalmente una
frase durante una normale conversazione. D’altra parte, la presenza
dell’impulso ad agire non è nemmeno sufficiente per agire volontariamente:
spesso, infatti, un tale impulso precede azioni non volontarie, come quando ci
viene da starnutire o quando sbadigliamo di fronte a un interlocutore poco
brillante. Inoltre, chi interpreta gli esperimenti di Libet come se
dimostrassero che le nostre azioni apparentemente volontarie discendono in
realtà da cause inconsce dimentica che in realtà prima dell’attivazione
del “potenziale di prontezza” si dà un altro momento causalmente molto
rilevante ai fini del compimento dell’azione: ovvero il momento in cui il
soggetto sperimentale accetta di seguire le indicazioni dello sperimentatore.
Può darsi che anche tale momento abbia dei determinanti inconsci, ma nulla
nell’esperimento di Libet prova che le cose stiano così; dunque, sino a quando
non verranno portate prove in questo senso, i fautori del libero arbitrio
saranno autorizzati a sostenere che, nella situazione sperimentale libetiana,
una decisione volontaria del soggetto sperimentale inizia la catena causale che
lo porta a piegare il dito
Nel libro sostieni che, come ha suggerito Hilary
Putnam (1926-2016, filosofo e
matematico statunitense), per risolvere la questione del libero arbitrio, bisogna prima di tutto
imparare che ci sono tanti sensi diversi di rispondere alla domanda “perché?”.
Puoi spiegarci di che si tratta?
In filosofia, si chiama monismo qualsiasi dottrina che
tenda alla riduzione della pluralità degli esseri a un unico principio o a un
unico processo. Il monismo causale, molto diffuso in ambito anglosassone,
implica che tutti i casi di causazione siano riducibili alla causalità fisica
(se non direttamente microfisica). Il pluralismo causale, rispolverato da
Putnam, si ispira da una parte ad Aristotele e dall’altra al pragmatismo secondo
cui “esistono tanti tipi di causa quanti i sono i sensi del termine perché”.
Un esempio può aiutare a chiarire questa idea. Immaginiamo che un individuo
abbia un infarto. Possiamo chiederci, naturalmente perché ciò sia accaduto. Se
però questa domanda è chiara, non è chiaro quale sia la risposta giusta. Le
possibili risposte legittime sono molte e per rispondere correttamente di volta
in volta bisogna guardare al contesto in cui la domanda viene posta. Se, per
esempio, la ragione dell’infarto viene chiesta a un fisiologo, la risposta si
baserà sulla ricostruzione dei processi causali che hanno portato
all’occlusione di un’arteria dell’infartuato; se a spiegare l’accaduto fosse
invece il medico curante del poveretto, la causa dell’infarto potrebbe essere
individuata, per esempio, nel fatto che il paziente non è stato diligente
nell’assunzione dei farmaci che gli erano stati prescritti; uno studioso di
statistica medica potrebbe fare riferimento ai fattori ereditari di rischio
nella storia familiare dell’infartuato; un familiare potrebbe invece addossarsi
la responsabilità dell’evento per non essere stato abbastanza convincente nello
spiegare all’infartuato quali comportamenti avrebbe dovuto evitare; e così via.
Tutte queste spiegazioni hanno carattere causale, ma sono molto diverse tra
loro. E nessuna è la spiegazione corretta: tutte, prese nel
giusto contesto, possono esserlo. Sono dunque i contesti in cui si cerca di
spiegare un determinato evento a indicare quale tipo di spiegazione causale può
essere, di volta in volta, adeguato allora scopo. In questo modo la nozione di
causalità e quella di spiegazione sono intrecciate, ma nessuna delle due ha
prevalenza sull’altra.
Vorrei proporti due riflessioni sul significato
della questione del realismo nell’attuale contesto sociale e politico. A un
certo punto sottolinei un importante collegamento tra esercizio del libero
arbitrio e istruzione. Mi sembra un punto in comune con la tradizione
razionalistica, rappresentata per esempio da Spinoza e Leibniz, in cui si
insiste sul fatto che maggiore conoscenza corrisponde a maggiore libertà. Puoi
spiegarci come la pensi e perché si tratta di una questione attuale?
In realtà, noi oggi sappiamo dalle scienze cognitive
che siamo molto meno liberi di quanto ci piacerebbe credere. I condizionamenti
che subiamo sono molto profondi e spesso prendiamo decisioni per ragioni che ci
sono del tutto oscure (anche se non ce ne rendiamo conto). In realtà, però, per
allargare questo limitato spazio di libertà qualcosa si può fare: quando
abbiamo consapevolezza dei fattori in gioco in una scelta e ponderiamo con
attenzione su quale sia la scelta migliore, facendo attenzione ai fattori che
potrebbero fuorviarci, la nostra mente cosciente può in effetti giocare un ruolo
importante. Solo che per fare ciò c’è bisogno di consapevolezza, capacità di
analisi della realtà e abilità di ragionamento: elementi che solo l’istruzione
può aiutarci a sviluppare.
