martedì 13 gennaio 2015


Le stragi e noi

Quando ci siamo costituiti, nel 2011, abbiamo formalizzato la nostra volontà di dar vita ad una associazione culturale che avesse come obiettivo quello di intercettare alcuni elementi, di volta in volta ritenuti rilevanti, per sottoporli ad una analisi più approfondita e a riflessioni condivise al fine di dotarci di più adeguate chiavi di lettura del nostro tempo.

Volevamo allora, e vogliamo ora, assolvere ad un compito non solo intellettuale ma anche di cittadinanza, in modo da concorrere, pur nel nostro piccolo, a scelte più informate e consapevoli.

Lo stesso nome che l’associazione ha avuto in dote, CircolarMente (di chiara matrice illuministica), esprime la volontà esplicita di mettere in circolo sia le conoscenze acquisite sia le riflessioni per farne, nel rispetto delle differenze, patrimonio comune.

I tragici avvenimenti accaduti in Francia ci hanno interrogato rispetto alla necessità di metter mano alle questioni che rimandano da una parte alle motivazioni delle stragi e dall’altra alle ragioni della potente reazione dei manifestanti di domenica 11 gennaio, che non solo hanno preso la parola contro la barbarie dell’intolleranza e dell’antisemitismo, ma sono intervenuti a favore di una certa idea di Europa repubblicana e democratica che deve ripartire da quello slancio, ma non può esaurirsi in esso.

Queste riflessioni ci hanno indotto ad attivare in prima battuta questo spazio sul blog per passare successivamente ad interventi di approfondimento più mirati.

Di fronte alle immagini che si sono rincorse sugli schermi di una vera e propria azione militare, mirata palesemente ad uccidere, tutti siamo rimasti sgomenti. Eravamo stati purtroppo testimoni in Europa degli attentati di Madrid e di Londra, ma mai avevamo assisto ad una scena di vera e propria guerriglia urbana peraltro compiuta da persone che proprio in Francia avevano compiuto un percorso educativo e di cittadinanza.
Le domande che si sono affollate nella mente sono state tante:
  • Come è stato possibile il fallimento dell’educazione che in Francia tanta parte ha sempre avuto nell’integrazione?
  • Tale fallimento è un fatto limitato o un fenomeno generazionale?
  • Quali avvertimenti sono stati sottovalutati?
  • Le motivazioni sottostanti sono di ordine culturale/religioso o di tipo socio/economico?
  • Quanto ha contato la crisi dell’Europa in questo processo? Se la crisi impatta con queste modalità su una parte degli immigrati di fede islamica, alla ricerca di facili soluzioni, dovremmo assistere ad un processo speculare tra le fasce più deboli della popolazione europea?
  • Quali volti avranno tali reazioni? Islamismo radicale e islamofobia sono due facce della medesima medaglia?
Di fronte ai cittadini che domenica hanno sfilato compostamente, ma con determinazione, a Parigi e in altre città del globo, abbiamo pensato che al di fuori degli schemi riduttivi un altro mondo fosse possibile. Quei cittadini ci dicevano che erano pronti a difendere una società in cui la libertà di religione e di opinione (indipendentemente dall’adesione o meno dei contenuti espressi) fossero un diritto universalmente garantito. 
 
La piazza che abbiamo visto è l’erede di Voltaire, dell’illuminismo, delle libertà repubblicane e delle successive conquiste democratiche e quello slancio pensiamo che debba essere intercettato ad ogni livello e usato per interrogarci, in questo snodo cruciale per l’Europa, sul mondo che vogliamo e che possiamo legittimamente sperare.

Il primo ministro francese ha detto: ”Non lasciamo svanire lo spirito dell’11 gennaio”. Cogliamo, nel nostro piccolo, l’invito e ci domandiamo se non sia giunto il momento di interrogarci sulla necessità di un nuovo progetto di società democratica e multietnica adeguata al tempo della globalizzazione che non sia solo un condominio di convivenze parallele.

In questo spirito quindi vi invito a partecipare al dibattito interno al blog che ci aiuterà a calibrare le domande e a scegliere gli argomenti che saranno in più di un'occasione oggetto di approfondimento.

