BABEL
Libro/dialogo di
Zigmunt Bauman ed Ezio Mauro
La
crisi dell’autorità, della politica e della modernità
Noi
che viviamo nell’interregno fra il “non più” e il “non ancora”
Per Capitolo 1 vedi post precedente
CAPITOLO
2
Dentro
uno spazio smaterializzato
EM – E’ pur vero però che una somma di
generosità individuali non forma una cultura collettiva, mancano i soggetti
capaci di trasformare una tendenza in movimento, manca cioè la politica. Lo
dimostra, ad esempio, l’evoluzione negativa delle disuguaglianze, che non sono
solo un dato economico, di reddito, denuncia la paurosa riduzione di
opportunità, dei cosiddetti “ascensori sociali”. L’esclusione è la nuova forma
della disuguaglianza. Ebbene, al di là delle occasionali forme di solidarietà,
è maturata una sorta di accettazione dell’esclusione. Ed ancora una volta chi
latita in modo clamoroso, per l’appunto, è la politica, paradossalmente in
primo luogo quella di sinistra. Il conservatorismo di destra, che svaluta il
welfare, in qualche modo prevede uno spazio di attenzione agli esclusi, la
sinistra non pronuncia più una parola che era suo patrimonio fin dai suoi
albori: uguaglianza.
ZB –
Dobbiamo però entrare meglio nella forma dell’attuale disuguaglianza, che non è
più quella, classica, fra ricchi e poveri; oggi la disuguaglianza si manifesta
nel contrasto tra mobilità e fissità, che è a sua volta la fine, sancita
unilateralmente dal capitale, della reciproca interdipendenza, sociale ed
economica, che aveva caratterizzato la fase “solida” del capitalismo. Questo
legame, sicuramente di contrapposizione ma in definitiva di reciproca
accettazione, trovava nel “locale”, nella fisicità della fabbrica, il suo
ambiente naturale, e svolgeva un ruolo naturale, ineludibile, di limite alla
disuguaglianza. Il capitale nella fase della globalizzazione è diventato
“mobile”, ha tagliato questo legame con il locale, non sente più alcun vincolo,
per quanto contraddittorio, con la condizione della forza lavoro rimasta, inevitabilmente,
legata, fissata, al locale. Ed ecco la conseguente esplosione delle
disuguaglianze. In questo quadro è vero che quella corrente sotterranea di
generosità non trova modo di esprimersi, ma ciò che mantiene in vita ed in
azione è l’immortalità della speranza, Camus diceva “mi ribello, dunque siamo!”
EM – Va bene la speranza, ma in che modo la
si può esprimere magari non per arrivare fino all’affermazione di Colin Crouch
“quanto capitalismo può sopportare la società?”, ma almeno nella forma detta di
Piketty “di riuscire un giorno a far riprendere il controllo della democrazia
sul capitalismo”?. Tornando alla esclusione, nuova forma della disuguaglianza,
occorre dire che essa è solitudine, è disperazione individuale, che non può, da
sola, trasformarsi in pensiero alternativo. La crisi economica attuale ha poi
imposto una sorta di egemonia culturale, quella della “necessità”, di quanto
occorre, occorrerebbe, ma tutta espressa in numeri, percentuali di
disoccupazione, spread, punti di PIL. Quando la partita, al contrario, si
dovrebbe giocare sul piano delle idee, delle finalità, della capacità di
tradurre in nuova governance l’unione di interessi legittimi. E c’è poi il
problema dell’opinione pubblica: a chi proporre questo diverso approccio alla
crisi quando il sentire pubblico è frastornato, intimidito dalla “necessità”,
persino portato ad introiettare la colpa della crisi di più di quanto fanno i
veri colpevoli?
