giovedì 4 febbraio 2021

Un contributo all'elaborazione politica in relazione al Piano NEXT GENERATION EUROPE - Articolo di Gianni Colombo

Pubblichiamo con molto piacere il seguente articolo che ci ha fatto pervenire Gianni Colombo,  prezioso ed attivo collaboratore di CircolarMente, più volte relatore in nostre conferenze e seminari su diverse tematiche sempre comunque connesse alla sostenibilità ambientale e alla giustizia sociale

Un contributo all’elaborazione politica

in relazione al Piano

Next Generation Europe

Premessa e Sommario

Se si leggono le ultime valutazioni effettuate dal l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) due anni fa e, più o meno alla stessa data, dall’MIT Joint Program on the Science and Policy of Global Change, non si può che esserne allarmati. In estrema sintesi: i limiti di 2°C (o, preferibilmente di 1.5°C) di innalzamento della temperatura media del pianeta da qui al 2100 previsti dalla Conference of Parties (COP 21) di Parigi (2015) non possono essere raggiunti nell’ambito dei vincoli di emissioni imposti dalla stessa COP21. I fattori chiave su cui occorre agire sono di natura economica, tecnologica e sociale (modelli di vita). Gli ostacoli che rendono necessario ricorrere a misure più estreme sono: mancanza di governo globale, di cooperazione tra gli stati e di interventi sui consumi ad alta intensità di risorse. Alcuni dati (IPCC):

o   Per il limite 1.5°C occorre raggiungere il picco di emissioni di CO2 prima del 2030, da qui al 2030 occorre assumere misure molto radicali, a differenza di quanto proposto da COP21 che ipotizzava di adottarle dal 2030 in poi.

o   Le emissioni devono restare al di sotto delle 25-30 GtCO2/Y (Giga tonnellate di CO2 l’anno) per gli anni da qui al 2030 e non al di sotto di quelle previste dal COP21 per lo stesso periodo (52-58 GtCO2/Y). Questo significa neutralità di carbonio entro il 2050.

o   Per raggiungere i risultati di cui sopra occorrerà fare ampio uso di tecniche di cattura del carbonio, viste con sospetto da una buona parte della comunità scientifica e dai movimenti ambientalisti.

o   Le proiezioni fatte sono tutte (inevitabilmente) di natura statistica. All’eventualità che una certa ipotesi di intervento riesca a mantenere la temperatura al di sotto dei limiti imposti, è abitualmente associato un valore di probabilità del 67%. Il rischio di non riuscirci (33%) è enormemente alto se si pensa all’enormità delle conseguenze associate al fallimento.

o   Le incertezze sono di natura: economica (l’obiettivo 1.5°C richiede in vestimenti aggiuntivi di 850 B$ l’anno in più rispetto all’obiettivo di 2°C); di natura fisica (ad esempio lo scongelamento della crosta superficiale delle aree nordiche come la Siberia, libera metano, enormemente più dannoso del CO2 sull’effetto serra) e di natura sociale (il comportamento umano è difficile da prevedere).

Ho estratto questi pochi dati per dare un’idea della situazione, ormai considerata molto critica in tutti gli ambienti scientifici (non nelle cellule negazioniste che purtroppo continuano a prosperare). Tutte le valutazioni considerano il tema della sostenibilità nella doppia accezione ambientale e di giustizia sociale. L’ONU ha infatti definito 17 Sustainable Development Goals che integrano tra di loro i due significati. Tuttavia, le proposte operative (il che fare) sono fortemente polarizzate sugli strumenti tecnologici e normativi che dovrebbero consentirci di raggiungere gli obiettivi ambientali. Quelli sociali sono per lo più visti come una possibile ricaduta dei primi. Per quanto ne so, è difficile trovare proposte operative che considerino i due aspetti congiuntamente, fin dalla fase progettuale. Questo è il motivo che mi ha spinto a scrivere il contributo. Le mie argomentazioni si basano sulla constatazione che alcune delle trasformazioni tecniche e normative rese necessarie dai vincoli ambientali contengono, per loro natura, alcuni ingredienti chiave per la giustizia e la coesione sociale. Questo fatto consente a mio avviso, di operare affinché i due obiettivi ambientale e sociale, siano perseguiti congiuntamente, all’interno della stessa azione innovativa, sfruttando, ove possibile, le correlazioni positive tra i due aspetti (i benefici ambientali generano benefici sociali e vice versa). Le trasformazioni che si prestano a questa elaborazione sono: la conversione energetica, l’economia circolare, la distribuzione dei beni e la digitalizzazione dei processi. Il catalizzatore che rende queste trasformazioni adatte a creare beneficio sociale e ambientale è il luogo, un fattore pressoché dimenticato nella progressiva affermazione del globale come unica dimensione di in ogni processo tecnologico ed economico. Il luogo per eccellenza è quello dei centri minori, che possiedono le potenzialità sociali e ambientali adatte ad accogliere queste trasformazioni. L’analisi è condotta leggendo con spirito critico, le scelte progettuali che (a fatica) si stanno sviluppando attorno al piano Next Generation EU. Le scelte innovative che sembrano emergere in Italia (almeno per quanto risulta dai primi documenti ministeriali) adottano un criterio di pura razionalizzazione dell’esistente, cioè di una continuità sostanziale con i processi attuali. Il Piano europeo offre invece tutti gli strumenti per una progettualità nazionale molto più orientata alla trasformazione dei processi che oggi presentano le maggiori contraddizioni rispetto agli obiettivi dichiarati. E pretende che i decisori assumano una visione responsabile di lungo termine, attenta alle (presunte) esigenze delle future generazioni. Il contributo è del tutto qualitativo e merita ulteriori approfondimenti. La versione che trovate sul sito di Circolarmente riporta una bibliografia ancora incompleta.

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Un contributo all’elaborazione politica in relazione al Piano Next Generation Europe

