domenica 7 febbraio 2021

Il Saggio del mese - Febbraio 2021

                                       Il “Saggio” del mese

 FEBBRAIO 2021

 

L’idea iniziale era quella di pubblicare l’intera sintesi della Parte Quarta, quella conclusiva di questo saggio quanto mai voluminoso e complesso, in un unico post, ma strada facendo è subentrata la decisione di sdoppiarlo in due pubblicazioni. Per una buona ragione: in questa “Parte Quarta” Piketty analizza l’evoluzione del quadro politico delle democrazie occidentali avvenuta a partire dalla seconda metà del XX secolo e fino ai nostri giorni. Dedica particolare attenzione ai mutamenti intervenuti nell’elettorato, e conseguentemente nelle stesse proposte politiche, dei partiti della “sinistra” intesa in senso lato. Il dato che sembra emergere è quello di una progressiva trasformazione che ha allentato di molto la classica “rappresentanza di classe” dei ceti popolari, quelli che ancora nell’immediato secondo dopoguerra rappresentavano la solida base elettorale della sinistra. I quali sono stati via via, accompagnando la generale evoluzione della società, sostituiti da un elettorato più composito, e mediamente più istruito e più benestante. Contemporaneamente le generali motivazioni al voto sono passate dall’essere prevalentemente basate sulla condizione sociale ad essere fortemente condizionate da fattori etnici e religiosi. Creando così un quadro di insieme che, se da una parte evidenzia ancora di più lo stretto legame fra “capitale” ed “ideologia”, dall’altra complica il percorso di costruzione di una ideologia, e di collegate concrete politiche, più mirate a contenere il livello delle disuguaglianze. Questa analisi, articolata su tre ponderosi capitoli, è così ricca di dati e relative considerazione da implicare, nonostante gli sforzi profusi, una sintesi decisamente corposa. Il post, già quindi così lungo (è pur vero che buona parte è composta da grafici che già visivamente offrono indicazioni precise accompagnati da brevi commenti che, si spera, dovrebbero consentire ai volenterosi lettori un buon scorrimento) non si prestava però a contenere anche la sintesi dell’ultimo capitolo, quello che contiene le considerazioni finali di Piketty e le sue proposte per attive politiche finalizzate alla giustizia sociale. Consiste in questo "sovraccarico" la ragione ci ha indotto a suddividere la sintesi della Parte Quarta in due puntate. Questa, dedicata come si è detto, ai tre capitoli di analisi politica, e quella, a chiudere questo nostro lavoro, che presenterà la parte propositiva.

Parte Quarta

Rivedere le dimensioni

del conflitto politico

Capitolo 14

La costruzione dell’uguaglianza

(In cui P.  dopo aver analizzato le trasformazioni storiche dei regimi delle disuguaglianze inizia a delineare quelle che ritiene possano essere le linee guida per la costruzione dell’uguaglianza iniziando a valutare le mutazioni intervenute nel quadro politico a cavallo del cambio di secolo

Decostruire sinistra e destra: le dimensioni del conflitto sociopolitico

L’onda lunga, per quanto complessa e tormentata, dell’affermazione della democrazia impone un passaggio preliminare per qualsiasi ipotizzabile strategia di “costruzione dell’uguaglianza”. Il consenso forte, radicato e diffuso, che questa richiede deve calarsi nel modo più efficace possibile nel reale contesto dell’attuale confronto elettorale. Si deve cioè fare fino in fondo i conti con la complessità delle attuali divisioni elettorali e politiche, la quale sembra aver smesso le vesti del conflitto monodimensionale tra “poveri” e “ricchi” per assumere, in una molteplicità di varianti, quelle del conflitto ideologico fra diverse visioni del mondo e di una “società giusta”. P. ritiene utile in questo senso ripercorrere la recente evoluzione del rapporto tra consenso elettorale e stratificazione sociale, iniziando dal percorso storico della sinistra elettorale dal 1945 ad oggi in Europa e negli USA riepilogato nel seguente grafico 67 che evidenzia la differenza in percentuale del voto espresso ai partiti di sinistra dal 10% dei più istruiti ed dal restante 90% dei meno istruiti

Grafico 67

Si coglie bene l’evoluzione comune delle tre curve il cui andamento è, come si vedrà,  estendibile ad altri paesi occidentali: negli USA il Partito Democratico, in Francia quelli raggruppati a sinistra, nel Regno Unito quello laburista, che avevano inizialmente un consenso elettorale maggiormente radicato negli elettori con basso livello di istruzione, definibili come “ceti popolari”, vedono progressivamente crescere l’incidenza del loro voto fra gli elettori più istruiti, quelli definibili come “middle class”, “ceti medi”, fino a raggiungere nel 2015 un dato esattamente capovolto rispetto a quello di partenza. Sembra pertanto possibile sostenere che, se nell’immediato dopoguerra la sinistra parlamentare era un “partito dei lavoratori”, ad inizio XXI secolo viene percentualmente premiata di più dai laureati e quindi da dirigenti e da professionisti di buon livello. E’ un aspetto centrale, qui presentato per ora come dato di massima ma successivamente dettagliato con più precisione, per comprendere come concretizzare processi di costruzione di maggiore uguaglianza.  Questo primo dato, e gli altri che seguiranno, sono stati raccolti, precisa P., grazie ad un articolato e complesso lavoro di analisi dei risultati elettorali e dei sondaggi post-voto mirati a fotografare l’identikit degli elettori. L’analisi su di essi costruita ha, come vedremo,  evidenziato per il voto dal 1945 in poi, e quindi con la definitiva piena affermazione del diritto di voto universale, un preciso trend di cambiamento: da un orientamento elettorale determinato in gran prevalenza dalla appartenenza socio-economica, “di classe”, ad uno molto più complesso di natura politico-ideologica correlabile a quattro categorie di stratificazione sociale in buona misura interclassiste: l’istruzione, esaminata in una prima lettura nel precedente grafico 67, il reddito, il patrimonio, ed infine le appartenenze religiose e etnico-razziali. Le considerazioni analitiche che concorrono a determinare questo trend prendono in esame il voto suddividendolo tra “destra” e “sinistra”, con una separazione schematica più facilmente applicabile in paesi come gli USA ed il Regno Unito che da sempre vedono una sostanziale bi-polarizzazione del voto, mentre per paesi come la Francia, in cui è presente un accentuato multi-partitismo, si sono gioco forza assemblate nei due contenitori partiti molto variegati e persino in contrapposizione politica. Prima di valutare la relazione con il voto delle quattro categorie di stratificazione sociale è però opportuno analizzare l’incidenza della partecipazione elettorale. Il seguente grafico la evidenzia per il periodo 1945 – 2015 nei tre paesi in esame: USA (dato delle elezioni presidenziali) Francia e Regno Unito (dato delle elezioni politiche)

Grafico 68

Interessa per intanto cogliere la linea di tendenza comune fra i tre paesi in esame: al di là di alcuni specifici picchi, determinati da elezioni particolarmente sentite, si coglie una evidente e costante disaffezione elettorale, più accentuata negli ultimi decenni del secolo per Francia e Regno Unito a fronte di  un andamento abbastanza costante su alte percentuali fino agli anni Ottanta, mentre la curva USA presenta una flessione più contenuta ma a fronte di percentuali da sempre di non poco inferiori a quelle europee. Queste curve devono però, per meglio cogliere le logiche di disaffezione elettorale, essere messe a confronto con le rispettive ripartizioni dei votanti in base al loro reddito. Il seguente grafico, che evidenzia l’incidenza del voto del 50% più ricco dei votanti rispetto al 50% più povero, consente quindi  di visualizzare un rapporto con l’andamento delle curve del precedente grafico 68

Grafico 69


Il raffronto fra i due grafici mette in mostra una relazione importante fra la disaffezione elettorale ed il livello di reddito dei votanti. Negli USA, fatti sempre salvi alcuni specifici picchi, l’andamento delle due curve è sostanzialmente simile, ma la percentuale dei votanti del 50% più ricco, pur scendendo in misura contenuta e parallela al calo dei voti, è sempre significativamente alta, restando mediamente attorno al 15%, vale a dire che in America sono i più ricchi che da sempre votano di più. In Francia e nel Regno Unito al contrario l’andamento delle curve dei grafici 68 e 69 presenta una similitudine solo per il periodo 1945 – 1980, mentre diventa opposto ad iniziare dal 1990: da una parte, grafico 68, la partecipazione al voto diminuisce bruscamente, dall’altra, grafico 69, la percentuale dei votanti del 50% più ricco cresce altrettanto significativamente. La disaffezione del voto è quindi ascrivibile in gran misura ai ceti più poveri. Un dato quanto mai importante per le finalità analitiche di questa Parte Quarta.

