lunedì 1 febbraio 2021

La parola del mese

 

La parola del mese

 A turno si propone una parola, evocativa di pensieri collegabili

 ed in grado di aprirsi verso nuove riflessioni

FEBBRAIO 2021

 E’ evidente il collegamento con la “Parola” del mese scorso “Limite”, ma è bene precisare che non si tratta di una scelta voluta. E’ semplicemente successo che, dalle fonti disordinate dalle quali attingiamo di mese in mese suggestioni e ispirazioni, si è piano piano imposta una parola presente in due libri: di uno è il titolo, nell’altro compare come uno dei concetti cardine affrontati nel testo. I due libri sono nell’ordine:


e


la parola del mese di Febbraio 2021 è quindi:

FINITUDINE (come dal titolo del primo)

ovvero FINITEZZA (come da sottotitolo del secondo)

dal vocabolario onlineTreccani  finitùdine s. f. [der. di finito]. – La condizione di ciò che è finito, cioè limitato, non infinito; nel linguaggio filosofico lo stesso che finitezza.

Altrettanto evidente è poi, ancora una volta, il collegamento con la vicenda pandemica che sta avendo inevitabile influenza su molte delle riflessioni che a vario titolo, muovendo da specifiche competenze, si sono affacciate sulla scena culturale in senso lato nell’ultimo anno. E’ sicuramente una delle, poche, ricadute “positive” che questo periodo, così tormentato e tragico, ci sta offrendo, anche quando, come in questo caso, ci impone un tema sicuramente impegnativo, quello di riconsiderare, dopo esserci forse illusi che non rientrasse più di tanto negli orizzonti contemporanei, la nostra finitudine/finitezza come individui, come organismi. Un concetto che sarebbe riduttivo far coincidere con la morte, con il suo concreto e pieno realizzarsi, perché la sua percezione, la sua consapevolezza, ci accompagnano in molti momenti dell’intera nostra esistenza. Potremmo persino dire che sia nostra abituale compagna di viaggio, ma così timorosa e delicata, quasi fosse cosciente del suo peso, da rendersi manifesta solo in alcuni momenti, quasi sempre quelli più tristi. Questo guardando alla finitudine da un punto di vista individuale, molto più complesso è il suo ruolo nella storia complessiva del pensiero e della cultura umana. In questo modesto spazio della “Parola del mese” non è certo possibile inseguire la sua presenza, più o meno consapevole, nell’evolversi del pensiero sia scientifico che umanistico. Eppure è indubitabile che molto dell’umano agire in senso lato trovi origine in essa, nell’accettarla piuttosto che nel fuggirne. Ci limitiamo pertanto in questo post ad offrirla come “provocazione a fin di bene” per ribadire l’opportunità di tenerla, in modo forse più coraggioso, nella giusta attenzione, e a riassumere gli spunti di riflessione che su di essa ci offre il libro di Telmo Pievani (filosofo, evoluzionista, saggista, professore associato presso il Dipartimento di Biologia dell'Università degli studi di Padova, dove ricopre la prima cattedra italiana di Filosofia della Scienze Biologiche) che coniuga, come vedremo in una intrigante costruzione letteraria, punti di vista scientifici e filosofici

Il libro “Questa vita” di Martin Hagglund ( filosofo svedese, teorico letterario e studioso di letteratura modernista. È professore di letteratura comparata e scienze umane alla Yale University)


è candidato, peraltro in buona compagnia, ad essere uno dei possibili prossimi “Saggi” del mese. La sua trattazione, come da sottotitolo, prende infatti le mosse dalla finitezza, e dai modi in cui l’uomo ha cercato di fronteggiarla piuttosto che di dimenticarla, ma poi si espande, a ricaduta, in considerazioni filosofiche sulla necessità di forme sociali più libere e responsabili che, nella prospettiva di un socialismo democratico, mettano al centro tempo e bisogni quotidiani. Che Telmo Pievani quindi sia! Il suo libro, come anticipato, è una curiosa miscela di finzione letteraria e di seria trattazione filosofica e scientifica. Pievani immagina che Albert Camus (1913-1960, scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo, giornalista, premio Nobel per la Letteratura del 1957, fra le sue opere spicca “La peste”, testo inevitabilmente e giustamente molto citato in questi tempi pandemici)

non sia immediatamente morto, come purtroppo successe, nell’incidente d’auto del Gennaio 1960, ma che, ricoverato nell’ospedale di Fontainebleau, riceva le regolari e premurose visite del suo fraterno amico Jacques Monod (1910-1976 biologo e filosofo francese, vincitore del Premio Nobel per la medicina nel 1965).