Documento di Giovanni Colombo

Le politiche europee dell’innovazione si stanno progressivamente orientando verso gli obiettivi della sostenibilità ambientale, del benessere e della coesione sociale (in una parola: Sostenibilità). Il piano Next Generation EU, rappresenta un passaggio fondamentale del processo di integrazione europea perché adotta principi solidaristici e strumenti finanziari comuni: gli ingredienti essenziali per affrontare in modo credibile queste grandi sfide. Il Piano richiede che gli Stati Membri che accedono ai relativi prestiti e sussidi impostino i loro programmi secondo alcuni obiettivi ritenuti indispensabili per il rilancio dell’Unione Europea nella fase post-Covid [Next]. I progetti dovranno rispondere a un requisito inconsueto: definire le scelte di oggi guardando al loro impatto sulle condizioni vita delle prossime generazioni. Gli obiettivi citati sono le componenti irrinunciabili per la vita futura e l’Europa affida ad una diffusa digitalizzazione dei processi un ruolo chiave per le trasformazioni che si renderanno necessarie. L’articolo avanza alcune proposte su questi aspetti cruciali per la politica e per le prospettive di sviluppo dell’Unione. Le anticipazioni finora diffuse dal Governo italiano in merito alle intenzioni progettuali sono (inevitabilmente) in linea con gli orientamenti fissati dal Piano europeo [PNRR]. Il Piano nazionale identifica infatti alcuni obiettive generali sui temi: Modernizzazione (affidata al digitale), Transizione ecologica, Inclusione sociale e parità di genere. Tuttavia, per quanto se ne sa, l’elaborazione politica di questi temi, non solo in Italia, sembra guidata da una visione del tutto convenzionale, in continuità con i modelli economici esistenti: gli stessi che, con gli indubbi vantaggi per il benessere dell’occidente, hanno generato le storture ambientali e sociali che la politica giura di voler correggere. Le intenzioni progettuali fin qui prodotte sembrano inoltre ignorare il tema dell’integrazione tra le questioni ambientale e sociale. La scelta di collezionare le idee di progetto secondo la rigida divisione ministeriale non raccoglie certo il pensiero ormai consolidato che non esiste giustizia sociale senza sostenibilità ambientale e viceversa. Se consideriamo il rilancio post-Covid come un’occasione unica per superare le contraddizioni dello sviluppo, allora occorre identificare con spirito critico i processi che mostrano le maggiori incoerenze rispetto agli obiettivi dichiarati e progettare le necessarie discontinuità muniti di quella consapevolezza dei nostri limiti che la pandemia ha risvegliato. La necessità di adottare una visione critica nell’analisi dei processi e un approccio radicale per loro trasformazione ha motivazioni profonde. La lettura critica produce scelte di sviluppo molto più coerenti con gli obiettivi di quanto non possa fare un approccio di pura razionalizzazione dell’esistente. I criteri di indirizzo che ne derivano offrono alla politica le leve per eliminare le storture avendo presente l’ampiezza dei sistemi ambientali e sociali e la ricchezza dei legami che li determinano. Se una soluzione si rivela strutturalmente inadeguata in relazione all’obiettivo, la scelta di razionalizzarla (continuità) può diventare un dannoso accanimento. Da qui la necessità dell’opzione radicale. Molte delle elaborazioni prodotte in questi anni spiegano in modo esaustivo perché di fronte alle sfide ambientali e sociali, sia inevitabile adottare politiche di profonda trasformazione dei processi e dei comportamenti [Jack.1]). Nei limiti di queste poche pagine, è bene comunque ricordare che la radicalità delle trasformazioni è addirittura doverosa in tutte le situazioni che pregiudicano l’ambiente e generano ingiustizia in modo oscenamente palese: la produzione e il commercio di armi, il crollo della fertilità del suolo per cause ambientali in aree sottosviluppate, lo sfruttamento neo-colonialista delle risorse dei Paesi poveri, il nichilismo monetaristico della finanza globalizzata [Zagr.]. Le considerazioni raccolte in questa nota sono molto circoscritte rispetto alla dimensione planetaria delle sfide globali appena richiamate: si applicano alla struttura economica e sociale di un Paese come l’Italia, che equivale, per gli obiettivi del contributo, a quella degli altri Paesi europei. Questa fortunata area del pianeta vive lo stadio più avanzato dello sviluppo, nei suoi vantaggi e nelle sue crescenti contraddizioni. Le sue comunità godono di un livello stabile (anche se fortemente squilibrato) di benessere e sono quindi le più adatte a sperimentare la complessità di cambiamenti che intaccano in modo significativo i consolidati comportamenti personali e collettivi. L’Europa è anche l’area su cui gravano le maggiori responsabilità per il sottosviluppo creato in secoli di politiche coloniali praticate in ogni parte del pianeta e questa verità storica ci assegna un obbligo di restituzione che dobbiamo onorare. L’elemento più importante per le congetture che seguono è la distribuzione delle attività e degli stanziamenti umani sul territorio. Questa caratteristica accomuna i Paesi europei in una configurazione multipolare, formata da pochi grandi inurbamenti densamente popolati, molti centri di dimensioni medio-piccole, ancora ricchi di storia e tradizioni e agglomerati di piccolissime dimensioni, sorti nelle zone più disagiate del territorio, storicamente legati a produzioni agricole marginali e, più recentemente votati all’abbandono o al turismo (due destini che hanno molti tratti in comune). Il modello otto-novecentesco di fabbrica ha disgregato questa configurazione polarizzando le risorse umane, le infrastrutture, i servizi, la ricerca, la cultura, verso la Città, che è cresciuta come punto di accumulo economico generando un simmetrico impoverimento dei luoghi periferici della presenza umana. Tuttavia, la configurazione multipolare rimane fisicamente e culturalmente presente, anche a causa di un processo iniziato ben prima della pandemia: la lenta ma progressiva erosione delle ragioni cha hanno in passato portato alla polarizzazione urbana delle attività. Questi aspetti verranno analizzati più avanti, ma quanto detto è sufficiente per interrogarci sul ruolo che una rinnovata vitalità dei centri minori e periferici potrebbe giocare in termini ambientali e sociali. Su questo dilemma, la nota propone la seguente tesi: i centri minori e periferici del modello multipolare, possono diventare il punto di forza di una strategia orientata alla sostenibilità ambientale e alla coesione sociale, integrate in un’unica prospettiva. Le chances di questo modello dipendono dalla capacità politica di progettare azioni coerenti con gli obiettivi di lungo termine, guidate da spirito anticipatorio e basate sul coinvolgimento attivo e responsabile delle comunità. Su questo vasto tema, molto è stato prodotto in Italia dal Forum Diseguaglianze e Diversità [Forum]. La proposta si colloca decisamente nell’alveo di quella elaborazione, rispetto alla quale avanza alcune congetture sull’uso responsabile dei fattori tecnologici che intervengono nell’innovazione di processo e cerca di giustificare con elementi nuovi, il valore della dimensione locale dello sviluppo. Il documento è organizzato in tre parti. La prima analizza il criterio con cui le sfide della sostenibilità ambientale, della coesione sociale e della digitalizzazione sono comunemente interpretate alla luce dell’esperienza pandemica. Le criticità riscontrate, suggeriscono di focalizzare l’azione politica sui centri minori e periferici secondo alcuni indirizzi progettuali. La seconda parte mostra come alcune tendenze sociali possano a loro volta favorire il rinnovamento del sistema multipolare. La terza integra gli argomenti a sostegno del modello proposto e raccoglie alcuni commenti conclusivi. Gli argomenti a favore della tesi sono molto polarizzati, sia nella lettura delle criticità dei processi attuali, sia nella identificazione degli indirizzi progettuali. La parzialità è lecita (inevitabile) quando opera su prospettive discontinue rispetto a realtà consolidate, purché non nasconda i suoi punti deboli e rimanga aperta alla critica. La proposta è costruita con questa consapevolezza. Non è per dimenticanza che il terzo tema, quello della digitalizzazione, non è stato trattato in queste considerazioni preliminari. Il motivo è semplice: considerare la digitalizzazione come obiettivo e non come un (pur potente) strumento, espone al rischio di essere trainati dalla tecnologia, o meglio da chi la detiene. Negli ultimi decenni la politica è caduta in questo tranello accettando così di ridimensionare il suo naturale spazio di intervento.

1. Next Generation Europe – una lettura critica e alcuni indirizzi progettuali

I processi che hanno il peso maggiore nel determinare le condizioni di vita delle società di domani, sono anche i più esposti alle contraddizioni e quindi alla necessità di adottare politiche di cambiamento radicale. I settori della conversione energetica, della trasformazione dei processi produttivi, della distribuzione dei beni e dell’innovazione digitale presentano decisamente queste caratteristiche. La loro rilevanza deriva anche da altro solido motivo: sono le aree economiche che mobilitano la maggiore quota degli interessi mondiali. L’analisi che segue è molto parziale rispetto alla vastità dei settori segnalati. D’altronde, qui pesano, per ogni settore, soltanto gli aspetti maggiormente correlati alle politiche dei centri minori e periferici.

La conversione energetica: generazione centralizzata o decentrata?

