sabato 10 luglio 2021

Il "Saggio" del mese - Luglio 2021

 

Il “Saggio” del mese

 LUGLIO 2021

Come evidenzia con lucida esattezza Enrico Donaggio (Docente di Filosofia della Storia presso l’Università di Torino) nella sua post-fazione al saggio scelto per questo mese il concetto di “lavoro” è di relativa recente adozione. E’ infatti solo con la Modernità occidentale che si assiste alla “invenzione del lavoro”, alla messa in evidenza come specifica entità a sé stante dell’attività che per millenni, senza neppure il diritto ad un nome proprio, era stata relegata in una sorta di zona d’ombra della società popolata da servi, schiavi, animali. Da lì in poi il lavoro è assurto, con innegabile evidenza, a componente fondamentale della società, come “entità economica” e soprattutto come “condizione esistenziale” per tutta, o quasi, l’umanità prima occidentale e poi universale. Ed il “lavoro” ha così occupato da allora in poi un ruolo centrale in tutte le discipline che analizzano, mirando a governarla, la vita economica, sociale e politica. In questo quadro un’attenzione specifica è da sempre stata indirizzata alle “forme del lavoro”, alla sua concreta articolazione in un contesto sempre più costituito dalle logiche dell’economia capitalistica di mercato e dalla applicazione, da queste ispirata, delle innovazioni tecnologiche alle modalità produttive. Il saggio di questo mese di Luglio si muove in questo ambito concentrando in particolare la sua attenzione sulle due forme che hanno caratterizzato il lavoro nell’ultimo secolo: quella del “taylorismo/fordismo” e quella della “globalizzazione neo-liberista


Danièle Linhart (Docente di Sociologia presso l’Università di Parigi)


partendo dalla innegabile constatazione della disumanità del lavoro nelle “catene di montaggio) e passando poi a quella che definisce la “super-umanizzazione” di quello individualizzato dell’economia neo-liberista propone una lettura fortemente critica di una trasformazione a suo avviso tutt’altro che disinteressata e positiva. In questa sintesi percorreremo le considerazioni che a suo avviso giustificano il giudizio che anticipa fin dal risvolto di copertina:

Per l’ideologia oggi in voga la disumanità del lavoro taylorista e fordista ha semplicemente smesso di esistere. Non c’è posto per lavoratori alienati e sfruttati, per un lavoro devastante, senza senso né anima, nella grande narrazione del neoliberismo. Qui dominano soltanto il benessere psicofisico, la partecipazione emotiva ed etica, l’espressione e la conquista di sé, insomma l’autonomia e la felicità di chi produce e consuma. Ma questa maniera apparentemente più umana di far lavorare i propri dipendenti altro non è che un dispositivo manageriale che, con mezzi e retoriche diversi, persegue ostinatamente gli stessi obiettivi del taylorismo e del fordismo: la sottomissione e l’assoggettamento. Attraverso la riduzione dei lavoratori non più a pezzi di un ingranaggio, ma a individui soli e vulnerabili, troppo e nient’altro che umani, incitati alla competizione, all’autosfruttamento e alla servitù volontaria. Una continuità d’intenti e ossessioni che le classiche letture del post-fordismo spesso mancano di cogliere.

Prima di addentrarci nel testo della Linhart ci è però sembrato utile ritornare ad alcuni chiarificatori passaggi della già richiamata post-fazione di Enrico Donaggio