I due amici decidono di sfruttare la degenza di Camus per scrivere a quattro mani un libro che affronti, filosoficamente e scientificamente, il tema della finitudine dell’uomo. Il libro di Pievani alterna così il racconto dei loro incontri con la lettura dei capitoli, sempre preceduti da appropriate citazioni dal “De rerum natura” di Lucrezio, che man mano formeranno questo immaginario saggio. Una finzione letteraria che da una parte ci consente di conoscere alcuni momenti, veri e documentati, della vita di questi due straordinari personaggi e dall’altra sviluppa, attribuendole fittiziamente a loro, le idee di Pievani sulla finitudine. La prima delle quali è la constatazione, inaggirabile, che essa è un dato costitutivo dell’intera realtà. Lo è perché tale è il destino segnato del sistema solare: la nostra stella. il Sole, ha un orizzonte temporale definito, la sua combustione nucleare entrerà fra circa 4 miliardi di anni nella sua impressionante fase finale al termine della quale diverrà una “nana bianca” per poi spegnersi definitivamente. Ma questo lungo processo già comporterà molto prima, fra non più di un miliardo di anni, effetti letali per ogni forma di vita sul nostro pianeta. Se tutta va bene, e potrebbe non essere così perché le variabili catastrofiche, comprese quelle producibili dallo stesso uomo, non sono poche, la Terra ha quindi ancora un miliardo di anni davanti. Un tempo così dilatato da risultare difficilmente comprensibile per le nostre scale temporali di vita, segnate come sono da inesorabili cicli di vita ben più brevi, quelli inscritti nei nostri codici genetici. Così come per ogni forma di vita animale terminata la fase riproduttiva assegnata alle cellule che la gestiscono tutte le altre cellule, rispondendo ad una sorta di dovere evoluzionistico, iniziano inarrestabili processi di deperimento che hanno una sola inevitabile conclusione. Se la finitudine della Terra, che pur esiste, può quindi difficilmente essere messa a fuoco, questa seconda, la nostra, quella di tutti noi, ci è ben presente come destino ineludibile.  Altra fonte di sconforto e di impalpabile sensazione di finitudine ci viene dalla consapevolezza, che nasce dalla meraviglia del cielo stellato, della nostra “cosmica irrilevanza”. L’uomo, animale così orgoglioso e, persino troppo, invadente si ferma quando coniuga la sua sicura sorte con l’insignificante traccia che lascerà di sé. Ma è un attimo, perché è nella natura umana reagire, ricacciando il più possibile indietro questa consapevolezza, ovvero cercando addirittura di capire se esista un modo di fuggire la nostra finitezza, esplorando, soprattutto in questi tempi di mirabilia tecnologiche, ogni possibile modo di aggirarla. Telmo Pievani, con la consueta lucidità, competenza e ironia li passa in rassegna spiegando per ognuno di essi le ragioni del loro certo insuccesso. Non funziona l’idea di trasferirci su altri pianeti, perché tutto il Sistema Solare, pianeta per pianeta, è condannato dalla lenta morte del Sole, nè serve ricorrere all'ibernazione, che non allunga la vita, ma semmai congela la morte, così come a nulla porta aggirare la biologia e clonare il cervello in circuiti digitali, perché è impossibile trasferire le esperienze vissute e soprattutto la “coscienza”. Non ci porta lontano la creazione di copie genetiche di noi stessi, destinata come le altre al fallimento perchè, riducendo la variabilità genetica, avrebbe conseguenze catastrofiche per la specie. Ci sarebbe a dire il vero un altro modo, meno iperbolico, per sfidare la finitudine: uscire da percorsi individuali e puntare sul generale progresso della civiltà, dando così modo a tutti, ognuno per la sua parte, di partecipare ad un’impresa collettiva, dentro la quale anche il nostro personale contributo non andrà perduto, che potrebbe puntare a lunghissimi orizzonti. Ma la storia è maestra di vita e ci insegna, osserva Pievani, che non esiste alcuna garanzia che la civiltà progredisca, si può sempre tornare indietro, si può regredire, quelle che sembravano conquiste certe possono svanire, per non dire poi che l’uomo ha ormai tecniche così potenti da cancellare, fisicamente, ogni traccia della civiltà. Pievani, sempre alternando rigore scientifico con ironia filosofica, ci invita a rinunciare a queste inutili avventure, e a guardare in faccia con coraggio la nostra finitudine, a sopportarla e ad assumerla con dignità; ad essere grati per la fortuna di vivere e perciò solidali con ogni creatura, dando così senso alla vita difendendo con forza e sempre i valori di cui solo l’uomo può essere portatore. Pievani, in chiusura ci invita a farci carico dell'assurdo della finitudine vivendolo fino in fondo, perseverando a cercare un senso, pur sapendo che un senso in fondo, a dirla tutta, non c’è. E’ in sostanza la visione dell'esistenzialismo etico che informa “Il mito di Sisifo” di Albert Camus, quello che alberga nelle fatiche della scienza, dell’etica e della convivenza umana”. A questa nostra brevissima e “leggera” presentazione di “Finitudine”, il libro di Pievani, è forse utile aggiungere qualche elemento di riflessione più mirata ricavabile da alcuni estratti dall’intervista rilasciata dallo stesso a Federica Biolzi (rivista on line EXAGERARE)