Il peso elettorale dell’istruzione

L’analisi dell’incidenza sul voto da parte delle quattro categorie individuate in precedenza viene svolta da P. prendendo in esame in prima battuta la situazione francese, quella per la quale è disponibile una maggior quantità di dati. L’attenzione sarà concentrata sul voto “a sinistra”, ossia sulla componente politica che di più ha storicamente sostenuto la finalità di una maggiore uguaglianza. Nei Capitoli successivi, entrando maggiormente nel dettaglio, sarà quindi valutata la validità delle indicazioni in questo primo modo ottenute anche per altri paesi occidentali. La prima categoria presa in esame è il rapporto tra votanti e livello di istruzione dettagliando quindi  le linee di tendenza già rilevate nel precedente grafico 67. Quello seguente evidenzia pertanto il voto a sinistra in Francia nel periodo 1956-2012 (elezioni presidenziali)  ripartendolo in relazione al livello di istruzione posseduto (licenza scuola primaria – diploma – laurea)

Grafico 70


Si coglie bene la relazione tra due tendenze strettamente correlate: quella della partecipazione al voto e quella della sua differenziazione per livelli di istruzione. Per il primo aspetto (dati in % alla base delle colonne) si assiste alla seguente progressione:

*   elettori con licenza scuola primaria = 72% - 42% - 30% - 18% che votano

*   elettori con diploma                         = 23% - 47% - 48% - 56%  “        “

*   elettori con laurea                            =    5% - 11% - 22% - 26%  “        "                        

La costante discesa dell’affluenza alle urne degli elettori con licenza di scuola primaria ed il correlato aumento di quelli con livelli di istruzione più alti non si spiegano solo con l’aumento del livello medio di istruzione, che pure ha una incidenza significativa, ma confermano che il fenomeno della disaffezione elettorale, che sta incidendo in misura preoccupante sulla tenuta delle democrazie rappresentative, è in buona misura attribuibile agli elettori meno istruiti. Questa tendenza comporta poi (dati in % in cima alle colonne) una diversa incidenza dei tre gruppi sul voto a sinistra:

*   elettori con licenza scuola primaria = 57% - 48% - 44% - 47%

*   elettori con diploma                         = 49% - 47% - 48% - 50%

* elettori con laurea                            =  37% - 44% - 49% - 58%                                                               

   Nel periodo preso in considerazione non solo gli elettori meno istruiti partecipano di meno alle votazioni ma ormai meno della metà dei loro voti premia la sinistra mentre, al contrario, con il dato di quelli intermedi costante, ben più della metà degli elettori con laurea dimostra una progressione significativa di voto a sinistra. Una tendenza che non sembra essere influenzata da differenze di fasce d’età e da caratteristiche sociodemografiche. Il dato francese evidenzia ad esempio che il voto giovanile si mantiene costantemente più orientato a sinistra confermando le linee di tendenza del grafico 70. Una considerazione valida anche per il voto femminile che, in generale fatte salve alcune situazioni contingenti, si è anch’esso progressivamente spostato a sinistra confermando, se non accentuando, l’incidenza del livello di istruzione che emerge da questi dati. La fotografia di dettaglio delle categorie professionali, meno istruite, che di più si sono “allontanate” dalla sinistra: vede in prima fila proprio i lavoratori dell’industria, gli “operai”, la base forte del voto a sinistra dei primi decenni del secondo dopoguerra, e subito dopo i dipendenti poco qualificati del settore dei servizi. Come spiegare che dal decennio 1990-2000 i partiti di sinistra abbiano quindi smesso di essere i partiti dei lavoratori e dei dipendenti socialmente più svantaggiati? Concorrono sicuramente un insieme di fattori, ma come tendenza generale incidono, secondo P., due spiegazioni: un’ipotesi sociale ed un’ipotesi nativista. La prima consta nel sentimento diffuso di delusione delle categorie popolari che si sono sentite progressivamente “abbandonate” dalle politiche della sinistra sempre più orientate ad un visione generale interclassista, la seconda si basa su una disaffezione degli stessi strati sociali, quelli più esposti alla “concorrenza sul lavoro dal basso”, legata all’incapacità della sinistra di fronteggiare adeguatamente le sirene razziste e anti-immigrazione. Sono due ipotesi, fra di loro intrecciate, che richiedono adeguati approfondimenti che saranno sviluppati nei Capitoli successivi. Restando all’incidenza specifica del livello di istruzione appare però evidente che la sinistra, le socialdemocrazie occidentali, hanno pagato anche in termini elettorali i gravi specifici limiti delle loro politiche dell’educazione analizzati nel precedente Capitolo 11 della Parte terza. Resta comunque ferma la sensazione di un processo graduale, costante e non adeguatamente contrastato, che ha portato le “sinistre” occidentali a trasformarsi, dati elettorali alla mano, da “partiti dei lavoratori e delle classi popolari” a quella che P. sinteticamente definisce la “sinistra intellettuale benestante”.

Il patrimonio, la sinistra e la destra.

Sempre prendendo in esame la situazione francese, quella più ricca di dati disponibili, P.  passa quindi ad analizzare la seconda categoria: il rapporto tra tendenze elettorali e livelli dei redditi e dei patrimoni dei votanti. Il seguente grafico evidenzia la sua evoluzione esaminando il voto a sinistra relazionando la percentuale di voti ottenuti nelle stesse tornate elettorali presidenziali del grafico 70 e suddividendo gli elettori fra i vari decili di reddito

Grafico 71


Le prime tre tornate elettorali hanno una curva relativamente simile: il voto raccolto dal candidato di sinistra raccoglie consensi intorno al 40-45% da parte del decile più povero, cresce con identica progressione fino a toccare livelli pari al 50-55% nei decili medio-bassi, per poi iniziare a scendere nei decili medio-alti attestandosi a non più del 35-40% ed infine a crollare a percentuali inferiori al 25% nel 5% ed 1% più ricchi. Le ultime elezioni del 2012 presentano una curva decisamente anomala rispetto alle altre: in costante discesa dall’iniziale 60% di voti raccolti nel decile più povero, ma con una progressione verso il basso più contenuta, chiude poi con un dato del decile più ricco che ancora si assesta attorno ad un buon 45% e a percentuali relativamente alte anche nel voto del 5% ed 1% più ricchi. Le indicazioni ricavabili di questo primo grafico relativo al reddito posseduto devono essere integrate con quelle suggerite passando ad esaminare il rapporto con la ricchezza da proprietà posseduta. Il seguente grafico evidenzia quindi il rapporto fra il voto a sinistra nelle stesse elezioni con il livello di ricchezza patrimoniale posseduta dagli elettori