Donaggio evidenzia, così come Piketty per definire il concetto di “ideologia”, che anche il concetto di “lavoro” è percepito in modo diffuso e consolidato grazie a “narrazioni”, a modi diffusi di raccontarlo e definirlo che, in ogni specifica fase storica, di esso mettono in luce e diffondono i tratti percepiti, in quel contesto, come quelli principali. Ciò è avvenuto fin dal Settecento, nella fase storica occidentale in cui, come si è visto, di “lavoro” si inizia a parlare. Ed è avvenuto da subito con una frontale contrapposizione, quella fra Denis Diderot (1713-1784, filosofo ed enciclopedista francese, uno dei massimi rappresentanti dell’Illuminismo europeo) e Adam Smith (1723-1790, filosofo ed economista scozzese, da molti definito il padre dell’economia capitalistica classica). Riflettendo il primo sul modo concreto di lavorare in una cartiera ed il secondo su quello di una fabbrica di spilli entrambi si chiedono se il nuovo modo di lavorare manifatturiero sia un passaggio positivo per l’uomo. Diderot risponde di si, la ripetitività del gesto lavorativo esenta dal pensare, e l’assenza di pensiero è, stranamente,  per l’enciclopedista il ….. più umano dei doni ….. Paradosso per paradosso per Smith è l’esatto contrario: la routine produttiva istupidisce e porta alla morte intellettuale ….. chi spende tutta la sua vita compiendo poche semplici operazioni diventa tanto stupido ed ignorante come può esserlo un essere umano …. La definizione di padre dell’economia classica sta in questo caso molto stretta per Smith, in questa sua considerazione si rintraccia infatti una delle prime, e più feroci, critiche del lavoro capitalistico. Ed un’altra sua frase, ripresa dallo stesso Marx, approfondisce vieppiù il giudizio …. tra un facchino ed un filosofo la natura ha messo meno differenza che tra un mastino ed un bracco ….. Intendendo con ciò che le differenza fra gli uomini, resi simili dalla natura, poggiano proprio sulla diversità del lavoro svolto. Di lì a poco una seconda contrapposizione aiuta a comprendere il contrastato intrecciarsi di narrazioni del lavoro: da una parte Andrew Ure (1778-1857, medico scozzese, consulente commerciale della “Confindustria” inglese del tempo) che, analizzando i costi di produzione della manifattura dei primi dell’Ottocento, evidenzia come quello umano, ed in ispecie quello minorile e femminile, ha il vantaggio non trascurabile di costare molto meno di quello delle macchine. Un considerazione così cinica da far inorridire Friedrich Engels nel suo famoso testo del 1845  “La situazione della classe operaia in Inghilterra”. Il Novecento occidentale con la definitiva e totalizzante realizzazione del lavoro conferma poi l’intrecciarsi contraddittorio di due narrazioni in apparenza inconciliabili, quella di esaltazione e quella di condanna del lavoro capitalistico. E’ proprio nelle pagine di due sensibilissimi osservatori novecenteschi che si possono ritrovare gli elementi di una narrazione che spezza definitivamente questo intreccio mettendo a nudo l’errata convinzione marxista che il lavoro, proprio perché reso crudele dalle logiche di profitto, sarebbe divenuto la molla per la ribellione dei lavoratori aprendo così la strada ad una nuova umanità. Simone Weil (1909-1943, filosofa francese) nel suo “La condizione operaia”, scritto sulla base di una sua concreta esperienza lavorativa in una fabbrica fordista, evidenzia con disillusa lucidità che non di ribellione si può parlare, ma di …… docilità rassegnata, mansueta, disumana …… e Werner Sombart (1863-1941, sociologo tedesco, uno dei più importanti scienziati sociali europei del Novecento) riflettendo sull’american way of life coniuga una formula tanto sarcastica quanto impietosa ….. davanti al roast beef e alla torta di mele l’utopia socialista va in fumo …. E’ in questa desolante constatazione che si apre la breccia per una nuova narrazione del lavoro, un racconto che però non parte più “dal di dentro la fabbrica” ma “all’uscita da essa”. Fino a divenire la base del compromesso che ha retto buona parte dei “Trenta gloriosi”, il trentennio occidentale di massima espansione produttiva, e dell’affermarsi del consumismo anche grazie alla positiva incidenza dello Stato sociale. ….. accettazione del lavoro disumano in cambio di consumo di merci ….. Poi verso la fine del Novecento in questa breccia si insinua una nuova narrazione, proprio quella analizzata dalla Linhart in questo suo saggio

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Capitolo 1 = Viaggio nel paese di imprenditori di uomini

