Sperando di fare cosa gradita a tutti coloro che non hanno potuto
presenziare di persona (modalità che riteniamo comunque
restare quella da preferire perchè più consona con lo spirito delle nostre
iniziative mirate a rafforzare i legami sociali e personali), ed anche a quelli che, pur avendo
partecipato, abbiano piacere di riprendere i passaggi che di più li hanno
interessati, pubblichiamo il video della eccellente conferenza tenuta da Valter
Coralluzzo (Docente
di Relazioni Internazionali presso l’Università di Torino) con titolo:
L’Europa di fronte alla guerra in Ucraina:
analisi
delle nuove prospettive geopolitiche
Per accedere al video cliccare qui: Conferenza Coralluzzo
Stante
la complessità del quadro geopolitico affrontato pubblichiamo inoltre, qui di
seguito, la traccia scritta con i passaggi fondamentali dell’intervento del
Prof. Coralluzzo:
L’aggressione russa all’Ucraina:
genesi di una guerra annunciata
Valter
Coralluzzo
Quella
perpetrata dalla Russia di Putin attaccando in maniera massiccia e brutale
l’Ucraina è una sfacciata e imperdonabile violazione del diritto internazionale
e non c’è analisi geopolitica che possa revocare in dubbio la perentorietà del giudizio
che inchioda i russi alle loro responsabilità di aggressori riconoscendo agli
ucraini il diritto di difendersi (e si badi: non spetta ad altri che al popolo la
cui libertà sia minacciata decidere se e fino a quando combattere per difenderla).
Tuttavia, il fatto che siano chiaramente distinguibili un aggressore e un aggredito
non ci esime dal cercare di capire come si è arrivati a questa tragica situazione,
tenendo ben fermo un punto (tanto ovvio quanto generalmente trascurato), e cioè
che indagare i motivi di certi comportamenti non significa affatto giustificarli.
Con buona pace di quanti, frustrati nei loro tentativi di decifrare le reali
intenzioni di Mosca, lo hanno rievocato nelle loro analisi, il noto aforisma di
Churchill, che nel 1939 paragonò la Russia a «un indovinello racchiuso in un
mistero avvolto in un enigma», non pare potersi applicare al conflitto in
corso, che al contrario esibisce tutte le caratteristiche di una guerra
annunciata, alla quale si può guardare come al prevedibile (ma provvisorio) capolinea
di un percorso evolutivo della politica estera della Russia post-sovietica che
qui di seguito si potrà ricapitolare soltanto nelle sue linee essenziali. Se,
come scrive Benedetto Croce, «è lo storico che decide da dove far partire la
narrazione dei fatti», allora, nel nostro caso, sarà bene partire dalla fine
della Guerra fredda e porsi il seguente interrogativo: perché, nel corso dell’ultimo
trentennio, la Russia ha progressivamente mutato il proprio atteggiamento nei
confronti dell’Occidente e del cosiddetto “estero vicino”, orientandosi verso
una politica estera sempre più assertiva ed aggressiva?
1.