Nel processo di conversione energetica, l’Italia ha raggiunto risultati superiori alle medie europee su alcuni degli indicatori adottati. È il caso ad esempio della produttività energetica, della produttività delle risorse, del tasso di riciclaggio dei rifiuti. Rimangono critici il risparmio energetico e la riduzione complessiva dei gas serra, nonostante il miglioramento registrato negli ultimi anni [EC.1]. Per gli obiettivi del documento, interessano le politiche di produzione dell’energia da fonti rinnovabili, un settore in cui l’Italia ha prodotto ottimi risultati fino al 2013, con un rallentamento negli anni successivi. Nel 2018 la quota di energia rinnovabile nel consumo finale era del 18%) [EC.1 Allegato E]. Sotto la spinta del Next Generation Europe, le politiche dei Paesi europei favoriranno sicuramente lo sviluppo ulteriore di impianti per la generazione fotovoltaica, eolica e da biomassa, sistemi per cui le misure di incentivazione economica hanno prodotto in passato buoni risultati. Gli incentivi per le fonti rinnovabili sono oggi sensibilmente ridotti a causa della (precaria) parità di costo con il fossile. Rimangono invece gli incentivi per i carburanti fossili, a dispetto delle dichiarazioni della politica sull’economia green (in Italia, circa 13 miliardi di euro l’anno tra aiuti diretti e indiretti [True]). Nel settore delle fonti rinnovabili di energia, la tendenza prevalente riproduce il dualismo produttivo centralizzazione-dispersione che ne ha caratterizzato lo sviluppo negli ultimi quindici anni: campi eolici o solari di grandi potenze da un lato e parcellizzazione in piccoli impianti, per lo più domestici dall’altro. Le grandi centrali di produzione occupano importanti porzioni di suolo, alterano il paesaggio, alterano le condizioni di sopravvivenza della fauna e perpetuano lo schema di distribuzione energetica ad albero, gestito da grandi operatori. L’opzione basata su impianti domestici cambia sì il modello (il consumatore diventa anche produttore) ma risulta fortemente frammentata, non sfrutta le potenziali sinergie tra gli impianti e in qualche modo alimenta la pretesa di autosufficienza dei singoli. Se la progressione rimane ancorata a questa dicotomia, sarà difficile dispiegare in modo completo le potenzialità offerte dalle nuove tecnologie energetiche. Si può gradualmente uscire da questa sostanziale continuità con l’esistente perseguendo con decisione l’opzione delle Comunità Energetiche. La Comunità Energetica raggruppa un insieme di consumatori - produttori (pubblici e privati) che a livello locale decidono di condividere la loro capacità produttiva e le loro esigenze di consumo attraverso lo scambio (per lo più indiretto) e l’immagazzinamento dell’energia generata. La Comunità ha dimensioni piccole o medie (da decine a poche centinaia di associati) e si presenta come entità unica nell’interazione con la rete, con la quale scambia energia in funzione dell’andamento delle curve di produzione e consumo della comunità. L’Unione Europea ha recentemente prodotto una direttiva sulle energie rinnovabili [EU.1] che definisce le regole di costituzione e di governo della Comunità Energetica. Recenti studi sostengono che comunità allargate di questa natura (la comunità può includere altre sorgenti, ad esempio la biomassa) possono offrire notevoli vantaggi sociali e ambientali [CE.1]. L’investimento sulle Comunità Energetiche è uno dei fattori decisivi sulla via della sostenibilità e dell’indipendenza energetica e al contempo suggerisce nuove forme di socialità a livello locale. È il modo migliore per creare consapevolezza ambientale e per sollecitare comportamenti virtuosi. Produce nuovi, buoni lavori attorno a temi quali: la gestione tecnica degli apparati, l’ottimizzazione del processo complessivo secondo criteri ambientali ed economici, la definizione di modelli del comportamento energetico dei partecipanti. Genera inedite forme di socialità e di partecipazione. La politica qui ha molto da fare: definire strumenti finanziari mirati all’investimento; ampliare e semplificare la recente normativa che consente la formazione di Oil Free Zones [Oil]; incentivare la sperimentazione diffusa delle Comunità EnergeticheL’eventualità di un radicale decentramento della produzione energetica è vissuta con un certo nervosismo da parte dei grandi produttori/distributori. In effetti, anche qui dovrebbe valere la capacità di anticipare quello che è un processo inarrestabile: la conversione (quasi) totale verso sorgenti di origine non fossile. Tanto vale convertirsi da trivellatori (diretti o indiretti) di materia a venditori di conoscenza: quella necessaria a produrre localmente un’energia che fa a meno delle trivellazioni. Per i grandi Operatori, un passaggio inevitabile nei confronti dell’utente/produttore: ti aiuto a risparmiare quello che ti vendo. Un modello sfidante per gli economisti!

Processo produttivo: oligarchia tecnologica o conoscenza diffusa?