                                               La presidente dell'associazione 
                                                       Massima Bercetti


7 commenti:

  1. Raccolgo volentieri l’invito di Massima; come tutti sto discutendo molto di quanto è successo in Francia in tutti i contesti in cui vivo, e trovo naturale e bello parlarne anche qui, nello spazio “virtuale” di Circolarmente. Impossibile esaurire in un solo commento questa voglia di dire e di sentire, aspetterò altri commenti per riprendere, precisare, ampliare. E credo che sia proprio l’ampiezza e la profondità del coinvolgimento che sta interessando tutta l’Europa, tutti noi eravamo idealmente a sfilare per le strade di Parigi, il primo aspetto su cui riflettere. Non ricordo una analoga reazione a fatti di terrorismo internazionale precedenti; ad esempio rammento bene la paura e lo sgomento dopo le bombe sul treno di Madrid o nella metro di Londra, che pure fecero un numero impressionante di vittime. Stavolta le nostre sensibilità sono state colpite con la stessa forza provata dopo l’11 Settembre e le Torri Gemelle. Può sembrare operazione cinica quella di stilare una sorta di classifica della rilevanza tragica dei fatti di terrorismo, ma può aiutare a capire meglio proprio la natura del gesto. Madrid e Londra ci sembrarono, al tempo, la folle volontà di colpire nel mucchio, di seminare un terrore indistinto, i morti della redazione di Charlie Hebdo, come a suo tempo il crollo delle Torri, parlano di un obiettivo mirato, della scelta accurata del simbolo da colpire. Allora fu l’immagine verticale della civiltà americana e della sua presunzione di inviolabilità e invincibilità, oggi le matite insanguinate ci dicono di un attacco chirurgico alla libertà di parola e di opinione, ad uno dei valori fondanti la cultura civile e democratica europea. Credo che questa consapevolezza spieghi non solo la diversità, emotiva e razionale al tempo stesso, delle nostre reazioni, ma anche il salto di qualità che il terrorismo islamico sta attuando. Oggi è l’Europa, e non l’America, l’obiettivo, sono i suoi valori, la sua fragile capacità di gestire flussi immigratori ed una presenza “importante” di cittadini europei di origine, cultura e religione mussulmana, la possibilità di costruire, sulla base dei valori fondanti la cultura democratica europea, una convivenza fra diverse religioni e visioni del mondo. Un attacco che mira non solo a colpire, quindi, ma a reclutare, a scavare un solco invalicabile fra “noi” e gli “altri”. Prosegue, per ragioni di spazio, in un secondo commento a mio nome

    RispondiElimina
  2. …….Ma chi sta attuando questo attacco così mirato, chi ci ha dichiarato guerra? I protagonisti degli attacchi terroristici ci appaiono robotici soldati, certo non generali e comandanti. E qui arrivano i primi dubbi, le prime domande in gran parte senza risposta. Senza dubbio alcuno è da rifiutare l’interpretazione di chi vede il nemico nell’Islam in quanto tale. Non spreco altre parole per condannare la xenofobia che vede in ogni mussulmano, specie se immigrato clandestino, un potenziale terrorista. Ne uso alcune per affrontare alcuni dubbi, alcune domande. La prima: ho sentito e letto molti commentatori fare la constatazione che se non è vero che tutti i mussulmani sono terroristi, è pero vero che praticamente tutti i terroristi sono mussulmani. A significare che è anche nelle pieghe della cultura islamica che vanno isolati germi di una concezione del mondo e del rapporto tra le genti e le culture che privilegia lo scontro. Considerazione che si rafforza, o così sembra, quando leggo, cosa che invito a fare, il discorso del Presidente egiziano Al Sisi fatto, il 6 gennaio scorso e quindi prima dei fatti francesi, all’inaugurazione dell’anno accademico nell’Università islamica Al Azhar del Cairo. Al Sisi, personaggio peraltro tutt’altro che candido e candidabile al Nobel per la pace ed il rispetto dei diritti civili, invita in modo accurato ulema e iman a porre mano ad una urgente rilettura del Corano adeguata al mutare storico sbloccandola dalla cristallizzazione alla quale sembra inchiodata da molti secoli. Sul piano concreto sappiamo bene tutti quanto incidano nell’offrire spunti al terrorismo la tragedia palestinese, il dramma della Siria e dell’Iraq, la guerra, perché di guerra si deve parlare, fra Sunniti e Sciiti, il ruolo ambiguo delle dinastie al potere in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi, ed in generale il rifiuto “ancestrale” della modernità occidentale se ridotta a consumismo e vuoto godimento. Ma resta la sensazione che sarà impossibile uscirne fuori se questa riflessione non viene affrontata da tutto l’Islam, e sottolineo tutto perché trovo limitativo continuare a parlarne come di un compito dell’Islam moderato, ma moderato rispetto a che? Ho letto una dichiarazione di un musulmano parigino, un uomo qualsiasi capace però di parole bellissime che dicevano….mi sono sentito offeso nel vedere le vignette su Maometto di Charlie Hebdo, ma se voglio essere libero di risentirmi devo accettare la libertà di altri di farmi risentire……Non saprei trovare parole migliori per immaginare un futuro per l’Europa multiculturale e multireligiosa. Mi auguro che anche Circolarmente offra occasioni per approfondire la nostra conoscenza della cultura e dell’attuale realtà islamica, ed il conseguente nostro rispetto, perché il rispetto cresce quanto più si conosce; l’Islam è un universo che non conosciamo ma che ormai, ci piaccia o no, è qui a casa nostra, dobbiamo conviverci sempre riaffermando i valori alla base della nostra civiltà. Dopo esserci per secoli combattuti, con nefandezze da una parte e dall’altra, è urgente parlarci, è davvero tempo di fare terra bruciata attorno al terrorismo qui in Europa, come nel Medio Oriente, in Nigeria, in Indonesia, ovunque false concezioni lo alimentano. Perdonate la lunghezza, ma è davvero difficile fermarsi. Tornerò, appena possibile, per riprendere le domande di Massima e le altre tante domande e dubbi.