Molti, anche tra i più accreditati studiosi di relazioni internazionali, pensano
che l’allargamento a Est della Nato sia stato il fattore decisivo, o almeno una
concausa rilevante, nel determinare il deterioramento dei rapporti tra Russia e
paesi occidentali. Del resto, già nel 1998, invitato a pronunciarsi sul prossimo
ingresso nell’Alleanza atlantica di Polonia, Repubblica Ceca e Ungheria, George
Kennan non aveva celato le sue preoccupazioni: «Credo sia l’inizio di una nuova
Guerra fredda. Credo che i russi reagiranno gradualmente in modo alquanto
avverso e che questo cambierà le loro politiche. Credo sia un tragico errore»
(«New York Times», 2 maggio 1998). In realtà, la questione dell’allargamento
della Nato non ha pesato sempre allo stesso modo nelle relazioni della Russia
con l’Occidente. Durante gli anni Novanta, sotto la presidenza di Boris Eltsin,
una Russia debole, confusa, declassata internazionalmente al rango di semplice comprimario
ma ancora fiduciosa di poter risollevare le sue sorti emulando il modello
occidentale (democrazia liberale ed economia di mercato), evitò di opporsi
apertamente ai piani di espansione dell’Alleanza atlantica, con la quale anzi
firmò una serie di importanti accordi di cooperazione, dalla Partnership for Peace (1994) al Nato-Russia Founding Act (1997), in cui Nato
e Russia ribadivano di non considerarsi avversarie e si impegnavano a «costruire un’Europa stabile, pacifica e
indivisa, intera e libera, a beneficio di tutti i suoi popoli». Certo, la
nomina di Evgenij Primakov a ministro degli Esteri (1996) e poi a primo
ministro (1998) comportò, da parte di Mosca, una presa di distanza dall’iniziale
postura filoccidentale in favore di un orientamento (riassunto nella cosiddetta
“dottrina Primakov”) più sbilanciato in senso eurasiatista e volto, senza però antagonizzare
gli Stati Uniti e pregiudicare i rapporti con l’Occidente, all’edificazione di
un sistema internazionale multipolare, nel quale gli specifici interessi
nazionali della Russia (a partire dal consolidamento della sua influenza nello
spazio ex sovietico) fossero debitamente salvaguardati. Ma quando nel 1999 la
Nato, allo scopo di far cessare le violenze etniche dei serbi contro gli
albanesi del Kosovo, condusse, non autorizzata dall’Onu, un’intensa campagna di
bombardamenti contro la Jugoslavia (composta ormai soltanto da Serbia e
Montenegro), la Russia si guardò bene dall’intervenire in difesa della Serbia,
sua tradizionale alleata, e di fatto parve adattarsi a una situazione che
sanciva la sua impotenza (pur covando una frustrazione e un risentimento che
più tardi non avrebbero mancato di far sentire i loro effetti). Fu soltanto
dopo l’avvento al potere di Vladimir Putin che il cambio di passo della
politica estera russa, nel segno di una maggiore assertività e durezza di toni
nei confronti dei paesi occidentali e post-comunisti, si appalesò con chiarezza.
Non subito però: durante il suo primo mandato presidenziale (2000-2004) Putin, che
aveva detto che chiunque non rimpiangesse l’Urss «non aveva cuore» ma chi
voleva ricostruirla «non aveva cervello», fece mostra di un notevole pragmatismo,
rifuggendo da ogni eccesso retorico antioccidentale e concentrandosi sulla
ricostruzione di uno stato forte e di un’economia efficiente, precondizioni
indispensabili per far riguadagnare alla Russia un ruolo di primo piano sullo
scacchiere internazionale. In questo periodo, egli non rinunciò a muoversi in direzioni
eurasiatiche, si pensi alla trasformazione di una precedente unione doganale con
Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan in Comunità economica
eurasiatica (maggio 2001) e alla nascita (giugno 2001) dell’Organizzazione per
la Cooperazione di Shangai, che a quegli stessi paesi (Bielorussia esclusa)
aggiungeva Uzbekistan e Cina. Il principale obiettivo del Cremlino, tuttavia, rimaneva
quello di integrare sempre più strettamente la Russia nella comunità euroatlantica
(gorbaciovianamente concepita come estendentesi da Vancouver a Vladivostok), ma
certo non in veste di ininfluente socio di minoranza dell’impero americano (come
invece si auspicava a Washington), bensì su una base di parità che implicasse il
riconoscimento del rango della Russia (non riducibile, per ovvie ragioni
geopolitiche, a quello di semplice “potenza regionale”), il rispetto dei suoi
legittimi interessi (anche nell’“estero vicino”) e la non ingerenza nei suoi
affari interni. Coerentemente con questa impostazione, Putin non soltanto sottoscrisse
(maggio 2002) a Pratica di Mare, auspice Berlusconi, l’accordo istitutivo del
Consiglio congiunto permanente Nato-Russia (dove però, in sostanza, erano gli
Stati Uniti a dare preventivamente la linea ai soci atlantici per assicurarsi che
