La
parola del mese
A turno si propone una parola,
evocativa di pensieri collegabili
ed in grado di aprirsi
verso nuove riflessioni
FEBBRAIO 2021
FINITUDINE (come dal titolo del primo)
ovvero FINITEZZA (come da sottotitolo del secondo)
dal vocabolario onlineTreccani finitùdine s. f. [der.
di finito].
– La condizione di ciò che è finito, cioè limitato, non infinito; nel linguaggio filosofico lo stesso
che finitezza.
Altrettanto evidente è poi, ancora una volta, il collegamento con la
vicenda pandemica che sta avendo inevitabile influenza su molte delle riflessioni
che a vario titolo, muovendo da specifiche competenze, si sono affacciate sulla
scena culturale in senso lato nell’ultimo anno. E’ sicuramente una delle,
poche, ricadute “positive” che questo periodo, così tormentato e tragico, ci
sta offrendo, anche quando, come in questo caso, ci impone un tema sicuramente
impegnativo, quello di riconsiderare, dopo esserci forse illusi che non
rientrasse più di tanto negli orizzonti contemporanei, la nostra finitudine/finitezza come individui, come organismi. Un concetto che
sarebbe riduttivo far coincidere con la morte, con il suo concreto e pieno
realizzarsi, perché la sua percezione, la sua consapevolezza, ci accompagnano
in molti momenti dell’intera nostra esistenza. Potremmo persino dire che sia
nostra abituale compagna di viaggio, ma così timorosa e delicata, quasi fosse
cosciente del suo peso, da rendersi manifesta solo in alcuni momenti, quasi
sempre quelli più tristi. Questo guardando alla finitudine da un punto di vista individuale, molto più complesso è il suo ruolo
nella storia complessiva del pensiero e della cultura umana. In questo modesto
spazio della “Parola del mese” non è certo possibile inseguire la sua presenza,
più o meno consapevole, nell’evolversi del pensiero sia scientifico che
umanistico. Eppure è indubitabile che molto dell’umano agire in senso lato
trovi origine in essa, nell’accettarla piuttosto che nel fuggirne. Ci limitiamo
pertanto in questo post ad offrirla come “provocazione a fin di bene” per
ribadire l’opportunità di tenerla, in modo forse più coraggioso, nella giusta
attenzione, e a riassumere gli spunti di riflessione che su di essa ci offre il
libro di Telmo Pievani (filosofo,
evoluzionista, saggista, professore associato presso il Dipartimento di
Biologia dell'Università degli studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra
italiana di Filosofia della Scienze Biologiche) che
coniuga, come vedremo in una intrigante costruzione letteraria, punti di vista
scientifici e filosofici
Il libro “Questa vita” di Martin Hagglund ( filosofo svedese, teorico letterario e studioso di letteratura
modernista. È professore di letteratura comparata e scienze umane alla Yale
University)
è candidato,
peraltro in buona compagnia, ad essere uno dei possibili prossimi “Saggi” del
mese. La sua trattazione, come da sottotitolo, prende infatti le mosse dalla finitezza, e dai modi in cui l’uomo ha cercato di
fronteggiarla piuttosto che di dimenticarla, ma poi si espande, a ricaduta, in
considerazioni filosofiche sulla necessità di forme sociali più libere e responsabili
che, nella prospettiva di un socialismo democratico, mettano al centro tempo e
bisogni quotidiani. Che Telmo Pievani quindi sia! Il suo libro, come
anticipato, è una curiosa miscela di finzione letteraria e di seria trattazione
filosofica e scientifica. Pievani immagina che Albert Camus (1913-1960, scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo, giornalista, premio
Nobel per la Letteratura del 1957, fra le sue opere spicca “La peste”, testo
inevitabilmente e giustamente molto citato in questi tempi pandemici)
non sia immediatamente morto, come purtroppo successe,
nell’incidente d’auto del Gennaio 1960, ma che, ricoverato nell’ospedale di Fontainebleau, riceva le regolari e premurose visite del suo fraterno amico
Jacques Monod (1910-1976 biologo e filosofo francese,
vincitore del Premio Nobel per la medicina nel 1965).
I due amici decidono di sfruttare la
degenza di Camus per scrivere a quattro mani un libro che affronti,
filosoficamente e scientificamente, il tema della finitudine dell’uomo.