A ben vedere la molla che sembra aver messo in moto la grande trasformazione, prima ideologica e poi concretamente attuata nella realtà produttiva, avvenuta verso la fine del XX secolo è riconducibile ad un conciso slogan “ottimizzare le risorse umane”. Una operazione che si è da subito vestita con il pretenzioso abito di una “rivoluzione umanistica” ispirata da un declamato ideale …… mettere l’uomo al centro del modello …… peccato però che, come meritata ricompensa, quest’uomo è bene che……. si impegni a fondo secondo i metodi propri di questo modello ….. La scelta dell’accattivante titolo del saggio trova già qui, in queste prime frasi, la sua spiegazione: il richiamo alla “Comédie humaine” di Balzac poggia sull’evidenza che la narrazione mainstream di un neo-liberismo idealisticamente votato a liberare, difendere e valorizzare, le potenzialità umane del lavoratore altro non è che una sfacciata “commedia”, “umana” perché ha al suo centro una precisa concezione dell’uomo. Daniéle Linhart, a lungo Direttrice del settore del CNRS (Centro Nazionale Ricerche Sociali) francesi preposto allo studio dell’evoluzione delle forme lavorative fornendo consulenze alle maggiori imprese francesi,  partecipando a moltissime iniziative e dibattiti, e inter-agendo con numerosi “Responsabili delle risorse umane” (in precedenza più prosaicamente “Direttori del personale”) ha  maturato sul campo le sue considerazioni sulla svolta “umanistica” avvenuta a cavallo del millennio nei modi di intendere il “lavoro” e nella loro concreta applicazione. Una svolta che è stata dettata dal superamento del modello fordista di produzione e di organizzazione aziendale, reso possibile dall’avvento di automazione, robotica, informatizzazione e Intelligenza Artificiale, e che si è sviluppata in stretto rapporto con l’ideologia neoliberista ed il suo porre “l’individuo” al centro dell’intero sistema sociale ed economico. Lo studio, “dal di dentro”, di questo processo le ha consentito di fissare in particolare alcuni stadi lungo i quali esso si è articolato. Un primo stadio, deliberatamente teorizzato come fondamentale premessa, consiste nel …… produrre amnesia …..Occorre cioè che “la risorsa umana” dimentichi chi era prima di entrare nel modello umanista di produzione e, se già lavorava, come e perché lavorasse. Una operazione traducibile con il termine di derivazione informatica “reset totale”. La memoria, base sulla quale più o meno consapevolmente, ogni individuo costruisce l’immagine di sé, la propria personalità, può infatti rappresentare ….. un’arma potente di resistenza ….. Questa risorsa umana, resa così potenzialmente libera da pregiudizi e resistenze, è a questo punto nella condizione ideale per entrare nel secondo stadio e divenire, con termini più volte letteralmente usati dai “responsabili delle risorse umane”: …… un militante incondizionato dell’impresa ….., vale a dire un dipendente totalmente pronto ad aderire alla “mission aziendale”. Sarebbe un errore ritenere che questa adesione sia in qualche modo imposta, resa obbligatoria con pressioni e minacce. Al contrario, ed è questo il terzo stadio, essa è resa lo sbocco naturale di una sorta di premurosa benevolenza verso la componente esistenziale della risorsa umana, la quale deve poter così sviluppare l’idea di essere “visto e trattato” come persona nella sua completezza. Il modello umanista, ben consapevole che divenire militanti incondizionati dell’impresa è operazione che assorbe l’intera personalità del dipendente, punta quindi a dare l’impressione di essere attento e disponibile a rimuovere ogni fonte di inquietudine, di disturbo, persino quelle che rientrano nelle singole sfere private. Rientra in gioco il primo stadio: la produzione di amnesia. Se si esige molto dai dipendenti e se questi inevitabilmente portano con sé un bagaglio di fattori esistenziali “interni ed esterni” che possono essere di freno alla metamorfosi diventa allora utile fornire una serie di “aiuti e sollievi”, tramite servizi di vario genere (asili e ambulatori aziendali, convenzioni con fornitori di beni e servizi, assicurazioni integrative, il cui costo, va da sé, rientra nel conteggio salariale globale) che facciano il più possibile dimenticare tali fattori ….. ridando così spazio e tempo alla totale immersione nella missione aziendale …. Ed è anche attraverso questo stadio che si sono così creati i presupposti per il quarto stadio: quello del …… patto di fiducia …… quello che deve costantemente essere alla base del rapporto fra impresa e dipendente. Quest’ultimo deve avere sempre la certezza di un quadro di relazioni, nel dare e nel ricevere, basato sulla reciproca totale fiducia del rispetto dei reciproci impegni. Un percorso così complesso, articolato, impegnativo di costruzione di un rapporto di lavoro che pone al suo centro il lato umano dei dipendenti non si costruisce in tempi brevi, ma ha richiesto e ancora richiede, un costante perfezionamento, una continua messa a punto, che chiama in causa competenze anche extra azienda. Ad esempio più volte si è letto di convegni aziendali con ospiti d’onore militari di alto livello, sportivi e personaggi pubblici di gran successo, per non dire di religiosi e missionari. Ognuno di queste “competenze”, in apparenza lontanissime dalla dimensione aziendale, portavano testimonianze facilmente leggibili di impegno, dedizione, concentrazione sugli obiettivi, gioco di squadra, fiducia reciproca, attenzione alle esigenze altrui. Tutte componenti rintracciabili nei quattro stadi sinteticamente tracciati dalla Linhart e tutte utili a formare un dipendente “imprenditore di sé stesso” pienamente votato alla missione aziendale. Il contraltare di questa presunta umanizzazione del lavoro è però rappresentato dalla cancellazione di una componente del lavoratore che storicamente era ritenuta centrale, fondamentale ….. la sua professionalità ….. Entra ancora una volta in gioco il peso delle trasformazioni tecnologiche applicate alla produzione, al lavoro in genere, che si sono grazie ad esse …… proceduralizzati …. Trasformati cioè in sequenze procedurali determinate da algoritmi e complementi automatizzati, nelle quali l’apporto professione è già calcolato, prefissato, smettendo così di essere una variabile in grado di incidere. Umanizzazione e proceduralizzazione hanno cioè resa obsoleta ….. la professionalità dei dipendenti, la loro etica professionale, il loro istinto a dare al lavoro la loro impronta, di riconoscervisi …… L’impresa è in questo modo divenuta un luogo in cui le uniche vere e decisive competenze sono nella sfera delle alte dirigenze, sono loro i veri attori del sistema, di fronte a loro, in un ruolo che solo un inganno creato ad arte, come in una commedia, può far percepire come “da protagonista” non ci sono che ….  persone con fragilità, desideri, sogni, paure, ambizioni, ricerca di riconoscimento, spirito di competizione ….. riconosciute cioè nella loro umanità, ma in questa stessa abbandonati perché resi più fragili avendo dismesso i panni del “professionista” per vestire quelli del “collaboratore”. Ai margini dell’esclusione della disoccupazione finiscono quelli già lasciati indietro dalla marginalità sociale e dal mancato accesso ai percorsi formativi, ma anche quelli che non si adattano a rientrare in questa umanizzazione del lavoro. Tutti però, nella vulgata neo-liberista, hanno perso perché non hanno saputo, o peggio ancora non hanno voluto, combattere. Ritornano allora ancora attuali le parole di Etienne de la Boétie (1560-1563, filosofo francese) che nel suo “Discorso della servitù volontaria” scriveva …… fintanto che hanno qualcosa di umano per lasciarsi assoggettare gli uomini devono essere stati o costretti o ingannati…..