Grafico 72

E’ subito evidente la differenza delle curve con quelle del precedente grafico 71: quando si passa a relazionare la propensione del voto a sinistra con la ricchezza patrimoniale posseduta dai votanti tutte le curve in esame evidenziano un omogeneo netto calo: dall’iniziale 60-70% espresso dal decile più povero si scende, passando con un ancora contenuto rallentamento nei decili medio-alti, al di sotto del 30% per il decile più ricco ed ancora più in basso per il 5% ed 1% più ricchi. Anche in questo caso, a conferma di un mutamento non casuale, la curva del voto del 2012, seppure in linea con quelle precedenti, ha un andamento meno accentuato chiudendo con un voto delle fasce più ricche ancora sopra al 30%. Sono in ambedue i casi, reddito e proprietà, dati che richiedono specifici approfondimenti, anche per comprendere la possibile validità per altri paesi, una prima ipotesi è per P. comunque possibile: la generale crescita del reddito posseduto non sembra aver frenato di per sé stessa la propensione del voto a sinistra, anzi si rileva un suo incremento nei decili di reddito che costituiscono in buona misura quella “sinistra intellettuale benestante” già più orientata a sinistra in base al livello di istruzione. Un’area politicamente indistinta che, dato del voto del 2012, sembra essersi spinta ancora più in alto fino a coinvolgere una quota non trascurabile degli strati più ricchi. Nei quali, a partire dai decili medio-alti, accanto alle figure sociali tradizionalmente più ricche – imprenditori, dirigenti e funzionari di alto livello, ha buon peso la cosiddetta “destra mercantile” – più diffuse figure sociali in grado di ricavare livelli significativi di reddito ad esempio dal possesso di piccole imprese e attività di vario genere, dalla titolarità di beni, licenze, concessioni, rappresentanze in esclusiva -  la quale, conseguentemente, fa di più sentire la sua voce quando si passa a considerare la ricchezza patrimoniale. La discesa costante di tutte le curve del grafico 72 bene evidenzia questo aspetto già per i decili intermedi. E’ quindi ipotizzabile che là dove una crescente ricchezza da reddito resta più collegata al livello di istruzione raggiunto resiste la propensione al voto a sinistra esaminata nei precedenti grafici 69 – 70, là dove invece la ricchezza è più collegata ai patrimoni posseduti questa propensione si raffredda notevolmente e sostiene un voto tradizionalmente di destra. Si sta ancora procedendo per categorie molto estensive, la stessa divisione fra “sinistra intellettuale benestante” e “destra commerciale” richiede maggiori dettagli anche in relazione al fatto che importanti strati sociali non rientrano automaticamente in questi due campi. E’ ad esempio storicamente accertata la diffidenza di contadini proprietari, di commercianti al dettaglio, di artigiani, e più recentemente di lavoratori autonomi “obtorto collo”, verso la sinistra, per ragioni di natura ideologica ma anche a causa di politiche di tassazione che non sempre hanno tenuto in debita considerazione le loro specificità. Si è vista nei grafici 71 -72 l’anomalia del dato elettorale del 2012, quello che, non a caso, ha di più registrato i mutamenti intervenuti nel quadro mondiale con la fine del comunismo sovietico e con l’avvento della globalizzazione neoliberista.  La tendenza che sembra emergere da questo dato rilevabile, come si vedrà, in quasi tutto l’Occidente, è quella della sostituzione della classica divisione per classi fra “ricchi” e “poveri” da una parte con una più articolata su una grande molteplicità di figure sociale e dall’altra da una linea di frattura che per certi versi rende complementari le stesse “sinistra intellettuale benestante” e “destra mercantile”. Entrambe infatti manifestano una certa dose di conservatorismo di fronte all’evoluzione in atto del regime delle disuguaglianze: la prima crede nel merito dello studio e delle competenze professionali, la seconda privilegia la propensione “agli affari”. Se da queste diverse propensioni discendono ovvie differenze e contrasti anche forti, entrambe però “di fatto” aderiscono, essendone a loro volta alimentate, all’attuale sistema economico. Non a caso sono la parte del corpo elettorale che di più mantiene l’attitudine al voto. Quella che, sempre non a caso, non manifesta più quella parte della popolazione che si sente esclusa, penalizzata dall’economia globalizzata.

Il ritorno delle divisioni identitarie e religiose

La Francia ancora appare agli occhi del mondo, a distanza di più di due secoli dalla Rivoluzione del 1789, come la patria del laicismo. Una lettura più attenta, che si sovrappone a quella delle due categorie precedenti, evidenzia però un quadro più complesso che, coerentemente con la scelta di P. di iniziare dalla Francia come caso emblematico per sviluppare successive riflessioni generali, merita di essere conosciuto. Il seguente grafico è relativo all’appartenenza religiosa dell’elettorato francese nel periodo 1967-2017

Grafico 73


Lo spaccato offerto è utile come dato base per valutare l’eventuale incidenza delle divisioni religiose sulla partecipazione e sulla propensione al voto. Nell’arco dei cinquant’anni presi in esame le appartenenze religiose dell’elettorato francese hanno visto un significativo cambiamento: il campo cattolico che al 1967 valeva complessivamente il 91% è progressivamente sceso al 55%, con un calo molto più marcato per i praticanti passati dal 25 % al 6% rispetto a quello dei non praticanti scesi dal 66% al 49%. Sono rimasti stabili attorno al 3-4% gli elettori appartenenti alle altre religioni (ebrei, protestanti, buddisti) mentre i mussulmani sono saliti da iniziali percentuali irrilevanti al 5%. In relazione a queste consistenze percentuali merita valutare la loro incidenza sul voto a sinistra prendendo in esame i tre gruppi più significativi che complessivamente contano mediamente per una percentuale superiore al 90%. Il seguente grafico evidenzia il loro voto a sinistra lungo lo stesso arco temporale del precedente grafico 73

Grafico 74


Si coglie bene la propensione dei cattolici praticanti verso un voto a destra compensata, con quelli non praticanti in una posizione a metà fra destra e sinistra, dalla tendenza opposta degli elettori senza religione. Ma emerge anche una tendenza, a partire dal 2002, ad un voto più omogeno, meno drasticamente differenziato. Questa possibile propensione va però inserita in un quadro più generale comprensivo degli altri due gruppi

Grafico 75


E’ bene precisare che si tratta di dichiarazioni di appartenenza espresse da elettori, e quindi da cittadini con cittadinanza francese, il che significa, ad esempio, che la consistenza della popolazione mussulmana in Francia è leggermente superiore al 5% individuato nel grafico 73. L’incrocio dei due grafici 74 – 75 con quelli precedenti relativi al rapporto fra propensione al voto a sinistra e istruzione e reddito/patrimonio posseduti non sembra evidenziare una correlazione immediata, sia per il voto a destra che sembra comunque essere più motivato dalle appartenenze religiose che da altri fattori, sia per il voto a sinistra, che vede ad esempio i suoi elettori mussulmani in buona misura motivati dall’atteggiamento ostile nei loro confronti dei partiti di destra. L’insieme dei due grafici 74 – 75 evidenzia in sintesi un arco elettorale che, partendo da destra e chiudendo a sinistra, vede: cattolici praticanti, cattolici non praticanti, altre religioni, senza religione ed infine mussulmani. Ma l’incrocio con le rispettive sensibilità su alcuni temi, famiglia-sesso-genere, per i quali è molto rilevante l’appartenenza religiosa, al punto da vedere allineati su posizioni tradizionaliste i cattolici praticanti e le altre religioni, mussulmani in primis - fa capire che la caratteristica dell’appartenenza etnica prevale su quella religiosa che peraltro a sua volta fa aggio su livello di istruzione e di reddito. Ed è quindi su di essa, definita come “nativismo” che P. concentra l’attenzione. Il seguente grafico la esamina, prendendo in esame i primi decenni del nuovo secolo, quelli che di più hanno visto crescere l’immigrazione straniera, fotografando la propensione del voto a sinistra relazionata alla origine etnica

Grafico 76



A fronte di limitate variazioni di consistenza demografica fra i tre gruppi, dato alla base delle colonne, che vede comunque crescere la presenza straniera, si può cogliere un sostanziale allineamento tra i “locali” e gli stranieri di origine europea che esprimono una leggera propensione per il voto a destra, mentre invece gli elettori di origine straniera extraeuropea, in gran misura mussulmani, sono decisamente orientati per un voto a sinistra sicuramente determinato dalla ostilità nei loro confronti da parte della destra. La sintesi delle interconnessioni fra queste quattro categorie esaminate: istruzione, reddito/patrimonio, religione, etnia, induce P. a ritenere possibile una divisione dell’elettorato, in questo caso francese, in quattro macro blocchi. Va da sé che al loro interno sono rilevabili diverse linee di separazione e distinzione ma, in relazione alla necessità di individuare sulla base delle attuali tendenze di voto una maggiore o minore propensione ideologica al contrasto delle disuguaglianze, queste quattro aree, determinate sia dal loro rapporto con la globalizzazione sia dalle quattro categorie esaminate in precedenza, sembrano offrire uno spaccato attendibile. Per P. questi quattro macroblocchi sono:

*      Internazionalisti egualitari = pro immigrati e pro poveri

*      Internazionalisti non egualitari = pro immigrati e pro ricchi

*      Nativisti non egualitari = anti immigrati e pro ricchi

*      Nativisti egualitari = anti immigrati e pro poveri

Il seguente grafico le segue nella loro evoluzione elettorale nei primi due decenni del nuovo secolo

Grafico 77


Le dinamiche contingenti hanno determinato curve abbastanza mosse con picchi, positivi e negativi, anche rilevanti, con la sola eccezione della curva dei “nativisti non egualitari”, quindi anti immigrazione e pro ricchi, che sembrano poter contare su una sorta di zoccolo duro di elettori. Il dato che sembra essere quello più significativo è dato però dal sostanziale allineamento dei quattro blocchi al termine del periodo in esame: nel 2018 sono infatti compresi in una forbice che va dal 22% al 30%, determinando pertanto un quadro politico di difficile gestione. Sul quale inoltre incide un quinto decisivo macro blocco, non contemplato nel grafico 77: quello degli astensionisti che vale mediamente un 20% degli aventi diritto al voto. Potrebbe teoricamente essere l’ago della bilancia nel caso in cui venisse coinvolto, ma le sua caratteristiche storicamente consolidate parlano di un gruppo non politicizzato e soprattutto non politicizzabile. La partita sembra quindi che si giochi all’interno di un elettorato diviso in quattro blocchi da linee di separazione non facilmente superabili e componibili.  Se questo quadro dovesse mantenersi in qualche modo valido per l’intero Occidente, pur con le ovvie specificità nazionali e con possibili limitate evoluzioni, si confermerebbe in via definitiva il lungo processo di destrutturazione del sistema di divisione in classi tipico di tutto il secolo XX durato quantomeno fino agli anni Ottanta già analizzato nella Parte Terza. Un’ultima variabile merita di essere considerata: l’incidenza sull’elettorato francese del rapporto con il processo di costruzione dell’Europa Unita.  Sul merito del quale si sono tenuti in Francia due referendum: uno nel 1992 sul Trattato di Maastrich, con la vittoria del SI confermativo con il 51%, ed uno nel 2005 sulla Costituzione Europea, con il SI confermativo sconfitto con il 45%. Il seguente grafico evidenzia l’evoluzione del voto per il SI da un referendum all’altra in relazione ai livelli di istruzione, reddito e patrimonio suddivisi per decili di ricchezza

Grafico 78



Emerge che in ambedue i referendum, seppure con esito opposto, solo a partire dal sesto decile si inizia a superare la soglia del 50% dei consensi. Nel primo referendum il SI vinse grazie alla rilevante astensione al voto degli strati più poveri, al contrario nel secondo, quando invece il SI perse, per la loro notevole partecipazione. Sono comunque espressioni di un voto che esprime una diffidenza verso il progetto europeo molto classista, essendo una evidente espressione degli strati medio bassi della società, ma slegata dalla classica loro classificazione in “destra” e “sinistra”. A sostegno del SI si sono infatti mosse sia la sinistra intellettuale benestante che la destra mercantile. Sembra comunque evidente che il progetto di una Europa più Unita debba, per risultare vincente, guardare con maggiore attenzione alle aspettative della parte meno ricca della popolazione. Francese in questo caso, ma come si avrà modo di vedere europea in generale.

Capitolo 15

La sinistra intellettuale benestante:

i nuovi divari euro – americani

(In cui P., analizzata l’evoluzione francese del sistema dei partiti e dei loro consensi elettorali, esamina le altre democrazie occidentali per verificare analogie e differenze

La trasformazione del sistema dei partiti negli Stati Uniti

L’esperienza francese, analizzata nel precedente Capitolo 14, è sintetizzabile in alcuni punti essenziali:

Ø con una svolta avvenuta a cavallo degli anni Ottanta la propensione di voto è  passata dall’essere determinata dall’appartenenza di classe,  con i ceti popolari più orientati a votare a sinistra, ad una più influenzata da motivazioni di ordine ideologico/politico, dal livello di istruzione, di reddito/patrimonio, piuttosto che da considerazioni di ordine etnico/religioso

Ø si è in tal modo formata una sovrapposizione di gruppi elettorali che, con una accettabile dose di approssimazione, vedono ai due estremi  una “sinistra intellettuale benestante”, caratterizzata da buon livello di istruzione e reddito, ed una “destra commerciale”, più legata al livello di patrimonio e da considerazioni etnico/razziali.

Ø le classi popolari e buona parte del ceto medio si muovono, a seconda delle contingenze, fra questi due estremi.

Per capire se il dato francese ha valore generale P. passa ad analizzare le situazioni del Regno Unito e degli USA, partendo da questi ultimi valutando, come già fatto per la Francia, il rapporto tra voto “a sinistra”, qui rappresentata dal Partito Democratico, e livello di istruzione dei suoi elettori, preceduta da una panoramica elettorale generale. Il seguente grafico la riassume sintetizzando l’andamento delle elezioni presidenziali dal 1948 al 2016.

Grafico 79


Come è noto la scena elettorale americana, a differenza di quella pluripartitica francese, è caratterizzata da un netto bipolarismo, i candidati non democratici o repubblicani hanno, con scarse eccezioni, sempre raccolto insignificanti consensi in un sistema di designazione del Presidente che, va ricordato, non necessariamente premia il candidato che ha raccolto più voti a livello generale (come ad esempio nel 2016 con Trump e Hilary Clinton). Sulla base di questo andamento il grafico successivo evidenzia il livello di istruzione degli elettori democratici riferito alla percentuale totale di voti raccolti in quattro significative elezioni  

Grafico 80


Il dato delle elezioni del 1948 è chiaro: più gli elettori erano istruiti e meno votavano democratico, la situazione tende a livellarsi nel 1960 quantomeno fra elettori con istruzione primaria e secondaria che però ormai votano in maggioranza repubblicano, ma già nel 1992 quelli con istruzione primaria crollano a meno del 20% compensati dal balzo in alto di quelli con istruzione secondaria e dalla buona salita di quelli con laurea e da una prima importante adesione di quelli con master. Nel 2016 il voto ai democratici degli elettori con istruzione primaria è ormai sotto il 10%, restano stabili quelli con istruzione secondaria, ed i laureati divisi nei tre gradi contano ormai per il 32%. Considerato il basso livello di partecipazione al voto (pari al 55% sia nel 1992 che nel 2016) la vittoria di Bill Clinton nel 1992 ed il maggior numero di voti ottenuti da Hilary Clinton, seppur sconfitta, nel 2016 ci dicono anche che gli elettori con buon livello di istruzione hanno votato di più e hanno votato democratico, mentre quelli con istruzione primaria hanno sempre più premiato il candidato repubblicano. Una tendenza che è confermata e dettagliata dal seguente grafico che evidenzia la curva di crescita della differenza % del voto democratico del 10% degli elettori più istruiti e del 90% meno istruiti (DATO A), dato che viene poi corretto da altre due curve che rapportano tale percentuale la prima a età, sesso, situazione familiare (DATO B), la seconda anche a reddito, patrimonio, razza, (DATO C)

Grafico 81


Le tre curve hanno andamento parallelo a dimostrazione che la tendenza della crescente incidenza percentuale del voto del 10% degli elettori più istruiti che hanno votato per il Partito Democratico, costantemente salita con limitate variazioni dal -20% del 1948 all’esatto opposto di più del 20% nel 2016, non subisce influenza significativa considerando le altre variabili. Più gli elettori sono istruiti più votano democratico, meno lo sono e meno lo votano. E’ questa una prima importante corrispondenza con la situazione francese. Proseguendo con la comparazione P. passa quindi a valutare la relazione del voto democratico con il livello di reddito dei suoi elettori. Come evidenziato in precedenza nella Parte Terza sulla possibilità che un migliore livello di istruzione offra un corrispondente miglior inserimento lavorativo, e quindi un maggiore livello di reddito, sarebbe lecito, sulla base dei dati dei precedenti grafici, attendersi un comportamento analogo. Il seguente grafico mette in relazione per otto tornate elettorali presidenziali la percentuale del voto democratico ripartita per i decili di reddito con l’aggiunta, come per la Francia, degli elettori con reddito Top 5% e Top 1%

