BABEL
Libro/dialogo di
Zigmunt Bauman ed Ezio Mauro
La
crisi dell’autorità, della politica e della modernità
Noi
che viviamo nell’interregno fra il “non più” e il “non ancora”
CAPITOLO
1
Dentro
uno spazio smaterializzato
EM - La crisi dell’economia, innescata dalla
esplosione della bolla finanziaria nel 2007/2008, non ha soltanto fatto
emergere i profondi mutamenti, negativi, prodotti dalla globalizzazione
neo-liberista, ma ha messo a nudo l’inceppamento della democrazia come sistema
per governare le società. La crisi stessa sfugge ad ogni intervento
“democratico”, la sfera dell’economia neo-liberista, in primo luogo, è
diventata autonoma. Sono saltati conseguentemente spazi ed il “discorso
pubblico” sembra atrofizzato, al punto che è diventato legittimo chiedersi se
la democrazia basta a sé stessa, se è ancora in grado di riformarsi, di
riaggiustarsi.
ZB – Quello
che viene messo in discussione, all’interno dell’attuale crisi, è lo stesso
patto fondativo dello Stato democratico. Lo scopo di un governo, di qualsiasi
governo scelto democraticamente, è di essere “sicuri”, il singolo rinuncia ad
una parte della propria libertà delegandola al governo per avere in cambio
“sicurezza”, per poter vivere il più possibile al riparo da pericoli e
problemi. Quando il governo non è più in grado di garantire un livello
accettabile di sicurezza, ed è quanto sta succedendo nella “liquidità” dei
nostri tempi, questo patto salta. In più il consumismo ha accentuato la
propensione agli spazi privati, ci si muove a pendolo tra pretesa di maggior
libertà e ricerca di sicurezza
EM – La prima e più evidente conseguenza è
la crisi della rappresentanza, si va sempre meno a votare, lo si fa con
indifferenza e senza passione; la sfiducia nella capacità del governo di
svolgere il suo ruolo si è allargata alle istituzioni, allo Stato, alla
democrazia intera. Quando il pendolo si volge verso la pretesa di maggior
libertà individuale vengono a cadere discorsi collettivi, “pubblici”, con la
conseguenza che il governo, lo Stato, dovendo rispondere al “singolo” diventa
meno vincolato, impegnato a dare conto di sé stesso
ZB –
Lo Stato moderno era nato, e per lungo tempo si è così sviluppato, in direzione
esattamente contraria, con l’ambizione di interferire in tutti gli aspetti
della vita umana, del singolo, la crisi di cui stiamo parlando nasce proprio
dal fatto che quella ambizione è lungi dall’essere realizzata, oggi il governo,
lo Stato, è “cattivo conduttore della volontà
generale” (espressione coniata da Jacques
Juillard). L’apatia politica
non è una novità, sono nuove le cause che la provocano, in primo luogo
l’esplosione di questa mancanza di “fiducia” nelle regole democratiche. Un
altro aspetto che incide su questo quadro è l’impotenza degli Stati-nazione,
ossia lo strumento e la dimensione che hanno sin qui gestito il patto fondativo
della democrazia, di fronte alle sfide che arrivano da un mondo interdipendente
che ha abolito i confini statali. Stati-nazione che, incapaci di leggere
l’attuale situazione, restano inclini a rivalità e mutue esclusioni incapaci
quindi di una gestione globale. Siamo solo all’inizio di un percorso,
sicuramente lungo e tortuoso, come quello che al tempo vide il passaggio dalle
comunità locali ai moderni Stati-nazione
EM – Stiamo scivolando verso un territorio
sconosciuto senza più il conforto fiducioso dei vecchi strumenti, la politica
innanzitutto che non riesce più ad incidere sulla vita quotidiana, sul futuro
delle nuove generazioni. Appare chiaro ormai che la democrazia, dopo essere
riuscita a sconfiggere le dittature, si trova di fronte ad un nemico peggiore e
si rivela impotente, inadatta. I populismi del XXI secolo sembrano gli unici in
grado di canalizzare un minimo di energia politica, ma è un’energia da “resa
dei conti” sommaria., se la politica era nata per “sciogliere” i nodi della
contemporaneità il populismo quei nodi li vuole tagliare con la spada Anche il
“leader” sembra un’arma spuntata, un dilettante di talento contro i
professionisti della politica più adatto a conquistare che a governare. Ed in