Capitolo 2 = La grandezza del taylorismo e del fordismo. Dalla volontà di potere al potere della volontà

Questa costruzione di un nuovo modo di concepire ed organizzare il lavoro, non diversamente da quanto è storicamente sempre successo, si è consolidata strada facendo in una “narrazione” ideologica, volta al tempo stesso a giustificarla e a rafforzarla in modo diffuso. Questa narrazione si è basata su una fondamentale premessa: la critica alla innegabile disumanità della precedente “forma lavoro” tayloristica e fordista imponeva per contrappasso una svolta in senso  “umanista” del modo di concepire il lavoro. Una dichiarazione di intenti tanto lodevole quanto smentita alla prova dei fatti, come si visto nel precedente Capitolo 1. Ma come inaggirabile punto di partenza della nuova narrazione va comunque esaminata nelle sue forme e nella sua sostanza. Partendo da un raffronto con quelle messe in atto da taylorismo e fordismo, per meglio cogliere similitudini e diversità. E’ bene evidenziare che un adeguato esercizio critico nei confronti di taylorismo e fordismo è un’operazione culturale ancora da completare, essendo solo recentemente divenuto più approfondito nella stessa sinistra sindacale e politica occidentale. A lungo infatti anche a sinistra le pesanti condizioni lavorative ad essi connesse sono state in qualche modo accettate, se non apertamente giustificate sull’altare di un’idea di “progresso” ininterrotto in grado di ridurre povertà e di garantire …… regole scientifiche, e non più arbitrarie, di erogazione del lavoro- ….. A maggior ragione quindi è bene ripercorrerne i capisaldi teorici. Frederick Taylor (1856-1915, ingegnere ed imprenditore statunitense) mette a punto, verso la fine dell’Ottocento, un sistema di organizzazione della produzione industriale, che da lui prenderà il nome, sollecitato da una precisa constatazione: il rapporto di lavoro “classico” prevedeva la cessione di ore di lavoro ma di fatto lasciava al lavoratore, ed alla sua professionalità, le modalità concrete di erogazione della prestazione indipendentemente dai macchinari utilizzati. Per ottenere un reale aumento di produttività era quindi fondamentale immaginare un sistema di produzione capace di “espropriare” questa prerogativa e di estrarre dalle ore di lavoro il loro massimo potenziale. Il titolo del libro di Taylor, “L’organizzazione scientifica del lavoro”, pubblicato nel  1911, indica  chiaramente il fattore decisivo utilizzato per ottenere tale risultato; la scienza, la tecnologia. Si tratta di una autentica rivoluzione resa possibile dalla preliminare radicale trasformazione del “datore di lavoro”, chiamato a smettere il ruolo di “finanziatore” fin lì in gran prevalenza esercitato per assumere quello di “ingegnere” a capo della “direzione della produzione”. Un ruolo che si traduceva nello studio analitico di ogni gesto lavorativo, di ogni passaggio di lavorazione, per coglierne l’essenza e renderla “scientificamente” ottimizzabile grazie all’adozione di specifici accorgimenti tecnologici ed organizzativi. L’idea di fondo di Taylor è quindi consistita ……. nell’interporre la scienza, grazie alla tecnologia, nel vivo del rapporto tra dipendenti e datori di lavoro ….. Si comprende allora bene il suo negare ogni qualsivoglia risvolto politico del cambiamento, restando centrale la valorizzazione della dimensione tecnica resa possibile da una “scienza” neutra ed oggettiva ….. la direzione  non è autoritaria e arbitraria quando si fonda sulla scienza …… Ma fin da subito questa nuova modalità di produrre si carica, nelle stesse parole di Taylor, di una valenza etica, di un di più valoriale che investe in modo positivo l’aspetto umanistico del lavoro. Se quel che, prima, era buono per gli operai non lo era per il bene comune fino a frenare le potenzialità di sviluppo e crescita dell’economia, la nuova “organizzazione scientifica del lavoro” apriva prospettive di miglioramento produttivo in grado di creare nuovi posti di lavoro, nuova ricchezza per tutti, nuovo progresso sociale. Il risultato storico concreto ha in effetti confermato straordinari aumenti di produttività e l’immissione nel mondo della produzione di fabbrica di consistenti nuove masse di lavoratori, spesso provenienti dal sempre più marginale settore agricolo, consentendo anche maggiori consumi generalizzati. Ma ha evidenziato, vista dalla parte dei lavoratori, una terribile contropartita ……. il totale spossessamento della padronanza del lavoro ….. Il rivoluzionario modo di produrre di Taylor è infatti sostanzialmente riducibile all’aver trasformato …..gli operai di mestiere in semplici esecutori ….. in parte risarciti nella veste di  consumatori. Sulla strada tracciata di Taylor si inserisce, a suo ulteriore compimento, l’organizzazione dell’impresa e della produzione ideata da Henry Ford (1863-1947, imprenditore statunitense fondatore dell’omonima casa automobilistica). Nel 1913, due anni dopo la pubblicazione del