Grafico 82


Va ovviamente colta una linea di tendenza, rappresentando ogni elezione un appuntamento molto condizionato dalla personalità pubblica dei candidati, la quale sembra evidenziare un calo lento e progressivo in tutte le elezioni man mano che si salgono i decili di reddito. Colpisce però l’andamento del 2016: il voto democratico è appena sopra il 50% nel decile più povero, scende ma in misura contenuta fino al decile mediano per poi risalire ed in modo consistente proprio nei decili più ricchi e persino nella fascia TOP 5% e TOP 1%. Aiuta a meglio capire il seguente grafico che riprende il dato del precedente grafico 81, quello che evidenzia la curva di crescita della differenza % del voto democratico del 10% degli elettori più istruiti e del 90% meno istruiti (DATO A), e lo mette confronto con quello analogo ma riferito al solo livello di reddito (DATO B)

Grafico 83


L’orientamento a votare democratico appare molto più marcato nella curva (DATO A) che segnala la crescita del livello di istruzione, meno accentuata è infatti quella (DATO B) relativa al livello di patrimonio posseduto che resta costantemente negativa a sancire una preferenza per il voto repubblicano. Ma ad iniziare dagli anni novanta la curva inizia a salire avvicinandosi ad un possibile sostanziale pareggio (quota 0%), evidenziando una possibile spiegazione: gli elettori più istruiti che a partire dagli anni Ottanta premiano costantemente il Partito Democratico, sono lo strato sociale che, proprio grazie all’alta istruzione, accede a buoni redditi, consentendo una conseguente progressiva patrimonializzazione, la quale da sola non induce ad un mutamento di propensione elettorale. Sembra pertanto possibile sostenere anche per gli USA l’esistenza di una “sinistra intellettuale benestante”, la quale deve fronteggiare non soltanto una “destra mercantile”, che mantiene ferma la propensione al voto repubblicano, ma anche le divisioni interne al campo della sinistra statunitense. L’allineamento della “sinistra intellettuale benestante” con l’élite dei “vincenti della globalizzazione” si sta infatti progressivamente scontrando con il crescente affermarsi di una sinistra più radicale, ideologicamente più vicina ai “perdenti della globalizzazione, ceti popolari ed immigrati. Ogni valutazione sul quadro politico elettorale americano non può però prescindere dall’incidenza del fattore razziale. Il seguente grafico analizza il voto democratico dal 1948 al 2016 suddiviso per identità etniche evidenziando la percentuale di adesioni ottenuta dagli elettori bianchi – neri – ispanici ed altre etnie

Grafico 84


E bene tenere sempre presente due dati fondamentali nel valutare i trend elettorali americani: l’incidenza del personale prestigio elettorale dei candidati alla presidenza, e la percentuale di votanti. Nel caso specifico della partecipazione al voto per appartenenza etnica si registrano abitualmente notevoli variazioni spiegabili proprio con l’incidenza di questi due fattori. Ciò fermo restando è comunque possibile individuare delle linee di tendenza. Il voto bianco si è mantenuto in tutto il periodo esaminato su adesioni minoritarie, quello nero al contrario ha costantemente premiato il Partito Democratico con percentuali costantemente superiori all’80%, il voto ispanico, e di altre etnie, appare più variabile attestandosi su posizioni democratiche, ma solo con una leggera maggioranza. Un altro dato fondamentale per meglio comprendere queste linee di tendenza è quello della consistenza numerica degli aventi diritto al voto delle varie etnie: la composizione razziale americana è in costante mutamento: se nel 1948 il 90% dei votanti era bianco e il 10% nero, con voto ispanico/altre etnie irrilevante, nel 2016 i votanti bianchi sono scesi al 70%, quelli neri sono rimasti costanti attorno al 10%, gli ispanici/altri sono saliti a ben il 20% degli aventi diritto al voto. L’incrocio fra questi dati consente di dire che il voto bianco, quello maggioritario anche se in costante e inarrestabile discesa, ha sempre premiato la destra, le vittorie democratiche sono state possibili grazie al voto delle altre etnie ed alla forte correlata astensione del voto bianco. Il grafico che segue, analogamente ai precedenti grafici 81 livello di istruzione, e 83, livello di reddito, analizza questo trend evidenziando il rapporto percentuale fra “voto bianco” e “voto altre etnie” per il Partito Democratico, DATO A, e poi rapportandolo ad età, sesso, istruzione, reddito, patrimonio, DATO B

Grafico 85


Se nel 1948 gli elettori democratici neri valevano circa il 10% in più rispetto a quelli bianchi, DATO A, il peso di questi ultimi è continuamente diminuito, in modo ancora più accentuato a partire dagli anni Sessanta con l’aggiunta al voto nero di quello ispanico/altri, per poi assestarsi attorno ad un dato medio che va dal 30% al 40% in meno (un elettore democratico bianco vale 3-4 elettori di altre etnie). La curva del DATO B presenta lo stesso andamento con solo un leggero scarto in difetto rispetto a quella del DATO A a dimostrare che gli altri fattori, in particolare quelli socio-economici, non incidono sulla propensione al voto democratico delle etnie non bianche. La spiegazione principale non può che consistere nell’atteggiamento fortemente ostile mei loro confronti da parte del Partito Repubblicano, il quale peraltro raccoglie anche grazie a questo il consenso maggioritario nell’elettorato bianco. Sembra pertanto possibile stabilire anche in questo caso una forte analogia fra la situazione francese e quella statunitense: l’elettorato di etnia diversa premia i partiti di sinistra perché, indipendentemente dalla sua condizione sociale, percepisce la forte ostilità della destra. E’ un dato che, con la crescita dei connotati multietnici, può avere una forte incidenza sull’andamento elettorale equilibrando in misura consistente la perdita da parte delle sinistre del voto popolare, tradizionale loro bacino fino ai primi decenni del secondo dopoguerra, ma modificando conseguentemente la sua stessa proposta politica. In sintesi infatti, con tutte le cautele del caso, sembra possibile uno schema che vede il voto a sinistra basato su due componenti principali: la sinistra intellettuale benestante e gli elettori di altre etnie, e quello di destra a sua volta basato su altre due componenti: la destra economica e l’elettorato popolare bianco/locale, quello che in precedenza rappresentava il blocco di base della sinistra. Il seguente grafico fotografa questa conformazione elettorale evidenziando l’analogia della composizione etnica del voto a sinistra in Francia e negli USA

Grafico 86


Si coglie bene questa analogia: meno della metà dell’elettorato di origine francese, che vale il 72% dei votanti, vota a sinistra, allo stesso modo negli USA solo il 37% del 70% bianco vota democratico, gli altre raggruppamenti etnici, per la Francia gli immigrati di origine europea ed extraeuropea che insieme valgono il 28% dei votanti (19%+9%) votano a sinistra rispettivamente per il 49% e ben 77%, negli USA votano democratico il 64% degli ispanici/altre etnie e ben l’89% dei neri che valgono insieme il 30% dei votanti (19%+11%). Alcuni indicatori lasciano supporre una maggiore fluidità nelle divisioni etno-religiose francesi, grazie ad esempio ad un numero crescente di matrimoni misti, mentre negli USA questa appartenenza sembra molto più rigida. E’ difficile quantificare l’incidenza sul voto bianco o di origine francese delle politiche più aperte verso le minoranze etniche da parte della sinistra francese e democratica statunitense, un qualche peso è sicuramente presente, ma secondo P. va inserito nel processo più generale di mutamento dell’elettorato di sinistra in rapporto al livello di istruzione e di reddito/patrimonio. Vale a dire che il fattore razziale ha una sua specifica incidenza ma è anche possibile che l’elettorato popolare tradizionalmente orientato a sinistra abbia già percepito, sia in Francia che negli USA, una minore attenzione nei suoi confronti innescando così un malumore di base sul quale ha poi avuto gioco, con la crescita dei fenomeni immigratori, anche una reazione di tipo razzista.

