martedì 6 gennaio 2015

A proposito di demografia (e di istruzione)


A proposito di demografia (e di istruzione)

(da un articolo di Federico Fubini – La Repubblica del 06/01/2015)

 
Alcuni dati:
· nel 2050, o anche prima, la popolazione francese, a seguito di specifiche politiche di incremento demografico adottate nel secondo dopoguerra, supererà quella tedesca, 77 milioni la prima – 71 la seconda
· a quella data in Germania, ed in Italia, ad ogni cento persone in età di lavoro corrisponderanno quasi settanta pensionati
· sempre attorno al 2050 la Germania avrà perso tredici milioni di lavoratori autoctoni, l’Italia circa dieci milioni
· nell’arco di un secolo, se nulla cambia, il Giappone scenderà dagli attuali centoventi milioni di abitanti a poco più di quaranta
· in Italia nel 2014 sono nati 70.000 bimbi in meno rispetto al 2008
· uno studio recente ha accertato che bimbi in età scolare figli di disoccupati ascoltano circa 3 milioni di parole l’anno, figli di lavoratori in mestieri non qualificati 6 milioni, figli di lavoratori laureati 11 milioni
· in Germania ha una laurea il 26% di residenti stranieri, in Francia il 22%, in Italia il 14%, in Inghilterra i laureati sono il 24% della popolazione inglese, quelli stranieri il 42%; i flussi immigratori si dirigono verso i paesi di destinazione in modo coerente con il loro grado di istruzione, i laureati vanno nei paesi con più laureati, i poco istruiti nei paesi con scarsa media di istruzione, non è quindi un dato strano quello italiano
Alcune politiche di gestione del problema:
· la Germania per consentire di gestire la situazione demografica del 2050 punta ad avere lavoratori di altissima qualità professionale in grado di gestire produzioni di alta fascia; per fare ciò sta attuando una politica dell’istruzione che, con il coinvolgimento attivo di Università, centri di formazione, industrie, mira a ottimizzare il livello di preparazione dei futuri lavoratori mediante programmi scolastici di alto livello fin dalla prima infanzia
· In Italia, guarda caso, non esiste nulla in questo senso, anzi sulla qualità dell’istruzione ben poco si investe, eppure il nostro paese è fra quelli con il maggior tasso di invecchiamento della popolazione

3 commenti:

  1. Che impressione ho ricavato leggendo questo articolo che mi ha comunque confermato alcune idee e sensazioni? Che i dati che ci vengono dalla demografia non sono puri e neutri numeri, ci dicono molto di cosa è successo e sta succedendo, ed ancor di più di quello che quasi sicuramente succederà. Ci dicono, guardando al recente passato ed al presente, quali, e quanto profondi, cambiamenti sono avvenuti nell’economia, nella società, negli stili di vita, nella cultura, e allo stesso modo quali ulteriori cambiamenti, quasi mai di segno positivo, è possibile che si verifichino nel futuro a breve e medio termine. Lo scenario demografico dell’intera Europa lascia prevedere da un lato una costante conferma del calo di popolazione, solo in parte compensato dai flussi immigratori, ed il parallelo invecchiamento, sempre più accentuato, della stessa, dall’altro la difficoltà a gestire questa situazione vista la crescente concorrenza sul piano produttivo ed economico del resto del mondo, là dove al contrario la popolazione crescerà a ritmi per altri versi molto preoccupanti. Certo mi colpisce la capacità della Germania di pensare ed attivare fin d’ora azioni mirate a fronteggiare questi scenari demografici, ma al tempo stesso non sono meno impressionato, al di là della condivisione o meno delle risposte in sé, dalla sensazione di rassegnazione che queste stesse azioni sembrano produrre. Come se l’umanità intera dichiarasse la sua impotenza a governare in altri modi un mondo destinato ad implodere in invecchiamento e diminuzione nella sua parte attualmente più ricca e, al tempo stesso, ad esplodere in una incontrollata sovrappopolazione nel resto del pianeta. Detto ciò va sicuramente peggio qui da noi in Italia, dove di questi problemi nemmeno si parla, dove si vive, e male, alla giornata, dove nulla guarda più in là dell’orizzonte di una legge di stabilità annuale. E in ogni caso un poco di amaro in bocca mi viene nel vedere l’istruzione, la cultura, ridotte a strumenti, a mezzi, utili alla futura minoranza di “giovani” lavoratori per tentare di produrre ricchezza e risorse sufficienti a “mantenere” la futura stragrande maggioranza di anziani, considerati semplicemente un “peso”, una zavorra. Tristi questi scenari demografici dell’homo sapiens!