la Russia restasse isolata), ma arrivò addirittura a ipotizzare un futuro
ingresso della Russia nell’Alleanza atlantica («Perché no? Faccio fatica a
pensare alla Nato come a un nemico»): ipotesi non così peregrina se ancora nel
2010 Charles Kupchan la rilanciava con forza dalle pagine di «Foreign Affairs».
A ciò si aggiunga che Putin, il quale sul
finire del 1999, come primo ministro, aveva dato il via a un secondo conflitto
in Cecenia (segnato da massacri e crimini di guerra), usando il pugno di ferro contro
i separatisti cui era stata attribuita, con sospetta sollecitudine, la
responsabilità di una serie di attentati che avevano insanguinato Mosca e altre
città russe (memorabile il suo annuncio: «Ammazzeremo i terroristi anche nel
cesso»), fu lesto nel cogliere l’occasione offerta dagli attentati dell’11
settembre 2001 per solidarizzare (primo fra i leader mondiali) con il governo
di Washington e per proporre agli Stati Uniti un’alleanza strategica in nome
della comune lotta contro il terrorismo. Benché viziata da un evidente
opportunismo, suggerito dalla ricerca di una legittimazione internazionale per la
feroce repressione militare esercitata in Cecenia, l’approccio collaborativo del
Cremlino (concretizzatosi nella messa a disposizione della coalizione a guida statunitense
diretta in Afghanistan dello spazio aereo e dell’intelligence russi, nonché
nella rinuncia a contrastare il dispiegamento delle forze americane nei paesi dell’Asia
centrale ex sovietica) fu salutato con entusiasmo in Occidente, dove la fiducia
nei confronti della Russia ricevette nuovo impulso dalle parole rivolte da
Putin al Parlamento tedesco (25 settembre 2001): «La Russia è una nazione
europea amichevole. Una pace stabile sul continente è per la nostra nazione un
obiettivo prioritario». D’altro canto, dopo il loro primo incontro ufficiale
(giugno 2001), lo stesso George W. Bush non aveva forse detto di Putin: «L’ho
guardato negli occhi. L’ho trovato molto diretto e affidabile. Sono riuscito a
farmi un’idea della sua anima»? Nulla di più distante dall’opinione espressa da
Joe Biden durante un’intervista (16 marzo 2021) nella quale ha ammesso di
considerare Putin un assassino e ha ricordato che già nel 2011, quand’era vice
di Obama, aveva incontrato il leader russo e gli aveva detto di non credere ch’egli
avesse un’anima (al che Putin aveva gelidamente replicato: «Noi ci capiamo
l’uno con l’altro»). Come si spiega un ribaltamento di giudizio così radicale?
2.
Molteplici furono i fattori che durante il secondo mandato presidenziale di
Putin (2004-2008) contribuirono a incrinare le relazioni tra Russia e Occidente.
Sul piano interno, la progressiva autocratizzazione del regime putiniano, in
cui giocarono un ruolo centrale i concetti di “verticale del potere” e
“democrazia sovrana”, creò un ambiente favorevole all’adozione, da parte di un
esecutivo ormai libero dal condizionamento esercitato nel decennio precedente
da una pluralità di gruppi di interesse pubblici e privati, di una politica
estera più assertiva e “muscolare”, non più soltanto difensiva ma anche
offensiva. Sul piano internazionale, tre eventi in particolare spinsero la
Russia verso un irrigidimento delle proprie posizioni di politica estera: la
guerra in Iraq del 2003, le rivoluzioni colorate (“delle rose”, “arancione” e
“dei tulipani”) scoppiate tra il 2003 e il 2005 in Georgia, Ucraina e
Kirghizistan (paesi nei quali, sull’onda di massicce manifestazioni di
protesta, i presidenti in carica, accusati di brogli elettorali e di essere autoritari
e filorussi, furono sostituiti da politici di orientamento liberale e filoccidentale)
e l’ulteriore allargamento a Est della Nato (a seguito dell’ammissione nel 2004
di altri sette paesi: Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania,
Slovacchia e Slovenia). Da questi eventi la Russia trasse una duplice lezione.