    RispondiElimina
  3. Nei precedenti commenti mi è sembrato opportuno proporre alcune interrogazioni, fra le tante possibili, sul legame “culturale” fra terrorismo islamico e Islam. Le domande di Massima, utile traccia per entrare più a fondo nella questione, pongono anche altre questioni, anche se è evidente che stiamo valutando, da più prospettive, un “unicum”. Inizierei da un aspetto solo in apparenza “francese”; non sono infatti in grado di esprimere un giudizio sull’attuale capacità della scuola d’oltre alpe di trasmettere in modo efficace i valori alla base dell’integrazione. Ricordo un film visto alcuni anni addietro, “La classe”, che, raccontando una situazione esemplare, esplorava proprio lo stato di salute generale della scuola francese con esiti tutt’altro che positivi. La risposta parrebbe quindi negativa, ma non credo, guardando anche a casa nostra, che la colpa sia della scuola in quanto tale. Il ruolo dell’educazione scolastica nel preparare le nuove generazioni a gestire situazioni multiculturali e multi-religiose è fondamentale, in Francia come in Italia e in tutta Europa, ma quanti dei valori faticosamente coltivati nelle aule reggono all’urto della realtà esterna? Ammesso che essa funzioni ancora non si innesca un meccanismo che al contrario incentiva la disillusione ed il rancore, quando la teoria di quei valori si scontra con periferie degradate, disoccupazione, xenofobia strisciante, apparati polizieschi, vuoto di spazi collettivi condivisi? Non stiamo parlando dell’ennesimo guasto provocato dalla razionalità neoliberista (rimando alla sintesi in questo blog de “La nuova ragione del mondo” che fra l’altro vede proprio nelle politiche formative uno dei suoi capisaldi) che pone al centro delle nostre società l’individuo consumatore e impresa-individuale in perenne battaglia per la conquista di un posto al sole? Che succede quando, in Francia, ma è così anche in Inghilterra e nei paesi del Nord e progressivamente anche qui da noi, i primi a fallire in questa guerra fra poveri sono, guarda caso, gli strati sociali formati da etnie a fede mussulmana? A quale cultura, ovvero a quale sua degenerazione, possono affidarsi quando quei valori di integrazione imparati a scuola si dimostrano carta straccia, una presa in giro? Persino ovvio poi che la crisi economica europea accentui questo stato di cose. E si parla di una crisi che non avrà soluzione né a breve né per tutti, l’Europa dovrà inesorabilmente fare i conti con un’economia che non darà più lavoro e dignità sociale a tutti, questo è quanto ci dicono gli analisti più seri, quelli che non cianciano di crescite da araba fenice. Sono quindi convinto che l’humus europeo sul quale il terrorismo islamico cresce e può svilupparsi è un insieme di fattori socio/economici e del loro incontro con il particolare retroterra culturale/religioso di una parte dell’Islam, penso inoltre che non si tratti di un fatto generazionale, transitorio, che esista il serio rischio che vada ben oltre orizzonti di breve periodo. Tutto dipenderà da come l’Europa, e gli Stati che la compongono, sapranno avere coscienza di questi rischi, da come proseguirà il percorso di unificazione, dalle risposte date a questa crisi “stabile”, dalla capacità della classe politica di ascolto e di reale governo dei problemi. Per esaurire questa mia prima, parziale, personale valutazione sarà necessario altro spazio. Aspetto, in attesa dei vostri commenti.