La trasformazione del sistema dei partiti nel Regno Unito

Per completare il raffronto della situazione francese, analizzata nel precedente Capitolo 14, con i paesi di matrice anglosassone P. passa quindi ad analizzare il sistema dei partiti nel Regno Unito, Un sistema a lungo caratterizzato da un forte bipolarismo, laboristi a sinistra e conservatori a destra, e quindi più correttamente assimilabile alla situazione USA, ma che a partire dagli anni Settanta/Ottanta ha visto una consistente affermazione di altri partiti in grado di condizionare le maggioranze governative inglesi. Il seguente grafico che riassume i risultati elettorali nel Regno Unito 1945 – 2017, elezioni politiche, attesta questo processo con i riscontri elettorali ottenuti, in aggiunta a quelli tradizionale dei Laburisti e Conservatori, dal Partito Liberale, Lib-Dem, dal Partito Nazionalista Scozzese, SNP, e dal Partito Indipendentista inglese, UKIP:

Grafico 87


Il sistema bipartitico inglese si è mantenuto predominate fino agli anni Settanta quando la progressiva affermazione del Partito Liberale ha per alcuni decenni creato un gioco a tre nella formazione dei governi. A cavallo del nuovo secolo la situazione si è ulteriormente articolata con l’ingresso sulla scena sia del Partito Nazionalista scozzese che, se nel complessivo quadro elettorale inglese non è mai andato oltre il 5%, in ambito locale scozzese dal 1994 si afferma come primo partito sia, e soprattutto, dell’UKIP, il partito nazionalista inglese, ovvero il maggior sostenitore della Brexit. In questo quadro generale il raffronto con le situazioni francesi e americane prende ovviamente in considerazione lo storico Partito del Labour. E come per le due situazioni precedenti il seguente grafico mette in relazione i suoi elettori con il livello di studio posseduto analizzando il rapporto percentuale fra il 10% più istruito ed il 90% meno istruito (DATO A) poi rapportato (DATO B) a età, sesso, reddito, patrimonio

Grafico 88


Anche in questo caso è evidente che l’aumento del livello medio di istruzione implica una corrispondente crescita percentuale del livello di istruzione degli elettori laburisti, ma, come già rilevato per Francia e USA, è significativa la costante crescita della curva, DATO A, che evidenzia il voto del 10% più istruito, laureati magari anche con master e dottorato, con un risultato finale nel 2017 che vede un voto laburista del 13% più alto in questo 10% rispetto al restante 90%. Un dato che non appare condizionato dagli altri fattori presi in considerazione (DATO B), le due curve hanno infatti uno sviluppo parallelo fino ad avere  nel 2017 un dato perfettamente coincidente. Risulta però evidente, raffrontando le curve inglesi con quelle francesi ed americane, che lo sposamento del voto del 10% più istruito è avvenuto qui più tardi, solo  nel nuovo secolo. Un dato che potrebbe testimoniare un rapporto più stretto e prolungato fra classi popolari e Labour. Acquista quindi ancor più valore analizzare, come fa il seguente grafico, il rapporto fra voto laburista e livello di reddito dei suoi elettori prendendo in esame alcune significative elezioni

Grafico 89


Anche il rapporto con il livello di reddito dei suoi elettori sembra confermare un legame più persistente del Labour con le classi popolari: in quasi tutte le elezioni l’andamento delle curve evidenzia una leggera discesa dalle percentuali molto alte, comprese fra il 50% ed il 70%, dei decili più poveri, ma che ancora si mantiene fra il 40% ed il 50% nei decili medi per poi scendere sotto il 20%. Spiccano però alcune significative eccezioni, rappresentate dalle elezioni del 1997-2005-2017, nelle quali la percentuale di votanti laburisti dei decili più alti si mantiene attorno ad un rilevante 40%. Un cambiamento che è temporalmente allineato a quello registrato nel precedente Grafico 88 relativo al livello di istruzione. Va subito detto però che il voto inglese in questi anni è stato molto condizionato dalla vicenda Brexit nella quale il Labour ha mantenuto un atteggiamento oscillante ed ambiguo, formalmente schierato per il Remain, ma con evidente scarso entusiasmo. Come nelle precedenti valutazioni della situazione francese e statunitense il seguente grafico aiuta a meglio visualizzare il rapporto fra trend elettorali in base al rapporto con il livello di istruzione (DATO A = differenza in % fra 10% più istruito e restante 90%), il livello di reddito (DATO B= differenza % fra 10% con reddito più elevato e restante 90%) ed il livello di patrimonio (DATO C= differenza % fra 10% con patrimonio più alto e restante 90%)

Grafico 90


Vale sempre l’avvertenza che i picchi presenti nelle curve in esame riflettono contingenti incidenze di passaggi politici, quindi ciò che merita considerare è l’andamento della curva nel lungo periodo. In questo senso sembra confermata l’impressione che nel Regno Unito la propensione al voto laburista si è progressivamente spostata verso l’alto in maggior misura nel rapporto con il livello di istruzione, fino ad acquisire percentuali positive a partire dagli anni Novanta, mentre l’incidenza del rapporto con il livello di reddito e con quello patrimoniale sono rimasti sostanzialmente stabili e sempre con segno negativo. P. passa quindi ad esaminare anche per il Regno Unito l’incidenza del fattore etno-religioso. I seguenti grafici lo evidenziano esaminando la percentuale di elettori laburisti ripartita prima per appartenenza religioso e poi per quella etnica, in un paese che ha visto, negli ultimi decenni del XX secolo, crescere in modo esponenziale una forte multietnicità

Grafico 91


Grafico 92


Il raffronto più corretto è con la situazione francese (Grafici 74 e 75) e presenta una evidente analogia, l’elettorato cristiano (cattolici e anglicani) tendenzialmente vota a destra, mentre mussulmani e senza religione premiano decisamente il Labour, con in una posizione intermedia gli appartenenti ad altre religioni. Analogamente guardando alle etnie il voto bianco si allinea a quello cristiano mentre tutte le altre componenti sostengono con percentuali molto vicine a quelle francesi il partito laburista. Anche nel Regno Unito l’orientamento elettorale a sinistra di tutte le componenti religiose ed etniche non “locali” è ampiamente spiegato dall’atteggiamento ostile della destra nei loro confronti, e non necessariamente coincide con le specifiche politiche laburiste. L’insieme delle considerazioni sin qui sviluppate sui trend elettorali inglesi già consentono di individuare una evoluzione del voto a sinistra in linea con quelle francesi e americane, in particolare incide anche nel Regno Unito un aumento dei voti degli elettori più istruiti tale da giustificare l’idea di una “sinistra intellettuale benestante”. L’apparente migliore persistente adesione, se si guarda al rapporto del voto laburista con reddito e patrimonio, delle classi popolari deve essere valutata tenendo conto che nel Regno Unito la disaffezione elettorale (vedi precedenti Grafici 68 e 69 del Capitolo 14) è quasi totalmente in capo alle classi più povere. Vale a dire che il Labour paga, non diversamente dalla Francia e dagli USA, il distacco dalle classi popolari, il bacino storicamente di riferimento anche nel Regno Unito, ma soprattutto in termini di astensione elettorale. Un fenomeno cresciuto, anche qui, soprattutto negli ultimi decenni del XX secolo e che, per essere meglio compreso, come già anticipato, deve essere collegato alla questione divenuta dirimente nel Regno Unito, ossia la Brexit. Il divario fra sinistre e classi popolari, al centro dell’analisi di P., si misura qui nell’adesione alla proposta dell’Exit portata avanti in primo luogo dal nuovo Partito Nazionalista inglese, UKIP, decisamente collocabile nel campo della destra estrema. Il grafico che segue documenta il comportamento elettorale dei votanti per il Remain e quindi anti Brexit, a fronte di indicazioni contraddittorie ed incerte date al riguardo dal Labour, molto timidamente schierato per il Remain, suddivisi per istruzione, reddito e patrimonio

Grafico 93


Per intercettare percentuali di adesione al Remain superiori al 50% occorre risalire la scala dei decili di reddito fino al decile ottavo, tutte tre le curve fino al decile 7 compreso, quelle cioè che individuano l’elettorato meno istruito e meno ricco, si sono schierate per la Brexit, in particolare quelle dei primi decili. Un’analisi specifica di questo voto richiederebbe ben altri approfondimenti, per P., nell’ambito della valutazione storica del rapporto fra classi popolari, quelle più colpite dalla ripresa delle disuguaglianze, ed i partiti delle sinistre che dovrebbero rappresentarli, interessa però evidenziare l’esistenza di un solco che fra questi due soggetti si è venuto a creare, in tutte tre le situazioni, finora esaminate a partire dagli anni Ottanta.