Pensi che la questione abbia un nesso con quello
delle due culture, scientifica e umanistica, e sull’esigenza di avvicinarle
nella formazione scolastica e universitaria?
Oggi molti umanisti continuano a ignorare la scienza o
a minimizzarla, errore terribile, ma la bilancia si è spostata: il peso della
scienza a livello politico e culturale è diventato preponderante. Solo che oggi
è anche la cultura scientifica a ignorare quella umanistica. Altro errore
terribile. La cultura è una e una sola e non la si può dividere in una parte
buona e in una da buttare, come fosse una banana. Un cittadino consapevole e,
per quanto possibile, autonomo deve padroneggiare sia le scienze sia le
discipline umanistiche.
A proposito del nesso tra scienza e realtà, sembra
che la questione del realismo abbia un rilievo sociale e politico. Di recente
si discute molto sul fatto che la rappresentazione del mondo sia condizionata
dal meccanismo delle “bolle” sui social network, in cui ciascun individuo tende
a trovare una conferma delle proprie concezioni, indipendente dalla rispettiva
evidenza su cui queste si possono fondare. D’altra parte proliferano teorie
alternative a quelle scientifiche, accusate o sospettate di essere il frutto di
interessi di “poteri occulti”, e questo finisce col produrre diffusi e radicali
conflitti di opinione che hanno importanti conseguenze politiche. Secondo
alcuni osservatori questa situazione favorirebbe una polarizzazione lacerante
nella società e metterebbe a repentaglio la democrazia. È una situazione che
ricorda quella che un secolo fa ispirò la nascita della “filosofia scientifica”
che mirava appunto a difendere uno spazio di ragioni universali e comuni in
un’epoca di forti polarizzazioni ideologiche, irrazionalismo filosofico e crisi
della democrazia. Pensi che il realismo filosofico possa o debba giocare un
ruolo politico nel mondo di oggi?
Assolutamente sì: assumere che molti dei problemi che
ci poniamo ogni giorno abbiano soluzioni oggettive e che esistono metodi
razionali per trovare queste soluzioni è un elemento fondamentale di ogni
decente discussione pubblica. Ci sono, però, difficoltà che non si possono
ignorare: in particolare, alcuni aspetti della nostra complessa struttura
cognitiva. Nel mondo ipercomunicativo dei social media tutti parlano di tutto,
sempre. Il risultato è una cacofonia terribile, in cui il parere degli esperti
è equiparato a quello dei neofiti e le discussioni degenerano spesso in risse
da angiporto. Aristocraticamente, Umberto Eco scriveva che i social
media “danno diritto di parola a legioni di imbecilli” (attirandosi
così l’ira dei legionari). Insomma, chi deve tacere e quando? Chi deve
rimanere in silenzio mentre gli altri parlano? La risposta è semplice: dipende
dalle situazioni. Per ognuno di noi ci sono casi in cui dovremmo rimanere in
silenzio – o, al massimo, dovremmo parlare con grande prudenza, rispettando
l’opinione di chi ne sa più di noi. Le cose non vanno però affatto così. E la
ragione è che nessuno di noi – nessuno! – sa veramente quale sono i propri
limiti conoscitivi. Pochi anni fa due psicologi hanno individuato sperimentalmente
una comunissima (anzi universale) distorsione cognitiva: più un individuo è
incompetente in un determinato campo, meno se ne rende conto. E ciò spiega
perché ci sono milioni di epidemiologi, di commissari tecnici, di esperti di
scienze dell’ambiente, di critici d’arte e di politologi. In tutti questi campi
chi dovrebbe tacere e ascoltare i veri esperti (o, almeno, dovrebbe
interloquire con grande rispetto), spesso straparla, pretendendo che la propria
opinione sia considerata tanto rispettabile quanto quella dei veri esperti.
Quindi bisogna semplicemente contenersi e affidarsi
agli esperti?
Due osservazioni. Primo, anche gli esperti sono
vittime, e anche di frequente, di tale distorsione cognitiva perché si portano
dietro la convinzione di essere esperti anche quando dicono la loro su campi di
cui non sono padroni. E così l’autorevolezza si tramuta in sicumera (basti
pensare all’attualità: agli esperti di anestesia e rianimazione che si
autonominano esperti di epidemiologia, e viceversa). Secondo, non è che gli
esperti siano infallibili: anche loro sbagliano, e frequentemente. Ma ciò non
significa che le loro opinioni, quando concernono i campi di cui sono veramente
esperti, non vadano prese in maggiore considerazione di quelle dei non esperti.
Risultato: Umberto Eco aveva ragione. Internet dà la parola a legioni di
imbecilli, che starnazzano invece di ascoltare chi ne sa di più. Solo che, a
seconda dei casi, ognuno di noi può essere il legionario di turno.