    RispondiElimina
  4. Resta in queste mie prime impressioni sui fatti di Parigi un aspetto “delicato”: l’incidenza delle religioni sui rapporti fra persone e popoli, e la collegata suscettibilità alle presunte offese alla fede. Da tempo, grazie ai miei limitati studi storici, ho maturato la convinzione che le religioni rivelate, organizzate, istituzionalizzate, facciano parte della storia degli uomini, che in esse non vi sia nulla di divino. Ben al di là del mio agnosticismo cosa ci insegna infatti la storia? Ci dice che le religioni rivelate, organizzate, nacquero circa dieci/dodicimila anni fa, nella fase dell’evoluzione in cui l’homo sapiens uscì dallo stato di cacciatore/raccoglitore per diventare via via agricoltore, allevatore, commerciante, artigiano. Si passò, nel giro di pochissimi secoli, da gruppi nomadi di poche decine di individui a comunità stanziali composte da centinaia, migliaia di persone. Non fu semplice in questa fase creare le condizioni di convivenza collettiva, furono necessarie “sovrastrutture” in grado di unire attorno ad un comune sentire individui abituati, da sempre, a vivere in piccoli clan spesso in competizione, anche violenta, fra di loro. Il senso del divino, fino ad allora manifestatosi in totemismo ed animismo, entrambi legati in modo diffuso agli elementi della natura, si mutò nella fede in una o poche divinità, creando quello che è stato il cemento sociale più importante, più efficace. Al punto di divenire, nel corso della storia ed assieme al sentirsi parte di un popolo, quello che oggi definiamo nazionalismo, il principale elemento costitutivo delle collettività e della stessa impronta individuale. “Toccare” la fede religiosa di un singolo, come di un popolo, è così diventato, viene così vissuto, come un attacco, al proprio esistere, alla propria essenza, individuale e di gruppo. Vale questo atteggiamento per tutte le religioni, ma vale forse di più per l’Islam, ultima nata fra le religioni rivelate, che fin dai suoi inizi si è contrassegnato con forti, e spesso violente, contrapposizioni con gli “altri”, con gli “infedeli” e, al suo stesso interno, con lotte fratricide fra sciiti e sunniti. Non è certo in discussione la libertà di adesione ad una fede, ma sarebbe una conquista civile se tutte le religioni facessero uno sforzo per “lavorare” su questo eccesso di suscettibilità e giungessero ad accettare in modo più pieno non solo che la moderna forma dello Stato sia quella laica, l’unica che può realmente garantire la libertà di culto, una delle basi delle società libere e democratiche, ma anche il diritto altrui di criticarle, anche nella forma dell’appunto satirico. Non condivido chi, come lo stesso Papa Francesco con la battuta del pugno dato a chi offende la mamma, chiede rispetto a priori per la religione, perché è un problema mal posto; se avere rispetto significasse rinuncia alla critica sarebbe infatti porre un limite inaccettabile alla libertà di pensiero, ma lo sarebbe anche se significasse la sola rinuncia a forme satiriche di critica. C’è un problema di buon gusto? Forse sì, forse no, siamo nel campo dell’opinabile. Chi e cosa stabilisce il limite del buon gusto? Non ho apprezzato molte delle vignette che hanno pubblicato, trovandole spesso superficiali, grezze, stupidamente provocatorie, se non qualunquiste, ma sarei stato anch’io a Parigi a dire “Je suis Charlie” pur non comprandolo. Ci sarei stato per difendere il suo diritto di pubblicarle, nonostante il loro cattivo gusto, e perché per la stessa motivazione di ritenere la religione al di sopra del diritto di critica e satira la prossima vittima di un attacco terroristico, così come già minacciato, potrebbe essere la redazione di “Le canard enchainé”, rivista che scava nelle contraddizioni delle religioni, Islam compreso, anche se con altra classe ed eleganza. Non è il cattivo gusto allora che infastidisce.