Capitolo 16

Social-nativismo: la trappola identitaria post-coloniale

(In cui P., estende ad altri paesi le considerazione sviluppate analizzando i trend politico- elettorali di Francia, USA, e Regno Unito per individuare comuni considerazioni generali

Dal partito dei lavoratori al partito dei laureati

Impossibile sviluppare, per ragioni di spazio e di disponibilità di dati analoghi, per ogni paese una analisi dei trend elettorali così come fatto nei Capitoli precedenti per Francia, USA e Regno Unito, individuati da P. come situazioni però in qualche modo esemplari. Dal raffronto fra queste tre situazioni sono emerse, e in precedenza evidenziate, alcune evidenti analogie che, al fine di comprendere in un quadro il più ampio possibile quali risorse politiche possono mettere in campo comuni strategie mirate a combattere le disuguaglianze, è bene comprendere, allargando lo sguardo, se sono un tratto comune nella situazione storica attuale. Le analogie principali consistono nella crescita importante del livello di istruzione degli elettori “di sinistra”, il collegato aumento del loro livello di reddito, e l’incidenza dei fattori etno-religiosi. P. inizia da quello che definisce “ribaltamento dell’effetto istruzione” mettendo a confronto, nel seguente grafico, la sua evoluzione dal secondo dopoguerra ad oggi nei tre paesi già analizzati con l’aggiunta del trend avvenuto in Germania, Svezia e Norvegia, le cui rispettive curve evidenziano come in precedenza la crescita del rapporto percentuale fra il 10% più istruito ed il restante 90% fra i rispettivi elettori di sinistra

Grafico 94


Le curve presentano una evidente comune evoluzione che attesta la crescita dell’incidenza del livello di studio, ai suoi livelli più alti, nell’elettorato di sinistra: se nel 1950 erano molto di più gli elettori di sinistra poco istruiti nel 2019 in tutti i paesi in esame la situazione si è ribaltata, percentualmente votano a sinistra di più gli elettori molto istruiti. Con alcune significative differenze: la Svezia e la Norvegia, mentre la Germania ha un andamento coincidente con quello francese e americano, evidenziano una crescita molto più lenta che ancora nel 2019 si assesta a percentuali più basse rispetto alla media degli altri paesi, rendendo legittima l’ipotesi che il consenso dei partiti socialdemocratici per eccellenza si è basato più a lungo sui ceti popolari. P. esamina altri paesi per i quali però la disponibilità di dati certi è più limitata, il seguente grafico li evidenzia iniziando però solo dal 1960

Grafico 95


Coerentemente con quanto precisato in precedenza è impossibile entrare nel dettaglio di situazioni molto differenziate per percorsi storici, sistemi elettorali ed istituzionali, condizioni socio-economiche, quello che P. ritiene interessante rilevare è il dato, comune a tutte le situazioni prese in esame, di un progressivo aumento dell’incidenze del livello di istruzione sulla propensione al voto a sinistra. Si può sicuramente affermare che le considerazioni analitiche più dettagliate svolte nei Capitoli precedenti per Francia, Germania e Regno Unito, fatta la tara ad alcune specifiche differenziazioni, temporali e quantitative, possono essere sicuramente estese a tutte le democrazie rappresentative in cui il confronto politico si è articolato attorno a due poli sintetizzabili fra “sinistra” e “destra”. Una sola significativa eccezione può essere rappresentata dal Giappone nel quale, nel periodo in esame, il quadro politico è stato molto più condizionato da divisioni legate ai temi del nazionalismo e dei valori tradizionali che dall’insieme dei fattori fin qui presi in esame. Per tutti gli altri è quindi sostenibile la tesi di una evoluzione politico-ideologica della “sinistra” verso posizioni più rappresentative di un elettorato di buon livello di istruzione, e di correlato adeguato livello di reddito, a scapito della capacità di attrazione e rappresentatività dei ceti popolari, quelli tradizionali di loro sostegno e quelli sui quali si sono scaricate forti tensioni e disuguaglianze 

Ripensare il crollo del sistema sinistra-destra avvenuto nel dopoguerra

Secondo P. diventa pertanto necessaria una riflessione specifica sull’evoluzione incrociata di due processi storici: da una parte il passaggio dal minimo storico dei livelli di disuguaglianza che si è realizzato, come si è visto nella Parte Terza, negli anni 1950-1980 alla loro preoccupante ripresa avvenuta a partire dagli ultimi due decenni del XX secolo, e dall’altra l’evoluzione dei consensi elettorali della sinistra, oggettivamente e meritatamente, l’artefice di tale inziale contenimento delle disuguaglianze. Ne consegue che la struttura del conflitto politico nelle democrazie elettorali tra il 1980 e il 2020 non sia più confrontabile con quello del periodo 1950-1980. La classica dialettica sinistra-destra che ha caratterizzato questo periodo ha infatti visto una profonda trasformazione legata in buona misura alla incapacità della sinistra di mantenere la propria storica identità politico-ideologica adeguandola alle trasformazioni sociali riconducibili in buona misura non solo al processo di globalizzazione economica quanto piuttosto proprio alla diffusione dell’istruzione avvenuta grazie alle sue politiche sociali. Ha quindi senso, estremizzandolo solo in parte, immaginare che attualmente la struttura del confronto politico vede da un lato quella che P. definisce una “sinistra intellettuale benestante” e dall’altro lato la “destra economica”, la quale ha mantenuto il suo ruolo di rappresentante dei redditi alti, anche se meno forte di quello storico, ma al tempo stesso è riuscita ad intercettare lo scontento elettorale dei ceti popolari che si sono sentiti “trascurati” dalla sinistra, loro tradizionale riferimento politico. Una tendenza che si è poi ulteriormente accentuata per la crescente incidenza di fenomeni epocali in buona misura prodotti dalla globalizzazione e dal cambiamento climatico, in primo luogo le impattanti ondate immigratorie di massa, e di paralleli profondi mutamenti politici fra i quali spicca sicuramente il crollo del comunismo e del blocco sovietico. In questo quadro alcune situazioni specifiche possono fornire indicazioni importanti in quanto mettono in più evidente relazione la rispettiva incidenza di questi due decisivi fenomeni. La Polonia è in questo senso un caso emblematico. Il seguente grafico visualizza l’evoluzione del conflitto politico polacco avvenuto nel periodo 2001-2015, evidenziando la curva dei consensi elettorali raccolti dai tre partiti più rappresentativi: il PO, liberal-conservatore, l’SLS, socialdemocratico, e il PiS (Diritto e Giustizia), nazionalista conservatore, in relazione, come per i grafici precedenti, al rapporto percentuale fra il 10% più ricco ed il restante 90% e fra il 10% più istruito e con l’analogo restante 90%