A proposito dei sistemi di produzione, la discussione sul Next Generation Europe non è andata oltre lo slogan dell’industria 4.0 per iniziative polarizzate sullo sviluppo del processo di automazione, perseguito secondo criteri di pura efficienza a sostegno della competitività. Le questioni ambientali e sociali rimangono sullo sfondo. Meriterebbe almeno altrettanta attenzione il tema della trasformazione dei cicli produttivi (industriali e biologici) verso l’economia circolare anche perché è a questa prospettiva che una politica anticipatrice dovrebbe guardare. I buoni risultati dell’Italia in merito alla Tasso di riutilizzo circolare delle materie prime seconde che ha raggiunto il 17% nel 2019 [ComE] dovrebbero incoraggiare la politica in questo senso. La ricerca effettuata nel 2015 in [Ellen] è forse il più importante contributo al lancio dell’economia circolare. Il titolo “Growth Within: A Circular Economy vision for a competitive Europe”, sembra una pedante professione di fede nei valori neo-liberisti, ma nei contenuti, la proposta apre a prospettive fortemente discontinue rispetto ai sistemi produttivi attuali. I principi che vi sono enunciati: Rigenerare, Condividere, Ottimizzare, Riusare, Virtualizzare, Trasformare richiamano in buona misura le posizioni molto più antiche dell’ambientalismo militante: un collegamento che è quasi una conversione perché viene da ambienti non certo avversi al mercato e all’industrialismo tradizionale. Molto più opportunamente, la Commissione Europea ha adottato (marzo 2020) un Piano d’Azione per l’Economia Circolare ove si assume la Circolarità delle produzioni industriale e agricola come presupposto per la neutralità climatica [EC.2]. La Commissione si impegna a definire norme, forme di finanziamento e strumenti per portare gli Stati europei a realizzare i principi della circolarità a tutti i livelli geografici, dallo Stato alle Regioni alle Città. Il Piano d’Azione è un buon passo in avanti perché promuove lo sviluppo di modelli per l’analisi delle soluzioni e per la valutazione del loro impatto. Si assume cioè che l’implementazione di questi principi modifichi radicalmente i modelli economici legati alla produzione, al consumo e allo smaltimento dei beni materiali in nome di principi ambientali. Tuttavia, anche qui, la Commissione non trascura di precisare che tale svolta dovrà favorire la crescita e la competitività del continente. Queste precisazioni ideologiche meritano una critica di metodo. Non si può assumere che la sostenibilità sia l’obiettivo primario per poi affiancarlo a due requisiti, la crescita e la competitività, due fattori sotto osservazione perché corresponsabili della precarietà ambientale e di quella sociale, almeno nelle condizioni date. Non si tratta di un invito alla decrescita, ma di un richiamo al principio di non contraddizione. La prospettiva della sostenibilità si dovrebbe invece accompagnare con l’intento di garantire prosperità (che non vuol dire consumismo) e giustizia sociale. In ogni caso, a supporto della tesi qui sostenuta, sembra opportuno rilevare una criticità sostanziale nelle politiche per l’Economia Circolare: i nuovi modelli di cui si parla rimangono fortemente centrati su una visione economicistica e industrialista della transizione. Si rinuncia a guidare questa svolta radicale secondo criteri che sono anche di natura sociale [Gonza]. Una buona parte delle trasformazioni di processo legate al ciclo di vita del prodotto avvengono là dove il prodotto viene usato, riparato, scomposto, riusato nelle sue parti, smaltito: attività che hanno decisamente a che fare con il luogo in cui il prodotto vive. Se questo è vero, perché non operare intenzionalmente affinché le azioni e la conoscenza necessaria per attività da creare ex-novo si consolidino come valori sociali e come nuove forme di economia del luogo? Si può ipotizzare che le nuove funzioni da istituire localmente, siano molto più protette dai meccanismi della competizione globalizzata, con cui ha a che fare invece la creazione del prodotto di fabbrica. La loro coloritura sociale è così evidente che da tempo per questi contesti, si sollecita la creazione di modelli del tutto nuovi anche dal punto di vista della capacità imprenditoriale richiesta [Niras]. Queste funzioni locali rientrano quindi nella (grande) porzione dell’economia non soggetta a scambi (non-traded economy) che agisce come fattore di stabilità e di garanzia sociale in presenza di shock economici e delle conseguenti politiche di austerità come quelle adottate in Europa per la crisi iniziata nel 2007 [Stiglitz]. Per dirla con Fabrizio Barca, questo tipo di economia dovrebbe essere oggetto di ricerca e seguire prassi operative e di supporto politico secondo il principio della coesione sociale, pur convivendo con l’altro tipo di economia, basata sul principio dell’efficienza [Barca]. La proposta di circolarità vale anche pe il ciclo dei prodotti biologici, inevitabilmente legati all’agricoltura. Anche in questo caso, il panorama delle opportunità è vastissimo, ma per evidenziare gli aspetti che riguardano lo sviluppo locale, è sufficiente riferirci agli orientamenti che stanno emergendo, anche se timidamente, a livello europeo: Già l’attuale Piano Comunitario per l’Agricoltura aveva indicato alcuni elementi per una svolta radicale del ruolo affidato alle comunità rurali. A questo mondo sempre più imbrigliato in processi di sfruttamento intensivo del suolo, il Piano affidava il compito di gestire in modo sostenibile le risorse naturali e il ciclo dell’acqua, di garantire il benessere animale e di difendere la biodiversità del territorio [EC.3]. Purtroppo a questi buoni propositi non è seguita una svolta coerente dei finanziamenti, che sono andati in larghissima misura all’agricoltura intensiva tradizionale. Non mancano però gli stimoli per una politica più attenta all’agricoltura organica, associata alle pratiche di risparmio energetico e idrico. Lascia ben sperare la proposta sulla biodiversità [EC.5] che riconosce la stretta correlazione tra la ricchezza della diversità biologica e la mitigazione del cambiamento climatico e propone di ridurre del 50% l’uso dei pesticidi entro il 2030 e di estendere le pratiche dell’agricoltura biologica al 25% del suolo agricolo. Queste indicazioni dovrebbero essere recepite nel Piano 2021-2027 per la nuova Politica Agricola Comune.  Inquadrata nella dimensione locale, la Circolarità della produzione offre nuove opportunità per forme di lavoro oggi impossibili a causa della standardizzazione dei prodotti e dei livelli esasperati di integrazione delle loro funzioni interne. Lavori di riparazione, manutenzione, riuso, adattamento, tutti di elevato livello concettuale, sono l’inevitabile ricaduta di metodi progettuali basati sulla composizione modulare del prodotto, sulla necessità di riciclo e riuso delle materie prime e sulla fertilizzazione a cascata delle fasi di produzione, come vuole il concetto di circolarità. A livello locale, con le opportunità di lavoro, l’economia circolare favorisce la rinascita della consapevolezza tecnologica oggi sacrificata all’irresponsabile prassi dell’usa e getta. E fornisce consapevolezza biologica per la vicinanza della comunità con la produzione agricola e con la difesa della biodiversità e del territorio. Inoltre, la trasformazione produttiva verso l’economia circolare non si limita ad adottare criteri del tutto nuovi fin dalla fase di progettazione del prodotto, ma richiede di definire metodi di attuazione e di misura dei vari processi legati al ciclo di vita locale del prodotto.

La distribuzione dei beni: frammentazione o socialità?

Uno dei dilemmi legati allo sviluppo di nuovi modelli sostenibili a livello ambientale e sociale ha a che fare con la fase che completa il ciclo produttivo appena visto: il processo di fornitura dei prodotti di qualsiasi natura al consumatore finale. Lo sviluppo di Internet ha consentito il dispiegamento di una miriade di applicazioni che prosperano su questa funzione. Le applicazioni coprono tutte le fasi digitalizzabili dell’acquisizione: promozione, scelta, acquisto, trasporto, tracciamento del prodotto, consegna. L’impatto sulla configurazione sociale sembra quindi minimo a prima vista, ma sta assumendo proporzioni inusitate, che meriterebbero un’attenzione maggiore da parte dei singoli e della politica. I nuovi modelli del commercio sono così ricchi nell’offerta, così asettici e così comodi per il consumatore, che una critica radicale a questi modelli rischia di essere molto impopolare. Ma esistono principi di trasparenza e di responsabilità che non possono essere disattesi. Ecco cos’è accaduto: in pochi decenni la fondamentale funzione sociale dell’approvvigionamento e della fruizione di beni di consumo è stata gradualmente erosa di ogni contenuto di socialità mentre ci lasciavamo felicemente trasportare dalla piazza rinascimentale all’ipermercato come luogo del consumo e da questo al tutto a casa mia, l’abolizione di ogni residua intermediazione tra produttore e consumatore e di ogni residua possibilità di interazione pubblica tra i cittadini. Questa constatazione riceve in genere scarsa attenzione, ma la politica e la cultura dovrebbero almeno creare consapevolezza sul fenomeno ed elaborare risposte responsabili e partecipate. I rider a cottimo, i produttori di cibo preconfezionato, i corrieri, gli addetti al packaging negli immensi capannoni della logistica padana sono le incolpevoli rappresentazioni umane di un lavoro sempre più frammentato, mal pagato e precario a servizio di una sconfinata ed edonistica possibilità di scelta dei prodotti, pagata col disimpegno e l’alienazione sociale del consumatore. L’effetto è così evidente che a nessuno può sfuggire verso quale futuro siamo diretti: alla fine dei negozi di qualsiasi genere, delle librerie, delle edicole, dei ristoranti seguirà presto la fine dei supermercati con la loro residua parvenza di socialità del consumo. La fruizione dei beni non produrrà più ricadute di coesione sociale: sarà un episodio strettamente privato, suscitato dal nulla con un click, la bacchetta magica dei nostri desideri. Sembra che il senso di impotenza verso questa progressione generi anche qualche tentativo di correzione. Si stanno moltiplicando iniziative, non tanto di contrasto a questa deriva, quanto di affermazione (dovremmo dire di testimonianza) della presenza in vita di modelli alternativi. La distribuzione di prodotti agricoli a chilometro zero attraverso la formazione di gruppi d’acquisto, il (tentativo di) ritorno ai negozi di vicinato e di rilancio dei mercati rionali rappresentano, magari inconsapevolmente, altrettante linee di difesa dall’incedere travolgente del tutto a casa mia. Tuttavia, se la politica scegliesse di essere coerente con le sue stesse, dichiarate intenzioni sulla sostenibilità ambientale e sulla coesione sociale, potrebbe almeno registrare alcuni indizi. Ad esempio, il meccanismo di distribuzione globale, con consegna del prodotto a domicilio non è necessariamente quello che genera la minore impronta energetica [Sadeg]. Il trasporto a domicilio è enormemente svantaggiato dagli ordini isolati, con un solo prodotto nel carrello della spesa. Consegnare al signor Bianchi, abitante a Pinerolo (Torino) un paio di occhiali costruito in Corea e impacchettato in una logistica della Baviera sud-occidentale può non essere il massimo dell’efficienza se il signor Bianchi (o qualche suo vicino di casa) non ha acquistato altra merce dallo stesso operatore. Certo, il modello alternativo richiede al signor Bianchi di accontentarsi di una delle montature disponibili presso l’ottico di quartiere, raggiungibile in bicicletta da casa sua. Va detto che il commercio di vicinanza è fortemente penalizzato da fattori come l’invenduto (non solo per le merci deperibili) e dalla povertà dell’offerta. Un altro elemento: la quantità del lavoro sottesa al commercio on line è certamente inferiore a quella legata al commercio di vicinato e, per quanto riguarda la qualità e il livello di garanzie sindacali, questi ultimi anni di esplosione della gig economy, con i suoi rider, gli addetti al packaging, al delivery al take away hanno reso evidente come la modernità british di questo nuovo lessico nasconda concetti come cottimo, sfruttamento, frammentazione, che di moderno hanno ben poco. La politica può, volendolo, favorire il commercio di vicinato, ad esempio disincentivando la produzione di rifiuti da imballaggio e favorendo la consegna a domicilio associata a forme di assistenza alle persone fragili. L’orientamento europeo verso la riduzione della plastica e degli imballaggi [EC.4] nonché le ventilate intenzioni di avviare la carbon tax sul ciclo di vita dei prodotti vanno nella stessa direzione, ma dovrebbero essere pensati e gestiti facendo pesare il vantaggio di socialità che forme di commercio di vicinato potrebbero indurre. La congiunzione concettuale ed operativa tra obiettivi ambientali e sociali implica profondi cambiamenti del livello di consapevolezza e delle abitudini delle persone. Quasi sempre questi cambiamenti non sono comodi nell’accezione comune del termine, ma occorre chiedersi: come può funzionare un piano di recupero delle marginalità urbane ed extra-urbane senza una sistematica presenza di vita dei cittadini sul territorio? Pensiamo sia possibile affidare alla sola polizia municipale il compito di ricreare una socialità distrutta da un modernismo di facciata, accettato senza battere ciglio da noi tutti e, con noi, da una politica rinunciataria?