    RispondiElimina
  5. L’offesa

    Entro con qualche esitazione nello scambio di idee su ciò che sta avvenendo in questo drammatico e confuso inizio d’anno. Pur avendo sempre molto amato le parole – poco idonea all’azione concreta come sono, esse sono state per me vere e proprie indispensabili “stampelle” per avere un posto nel mondo – mi sento ora talmente avviluppata dalle parole che da ogni parte leggiamo sentiamo scriviamo diciamo nel tentativo di capire di quale portata sia la sfida che dobbiamo affrontare, da provare la tentazione di rinunciare, almeno provvisoriamente, a metterne in campo altre, per lasciare sedimentare quelle che già ci sono e vorticano all’impazzata fuori e dentro di noi. Nel contempo mi spiace non rispondere alla richiesta di testimoniare il nostro pensiero che Massima ci fa con la sua abituale cortesia, ricordando a se stessa e a noi tutti l’impegno assunto come “CircolarMente” ad essere presenti non solo con lo studio e con la progettazione di incontri, ma anche nel dibattito pubblico e nel confronto civico.
    Entro dunque nel discorso scegliendo il tema dell’offesa, che in questo momento mi sembra particolarmente rilevante e che sento di conoscere da vicino, più di altri che ora pur richiamano la nostra attenzione. La conosco intanto e in primo luogo a livello personale, come timore di recare offesa ad altri con le mie parole e i miei comportamenti (un timore che non mi abbandona mai, per quanto non sempre mi eviti di essere a volte provocatoria o indisponente), e che pur tuttavia si accompagna, secondo un movimento che può apparire contradditorio e incongruo, ma che in realtà è ben comprensibile per chi intenda almeno un poco le strane fattezze della psiche umana, ad un’ estrema permalosità rispetto alle parole di altri nei riguardi miei, delle cose che dico o in cui mi identifico. Sappiamo bene infatti che l’offesa abita proprio lì, in quella zona dove la troppa importanza che si dà al proprio IO incontra le fragilità interne, i punti deboli, i “pagliai” pronti ad accendersi al minimo fuoco…
    La conosco bene, del resto, come insegnante, che ha visto acuirsi nel tempo, anziché ridursi, la difficoltà dei bambini a gestire questo movimento interno secondo modalità non aggressive e che ha notato, o direttamente o attraverso la riflessione dei colleghi, una loro aumentata permeabilità a giudicare insopportabile offesa, sminuente dell’Io, ogni piccola mossa dell’altro da cui si sentano contrariati.
    Ma ancora la conosco, come tutti noi, sul piano culturale, perché ben sappiamo quanto tortuoso e faticoso e lento sia stato il cammino occorso per distanziarci dal concetto di offesa come “onta” da lavare nel sangue e quanto complicato sia stato sciogliere (ma è stato davvero sciolto?) l’intreccio scivoloso fra parole che si chiamavano l’un l’altra - offesa e onore - imponendo che ad ogni supposta offesa si producesse una reazione “virile” che determinava patenti di coraggio o invece di vigliaccheria a chi non volesse o non sapesse raccogliere la sfida (ricordate “I duellanti” di Ridley Scott ?).
    ..continua nel commento successivo

    RispondiElimina
  6. ....Alcuni di voi sicuramente avranno letto, su “la Repubblica” dell’11 gennaio, la ben articolata riflessione che Michele Serra fa sulla satira come scandalo che disturba e offende – è mestiere suo - dove ad un certo punto mette in correlazione la reazione patologica di parecchi maschi nostrani, che picchiano e uccidono le loro compagne quando esse scelgono di liberarsi di loro, all’incapacità psicologica e culturale di sopportare l’offesa rappresentata dalla libertà delle donne, conquistata a caro prezzo in anni non poi così lontani.
    E’ ancora lunga, la strada, senza contare che retrocedere è rischio sempre presente prima che noi tutti si riesca, dice Serra, ad accettare l’offesa come parte integrante e vitale del confronto culturale e della mediazione giuridica (perché certo alle offese si può e in molti casi si deve reagire: ci sono strumenti del tutto legittimi e idonei per farlo, che la democrazia ci mette a disposizione).
    Per questo sono convinta che proprio la sproporzione spaventosa fra offesa e reazione, che in questo momento pare mostrarsi con particolare forza all’interno di un mondo altro dal nostro (una sproporzione che può indurci a chiamarci fuori o almeno sopra, dicendo a noi stessi: “Ma io sono altro! Questo modo di intendere il sentimento religioso appartiene all’infanzia della civiltà! Noi siamo già ben oltre!” - lo penso anch’io, intendiamoci, o almeno sento sovente il retrogusto amaro di questi pensieri) possa costituire invece una sorta di specchio riflettente attraverso il quale noi possiamo raddrizzare prima di tutto i nostri occhi, guardando bene le luci e le ombre della nostra cultura, così che l’Altro possa essere visto più chiaramente come diverso e come molteplice e soprattutto come brancolante al pari di tutti noi, fragili animali umani.
    Sarà difficile, ma almeno meno stupido che togliere dai libri di testo ogni riferimento ai maiali (cancellare la storia dei tre porcellini? La stupidità non ha confini, come vedete, abita anche a casa nostra!)