Il libro di Pievani alterna così il racconto dei loro incontri con la lettura
dei capitoli, sempre preceduti da appropriate citazioni dal “De rerum natura”
di Lucrezio, che man mano formeranno questo immaginario saggio. Una finzione
letteraria che da una parte ci consente di conoscere alcuni momenti, veri e
documentati, della vita di questi due straordinari personaggi e dall’altra
sviluppa, attribuendole fittiziamente a loro, le idee di Pievani sulla finitudine. La prima delle quali è la constatazione,
inaggirabile, che essa è un dato costitutivo dell’intera realtà. Lo è perché
tale è il destino segnato del sistema solare: la nostra stella. il Sole, ha un
orizzonte temporale definito, la sua combustione nucleare entrerà fra circa 4
miliardi di anni nella sua impressionante fase finale al termine della quale
diverrà una “nana bianca” per poi spegnersi definitivamente. Ma questo lungo processo
già comporterà molto prima, fra non più di un miliardo di anni, effetti letali
per ogni forma di vita sul nostro pianeta. Se tutta va bene, e potrebbe non
essere così perché le variabili catastrofiche, comprese quelle producibili
dallo stesso uomo, non sono poche, la Terra ha quindi ancora un miliardo di
anni davanti. Un tempo così dilatato da risultare difficilmente comprensibile
per le nostre scale temporali di vita, segnate come sono da inesorabili cicli
di vita ben più brevi, quelli inscritti nei nostri codici genetici. Così come
per ogni forma di vita animale terminata la fase riproduttiva assegnata alle
cellule che la gestiscono tutte le altre cellule, rispondendo ad una sorta di dovere
evoluzionistico, iniziano inarrestabili processi di deperimento che hanno una
sola inevitabile conclusione. Se la finitudine della Terra, che pur esiste, può quindi difficilmente essere messa a fuoco,
questa seconda, la nostra, quella di tutti noi, ci è ben presente come destino
ineludibile. Altra fonte di sconforto e
di impalpabile sensazione di finitudine ci viene dalla consapevolezza, che nasce dalla meraviglia del cielo
stellato, della nostra “cosmica irrilevanza”. L’uomo, animale così orgoglioso
e, persino troppo, invadente si ferma quando coniuga la sua sicura sorte con
l’insignificante traccia che lascerà di sé. Ma è un attimo, perché è nella
natura umana reagire, ricacciando il più possibile indietro questa
consapevolezza, ovvero cercando addirittura di capire se esista un modo di
fuggire la nostra finitezza, esplorando, soprattutto in questi tempi di mirabilia tecnologiche, ogni
possibile modo di aggirarla. Telmo Pievani, con la consueta lucidità,
competenza e ironia li passa in rassegna spiegando per ognuno di essi le
ragioni del loro certo insuccesso. Non funziona l’idea di trasferirci su altri
pianeti, perché tutto il Sistema Solare, pianeta per pianeta, è condannato
dalla lenta morte del Sole, nè serve ricorrere all'ibernazione, che non allunga
la vita, ma semmai congela la morte, così come a nulla porta aggirare la
biologia e clonare il cervello in circuiti digitali, perché è impossibile trasferire
le esperienze vissute e soprattutto la “coscienza”. Non ci porta lontano la
creazione di copie genetiche di noi stessi, destinata come le altre al
fallimento perchè, riducendo la variabilità genetica, avrebbe conseguenze
catastrofiche per la specie. Ci sarebbe a dire il vero un altro modo, meno
iperbolico, per sfidare la finitudine: uscire da percorsi individuali e puntare sul generale progresso della
civiltà, dando così modo a tutti, ognuno per la sua parte, di partecipare ad un’impresa
collettiva, dentro la quale anche il nostro personale contributo non andrà
perduto, che potrebbe puntare a lunghissimi orizzonti. Ma la storia è maestra
di vita e ci insegna, osserva Pievani, che non esiste alcuna garanzia che la
civiltà progredisca, si può sempre tornare indietro, si può regredire, quelle
che sembravano conquiste certe possono svanire, per non dire poi che l’uomo ha
ormai tecniche così potenti da cancellare, fisicamente, ogni traccia della
civiltà. Pievani, sempre alternando rigore scientifico con ironia filosofica,
ci invita a rinunciare a queste inutili avventure, e a guardare in faccia con
coraggio la nostra finitudine, a sopportarla e ad assumerla con dignità; ad essere grati per la fortuna
di vivere e perciò solidali con ogni creatura, dando così senso alla vita
difendendo con forza e sempre i valori di cui solo l’uomo può essere portatore.