ZB – C’è,
a monte, un circolo vizioso da dirimere: si è formato di fronte alla profondità
della crisi ed alla molteplicità delle sue implicazioni uno iato tra parole e
fatti, tra domande e risposte. Le parole non sembrano più in grado, da sole, di
superare questo iato, eppure non è pensabile altro percorso se non quello di
parlarne, anche di parlare dell’impotenza delle parole. E’ inoltre ormai
evidente che la gente non sceglie un governo che metta sotto controllo il
mercato, ma è il mercato che condiziona i governi affinchè assoggettino la
gente al suo controllo. Dal rapporto tra questi due aspetti emerge l’attualità
del pensiero gramsciano ed il suo richiamo alla “prassi” coniugato con
l’obbligo del realismo, fermo restando l’ottimismo della volontà. Diceva….la
sfida della modernità è vivere senza illusioni e senza diventare disillusi…..In
questo senso non è del tutto corretto immaginare che ci si muove solo lungo
percorsi predeterminati dalla “necessità”, il mondo degli uomini è un regno di
possibilità/probabilità, certamente, come indica Gramsci, da scegliere
realisticamente nella “prassi”. Vero che
le possibilità sono limitate, condizionate dal “pensiero dominante”, l’egemonia
gramsciana, in particolare dalla straordinaria abilità del consumismo di
ricondurre tutte le vie al “consumo”, di aver trasformato il “cittadino” in
“consumatore”, cioè una persona che si aspetta di “comprare” un governo
accettabile, non di partecipare alla sua formazione; con il risultato che
quando il “mercato” offre, come si è già evidenziato, solo governi incapaci di
incidere sulla realtà il cittadino consumatore se ne allontana, non compra, o
se compra sceglie sulla spinta di sentimenti di frustrazione, di rancore, di
voglia di “punire”, non di “costruire”. Non per nulla quel poco che resta di
lotta “politica” si è ridotto ad una competizione di personalità che giocano
tutto sull’abilità di “apparire”.
EM = Eppure l’egemonia culturale trova nella
“necessità” una base importante. La necessità, spacciata per lo stato naturale
delle cose, diventa inattaccabile, viene prima della politica. Forse
l’individuo non è predeterminato, possiede l’arma della scelta, della prassi,
ma il contesto in cui ci muoviamo quello sì può essere predeterminato,
perlomeno nei termini di una “manipolazione delle probabilità, delle
possibilità”. Una manipolazione che opera alzando il grado di difficolta di
alcune scelte piuttosto che abbassando quello di altre, ovviamente in modo
funzionale a chi tira le fila della crisi. Si crea, così facendo, un sentire
comune diffuso, installato a piccole dosi, funzionale al potere. In sostanza
l’egemonia non è più evidente, sfacciata, ma subdola, apparentemente
invisibile; viviamo in una egemonia che pare non avere mandanti, che si
manifesta, per l’appunto, come lo stato naturale delle cose, come “necessità”. Non decidendo il contesto, stiamo diventando
semplici “spettatori” di un copione scritto da altri, alimentato da fuori, con
l’inevitabile risultato che esso diventa immodificabile. Vero è che il singolo
voto alle elezioni vale sempre meno, è sempre meno uno valore efficace, ma un
“like” postato in rete vale ancora di meno
ZB =
Diceva Marx “ siamo noi che facciamo la storia, ma in condizioni che non
abbiamo creato”. Certo, l’individuo non è predeterminato, ma si può
predeterminare il contesto, il sentire comune. Ed è quanto si sta verificando,
in modo dolce, sotterraneo. Gli individui, nella società dei consumi, sono
“tentati”, “sedotti”; non serve più ricorrere al potere forte dell’imposizione,
è sufficiente questo potere dolce sulla sfera delle scelte, delle responsabilità.
Ed è difficile averne coscienza. Ulrich Beck ammonisce che gli abitanti della
“tarda modernità”, tutti noi, non sono in grado di vedere ad occhio nudo i
pericoli della manipolazione. Per averne evidenza devono appoggiarsi ad
“esperti”, a qualcuno che sa. E molti, la maggioranza, trovano comoda, questa
de-responsabilità. Finendo, ad ulteriore conferma, per ridursi a spettatori, a
fruitori di quegli esperti che sempre più trovano nella rete, nel loro essere
continuamente connessi. In questo quadro, che vale soprattutto per le nuove
generazioni, sono saltate non solo le ideologie, ma piuttosto le “appartenenze”
messe in moto dalle ideologie. Si ha quasi l’impressione, tirando le fila di
queste considerazioni, di avere di fronte un cambiamento che avrà le forme di
una evoluzione naturale, logica, inevitabile, tutt’altro che imposta. Non è
solo un’altra svolta nella storia, ma un modo nuovo di fare la storia.