    RispondiElimina
  7. Due brevi considerazioni sollecitate dal commento di Enrica che ci invita, in modo coinvolgente, a riflettere sul peso, sul ruolo, dell’offesa, del sentimento provato da chi offende e da chi viene offeso. Appare evidente che per Lei è stata determinante nei fatti terroristici di Parigi la motivazione dell’offesa patita dai mussulmani per le vignette sul Profeta Maometto. Sicuramente questo aspetto ha svolto un ruolo importante, ma a mio modesto avviso non determinante, come ho già avuto modo di dire nei miei precedenti commenti non credo che stia lì il cuore del problema, o quantomeno non solo lì. Ma vale la pena di raccogliere la sollecitazione di Enrica:
    a) a me pare innanzitutto che sia opportuno ribadire che il “meccanismo” dell’offesa non è atto umano “automatico”; al contrario è fortemente determinato dalla cultura, dalla sensibilità, dalla personalità, dall’ambiente formativo sia di chi intende offendere sia di chi si ritiene offeso, ben al di là della ragione specifica che lo innesca. Può così succedere che un’affermazione, detta, scritta, disegnata, possa essere vissuta, magari come uno sgarbo, un’insolenza, ma non come un’offesa irrimediabile, anche se emessa con tale intenzione, ovvero che al contrario analoga affermazione, emessa per criticare, sbeffeggiare, ma non per offendere, sia vissuta come un’offesa così grave da meritare una risposta violenta. Dove sta la linea di confine fra questi due estremi? Ripeto, a mio modesto avviso, nel retroterra culturale e formativo delle persone coinvolte nel meccanismo.E’ in questo retroterra che occorre scavare, anche per le vicende parigine, per capire, evitare, rimuovere, gestire al meglio quanto può incidere negativamente. In tutte le direzioni e su tutti i protagonisti.
    b) una lettura più profonda della reazione mussulmana alle vignette giudicate offensive dimostra però che la decisione di condannare a morte i loro autori non si basa solo sul sentirsi da esse offesi; una parte del mondo islamico le ha giudicate “blasfeme” e, sempre per una parte del mondo islamico, la blasfemia contro l’Islam merita la morte. Sottolineo “una parte del mondo islamico” la pensa così, non tutto. Come è possibile una distinzione così decisiva? Credo che come Circolarmente proporremo momenti specifici di conoscenza ed approfondimento della cultura islamica proprio per capirne di più, per intanto sottolineo un aspetto. La spiegazione del fatto che la stessa offesa sia vissuta da alcuni come una blasfemia e da altri no sta nella natura stessa dell’Islam. Una religione che non ha, ad esempio come quella cattolica, ma come tutte le religioni cristiane, una Chiesa, una istituzione organizzata, titolata alla “vera” interpretazione della parola di Dio, ovvero dei testi sacri. Nell’Islam ci sono molte voci, spesso fra di loro, anche ferocemente, contrastanti tutte auto-titolate a dichiarare quella autentica la propria lettura del Corano. Quando prevale una piuttosto che un’altra? La storia dimostra che ciò non avviene per ragioni intrinseche alla interpretazione stessa, incidono e decidono altri fattori: sociali, politici, geopolitici, culturali, generazionali. In tempi di pace può prevalere una lettura pacifica, in tempi di guerra una parte dell’Islam da più credito ad altre letture. Occorre allora capire, a monte, perché una parte dell’Islam oggi si senta in guerra, contro chi, contro cosa, e con quali obiettivi. Anche questo è un aspetto decisivo da approfondire, capire, gestire.

    RispondiElimina