Da un lato, di fronte alla crescente propensione unilateralista ed
eccezionalista della politica estera americana e all’acclarata indisponibilità
degli Stati Uniti ad abdicare al ruolo di “gendarmi del mondo” e garanti
dell’ordine internazionale liberale, Mosca andò persuadendosi dell’illusorietà
della prospettiva di una transizione guidata e consensuale dall’unipolarismo al
multipolarismo e della necessità di imboccare una strada diversa da quella che
gli Stati Uniti, assertori convinti del carattere tutt’altro che effimero del
“momento unipolare” e della natura “benevola” della loro egemonia, avevano
tentato di farle seguire dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica. Dall’altro,
il reiterato ricorso, da parte occidentale, alla pratica dell’ingerenza negli
affari interni di altri paesi e dell’imposizione forzosa ad altri popoli di un
modello politico-culturale irrispettoso della loro identità e del loro diritto
a scegliere un proprio autonomo percorso di sviluppo (è così che al Cremlino furono
interpretate le rivoluzioni colorate, ritenute il frutto di macchinazioni
ordite da poteri stranieri, in particolare americani, statali e/o privati) indusse
Mosca a una difesa sempre più energica e intransigente dei propri interessi e
di quelli di un “mondo russo” (russkij
mir) di cui essa voleva continuare ad essere il centro di gravità, a costo
di rinverdire la tradizione sovietica degli interventi militari “su richiesta”
di popoli fratelli, o in risposta alla presunta oppressione esercitata in certi
paesi sulle minoranze russofone. Tocca infine accennare al fatto che,
giustificando la guerra in Iraq sulla base di false informazioni sulle armi di
distruzione di massa di Saddam Hussein, l’amministrazione Bush finì per
confermare l’opinione di quanti, in Russia, ritenevano che gli Stati Uniti
fossero un paese sleale, ipocrita e inaffidabile. Date queste premesse, non stupisce che i
segnali di crescente divaricazione tra Russia e Occidente abbiano cominciato a
moltiplicarsi. Uno dei più importanti fu certamente quello offerto dal celebre
discorso di Putin alla Conferenza sulla sicurezza di Monaco (11 febbraio 2007).
In quella occasione Putin (che già in un discorso del 2006 alla Duma aveva
paragonato l’America a «un lupo che continua a mangiarsi quello che trova sulla
propria strada senza prestare ascolto a nessuno») non si limitò a denunciare il
modello unipolare americano, cioè l’esistenza di un «mondo in mano a uno solo»,
per giunta incline a un «uso eccessivo della forza nelle relazioni
internazionali», ma accusò anche l’Occidente di aver tradito l’impegno, assunto
dopo la riunificazione della Germania e lo scioglimento del Patto di Varsavia,
a non espandere a Est la Nato (ma su questo punto si tornerà più avanti). Il
significato di questo discorso venne subito colto dall’analista politico Dmitri
Trenin: «La Russia, prima una sorta di Plutone nel sistema solare occidentale,
è uscita dalla sua orbita spinta dalla determinazione di trovarsi un proprio
sistema» (cfr. I. Krastev, Che cosa pensa
la Russia, in «Italianieuropei», n. 1, 2008, p. 233). Non a caso, alla fine
del 2007, la Russia sospese la sua partecipazione al Trattato sulle forze
convenzionali in Europa. Tuttavia, la svolta decisiva verso il definitivo
peggioramento dei rapporti russo-occidentali giunse nel 2008: prima (17
febbraio) con la proclamazione (giudicata da Putin un atto illegale e immorale)
dell’indipendenza del Kosovo; poi (3 aprile) con il vertice della Nato a
Bucarest, che si concluse con un comunicato di compromesso in cui, rinviando a
un futuro imprecisato la soluzione definitiva del problema, ci si limitava a
dare «il benvenuto alle aspirazioni euroatlantiche di Ucraina e Georgia di