Pievani, in chiusura ci invita a farci carico dell'assurdo della finitudine
vivendolo fino in fondo, perseverando a cercare un senso, pur sapendo che un
senso in fondo, a dirla tutta, non c’è. E’ in sostanza la visione
dell'esistenzialismo etico che informa “Il mito di Sisifo” di Albert Camus, quello
che alberga nelle fatiche della scienza, dell’etica e della convivenza umana”. A
questa nostra brevissima e “leggera” presentazione di “Finitudine”, il libro di Pievani, è forse utile aggiungere qualche
elemento di riflessione più mirata ricavabile da alcuni estratti
dall’intervista rilasciata dallo stesso a Federica Biolzi (rivista on line
EXAGERARE)
– Perché ha scelto proprio questi due autorevoli personaggi per scrivere
sulla Finitudine? …….mentre effettuavo alcune ricerche
sulla storia della biologia, mi sono imbattuto nella bellissima amicizia tra
questi due personaggi molto diversi tra loro…..due uomini che hanno fatto la
resistenza contro il nazifascismo a Parigi, rischiando più volte la vita,
– Ma perché ha pensato di far loro scrivere un libro? L’idea
è nata leggendo alcuni documenti di archivio. Ho letto di una cena con Camus e
Monod, alla quale era presente anche Jean Daniel, che sarà poi il fondatore
del Nouvel
Observateur. Daniel scrisse nei suoi appunti che quei due
avevano una tale intesa che quando uno iniziava una frase, l’altro la finiva.
Quest’immagine mi ha dato l’idea di scrivere un libro a cui forse loro due
avevano già pensato. Ho pensato di far dialogare queste due personalità così
diverse, un grande scienziato ed un grande scrittore, sul tema della finitudine. Un tema che, in qualche modo, li univa, quello
dell’uomo ai margini dell’universo, senza più una finalità nel cosmo e che
tuttavia deve trovare un senso alla sua vita, alla sua esistenza, straniero nel
mondo ma libero, consapevole e in rivolta contro il male. Nel libro Monod
illustra all’amico Camus le sue ricerche sulla regolazione genica e il lettore,
tra la lettura di un capitolo e l’altro, finisce per immedesimarsi (così vorrei
che fosse) con Camus che chiede all’amico scienziato di spiegargli i suoi
progetti e le sue scoperte su DNA e proteine. Quindi c’è comunque molta scienza
dentro il libro.
–Se rileggiamo “il mito di Sisifo”, di
Camus sembrerebbe che l’assurdità stia proprio nel confronto tra l’estrema
chiarezza richiesta dall’uomo e l’opacità offerta dal mondo. –
Si tratta di un tema centrale nell’opera di Camus ed è il filo conduttore che
lo unisce realmente a Monod. Quest’ultimo infatti, dieci anni dopo, nel 1970,
pubblicherà il suo famosissimo libro, tradotto in tutte le lingue, Il caso e la
necessità. Il libro inizia proprio citando il mito di
Sisifo: Nonostante tutto bisogna immaginare Sisifo felice.
Monod ricomincia da lì, come se vi fosse una sorta di filigrana e di continuità
tra i due. Il fatto che Monod fosse d’accordo con Camus su questo tema è
chiaro, ne’ Il caso e la necessità, Monod parte dal pensiero di
Camus, l’assurdo e la filosofia esistenzialista, riempiendolo di contenuti
scientifici. Sostanzialmente Monod sostiene che la scienza, per quello che ci
insegna oggi, per quello che ci dice, per le nuove conoscenze sulla genetica,
sull’astrofisica, conferma la visione di Camus. La scienza è sacrilega, scrive
Monod. Ci fa capire che noi non eravamo previsti nell’universo, ma siamo una
presenza rara, preziosa, contingente, mortale, finita, come finisce
tutto. Ogni cosa ha una sua finitudine
intrinseca: la nostra esistenza, la nostra specie fra le altre, la Terra, il
Sole, persino l’universo. Dobbiamo
trovare un nuovo senso alla nostra vita e Monod lo trova in ciò che Camus gli
aveva insegnato, ossia che la conoscenza è la grande sconfitta della finitudine. Moriamo è vero, però, se abbiamo contribuito alle
conoscenze dell’umanità, non siamo davvero morti, attraverso il DNA e le idee
noi trasmettiamo qualcosa alle generazioni future. Insomma, Monod tenta di
sfidare la finitudine insieme a Camus, da laico e naturalista, per non farla
vincere del tutto, per farla arretrare.