libro di Taylor, Ford, assimilata in pieno la sua filosofia produttiva, introduce un ulteriore elemento innovativo: la catena di montaggio. Un’idea tanto semplice quanto, dal punto di vista della produttività, geniale che Ford riassume con queste parole ….. portare il pezzo da lavorare agli uomini e non più il contrario, così che un operaio non deve mai fare più di un passo e non deve mai piegarsi ….. L’incremento di produttività è spettacolare, del 70%, ma ancora una volta a prezzo di un ancor più pesante deterioramento delle condizioni di lavoro. I ritmi di lavoro imposti dalla catena, l’impossibilità di muoversi dal posto, la ripetitività ossessiva delle operazioni, diventano una sorta di incubo per i dipendenti, al punto che la malattia nervosa che ne consegue, splendidamente rappresentata da Chaplin in “Tempi moderni”, era da loro chiamata “fordite”. I ritmi di lavoro alla base di tale successo produttivo implicano un ricambio impressionante, e produttivamente penalizzante, della manodopera con un tasso di rotazione che arriva a toccare punte del 380%. Le misure adottate da Ford per contrastare queste complicazioni danno il segno più maturo della sua innovativa visione sociale: aumenti salariali, la paga giornaliera è raddoppiata, giornata di otto ore di lavoro, scavalcamento della rappresentanza sindacale, ma soprattutto controllo totale del modo di vita degli operai. Riprendendo le pratiche del “capitalismo filantropico” europeo (per il quale lo stabilimento era il centro dell’intera vita comunitaria grazie al nascere attorno ad esso di  quartieri con scuole, mense, chiese, oratori, negozi e servizi, centri dopolavoristici) Ford attua una fitta rete di strutture di controllo dell’intera “umanità” dei suoi dipendenti, ispirata tanto da pervasività che da nascondimento …… dirigere l’impresa implica una capacità di gestire l’intera dimensione di vita tenendola al contempo nascosta ….. In questa si inserisce la scelta di creare, a livello di direzione aziendale, un apposito dipartimento antesignano delle attuali “gestione delle risorse umane”, che negli anni Trenta si evolve in un corso specifico di laurea, l’Harvard School of Business Administration, che forma il quadro dirigente dei servizi di direzione e del personale. Un altro decisivo aspetto che conferma le intuizioni “moderne” di Ford è l’attenzione dedicata alla comunicazione: nasce il giornale di impresa che arriva ad una tiratura di 700.000 copie. Ford aveva in sostanza capito che un’organizzazione della produzione così esasperata e impattante necessitava di un supporto, per nulla secondario, di tipo “umanistico”, il quale da subito assume la veste del “paternalismo aziendale” finalizzato a creare consenso e a vigilare sulle condizioni di sostentamento, fisico e spirituale, della forza lavoro. (Per molti di noi, restando in ambito locale, queste caratteristiche del “fordismo” richiamano alla memoria quelle, per molti versi identiche e spesso vissute direttamente, adottate a partire dagli anni trenta nelle più grandi industrie torinesi a partire dalla Fiat). Un riconoscimento della forza attrattiva della visione taylorista e fordista viene dallo stesso campo avverso della sinistra mondiale: prima Lenin e poi Stalin sono affascinati dai livelli produttivi così raggiunti tanto da impiantare, ma con inevitabile minore efficacia gestionale, anche nella Russia sovietica “l’organizzazione scientifica del lavoro”. E lo stesso Gramsci, paradossalmente non cogliendo appieno il peso della “egemonia culturale” connesso al taylorismo e fordismo, si è limitato a criticarne la sola ripartizione dei benefici. E su questa linea si è sostanzialmente mosso per quasi tutto il Novecento anche il movimento sindacale sia statunitense che europeo. Eppure nelle pieghe minime di questa organizzazione scientifica così minuziosamente attenta ad ogni singolo dettaglio lentamente si insinua l’insopprimibile tendenza dei dipendenti di riprendersi spazi di professionalità, di abilità lavorative individuali, di capacità di mettere a nudo limiti e problematiche del modo di lavorare, ben testimoniati dalle esperienze di “sciopero bianco(una rigorosa applicazione di consegne, norme, prescrizioni che altro non produce che il blocco della stessa catena di montaggio). E’ un sotterraneo ripresentarsi di tratti di umanità sul posto di lavoro, il cui contraltare negativo, non essendo in grado di tradursi in una completa alternativa, è però consistito nella capacità delle direzioni tecniche d’impresa, sempre più scientificamente strutturate, di riappropriarsi subdolamente, ossia senza riconoscerne il merito, di queste pratiche migliorative. Per Taylor e Ford, e per tutte le imprese che hanno adottato la loro “organizzazione scientifica del lavoro” l’imperativo è sempre stato lo stesso …. gli operai devono comportarsi in rigorosa conformità ai modelli operativi e devono aderire all’idea di comportamenti anche sociali fissati dalla gerarchia …..