– Perché ha scelto proprio questi due autorevoli personaggi per scrivere sulla Finitudine? …….mentre effettuavo alcune ricerche sulla storia della biologia, mi sono imbattuto nella bellissima amicizia tra questi due personaggi molto diversi tra loro…..due uomini che hanno fatto la resistenza contro il nazifascismo a Parigi, rischiando più volte la vita,

– Ma perché ha pensato di far loro scrivere un libro? L’idea è nata leggendo alcuni documenti di archivio. Ho letto di una cena con Camus e Monod, alla quale era presente anche Jean Daniel, che sarà poi il fondatore del Nouvel Observateur. Daniel scrisse nei suoi appunti che quei due avevano una tale intesa che quando uno iniziava una frase, l’altro la finiva. Quest’immagine mi ha dato l’idea di scrivere un libro a cui forse loro due avevano già pensato. Ho pensato di far dialogare queste due personalità così diverse, un grande scienziato ed un grande scrittore, sul tema della finitudine. Un tema che, in qualche modo, li univa, quello dell’uomo ai margini dell’universo, senza più una finalità nel cosmo e che tuttavia deve trovare un senso alla sua vita, alla sua esistenza, straniero nel mondo ma libero, consapevole e in rivolta contro il male. Nel libro Monod illustra all’amico Camus le sue ricerche sulla regolazione genica e il lettore, tra la lettura di un capitolo e l’altro, finisce per immedesimarsi (così vorrei che fosse) con Camus che chiede all’amico scienziato di spiegargli i suoi progetti e le sue scoperte su DNA e proteine. Quindi c’è comunque molta scienza dentro il libro.

–Se rileggiamo “il mito di Sisifo”, di Camus sembrerebbe che l’assurdità stia proprio nel confronto tra l’estrema chiarezza richiesta dall’uomo e l’opacità offerta dal mondo. – Si tratta di un tema centrale nell’opera di Camus ed è il filo conduttore che lo unisce realmente a Monod. Quest’ultimo infatti, dieci anni dopo, nel 1970, pubblicherà il suo famosissimo libro, tradotto in tutte le lingue, Il caso e la necessità. Il libro inizia proprio citando il mito di SisifoNonostante tutto bisogna immaginare Sisifo felice. Monod ricomincia da lì, come se vi fosse una sorta di filigrana e di continuità tra i due. Il fatto che Monod fosse d’accordo con Camus su questo tema è chiaro, ne’ Il caso e la necessità, Monod parte dal pensiero di Camus, l’assurdo e la filosofia esistenzialista, riempiendolo di contenuti scientifici. Sostanzialmente Monod sostiene che la scienza, per quello che ci insegna oggi, per quello che ci dice, per le nuove conoscenze sulla genetica, sull’astrofisica, conferma la visione di Camus. La scienza è sacrilega, scrive Monod. Ci fa capire che noi non eravamo previsti nell’universo, ma siamo una presenza rara, preziosa, contingente, mortale, finita, come finisce tutto.  Ogni cosa ha una sua finitudine intrinseca: la nostra esistenza, la nostra specie fra le altre, la Terra, il Sole, persino l’universo.  Dobbiamo trovare un nuovo senso alla nostra vita e Monod lo trova in ciò che Camus gli aveva insegnato, ossia che la conoscenza è la grande sconfitta della finitudine. Moriamo è vero, però, se abbiamo contribuito alle conoscenze dell’umanità, non siamo davvero morti, attraverso il DNA e le idee noi trasmettiamo qualcosa alle generazioni future. Insomma, Monod tenta di sfidare la finitudine insieme a Camus, da laico e naturalista, per non farla vincere del tutto, per farla arretrare.