– Nelle bozze del capitolo V dell’ipotetico scritto di Camus e Monod, si
affronta il problema del Nulla. In questa sezione lei riporta proprio quanto
affermato da Lucrezio nel libro III del De Rerum Natura: il tempo della nostra
esistenza è infinito, quindi non cambia nulla se vive qualche mese in più o in
meno. E’ proprio così? Quali riflessioni possiamo trarne? –
Camus e Monod nel libro (precisiamo che sono io a farli parlare, anche se
faccio sempre riferimento a tesi documentate che loro hanno davvero sostenuto),
contestano solo due punti a Lucrezio: il primo è l’idea epicurea che è l’uomo
che conquista la saggezza e capisce di essere finito, e di essere parte di
questo universo, raggiunga una sorta di atarassia, di pace dei sensi, di
olimpica tranquillità. Camus e Monod sostengono, invece, che si rimane in una
situazione di inquietudine, di continua ricerca. Quella di Epicuro, scriveva
Camus, è una felicità di pietra. Il secondo punto su cui Camus e Monod
contestano Lucrezio è dove asserisce che non ha alcun senso la nostra
esistenza, è mortale, noi finiamo, non lasciamo traccia, dunque non importa se
moriamo prima o dopo, tanto ci attende un nulla eterno….. Camus e Monod cercano invece delle altre vie,
le trovano nella libertà, nella solidarietà tra stranieri, nell’etica della
conoscenza. La vera vita, aggiungono, è la rivolta, rivoltarsi contro la
propria condizione assurda, contro le illusioni e le false speranze. Camus ci
dice che la peste è invincibile, noi siamo vulnerabili, la peste tornerà, ma il
medico, il protagonista dell’omonimo romanzo, continua comunque a fare il
proprio dovere, il proprio mestiere, a dire la verità, a rivoltarsi contro il
male che colpisce. Quindi, anche se mortale e senza speranze, la vita vale la
pena di essere vissuta anche un solo giorno in più, e non è vero che morire
prematuramente non fa alcuna differenza.
– In Camus, come in Monod, vi è una
presa di posizione etica forte. Da una parte la solitudine nella finitudine e
dall’altra la solidarietà del genere umano in questa condizione. Si tratta di
un messaggio che responsabilizza ognuno di noi e che ci pone di fronte a delle
scelte. Quali? – Questo è uno dei contenuti più belli della
filosofia di Camus. Dopo aver scritto Lo straniero dice: noi siamo stranieri a noi
stessi, all’universo, però lo siamo tutti e quando scopriamo di esserlo tutti,
ci accorgiamo di essere insieme, di essere solidali, di avere qualcosa in
comune con ogni altro essere umano. ………Questa è una delle virtù della finitudine, cioè il valore assoluto della dignità umana e
della vita umana, che è la sua unicità. Ogni essere umano è un’occasione unica,
irripetibile, ha un valore assoluto, nel suo impasto ambivalente di bene e
male. Questo è un esempio di virtù che si può ottenere laicamente da una
riflessione sulla nostra contingenza, la nostra fragilità. Ma vi è anche la
virtù della solidarietà con la natura, con l’ambiente. Monod e Camus dicono che
siamo soli, abbiamo la nostra finitudine
ma, in fondo, è proprio questo il legame tra noi e il resto della natura, si
tratta anche di una solidarietà ecologica. Dalla finitudine si può sviluppare una forte eticità di tipo non
metafisico, non religioso, che da direzioni opposte può trovare inattesi punti
di contatto con la sensibilità religiosa, ma che ha una sua totale autonomia.
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