Digitalizzazione: obiettivo o strumento?

È universalmente noto che le tecnologie digitali giocano un ruolo primario in tutti gli aspetti della nostra vita. Esse offrono la base funzionale dell’evoluzione economica e sociale e gli strumenti per progettare e prevedere gli sviluppi dei nuovi processi. Le stesse tecnologie condizionano il livello cognitivo e il comportamento sociale delle persone. Sistemi automatici sostituiscono le azioni ripetitive del lavoro umano. L’intelligenza artificiale e gli algoritmi di elaborazione dei dati simulano le funzioni del cervello e, grazie alla disponibilità di grandi capacità elaborative, ampliano le possibilità di intervento in settori quali: la diagnosi medica, l’orientamento finanziario, il supporto alle decisioni in condizioni di incertezza. A causa della potenza delle tecniche digitali, il nostro livello di responsabilità nell’usarle dovrebbe crescere con la stessa cadenza con cui cresce la loro capacità funzionale. Nella difficile fase che le società occidentali stanno attraversando, sembra che la digitalizzazione sia uno dei passaggi fondamentali da costruire. La necessità di questo obiettivo è chiaramente rappresentata nel piano Next Generation Europe. Si tratta di una posizione completamente giustificata, visto il potere abilitante delle tecniche digitali. Ma questa potenzialità richiede che gli attori dell’innovazione siano consapevoli dello spettro di opzioni innovative (anche contradditorie) che le funzioni digitali possono offrire grazie alla loro natura generica e costitutiva. La prima caratteristica rende ogni funzione digitale applicabile ad una varietà di processi, la seconda certifica che una nuova prospettiva non può esistere senza (un adeguato assortimento di) funzioni digitali. Ciò significa che un criterio responsabile costringe l’innovatore a decidere su quali funzioni digitali sono necessarie e su come queste devono essere applicate per realizzare la prospettiva di lungo termine che si vuole raggiungere. In molti casi l’innovazione digitale è stata attuata in assenza di una credibile prospettiva, come una pura continuazione dei processi esistenti. Per esempio, l’evoluzione dei sistemi di comunicazione verso la quinta generazione (5G) è stata decisa (dopo una fase di forti perplessità) per la necessità degli Stati e degli Operatori di non perdere il contatto con una tecnologia d’avanguardia e non per rispondere a una necessità universalmente espressa. La realizzazione della rete 5G è una sorta di una profezia che si auto-avvera, lanciata nel 2015 cavalcando l’onda montante della comunicazione multimediale in movimento. La profondità e l’urgenza della sfida della sostenibilità dovrebbe portare la ricerca verso ben altre mete, seguendo criteri di finalizzazione e di priorità dove il processo di digitalizzazione possa sviluppare il suo ruolo essenziale nel raggiungere obiettivi comuni e coerenti. Con questo spirito possiamo tornare all’imperativo sollevato nel Next Generation EU dicendo che, nelle condizioni date, la garanzia di accesso alla rete è sicuramente uno dei diritti individuali del nostro tempo. Ma questa affermazione, tanto più giustificata nell’epoca Covid, non ci esime dall’interrogarci sui criteri che dovrebbero guidare la scelta delle applicazioni alla luce del loro prevedibile impatto, al di là della congiuntura pandemica. Si consideri ad esempio, uno degli accorgimenti che, grazie alle tecniche digitali, è stato messo in campo per combattere la pandemia: il cosiddetto smart working, dove l’aggettivo smart espande di molto il concetto rispetto al più prosaico lavoro da casa, nella cui stretta accezione è stato di fatto interpretato. Non è in discussione l’efficacia di questa misura in termini di protezione virologica, c’è piuttosto da ridire sull’eventualità che questa modalità sia confermata o addirittura ampliata anche nel dopo Covid, eventualità che alcuni ritengono ineluttabile, altri addirittura beneficaIl vantaggio dello smart working in chiave di contrasto al virus è indiscutibile: meno contatti, minore esposizione al rischio di contagio. Tuttavia, la prospettiva del lavoro da casa presenta una serie di contraddizioni. Promette una maggiore libertà nella mediazione tra tempo di lavoro e tempo libero ma priva il lavoratore della socialità offerta dal lavoro in ufficio o in fabbrica. Il tempo libero, principalmente per le donne, si riflette in un maggiore impegno nelle faccende domestiche e di cura parentale. L’impatto moltiplicativo del lavoro femminile (in termini di occupazione generata) viene meno perché si riduce la possibilità di affidare ad altri quel carico aggiuntivo. Il lavoro da casa indebolisce la forza contrattuale del lavoratore perché apre a forme di remunerazione basate esclusivamente sui risultati: l’esasperazione della meritocrazia o un ritorno al meccanismo del cottimo, soprattutto per le funzioni di modesto contenuto professionale. L’interazione con l’azienda tende ad assumere un carattere personale per l’indebolimento della dimensione collettiva del rapporto. La politica deve interrogarsi in modo radicale sulla eventualità che il lavoro da casa diventi veramente un fenomeno rilevante ed escogitare soluzioni che superino i limiti di socialità, di isolamento personale e di precarietà lavorativa di cui si è detto. Ecco alcuni indizi che, intenzionalmente, giocano a favore della rinascita dei centri minori. Se la tendenza a decentrare il lavoro dovesse essere confermata, sarebbe il caso di ridisegnare il ruolo dei centri di co-working impostandoli come luoghi attrezzati che raccolgono a livello locale i lavoratori (già pendolari) ai quali le relative aziende intendono applicare il lavoro a distanza. L’aspetto intrigante, degno di essere studiato sotto vari profili, è che nella nuova configurazione, il lavoro decentrato consolida a livello locale la maggior parte dei fattori di produzione della ricchezza, prima sradicati dal luogo di residenza del lavoratore. Nelle statistiche europee sui processi di urbanizzazione [Urban] le regioni prevalentemente urbane producono un elevato PIL pro capite, ma tassi di occupazione relativamente bassi. Il valore del primo parametro (calcolato sulla popolazione residente) è esaltato dalla ricchezza prodotta in città dai lavoratori pendolari. I valori del secondo scontano la grande promessa potenziale di impiego offerta dalla Città, che poi tradisce le aspettative. In questa situazione, è chiaro come il potenziamento delle funzioni svolte nei centri periferici possa avere una funzione di riequilibrio economico e sociale. Un altro indizio che gioca nello stesso senso del precedente, è offerto dalla profonda modifica che sta subendo la cosiddetta catena del valore dei cicli produttivi. Questo processo si è affermato indipendentemente dal modello dell’economia circolare, che si trova peraltro nella sua fase iniziale. Si tratta di un trasferimento sostanziale di funzioni e del relativo valore economico dalla produzione verso le fasi che la precedono (ricerca e sviluppo per nuovi prodotti, servizi pre-produzione, strumenti software a supporto della progettazione e della valutazione d’impatto) e la seguono (servizi post-produzione e post-vendita). Le tecniche digitali sono fondamentali in tutte queste fasi, grazie soprattutto alla loro capacità di virtualizzare i processi reali, che esalta la riproducibilità decentrata dei segmenti produttivi. Questo spostamento di funzioni e di valore si sta consolidando in luoghi indipendenti da quelli della produzione, grazie a capacità imprenditoriali che entrano in gioco quando le condizioni locali sono favorevoli, anche dal punto di vista sociale e ambientale. Sul piano concettuale, l’esempio del lavoro agile è utile per comprendere come la ricerca responsabile di soluzioni coerenti con gli obiettivi della sostenibilità e della coesione sociale favorisca interpretazioni convincenti (e non convenzionali) degli attributi digitali. Nel caso specifico, l’attributo di a-spazialità dell’accesso ad Internet, inteso come indipendenza dal luogo (posso usare queste funzioni ignorando il luogo in cui mi trovo) è stato interpretato come facoltà di attribuire al luogo quelle stesse funzioni (posso usare queste funzioni nel luogo in cui vivo e lavoro). Analoghe considerazioni interpretative valgono per un altro attributo tipico delle funzioni informatiche: la capacità di memorizzazione, che ne consente un uso flessibile nel tempo. È evidente che sia il modello del lavoro a casa, sia il modello alternativo fanno un significativo uso di tecniche digitali, ma la soluzione alternativa, che la politica può favorire attraverso la leva fiscale e normativa, è molto più convincente sul piano sociale e della protezione del lavoratore. In termini un po’ più generali, si può dire che considerare le tecniche digitali come obiettivo corrisponde ad affidarsi in modo passivo alle scelte più vantaggiose per produttori, gestori e ideatori di servizio, i quali, lecitamente, perseguono finalità economiche. Viceversa, interpretare le tecniche digitali come strumento, porta inevitabilmente ad allargare lo sguardo verso il loro potenziale impatto sociale e ad operare scelte più responsabili. Può sembrare un’ovvia considerazione, ma i due modi di guardare alla tecnologia danno luogo rispettivamente a politiche difensive (è quanto succede in prevalenza) o a politiche attive, ispirate ai valori che il sistema democratico è in grado di distillare.