Capitolo 3 = Lavoro. Morale e felicità: un nuovo modello manageriale

Nuove ed ancor più efficienti innovazioni tecnologiche hanno accelerato, rendendola tecnicamente possibile, la crisi del modello di lavoro tayloristico e fordista che nel secondo dopoguerra, nei decenni (50-60-70) passati alla storia come i “gloriosi trenta”, aveva raggiunto l’apice delle sue potenzialità in termini produttivi e di controllo sociale. Le sofferenze, non solo fisiche, tipiche di tale modello di lavoro sono in gran misura state consegnate alla storia, ma altre, non meno pressanti, sembrano averle immediatamente rimpiazzate. Una prima innegabile considerazione si impone: l’organizzazione tayloristica/fordista del lavoro, per quanto ferocemente invasiva, ha sempre costituito per i lavoratori una reale dimensione collettiva. Grazie alla rete delle rappresentanze sindacali, alla condivisione oggettiva di situazioni produttive comuni, ancora per tutti i gloriosi trenta ha sempre avuto senso ragionare in termini di “lavoratori al plurale”. La prima fotografia indicativa del nuovo modo di lavorare mette invece a nudo una verità opposta…… la solitudine del lavoratore ….. Certo non mancavano in taylorismo e fordismo pratiche che miravano all’individualizzazione ma la l’insopprimibile dimensione collettiva dell’intero ciclo produttivo restava un aspetto centrale. Ed infatti solo a metà degli anni Settanta, in stretta relazione con l’introduzione di differenti modalità produttive, rese possibili dalla automatizzazione robotica ed dalla informatizzazione, iniziano ad emergere le condizioni per vedere nell’individualizzazione la dimensione lavorativa alla quale tendere. Ed è in questo quadro che prendono piede processi e fattori a ciò finalizzato: orari variabili, polivalenza delle mansioni, sistemi di incentivazione e promozione, introduzione di logiche di mercato lungo la catena di montaggio  …… ogni lavoratore deve considerarsi il cliente di chi lo precede ed il fornitore di chi lo segue ….. In questa crescente dimensione individualizzata il lavoratore sempre più deve reggere da solo il peso concreto del lavoro e sempre più da solo deve misurarsi con le ”offensive ideologiche” che accompagnano le trasformazioni organizzative. Le quali si sono sempre più tradotte in accentuata scomposizione del quadro delle mansioni, contrazione delle qualifiche classiche e parallelo incremento di quelle addette ai settori “dei servizi”, innalzamento del livello di istruzione, frammentazione delle mansioni lungo l’intera filiera di lavorazione, producendo di conseguenza una atomizzazione molto accentuata dei ruoli lavorativi. Non a caso nell’immaginario collettivo, bel oltre la reale situazione produttiva, parlare di lavoro si è sempre meno riferito a quello “operaio”, ossia il lavoro collettivo per eccellenza, e sempre più ha visto spostarsi l’attenzione alla miriade di qualifiche, in continua evoluzione, del settore dei servizi, fino a coinvolgere lo stesso non meno variegato mondo dei quadri dirigenti. L’esperienza decennale sul campo della Linhart, di cui si è detto in precedenza, avvenuta propria a partire dalla fine degli anni Settanta in piena coincidenza con il concretizzarsi di questo processo, le ha consentito di schematizzarlo in alcuni passaggi esemplari. Il primo, avvenuto all’indomani delle sconfitte dei grandi movimenti di lotta degli anni Sessanta e Settanta, è consistito nel recupero dell’immagine aziendale, della narrazione del ruolo dell’impresa presentata come una vera e propria comunità, i cui organigrammi non hanno più la classica struttura piramidale ma raffigurano al vertice…… il mercato, il cliente ….. l’obiettivo al quale tende una articolazione orizzontale dell’impresa con fianco a fianco la Direzione, i quadri e la manodopera. A questo recupero idealizzato dell’impresa è poi seguito, negli anni Novanta, la profusione di codici etici e deontologici, delle regole comuni di vita lavorativa, finalizzati a definire i corretti comportamenti del …… dipendente virtuoso …. Ed  infine a chiudere il cerchio una successiva fase nella quale la narrazione ha mirato a saldare definitivamente il rapporto tra mission aziendale e soddisfazione personale del dipendente: …… le esigenze in termini di lavoro, di impegno, di disponibilità permettono al singolo dipendente di soddisfare le sue stesse aspirazioni professionali …… Il lavoro diventa in questo modo il terreno in cui misurarsi per far vedere, avendolo innanzitutto personalmente scoperto e messo alla prova, il proprio valore. Non stupisce più di tanto che un’operazione ideologica così complessa ed articolata abbia seminato per strada non poche vittime: gli over 50 per primi. Troppo influenzati dalla ideologia precedente che fissava, al di là della retorica paternalistica, una netta separazione fra dipendente ed impresa non erano materiale umano convertibile al nuovo. Le vaste campagne di pre-pensionamenti, di incentivazione all’uscita dal lavoro altro scopo non hanno avuto che di far entrare nel ciclo lavorativo materiale umano nuovo e più formabile: i giovani. Sono innumerevoli gli studi che evidenziano la loro fisiologica maggiore ricettività delle nuove sfide, la disponibilità ad accettare orari ed impegni diversificati visti come premessa per mettersi alla prova, ad immergersi in un continuo mutare di incarichi, di spostamenti, di responsabilità, di sovraccarico di lavoro. In cui ognuno fa corsa a sé anche se si è collocati in spazi, i mitici …. open space ….. che paradossalmente propongono un’immagine di condivisione, di gioco di squadra. Ed all’interno dei dipendenti giovani una attenzione specifica in più proprio ai quadri dirigenti, la componente aziendale che di più deve essere la forza d’urto nella battaglia sul mercato. Sono queste le