– Nelle bozze del capitolo V dell’ipotetico scritto di Camus e Monod, si affronta il problema del Nulla. In questa sezione lei riporta proprio quanto affermato da Lucrezio nel libro III del De Rerum Natura: il tempo della nostra esistenza è infinito, quindi non cambia nulla se vive qualche mese in più o in meno. E’ proprio così? Quali riflessioni possiamo trarne? – Camus e Monod nel libro (precisiamo che sono io a farli parlare, anche se faccio sempre riferimento a tesi documentate che loro hanno davvero sostenuto), contestano solo due punti a Lucrezio: il primo è l’idea epicurea che è l’uomo che conquista la saggezza e capisce di essere finito, e di essere parte di questo universo, raggiunga una sorta di atarassia, di pace dei sensi, di olimpica tranquillità. Camus e Monod sostengono, invece, che si rimane in una situazione di inquietudine, di continua ricerca. Quella di Epicuro, scriveva Camus, è una felicità di pietra. Il secondo punto su cui Camus e Monod contestano Lucrezio è dove asserisce che non ha alcun senso la nostra esistenza, è mortale, noi finiamo, non lasciamo traccia, dunque non importa se moriamo prima o dopo, tanto ci attende un nulla eterno…..  Camus e Monod cercano invece delle altre vie, le trovano nella libertà, nella solidarietà tra stranieri, nell’etica della conoscenza. La vera vita, aggiungono, è la rivolta, rivoltarsi contro la propria condizione assurda, contro le illusioni e le false speranze. Camus ci dice che la peste è invincibile, noi siamo vulnerabili, la peste tornerà, ma il medico, il protagonista dell’omonimo romanzo, continua comunque a fare il proprio dovere, il proprio mestiere, a dire la verità, a rivoltarsi contro il male che colpisce. Quindi, anche se mortale e senza speranze, la vita vale la pena di essere vissuta anche un solo giorno in più, e non è vero che morire prematuramente non fa alcuna differenza.

– In Camus, come in Monod, vi è una presa di posizione etica forte. Da una parte la solitudine nella finitudine e dall’altra la solidarietà del genere umano in questa condizione. Si tratta di un messaggio che responsabilizza ognuno di noi e che ci pone di fronte a delle scelte. Quali? – Questo è uno dei contenuti più belli della filosofia di Camus. Dopo aver scritto Lo straniero dice: noi siamo stranieri a noi stessi, all’universo, però lo siamo tutti e quando scopriamo di esserlo tutti, ci accorgiamo di essere insieme, di essere solidali, di avere qualcosa in comune con ogni altro essere umano. ………Questa è una delle virtù della finitudine, cioè il valore assoluto della dignità umana e della vita umana, che è la sua unicità. Ogni essere umano è un’occasione unica, irripetibile, ha un valore assoluto, nel suo impasto ambivalente di bene e male. Questo è un esempio di virtù che si può ottenere laicamente da una riflessione sulla nostra contingenza, la nostra fragilità. Ma vi è anche la virtù della solidarietà con la natura, con l’ambiente. Monod e Camus dicono che siamo soli, abbiamo la nostra finitudine ma, in fondo, è proprio questo il legame tra noi e il resto della natura, si tratta anche di una solidarietà ecologica. Dalla finitudine si può sviluppare una forte eticità di tipo non metafisico, non religioso, che da direzioni opposte può trovare inattesi punti di contatto con la sensibilità religiosa, ma che ha una sua totale autonomia.





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