2. I cambiamenti sociali – una convergenza favorevole

Come anticipato, per evidenziare tutte (o quasi) le circostanze che concorrono a rendere credibile una politica verso i centri minori e periferici, è opportuno aggiungere agli indizi raccolti nella prima parte, alcuni cambiamenti o tendenze sociali che possono rafforzare le chances di un’economia della sostenibilità e dell’inclusione sociale costruita attorno al concetto di luogo. L’impatto delle dinamiche economiche e sociali sui livelli di urbanizzazione, le tendenze demografiche e l’evoluzione dei modelli della salute, il nuovo ruolo del settore agricolo, il tema dell’immigrazione e l’evoluzione culturale in rapporto all’uso della rete sono fenomeni che possono essere interpretati come fattori a supporto del modello proposto. Urbanizzazione. Grosso modo in tutto il mondo, la tendenza all’urbanizzazione prosegue freneticamente. In Europa tutte le proiezioni stimano una progressione più lenta, tuttavia capace di portare il continente a raggiungere nel 2050 una quota di popolazione urbanizzata dell’80% [Urban]. Contemporaneamente, si manifestano alcune evidenze che potrebbero mitigare se non contraddire quelle aspettative. Come abbiamo visto in premessa, lo sviluppo di questi ultimi decenni ha gradualmente eroso le forze-guida della corsa all’inurbamento registrata nel secolo scorso (fabbrica, prossimità dei lavoratori e dei servizi, concentrazione spaziale e temporale del processo produttivo). Il declino è in corso, anche se in misura ancora ridotta e poco riconoscibile. Sono invece del tutto riconoscibili le contraddizioni sociali del processo di urbanizzazione. La Città offre indubbiamente opportunità economiche, stimoli culturali e garanzie di cura e di prevenzione della malattia, ma al contempo la concentrazione urbana registra da anni alcuni paradossi [Urban] ben visibili nel nostro Paese. Nelle aree prevalentemente urbane gli effetti positivi dell’inurbamento si accompagnano in misura crescente a condizioni di criminalità, disuguaglianza sociale, congestione, degrado ambientale e a livelli di criminalità che risultano insopportabili per strati crescenti di popolazione. Un altro paradosso riguarda il tasso di occupazione della popolazione residente, che nei Paesi ad elevata industrializzazione è più elevato nelle zone prevalentemente rurali rispetto a quello misurato nelle aree prevalentemente urbane (accade in Svezia, Germania, Olanda, Francia e Austria, mentre in Italia il tasso è sostanzialmente equilibrato tre le due tipologie. Questo paradosso, dovuto al pendolarismo lavorativo dai piccoli centri alla città, rappresenta comunque un buon indizio per comprendere le ragioni che portano cittadini, anche in giovane età e con livelli medio-alti di professionalità a stabilirsi in zone rurali o a bassa urbanizzazione. Attraverso politiche mirate, la spinta al decentramento può innescare processi di de-congestione della Città, di compensazione città-campagna, di riassetto della mobilità di persone e merci. E può favorire la rinascita dei centri minori e marginali che, nonostante l’erosione funzionale e demografica sofferta in questi anni, hanno mantenuto i presupposti per un buon livello di socialità e di cultura locale.

Demografia. I cambiamenti demografici e i nuovi modelli della salute operano attraverso la prevenzione, la de-ospedalizzazione, la riabilitazione e la cura sistemica (fisica, cognitiva, di relazione). I paradigmi di cura e di vita attiva richiedono, soprattutto per le persone anziane, possibilità di partecipazione e di esperienza sociale, oggi poco garantite nella città, ove prevalgono lo spirito competitivo, monetaristico e individualistico. La malattia della solitudine sta diventando una delle peggiori piaghe della vita urbana. È noto come la mancanza di configurazioni di cura decentrata sia stato uno dei principali limiti clinici e sociali emersi nella pandemia da Covid. È proprio in questa triste occasione che si è manifestata in tutta la sua gravità la realtà delle residenze sanitarie assistenziali per anziani, fino a ieri soltanto sussurrata per una sorta di ipocrisia o di connivenza collettiva. Non occorre molta fantasia per immaginare come nei processi di cura e di assistenza, la comunità locale possa offrire più facilmente soluzioni basate sull’interazione e sull’esperienza sociale, evitando approcci puramente farmacologici o affidati al rapporto digitale, a distanza, tra assistito e medico. A queste condizioni di maggiore integrazione con l’ambiente potrebbero corrispondere nuovi modelli di accoglienza familiare o pubblica per gli anziani attivi e di vita dignitosa per le persone non più autosufficienti. Dal punto di vista dell’occupazione, possono emergere specialità legate alla personalizzazione della cura, all’engagement del paziente, alla sua autonomia e al suo stile di vita. Possono essere sperimentate e consolidate nuove forme di assistenza residenziale e domestica e nuove professionalità per gli operatori, ad esempio legate alla mediazione tra le cure decentrate (prevenzione, cronicità, terapia, riabilitazione) e le fasi acute della malattia (ospedale, chirurgia).