ingresso nella Nato», suscitando in tal modo la dura reazione di Putin e del
ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov, i quali avvertirono l’Occidente che
l’ammissione di questi due paesi, rappresentando una «minaccia diretta alla
Russia», era «un errore strategico terribile», che avrebbe avuto «conseguenze
pesanti sulla sicurezza dell’Europa»; infine (8 agosto) con l’intervento
militare russo in Georgia a sostegno delle repubbliche separatiste dell’Ossezia
del sud e dell’Abkhazia, che l’esercito georgiano stava tentando di riportare
con la forza sotto il controllo di Tbilisi. A proposito della “guerra d’agosto”,
Robert Kagan in quei giorni scrisse parole che suonano attualissime anche oggi:
«L’attacco russo contro lo stato sovrano della Georgia ha segnato il ritorno
ufficiale della storia allo stile ottocentesco dei grandi scontri di potere,
con tanto di virulenza nazionalistica, battaglie per le risorse, lotte per sfere d’influenza e
territori, e persino ‒ anche se questo può urtare le nostre sensibilità da
ventunesimo secolo ‒ l’impiego della forza militare per assicurare obiettivi
geopolitici» («Corriere della Sera», 21 agosto 2008). Non parve, dunque, un
mero esercizio retorico parlare, come fece Edward Lucas in un libro pubblicato
proprio nel 2008, di “nuova Guerra fredda” e dei rischi e che il putinismo
comportava per la comunità internazionale e per lo stesso popolo russo
3.
Il prosieguo degli eventi ha decisamente confermato la fondatezza dei timori di
Lucas e, in particolare, della tesi centrale sulla Russia esposta nel suo
libro: «repressione verso l’interno e aggressione verso l’estero a fronte di
una risposta dell’Occidente debole in modo allarmante» (E. Lucas, La Nuova Guerra Fredda, Egea, Milano
2009, p. XXIII). È un punto, questo, sovente trascurato, ma che merita di
essere ben fermato: è l’involuzione autoritaria del regime putiniano
(accelerata dalla crisi economica globale del 2008, che accrebbe in Putin la
consapevolezza che la sua enorme popolarità interna sarebbe stata erosa
dall’impossibilità di garantire una crescita come quella precedente alla crisi)
la prima causa del risorgente imperialismo e della proiezione internazionale
viepiù “muscolare” del Cremlino. Fatta salva la naturale propensione aggressiva
in politica estera dei regimi autocratici, nel nostro caso entra in gioco anche
il fatto che connotando in senso conservatore, revanscista e revisionista il proprio
regime Putin sperava di riuscire a puntellare il proprio consenso interno, distogliendo
l’attenzione pubblica dal fallimento dei suoi tentativi di riformare e
modernizzare la società e l’economia russe. Ancora più importante è però
l’altro punto richiamato da Lucas, relativo alla preoccupante inadeguatezza
delle risposte fornite dall’Occidente alle sfide della Russia; sfide che,
insieme a quelle poste da altre potenze autocratiche, sembrano proiettare il
mondo in un’era che sarà dominata dalla competizione globale fra governi
democratici e autocratici. In effetti, non si può non rimanere colpiti dal
fatto che ogni segno di debolezza dell’Occidente è stato interpretato come un
via libera per un’ulteriore escalation da parte di Mosca. Due esempi su tutti:
in Siria l’America di Barack Obama perde credibilità per aver fissato delle
“linee rosse” che il regime di Bashar al-Assad viola ripetutamente senza pagare
dazio, e pochi mesi dopo la Russia si riprende la Crimea e destabilizza il
Donbass; in Afghanistan le truppe occidentali abbandonano disordinatamente il
paese riconsegnandolo nelle mani dei Talebani, e pochi mesi la Russia
aggredisce l’Ucraina. E gli esempi potrebbero continuare. La lezione che se ne ricava
è questa: non mostrarsi determinati significa lasciare campo libero a Putin; di