un mondo che vanta di essere in costante connessione siamo solo più singoli in
cerca di contatto con altri singoli, si è perso il senso del collettivo. Slavoj
Zizek afferma che “quando la gente sostiene che è tutto sotto l’occhio dei
media e che non abbiamo più vita privata io dico che non abbiamo più vita pubblica”
ZB – Anche
questa è una conseguenza negativa del predominio dell’economia neo-liberista
che va esattamente contro una propensione, ben presente nella natura umana,
alla cooperazione ed al suo intreccio con l’”artigianato”. L’habitat naturale
di questa cultura del “dare” erano la famiglia ed il vicinato, il capitalismo
moderno, come già evidenziò Max Weber, lo ha sostituito con il mondo degli
affari. Ma per una lunga fase, quando il capitalismo era basato sulle
fabbriche, sulla produzione, la fabbrica stessa era luogo di solidarietà, con
il passaggio alla società dei consumatori anche questo ultimo baluardo è
caduto. Le attuali istituzioni si sono inevitabilmente evolute sulla base della
cultura del “prendere”. E questo solleva un’altra preoccupazione: esistono
ancora condizioni, ambienti, relazioni, su cui si possa formare un movimento di
massa a difesa della sofferente, vulnerabile democrazia? Al momento i segnali
non sono incoraggianti
EM – Jeremy Rifkin è convinto che stiamo
andando verso un mondo senza lavoro, a causa della sostituzione tecnologica,
dell’automatizzazione robotica. Si sta cioè rompendo il legame tra produzione
ed occupazione, invece di favorirla oggi la produttività sta eliminando
l’occupazione. Ma, come evidenzia Ulrich Beck, se il capitalismo globale
dissolve la civiltà del lavoro si rompe l’alleanza storica tra capitalismo,
Stato sociale e democrazia. Ed in effetti i diritti che nascono dal lavoro e
nel lavoro fanno parte della democrazia complessiva di cui tutti beneficiano,
purtroppo però quando la crisi preme sono i primi diritti ad essere attaccati a
danno dei più deboli e dei meno protetti. E quella “cultura del prendere”
slegata dal mondo dei diritti, e dal collegato “dovere” di dare, contribuire,
partecipare, porta ad una riduzione ai minimi termini della “cittadinanza”. Se
ancora si trovano ragioni, occasioni, di unione, è solo più per protestare, non
più per proporre e costruire. Persino l’uso della categoria “cittadino” rischia
di essere improprio: vale sempre più la distinzione tra “pubblico” e “folla”,
con il primo ancora chiamato a pensare e ragionare con altri, la seconda solo
più capace di “sentire ed identificarsi”
ZB –
l’attuale crisi ha certamente accentuato il problema, ma già nel 1973 Habermas
denunciava che lo Stato democratico stava rinunciando alla sua funzione,
basilare per la sua nascita, di mantenere e far funzionare il capitalismo,
intervenendo sul sistema di relazione/acquisto/vendita fra capitale e lavoro.
Certo Habermas non poteva già immaginare che poco dopo le cose sarebbero
precipitate, che quel ruolo sarebbe stato sostituito dalla semplice
regolamentazione dell’incontro tra merci e clienti, in una società in cui,
usando la definizione di Louis Althusser, lo Stato “interpella” i suoi membri
vedendoli prima come consumatori che come cittadini. Nell’ambito di un simile quadro la stessa
categoria del “sistema sociale” non funziona più, non è più in grado di provvedere
da sola alla sua “manutenzione”. Recentemente Peter Sloterdijk ha contrapposto
l’”economia erotica”, quella che punta a riempire una mancanza, e l’”economia
timotica” (dal “thymos” di Platone), quella che punta al riconoscimento
sociale; la prima si alimenta di solo consumo, creando nuove “mancanze” quando
quelle antiche si sono esaurite, la seconda prevede uomini propensi più al dare
che al prendere. Ovviamente nella società consumistica è quella erotica che
predomina. Ma dobbiamo continuare ad avere fiducia nella presenza, magari sotterranea,
di quella timotica, a cui però, oggi, manca un prolungamento nella politica, ed
è questa mancanza che la rende meno visibile.
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