qualifiche che di più consentono di misurare a quali livelli sia giunta l’identificazione del successo individuale con il buon andamento aziendale, si potrebbe proprio dire che …. l’ideale di questi quadri ed il quadro aziendale ideale mostrano una totale somiglianza  …. Ma è un gioco infernale in cui il giovane quadro aziendale si illude di restarne padrone. Ma non è così: l’elenco di chi perde è straordinariamente molto più lungo di quelli che, almeno per un poco, sembrano vincere. Tutti sono comunque accomunati da una situazione esistenziale in cui è la sofferenza a prevalere, una sofferenza per nulla diversa da quella, seppur originata da condizioni lavorative diverse, che investiva i dipendenti nella precedente forma lavora tayloristica e fordista. ….. negli open space tutti sono immersi in una dura concorrenza, tutti sorvegliano tutti e sono a loro volta sorvegliati ….. Non esattamente un’isola felice. L’autonomia individuale che inizialmente poteva sembrare una sorta di ideale di successo alla lunga genera inquietudine, angoscia, dubbio di sé, mancanza di fiducia negli altri. Se il quadro esistenziale del lavoro racconta una sua mutata dimensione  non sembra, come contraltare, che si sia realizzata una corrispondente autentica rottura con il passato dei criteri di fondo di organizzazione del lavoro. Non sono infatti mutati i capisaldi della struttura aziendale che mantiene una separazione rigorosa tra il lavoro di “concezione”, riservato al “management”, e quello di “esecuzione”, affidato al resto dei dipendenti, e allo stesso modo sono rimasti fermi i principi economici “dei costi e dei tempi” quali base di valutazione di ogni fase lavorativa. Semmai sono i dipendenti stessi che devono definire i modi per applicarli al mutare delle situazioni concrete di lavoro utilizzando in prima persona tutti gli strumenti messi a punto a tal fine: ad esempio budget, tempi, margini di errore, livelli di stock, individuazione fasi morte. Sono, a ben vedere, gli stessi identici principi della tayloristica “organizzazione scientifica del lavoro”. Questo coinvolgimento attivo nella produzione è quindi in gran prevalenza il risultato di tutte le pratiche ideologiche messe in atto per far coincidere dipendente e mission aziendale. E quando queste non sono ancora state compiutamente assimilate interviene un formidabile concreto strumento di pressione: “la precarizzazione”, la sensazione trasmessa al dipendente di essere costantemente sul filo di rasoio. Lo sono per ovvia definizione i dipendenti con contratti a termine, se vogliono sperare in un rinnovo o addirittura nel passaggio a tempo indeterminato. Ma lo sono anche quelli che già “stabilizzati” restano comunque sotto la spada di Damocle di possibili cambiamenti peggiorativi. La realtà abituale del lavoro odierno è infatti costituita da un insieme di prassi che mirano esattamente a creare questo senso di precarietà: ristrutturazioni e riorganizzazioni incessanti, ricomposizione dei mestieri, fusioni, esternalizzazioni e re-internalizzazioni, mobilità sistematica, cambiamento continuo di strumenti informatici e procedure lavorative. E’ un’onda costante che genera stress e paure …. tutti i dipendenti non si sentono più a casa nel loro lavoro, nella loro impresa, con i loro colleghi, l’ambiente naturale è quello del cambiamento perpetuo ….. Il primo tratto distintivo del lavoratore che viene minato fino al suo totale annullamento è la sua professionalità, la somma delle sue precedenti esperienze lavorative. L’acquisito possesso di un mestiere, di una specifica capacità lavorativa non viene più considerata una dote, sostituita dal possesso di una prerogativa al tempo stesso più ampia e meno definita…… la competenza ….. quasi sempre traducibile in …. attitudine, capacità di adattamento, saper essere ….. Poco importa che privare il dipendente della professionalità significa di fatto sottrargli una parte decisiva della sua identità lavorativa, quello che conta è acquisire adeguata certezza della sua ….. adesione umana prima ancora che professionale …… agli obiettivi aziendali. Ed è questa la dote, la propensione, che viene valutata anche nei percorsi di selezione del personale da assumere, là dove i curricula sono scorsi per individuare non tanto specifiche abilità professionali ma il personale spirito con cui sono state vissute esperienze lavorative precedenti. Ed è in questo insieme concatenato di processi e strategie che consiste, in sintesi, la proclamata …… umanizzazione del lavoro ……, ossia, se spogliata della sua retorica ideologica, la ….. commedia umana del lavoro ….. Vale a dire che, quando professionalità e identità professionale sono di fatto negate, il dipendente è ridotto nella sua nuda umanità, con il carico di timori, di stati di pressione, di incertezze che, come si è visto, il clima diffuso e costante di precarizzazione accentua a dismisura. E che quindi, in continuità ideologica con taylorismo e fordismo, anche nella attuale fase neo-liberista si sono mantenute situazioni di lavoro finalizzate a far si che ……. I lavoratori siano più facili da contenere e da gestire in quanto uomini che in quanto professionisti ….. Sembra poi altrettanto evidente che, all’interno di questa continuità ideologica, con il neo-liberismo sia avvenuto un ulteriore salto di qualità negativo: l’individualizzazione del lavoro ha infatti cancellato ogni dimensione collettiva, di gruppo, impedendo anche quel conforto che era tutto sommato ancora rintracciabile nel modo di produrre tayloristico e fordista ……. negli attuali rapporti di produzione è proprio l’uomo, quello che la commedia del lavoro poneva enfaticamente al centro del modello, ad essere in pericolo, sempre meno associato a riferimenti collettivi, sempre più vulnerabile e fragile …..