Agricoltura. Come abbiamo visto, l’Unione Europea affida alle comunità rurali un ruolo molto più esteso rispetto a quello della pura produzione di cibo per la città. Le comunità rurali dovrebbero diventare l’anello di congiunzione tra agricoltura e difesa della biodiversità e offrire uno spazio di compensazione tra la città e l’ambiente naturale. La pervasività del cibo nelle attività umane, nella salute e negli stili di vita dovrebbe permettere una maggiore polarizzazione economica verso le attività agricole. In questa cornice possono prendere forma professioni legate alla sperimentazione di tecniche virtuose per il ciclo dell’acqua, alla produzione di energia, alla cura degli animali, al monitoraggio della qualità dei prodotti, all’estensione dell’agricoltura biologica, alla diffusione dell’orticoltura familiare. Le tecnologie dell’informazione possono garantire che queste nuove funzioni si sviluppino su scala locale senza creare separazione rispetto all’evoluzione culturale del Paese.

Immigrazione. Il fenomeno dell’immigrazione e la necessità di costruire con gli immigrati un’integrazione effettiva possono essere affrontati in modo più naturale ed efficace in realtà locali in cui la sensibilità sociale sia rimasta viva.

Connettività. La trasformazione rapida e (pare) irreversibile della società in una collettività di individui perennemente connessi è il più evidenti dei cambiamenti sociali attribuibili alla rete. Per gli scopi di questo contributo, possiamo accantonare la lettura critica di questa bulimia connettiva per limitarci a dire che l’accesso all’informazione e la possibilità di interazione a distanza sono diventati due diritti fondamentali. Il rischio di isolamento culturale che appena poche decenni fa sarebbe stato uno dei principali ostacoli per una politica del luogo, è radicalmente ridimensionato. Il decentramento non minaccia la facoltà di essere connessi, proprio per quella indipendenza dal luogo che caratterizza la comunicazione digitale. Così, questa stessa facoltà può essere interpretata in modo da proteggere la comunità decentrata dal meno desiderabile degli effetti che una realtà periferica possa correre: cadere nella trappola del localismo cioè della chiusura al mondo e della grettezza culturale. Potrà addirittura accadere che il livello di socialità e di partecipazione democratica che il modello multipolare dovrebbe produrre, aiutino a maturare, nel mare delle possibilità offerte dalla rete, qualche forma di discernimento.