conseguenza, dobbiamo comportarci in maniera tale che Mosca, ogni volta che si
domanda se potrà conseguire i suoi fini impunemente, si veda costretta a
rispondere “no”. Dal conflitto russo-georgiano ai giorni
nostri, quello apparecchiato dal Cremlino è stato, in effetti, un crescendo di
azioni e dichiarazioni sempre più ostili ed aggressive (seppur inframmezzate da
momenti di apparente distensione) nei confronti di Stati Uniti, Nato, Unione
europea, ma anche (forse soprattutto) di quei paesi che, pur facendo parte del
“mondo russo”, hanno cercato di sottrarsi, attraverso sollevazioni popolari più
o meno riuscite e il rafforzamento dei propri apparati di difesa, ai pesanti
condizionamenti di Mosca, preferendo abbracciare una prospettiva di
integrazione (sperabilmente celere) nel sistema euroatlantico. È questo il caso
dell’Ucraina, sulla quale, a partire dal 2014, si è abbattuta un’ondata di eventi
drammatici (dalle violente manifestazioni filoeuropee di piazza Maidan all’annessione
della Crimea alla Russia, dal conflitto fomentato nel Donbass dai secessionisti
delle autoproclamate repubbliche di Donetsk e Lugansk al fallimento degli
accordi di Minsk, fino all’attacco sferrato da Putin nel febbraio scorso) davvero
impressionante. Non è però all’analisi di tali eventi, peraltro ben noti e
indagati, che si intende dedicare il residuo spazio del presente articolo,
bensì a una succinta disamina dei principali argomenti utilizzati dal regime di
Putin per giustificare l’aggressione all’Ucraina. Sgomberato il campo dagli
argomenti palesemente inconsistenti (russi e ucraini fanno parte della stessa
nazione, Euromaidan è stata un colpo di stato orchestrato dagli Stati Uniti e
dalla Nato, l’Ucraina ha un governo nazista, in Donbass c’è stato o è in atto
un genocidio), rimane sul tavolo uno dei temi ricorrenti della narrazione
putiniana sull’“operazione militare speciale” avviata in Ucraina, quello che
chiama in causa l’allargamento della Nato e, più precisamente, il presunto
tradimento, da parte occidentale, della promessa di non espandere l’Alleanza
atlantica in direzione dei confini della Russia. Se si tratti di un’accusa
fondata o campata per aria è una vexata
quaestio, che non si può qui approfondire: l’opinione di chi scrive, comunque,
collima con quella formulata in un libro recente (Not One Inch; America, Russia, and the Making of the Post-Cold War
stalemate, Yale University Press, 2022) dalla storica Mary E. Sarotte, per
la quale l’accusa di “tradimento” rivolta alla Nato, benché tecnicamente falsa
(perché alla Russia sono state fornite assicurazioni verbali sui limiti
dell’espansione della Nato, ma nessuna garanzia scritta), possiede una sua
verità psicologica. Detto altrimenti: reale o meno che fosse, quello di non
allargare a Est i confini della Nato venne inteso da Mosca come un impegno
vincolante. Discorso analogo può farsi anche rispetto ad altre due percezioni
largamente condivise dai russi (e alimentate ad arte dalla propaganda di
regime): da un lato, quella di essere stati umiliati e trattati come sconfitti
dopo la fine della Guerra fredda; dall’altro, quella di essere accerchiati e
minacciati dall’Occidente. Da entrambe queste percezioni ha tratto linfa la richiesta
sempre più pressante di un nuovo corso politico, che archivi definitivamente l’epoca
della ricerca da parte della Russia del suo posto nell’ordine mondiale centrato
su un Occidente che per cecità o per scelta ha sistematicamente ignorato le
preoccupazioni e le richieste di Mosca, e inauguri finalmente una fase di
«distruzione costruttiva» di quest’ordine (S. Karaganov) e di «espansione
selettiva basata sugli interessi della Russia» (D. Trenin): espansione che non