Lottare contro l’obsolescenza programmata del futuro

Siamo solo di fronte ad una fase transitoria che, completata la sua concretizzazione, ci consegnerà ad un nuovo quadro che, seppur peggiorato, potrà consentire nuove forme di resistenza e reazione?  Sarà quindi ancora possibile immaginare forme di lavoro che siano anche fonte di costruzione personale e, perché no, di felicità esistenziale? A partire dal recupero del valore delle certezze lavorative che solo il riconoscimento della identità professionale può dare? E ancora lecito sperare che questo riconoscimento ritorni ad essere lo strumento lavorativo indispensabile a fronteggiare i continui stravolgimenti tecnologici e socio-economici? O siamo invece condannati a perpetuare un modello di lavoro in cui le qualità dei dipendenti sono considerate un ostacolo? In cui tarpare le ali ai dipendenti è considerato lo strumento ideale per realizzare efficienze e redditività? Ed in cui il lavoro appartiene unicamente ai “datori” a loro volta sottomessi a logiche che li oltrepassano? E’ attorno a queste domande che, per non consegnarci ad un futuro senza futuro, deve riavviarsi un vero dibattito sul tema del lavoro, un vero confronto di idee ed un radicale esercizio critico dell’attuale presente. 

1 commento:

  1. Alcune riflessioni scaturite per associazione

    L’idea che ciascuna persona possegga delle potenzialità che devono essere valorizzate per il suo benessere individuale e della collettività in cui vive è ampiamente condivisibile e non certo reazionaria. Ciò che la trasforma in un potente fondamento del neoliberismo è il fattore semantico che consiste nel definire le potenzialità delle singole persone come “capitale” e quindi ciascuna persona come un’impresa ‘capitalistica’, cioè come un soggetto subordinato alle leggi economiche del capitalismo e fondato su di esse.
    La prima conseguenza che deriva dal considerare ciascuna persona come ‘un’impresa’ è ridurre le persone a ‘individui’ e sancire che le relazioni tra individui sono relazioni tra imprese e quindi relazioni di concorrenza.
    La seconda conseguenza è che siamo tutti capitalisti dal lavapiatti immigrato all’oligarca russo.
    Non c’è più sfruttamento del lavoratore da parte del capitalista, ma c’è una libera decisione
    imprenditoriale di investimento del proprio capitale. Non fa alcuna differenza se si tratta di capitale umano, monetario, ecc.

    da “Dominio – la guerra invisibile dei potenti contro i sudditi'
    Marco d’Eramo (2020)

    Queste premesse spianano la strada per la comprensione del successo del concetto del Migrante Imprenditore , perché nel suo alone semantico IMPRENDITORE ingloba il concetto meritocratico americano.
    Da CRISI come rinascono le Nazioni di Jared Diamond pag. 325
    “ … noi americani siamo fermamente convinti di vivere in una meritocrazia, cioè in un sistema in cui ogni individuo viene ricompensato in base alle proprie capacità professionali. E’ l’ideale simboleggiato dalla frase idiomatica from rags to riches: persino un povero immigrante che giunga da noi vestito di stracci ( rags) può accumulare fior di ricchezze ( riches ) grazie al talento e al duro lavoro. …”

    Ma perché questa “pubblicità” funziona?
    Di fronte alla pubblicità noi consumatori tendiamo ad essere dei semplici creduloni che applicano al marketing la “sospensione della credulità” di cui due secoli fa ci parlava il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge. Soprattutto se il messaggio pubblicitario viene travestito da informazioni, introiettate se sussiste la predisposizione ad accettare il messaggio senza alcuna valutazione critica, dando priorità al connotativo sul denotativo in funzione persuasivo- emotiva.














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