Grafico 96


 Nel 2001, quando ancora era da meglio metabolizzare la fine del blocco sovietico, i tre raggruppamenti non avevano ben definito una loro precisa caratterizzazione politica e l’elettorato polacco, conseguentemente, non avevano evidenziato precise propensioni elettorali. Quindici anni dopo il connubio resosi più evidente fra i due fattori presi in considerazione, produce un risultato ben definito: il Partito Liberal Conservatore si rivolge, ed ottiene consensi, agli elettori più ricchi e più istruiti, il PiS, quello attualmente al potere,  molto più diffidente verso la UE, più ostile verso gli immigrati, più tradizionalista, ha la sua base elettorale, perfettamente coincidente, fra gli elettori più poveri e meno istruiti, in mezzo si colloca il Partito Socialdemocratico, ancora incapace di una sua più definita identità politica, che non a caso è quindi sostenuto dagli elettori posizionati in posizioni intermedie. Non appare dissimile la situazione in quasi tutti i paesi dell’ex blocco sovietico, nei quali l’identità nazionale gioca, come in Polonia, un ruolo determinante (vedi Parte Terza). P. preferisce utilizzare, in luogo di “populismo”, termine a suo avviso troppo genericamente inclusivo di fenomeni anche molto diversificati, quello di “social-nativismo” per meglio evidenziare lo stretto legame che alcune proposte politiche sono riuscite a realizzare tra il richiamo alle matrici nazionali ed etniche ed il disagio sociale determinato dal difficile processo di reintroduzione di un’economia di mercato.  Un fenomeno del nuovo secolo che, come si è visto, ha interessato, per queste sue specifiche caratteristiche, i paesi dell’ex blocco sovietico, ma che, con le dovute cautele, può essere per certi versi applicato a molte altre realtà nazionali occidentali. La stessa analisi dei trend elettorali di Francia, USA e Regno Unito evidenzia, con la solo eccezione dell’influenza diretta della fine del comunismo, alcuni aspetti riconducibili al termine socialnativismo. Ma lo stesso può valere per un paese come l’Italia in cui la parabola discendente dei partiti storici della sinistra ha permesso l’affermarsi di partiti e movimenti caratterizzati da proposte e programmi fortemente contrari all’immigrazione, euroscettici ed anti élite culturali. Ai fini di questo saggio P., al di là di considerazioni specifiche sulla possibile evoluzione ed ulteriore allargamento del socialnativismo, ne constata, in tutte le situazioni esaminate, l’assoluta indifferenza verso il tema delle disuguaglianze economiche. L’intreccio con il trumpismo americano evidenzia al contrario un appiattimento su slogan di ispirazione neoliberista, come quello della “flat tax”, e del parallelo rifiuto della tassazione progressiva, che vanno nella direzione esattamente opposta. In un quadro globalizzato è evidente che il richiamo al nativismo non sia solo una sterile reazione difensiva, ma che si ponga oggettivamente come un pericoloso ostacolo per le realizzazione di serie politiche di contenimento delle disuguaglianze. Un modo importante per contenere la sua diffusione, nella situazione europea, potrebbe essere la promozione di un autentico social-federalismo basato su valori di vera giustizia sociale. L’UE, nata come tentativo sofisticato e inedito di una stretta unione tra i popoli e gli Stati europei, troppo presto si è autolimitata alla sola creazione di uno spazio comune di mercato senza mai porsi l’obiettivo, fin da subito fondamentale per le finalità ideali, di procedere alla parallela unificazione delle politiche fiscali e sociali. Non aiuta certo a promuovere una più adeguata forma di social-federalismo l’attuale configurazione istituzionale della UE, ripartita in organismi e strutture con competenze mal assortite, che non si prestano in quanto tali ad un ampliamento delle politiche gestibili in senso comunitario, e operanti sulla base di regole e procedure, a partire da quella della approvazione all’unanimità e quindi del diritto di veto, assolutamente incongrue con una visione realmente federalista. L’assenza di una politica fiscale comunitaria e di un conseguente vero e proprio bilancio europeo per gestire comuni politiche fiscali riducono pertanto la UE ad essere una semplice unione commerciale con un insieme disordinato di Stati troppo concentrati agli interessi nazionali. In questo quadro sembra al momento impossibile che i 27 Stati accettino la cessione delle deleghe che darebbero senso e sostanza ad un reale social-federalismo. Un primo concreto passo in avanti potrebbe allora consistere nel meglio relazionare i singoli Parlamenti nazionali con quello europeo prevedendo una Assemblea Europea, composta in quota parte da deputati eletti a livello nazionale e da altri eletti a livello europeo, affidandole una competenza di bilancio finalizzata alla realizzazione di specifici obiettivi. Su questa proposta P. tornerà nel Capitolo finale delle conclusioni nell’ambito di quelle generali per fronteggiare concretamente la crescita delle disuguaglianze. A chiudere questi primi tre Capitoli della Parte Quarta P. ritiene che interessanti indicazioni possano venire dalla travagliata situazione dell’India, la più grande Repubblica federale parlamentare del pianeta. Con un percorso complesso e contraddittorio si sta infatti delineando una situazione potenzialmente opposta a quella sin qui esaminata nei paesi occidentali. Se in questi i trend elettorali evidenziano un ormai consolidato superamento del “voto classista” ed il passaggio ad un struttura elettorale di élite sovrapposte in India, nello stesso periodo storico, si colgono evidenti segnali di una traiettoria opposta. Se nei paesi occidentali la propensione al voto sembra essere sempre meno influenzata dalla posizione sociale in India che, come si è visto nel Capitolo 8 della Parte Seconda, è caratterizzata da una storica struttura sociale basata su una forte divisione etnico- razziale, si stanno, al momento ancora timidamente, evidenziando tendenze diverse. I prossimi decenni saranno quelli cruciali per comprendere se il peso della condizione sociale, e della conseguente esposizione alle disuguaglianze, saranno in grado di avere aggio sulle tradizionali forme ideologiche di divisione per caste e fede religiosa. Tutto ciò sta avvenendo in una nazione, fortemente condizionata anche da appartenenze territoriali, che appare comunque destinata, per ragioni demografiche ed economiche, a divenire uno dei paesi più influenti al mondo. Il seguente grafico aiuta a sintetizzare gli scenari elettorali indiani dal 1960 al 2015 utili a comprendere le evoluzioni in corso dei quattro raggruppamenti e partiti più importanti

Grafico 97


Le curve evidenziano la netta separazione tra due fasi con caratteristiche molto diverse: nella prima, che termina all’inizio degli anni Novanta, la democrazia indiana ha visto prevalere con ampi scarti il Partito del Congresso (famiglia Gandhi), sostanzialmente centrista, interclassista, induista ma non eccessivamente ostile alla minoranza mussulmana e, aspetto non secondario, appoggiato dalla casta sacerdotale bramina. Nella seconda, dal 1992 in poi, il crollo del Partito del Congresso, dovuto ai mutamenti socio-economici intervenuti ed al venire meno di alcuni decisivi consensi, a partire da quello dei bramini, ha aperto la strada alla forte avanzata del BJP (leader Modi), nazionalista indù, duro verso la minoranza mussulmana, molto sostenuto dalle casta alte e dai Bramini, con posizioni sulle questioni socio-economiche strumentalmente non ben definite, ed alla interessante ripresa di consensi da parte di  una coalizione di sinistra/centro sinistra, prevalente fra i mussulmani ma capace di raccogliere molti consensi anche nelle caste basse indù.  Dal 1990 si è quindi venuta a determinare una situazione elettorale che, superato l’interclassismo iniziale, ha progressivamente acquisito marcate caratteristiche di divisione classista, ma restando al tempo stesso fortemente condizionata dall’appartenenza religiosa. Il BJP (Modi) gioca infatti moltissimo sulla contrapposizione dura nei confronti della minoranza mussulmana (che vale il 15% della popolazione, mentre la maggioranza indù è divisa in un 25% delle caste basse, in un 45% di quelle intermedie, e nel 15% delle caste alte) agitando il richiamo etnico-religioso proprio per evitare una più netta saldatura del voto mussulmano, in gran misura composto da ceti popolari, con quello delle caste basse indù allo stesso modo colpite dalle fortissime diseguaglianze prodotte da una crescita economica di chiaro stampo neoliberista. Il futuro indiano, e con lui le eventuali possibili indicazioni valide in senso globale, si gioca quindi sul prevalere, nella maggioranza del popolo, delle motivazioni classiste e di condizione sociale rispetto a quelle legate all’aspetto ideologico etnico e religioso. E’ in fondo, in senso lato, la situazione che sintetizza, seppure con percorso inverso, la stessa opposta parabola occidentale.

                                                      


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