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  2. Ho letto anch’io con interesse l’articolo in questione, non soltanto perché il tema in esso trattato pone problemi di tale rilevanza che non possiamo certo chiamarcene fuori, ma soprattutto per i riferimenti all’importanza dell’istruzione e alla necessità di attivare, già a partire dalla prima infanzia, dei progetti educativi mirati, cosa che alcuni paesi più preveggenti del nostro (si parla in particolare della Germania) stanno facendo a quanto pare in grande stile per mettere le nuove generazioni in grado di affrontare una situazione potenzialmente molto rischiosa.
    Orbene, al di là di alcuni motivi di sospetto sul coinvolgimento delle aziende in questi progetti, e sul tipo di approccio cognitivo che si intende promuovere (formare un’elite di lavoratori d’eccezione capaci di mantenere forte la competitività, in un paese di vecchi? Giancarlo ha già espresso la sua amarezza nel vedere rivalutata la cultura sotto questa declinazione un po’ strumentale…), vorrei porre l’attenzione, in quanto insegnante, su alcuni riferimenti pedagogici del testo, in verità del tutto condivisibili. Si fa infatti menzione degli studi di James Heckman sulla necessità di fare il massimo sforzo formativo, soprattutto nell’ambito linguistico, quando la permeabilità degli allievi all’apprendimento è al massimo – dunque nei primi anni di vita - in modo da offrire a tutti buone opportunità, nella convinzione che “predistribuire” sia ancora più importante che “redistribuire” quando le differenze dovute al diverso ambiente familiare e sociale hanno già lasciato un segno indelebile.
    Su questo tema credo che un ricordo non solo personale ma generazionale possa essere utile.
    Negli anni settanta, non solo per chi come me era allora una giovane insegnante, ovviamente interessata a questi temi, ma anche per una rilevante parte dell’opinione pubblica, la cui coscienza sociale e pedagogica era stata stimolata da un testo molto incisivo, anche se certo discutibile e provocatorio, come la “Lettera ad una professoressa” di Don Lorenzo Milani, era diffusa e condivisa la consapevolezza della necessità di un precoce intervento educativo che potesse ovviare allo scarto fra bambini appartenenti a contesti familiari e sociali diversi, in molti casi deprivati culturalmente e linguisticamente (molti ricorderanno il suo “Pierino del dottore” che a sei anni parla già come un libro stampato, mentre il Gianni del contadino conosce meno parole, e spesso le pronuncia in modo scorretto: figure retoriche certo, demagogiche senz’altro, ma disgraziatamente non del tutto irreali, anche se oggi occorrerebbe trasporle in contesti diversi); ci si rendeva ben conto, anche grazie agli studi allora più recenti sull’apprendimento (sto parlando di quasi cinquant’anni fa!) che mostravano in modo molto chiaro come la plasticità del cervello infantile fosse una dote da attivare subito, perché certe “finestre” deputate agli apprendimenti tendono a rinserrarsi, se non sono alimentate a tempo debito con un giusto afflusso di ossigeno cognitivo. E’ stata proprio questa convinzione, che poggiava le basi su una coscienza politica forte, a spingere il nostro paese ad apprestare istituzioni scolastiche per l’infanzia che sarebbero state un modello per molti (e non alludo solo alle ben note scuole materne emiliane, dal momento che anche a Torino c’erano realtà davvero eccellenti).
    continua....

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  3. Ora però mi chiedo che cosa sia rimasto, di quel comune sentire. Non voglio dire che sia scesa la qualità delle nostre scuole, anche se i tagli e l’improntitudine della classe politica le hanno ferite in modo profondo – ci sono ancora ottimi insegnanti, che lavorano bene in condizioni difficili: quella che è scesa, almeno così mi pare, è la percezione pubblica del valore dell’istruzione e dell’importanza delle scelte che compiamo come cittadini per potenziarla o altrimenti impoverirla.
    Quello che più mi spaventa, peraltro, è come sia potuto succedere che certi temi, allora così importanti e forti al nostro cuore, si siano allontanati dalla nostra coscienza, facendo abbassare anche dentro di noi il livello di guardia (sto usando un plurale generazionale, ma di fatto parlo soprattutto per me) così che abbiamo cominciato a darli per scontati, mentre il divario permaneva, aggravandosi.
    Può essere, forse, che la fin troppo acuta consapevolezza di alcuni errori compiuti in quegli anni fervidi, ma anche segnati da ubriacature ideologiche, abbia spinto un poco alla volta molti di noi a mettere da parte il nucleo vitale che pulsava sotto quelle incrostazioni e che andava salvato, pur ripulendolo. Oppure ci siamo solo distratti? Ben venga dunque un articolo sulla demografia a farcelo ricordare...

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