può non cominciare dall’Ucraina, la cui importanza risiede nel fatto che senza
Kiev l’“impero” che Putin sogna di ricostruire non sarebbe un vero impero. Ora,
si potrà anche pensare, insieme a Bernard Henri-Lévy, che quella
dell’umiliazione russa sia solo una leggenda, un mito, «l’ultimo tranello in
cui dobbiamo evitare di cadere», giacché in realtà non è facile trovare «altri
esempi di un impero decaduto che abbia beneficiato di tante premure»
(«Repubblica», 26 febbraio 2022). Allo stesso modo, si potrà ironizzare su
quella vera e propria sindrome da cittadella assediata che secondo Paul Berman
«potrebbe suggerire che la Russia è assai più traballante di quanto non voglia
dare a intendere» («Corriere della Sera», 28 agosto 2008). Ma non ci insegna
forse il costruttivismo che ci sono dei “fatti” che, pur non esistendo
materialmente, esistono perché noi crediamo che esistano e ad essi vincoliamo
scelte e comportamenti? Detto ciò, e per concludere, alcune riflessioni ulteriori
si impongono, a completamento di questa sommaria analisi delle cause della
guerra in corso. Anzitutto, è bene osservare che l’allargamento a Est della
Nato non ha mai rappresentato una minaccia reale alla sicurezza russa. A parte
il fatto che non si capisce bene per quale motivo le esigenze di sicurezza della
Russia debbano valere di più di quelle dei paesi limitrofi visto che il dilemma
della sicurezza funziona per tutti allo stesso modo (o meglio lo si capisce, ma
solo a patto di fare propria la logica realista di John Mearsheimer), il vero problema
è un altro e ha a che fare con la lotta per il riconoscimento del poprio status di grande potenza condotta dalla
Russia, nel senso che al Cremlino si è sempre pensato che l’espansione a Est
della Nato, piuttosto che attentare alla sicurezza militare russa (ampiamente
garantita da un imponente sistema di deterrenza nucleare), rappresentasse un
segnale rivolto a Mosca il cui senso (tutt’altro che criptico) era questo: non
siamo in alcun modo disponibili a prendere in considerazione i vostri interessi
e le vostre richieste e a riconoscervi il rango a cui aspirate. Ci si potrebbe
domandare, a questo punto, se sia proprio vero che i paesi occidentali hanno
sempre escluso l’integrazione della Russia nel loro sistema. Secondo Fabio
Bettanin, essi «l’hanno piuttosto rimandata a un domani indefinito, quando il
consolidamento dei sistemi di alleanza occidentali avrebbe consentito di
avviare il processo da posizioni di forza» (F. Bettanin, Putin e il mondo che verrà, Viella, Roma 2018, pp. 10-11). O, più
probabilmente, essi si sono cullati nell’illusione che la transizione
democratica in Russia fosse parte di un processo globale e inarrestabile di
democratizzazione del mondo (la “fine della storia” di cui parla Francis
Fukuyama) che non richiedeva sforzi o interventi particolari, anche in ragione
del fatto che in un’economia globalizzata la necessità di competere sui mercati
avrebbe prodotto la liberalizzazione economica e questa, a sua volta, avrebbe
portato alla liberalizzazione anche in campo politico. Ma è proprio a
quest’ultima che la Russia di Putin risolutamente si oppone. E siccome i membri
della Nato devono soddisfare requisiti istituzionali e valoriali di tipo
occidentale, è chiaro (e il discorso vale anche per l’allargamento a Est
dell’Unione europea) che a preoccupare la Russia è soprattutto l’effetto di
“contagio democratico” che la vicinanza di tali paesi potrebbe innescare. In
altri termini: un’Ucraina membro della Nato e/o dell’Ue non costituirebbe una
minaccia in sé ma per l’esempio di democrazia che offrirebbe: tale esempio dimostrerebbe
che anche in Russia la democrazia è possibile, cosa assolutamente inaccettabile
per Mosca.