3. Il valore dell’integrazione e alcuni commenti conclusivi

Attraverso la lettura critica degli orientamenti per l’uso dei fondi Next Generation Europe abbiamo formulato alcuni indirizzi progettuali la cui efficacia è valutabile leggendo gli ingredienti di qualità ambientale e sociale dei centri minori. Ecco un elenco degli ingredienti emersi: opportunità di esperienza e di coesione sociale; qualità ambientale; qualità del cibo; nuove forme di assistenza; occasioni di svago; occupazione; cultura e formazione; consapevolezza tecnologica e ambientale; coerenza dei comportamenti individuali; partecipazione democratica. Potremmo dire che ogni indirizzo progettuale promette di generare, autonomamente, una buona qualità della prospettiva locale (d’altronde sono stati scelti proprio a questo scopo!). è facile constatare che, oltre al beneficio singolo, esiste una forte correlazione tra gli effetti potenzialmente prodotti dai diversi indirizzi. Ad esempio, la creazione sul luogo di segmenti di produzione e consumo energetico soggetti ad un controllo comune (comunità energetiche) genera consapevolezza tecnologica e ambientale e spirito di partecipazione: gli stessi ingredienti di qualità alimentati dallo spostamento sul luogo di funzioni produttive come manutenzione, riparazione, gestione (economia circolare). Qui, la correlazione tra i due indirizzi progettuali nasce dal fatto che le funzioni produttive locali usano energia (una risorsa locale) e gli apparati della comunità energetica richiedono manutenzione e controllo (una funzione locale). In termini più generali, l’effetto di indirizzi progettuali diversi può essere esaltato sfruttandone l’influenza reciproca (fertilizzazione incrociata) grazie a legami di contiguità spaziale, di relazione funzionale, di comunione di intenti. Per creare sul luogo occasioni di lavoro, di socialità e di coesione, la politica deve escogitare strumenti economici e normativi per sfruttare l’effetto moltiplicatore di questi legami. Una sfida per cui occorrono, oltre alla sensibilità politica, le conoscenze integrate di sociologi, urbanisti, economisti e ingegneri. Poco è stato fatto per studiare queste opportunità. Può darsi che l’ostacolo sia proprio nella natura multidisciplinare della sfida, che richiede umiltà e spirito collaborativo: qualità piuttosto rare nella politica, nella pubblica amministrazione e nella cultura accademica. La qualità del luogo di cui abbiamo riassunto gli ingredienti è parte di quel futuro desiderabile a cui si fa riferimento quando si cerca di prevedere l’impatto che le scelte di oggi produrranno sul mondo delle future generazioni. La definizione di una prospettiva futura è uno degli atti di maggiore responsabilità che la collettività deve affrontare in questa epoca densa di contraddizioni e di urgenze. È un peso etico perché la prospettiva definisce condizioni di vita che noi assumiamo come desiderabili per chi non ha modo di definirle né di esigerle (le future generazioni). E perché la prospettiva deve ispirare, a ritroso nel tempo, le scelte di oggi [Jonas]. Ma una responsabilità ancora maggiore pesa sulla scelta del come intendiamo raggiungere quella prospettiva: un problema che interpella l’uso della conoscenza. È forse su questo dilemma che si divaricano gli indirizzi politici ed è su questo piano che le proposte qui riportate possono essere lecitamente confutate. Se si guarda alle dichiarazioni degli attori della società (politica, industria, cultura, semplici cittadini) si può dire che sui generici obiettivi della sostenibilità ambientale e della giustizia sociale, vi sia una sostanziale convergenza. È per questo che i generici riferimenti alla sostenibilità o alla green economy sono così stucchevoli e così inutili. Le divaricazioni nascono sugli ingredienti di quella prospettiva e sul come procedere. Con molte (e discutibili) semplificazioni, si può dire che per la corrente di pensiero prevalente, gli sforzi che la società sta producendo in termini di riduzione dell’impronta ambientale dei prodotti, efficientamento dei processi, diffusione delle fonti energetiche rinnovabili, affinamento dei processi di riuso-riciclo dei materiali, siano sufficienti a garantire un futuro sostenibile senza modificare sostanzialmente il tipo di benessere e il livello dei consumi di cui godiamo (come società occidentale). Questa posizione dà ampio credito allo sviluppo tecnologico e conferma la funzione trainante del mercato e della competitività per la loro capacità di produrre ricchezza e quindi benessere. Gli ingredienti della prospettiva sono quelli di oggi e il come si affida principalmente a scelte di razionalizzazione tecnologica. Il Prodotto Interno Lordo continua ad essere un obiettivo e il suo aumento perpetuo l’unica garanzia di benessere collettivo. Ecco perché in questa visione continueremo a violentare i torrenti di montagna con i nostri SUV (purché ibridi), apriremo nuove rotte artiche e vie della seta per il trasporto di smisurate quantità di merci tra i continenti, useremo l’energia rigidamente green che generosi e sconfinati campi eolici sapranno fornirci. Per quanto evidenti, le contraddizioni, non scalfiscono più di tanto il cammino vincente del modello neo-liberista, che ha il vantaggio di produrre ricchezza (non importa se superflua) secondo schemi consolidati. Esiste poi una seconda corrente di pensiero, per la quale puntare solo sull’efficienza (che è considerato comunque un valore da perseguire) non è sufficiente per garantire nei tempi dati le condizioni di sostenibilità e di coesione sociale. In questa visione è anzi urgente adottare trasformazioni radicali del sistema economico e produttivo, dei processi sociali e del comportamento dei singoli. Ed è necessario cambiare atteggiamenti mentali consolidati, che accettano come inevitabile l’esasperazione competitiva (su scala economica e sociale) e inviolabile il diritto umano di allargare senza sosta il suo dominio su tutte le altre manifestazioni della natura. In questa visione più radicale, la prospettiva si basa su ingredienti molto diversi da quelli attuali e su azioni (il come) trasformative e urgenti, come richiesto dalla criticità della situazione. Questa corrente di pensiero parte svantaggiata sul piano operativo, anche se ha dalla sua molte elaborazioni, [Victor], [Jack.2] che ormai ne attestano la credibilità. In questa lotta virtuale, salta agli occhi il comportamento degli organismi internazionali come l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), l’ONU e la stessa Commissione Europea, che per la necessità ineludibile di contenere in 1.5 °C l’aumento medio della temperatura media del pianeta, fissano limiti sempre più stringenti alle emissioni di carbonio registrando così implicitamente, il fallimento dei processi attuali nel rispettare la necessaria cadenza di riduzione dei gas serra. Un orientamento coerente vorrebbe una comunità internazionale coraggiosa non solo nella denuncia (sacrosanta) delle criticità, ma anche nella proposizione di politiche radicali come l’introduzione di oneri pesanti sull’impronta energetica dei prodotti e il superamento di alcuni vincoli imposti dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO). È chiaro che l’elaborazione di politiche globali per l’ambiente compete a livelli istituzionali verso i quali noi abbiamo le sola arma della denuncia e della pressione mediatica. Tuttavia, questa breve digressione sui problemi planetari serve per affermare che la lotta per la sostenibilità e per la giustizia sociale sembra procedere a un ritmo inadeguato rispetto a quanto sarebbe necessario [MIT]. Così inadeguato che alcuni osservatori sostengono che sia tempo di ammettere l’incapacità del genere umano di evitare le catastrofi annunciate e di preparaci ad un periodo di azioni puramente dedicate alla riduzione dei danni (adattamento) [Franz]. La proposta avanzata in questo contributo assume invece che sia possibile tentare qualche nuova strada perché poggia sulla convinzione che la società sia molto più pronta ad accettare e sperimentare politiche radicalmente nuove di quanto non lo siano le istituzioni. Esistono spinte culturali per un cambiamento anche radicale che la politica non ha saputo intercettare. Esiste una domanda di rinnovamento che proviene da ampi strati di popolazione ed è già all’opera nella cultura, nell’impegno volontaristico, nel consumo solidale, nel terzo settore. Si tratta di investire nella ricerca di modelli alternativi rispetto a quello vigente verificandone l’efficacia sul piano ambientale, il grado di accettazione sociale, la sostenibilità economica. La rinnovata polarizzazione sui centri minori e periferici è uno dei potenziali nuovi modelli, perché è costruita allentando la logica del mercato, della competitività e del consumismo e favorendo la costruzione di una nuova socialità basata sulla cooperazione, sulla consapevolezza e sulla partecipazione. La politica dovrebbe comprendere che la rinascita dei centri minori e periferici può rispondere ad alcune necessità sociali non soddisfatte: i servizi per l’invecchiamento attivo e per un’ assistenza dignitosa; la cura del territorio e della biodiversità; la prevenzione dei disastri idrogeologici; il superamento delle situazioni di esclusione e disuguaglianza sociale; le politiche di accoglienza e integrazione; le misure per garantire la qualità del cibo, la salute e i diritti degli animali; le iniziative per gli stili di vita e la prevenzione. Per chiudere, è opportuno sottolineare che le comunità locali si troverebbero nelle migliori condizioni per rinverdire il processo democratico. La qualità del luogo non può essere perseguita se non attraverso un diffuso spirito partecipativo. Il carattere locale dei problemi da affrontare mette facilmente in relazione il fatto deliberativo con gli intenti dichiarati e con la verifica dei suoi effetti. Le azioni della comunità sono naturalmente percepite come contributo alla lotta globale per la sostenibilità e la giustizia e sono guidate dal principio di responsabilità verso le generazioni future. Costruire uno spirito partecipativo è piuttosto difficile in questa epoca storica, ma gli argomenti qui discussi sembrano offrire qualche idea concreta per provarci. È una sfida che impone alla politica una doppia responsabilità: quella che riguarda l’opzione scelta con l’atto deliberativo (il cosa) e quella che riguarda il processo partecipativo che ha portato alla deliberazione (il come) [van Oud]. Ma non è solo la politica ad essere sollecitata. La fattibilità di questi nuovi modelli si basa sulla capacità degli attori locali dello sviluppo (Politica, Innovazione (business), Ricerca/Formazione e Forze Sociali) di interpretare ciò che sta accadendo e ciò che si profila all’orizzonte e di comporre nuovi schemi di sviluppo sostenibile, socialmente inclusivi e orientati a superare le disparità economiche che l’attuale modello unico sta esasperando. Per sperimentare e realizzare queste prospettive occorre mettere in campo spirito critico e dialettico e rinnovata passione democratica. È sempre più necessario dare spazio all’aspirazione di essere attivi nei problemi comuni piuttosto che compiacere l’atteggiamento mentale di chi affida ad altri il compito di risolverli. Molti sottolineano che le trasformazioni necessarie sono impedite dalla mancanza di leggi adeguate. È una giusta osservazione, ma se ci si limita a considerare questo ostacolo, si ritarda indefinitamente la formazione di consapevolezza, la sperimentazione e il consolidamento di comportamenti nuovi: i due obiettivi più necessari e più sfidanti nella strada verso la sostenibilità e la giustizia sociale. Si rischia inoltre di ritardare la stessa innovazione legislativa, che si sostanzia attraverso la sperimentazione dal basso, l’unica che possa evidenziare i limiti della normativa in corso. È probabile che la prospettiva di rinascita dei centri minori non susciti un interesse diffuso e che molti cittadini del mondo vedano il loro futuro indissolubilmente legato al dinamismo spasmodico del sistema produttivo globale. Costoro stiano tranquilli: la proposta non pretende di soppiantare (almeno non da subito) il sistema produttivo attuale e i suoi meccanismi di azione e interazione competitiva su beni scambiabili a livello globale (l’economia dell’efficienza per dirla con Barca). Piuttosto, la proposta cerca di aprire prospettive nell’ambito della dimensione locale, per la quale identifica una funzione di polarizzazione, esaltata dalle urgenze del nostro tempo e dalle stesse tecnologie che oggi determinano lo sviluppo globalizzato dell’economia. Non mancano tentativi in questo senso [Intel]. Va ricordato che l’economia locale muove la maggiore quantità di beni e servizi, ed è quella in cui tutti viviamo, anche se in fasi diverse del giorno o della nostra vita. Esistono chiari indizi dell’attrazione che i centri minori esercitano su persone di diversa cultura e sensibilità, magari a tratti e con un’intensità variabile, legata alle stagioni della loro esperienza umana. Può darsi che, al di là delle intenzioni, il contributo difetti in termini di realismo e possa essere letto come una delle tante manifestazioni di ingenuità: una critica non solo lecita, ma anche verosimile. Il modello proposto intende soltanto sollecitare altre e più precise elaborazioni sul concetto di luogo e sulla necessità di affrontare in modo integrato alcuni dei dilemmi del nostro tempo. Gli elementi portati a supporto di questa idea, sono un semplice stimolo ad approfondire quale è la percorribilità di un modello che punta a generare consapevolezza ambientale e comportamenti coerenti, a porre un argine all’erosione sistematica della ricchezza biologica e alla marginalizzazione delle periferie e dei centri minori, a rinverdire la speranza per nuove occasioni di socialità e per la creazione di forme di lavoro protetto e dignitoso.

 

Riferimenti bibliografici

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