sabato 30 maggio 2015

Babel - Sintesi per Capitoli


BABEL
Libro/dialogo di Zigmunt Bauman ed Ezio Mauro

La crisi dell’autorità, della politica e della modernità
Noi che viviamo nell’interregno fra il “non più” e il “non ancora”

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Per Capitolo 1 vedi post precedente

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CAPITOLO 2

Dentro uno spazio smaterializzato

 

EM – E’ pur vero però che una somma di generosità individuali non forma una cultura collettiva, mancano i soggetti capaci di trasformare una tendenza in movimento, manca cioè la politica. Lo dimostra, ad esempio, l’evoluzione negativa delle disuguaglianze, che non sono solo un dato economico, di reddito, denuncia la paurosa riduzione di opportunità, dei cosiddetti “ascensori sociali”. L’esclusione è la nuova forma della disuguaglianza. Ebbene, al di là delle occasionali forme di solidarietà, è maturata una sorta di accettazione dell’esclusione. Ed ancora una volta chi latita in modo clamoroso, per l’appunto, è la politica, paradossalmente in primo luogo quella di sinistra. Il conservatorismo di destra, che svaluta il welfare, in qualche modo prevede uno spazio di attenzione agli esclusi, la sinistra non pronuncia più una parola che era suo patrimonio fin dai suoi albori: uguaglianza.

ZB – Dobbiamo però entrare meglio nella forma dell’attuale disuguaglianza, che non è più quella, classica, fra ricchi e poveri; oggi la disuguaglianza si manifesta nel contrasto tra mobilità e fissità, che è a sua volta la fine, sancita unilateralmente dal capitale, della reciproca interdipendenza, sociale ed economica, che aveva caratterizzato la fase “solida” del capitalismo. Questo legame, sicuramente di contrapposizione ma in definitiva di reciproca accettazione, trovava nel “locale”, nella fisicità della fabbrica, il suo ambiente naturale, e svolgeva un ruolo naturale, ineludibile, di limite alla disuguaglianza. Il capitale nella fase della globalizzazione è diventato “mobile”, ha tagliato questo legame con il locale, non sente più alcun vincolo, per quanto contraddittorio, con la condizione della forza lavoro rimasta, inevitabilmente, legata, fissata, al locale. Ed ecco la conseguente esplosione delle disuguaglianze. In questo quadro è vero che quella corrente sotterranea di generosità non trova modo di esprimersi, ma ciò che mantiene in vita ed in azione è l’immortalità della speranza, Camus diceva “mi ribello, dunque siamo!”

EM – Va bene la speranza, ma in che modo la si può esprimere magari non per arrivare fino all’affermazione di Colin Crouch “quanto capitalismo può sopportare la società?”, ma almeno nella forma detta di Piketty “di riuscire un giorno a far riprendere il controllo della democrazia sul capitalismo”?. Tornando alla esclusione, nuova forma della disuguaglianza, occorre dire che essa è solitudine, è disperazione individuale, che non può, da sola, trasformarsi in pensiero alternativo. La crisi economica attuale ha poi imposto una sorta di egemonia culturale, quella della “necessità”, di quanto occorre, occorrerebbe, ma tutta espressa in numeri, percentuali di disoccupazione, spread, punti di PIL. Quando la partita, al contrario, si dovrebbe giocare sul piano delle idee, delle finalità, della capacità di tradurre in nuova governance l’unione di interessi legittimi. E c’è poi il problema dell’opinione pubblica: a chi proporre questo diverso approccio alla crisi quando il sentire pubblico è frastornato, intimidito dalla “necessità”, persino portato ad introiettare la colpa della crisi di più di quanto fanno i veri colpevoli?

ZB – C’è, a monte, un circolo vizioso da dirimere: si è formato di fronte alla profondità della crisi ed alla molteplicità delle sue implicazioni uno iato tra parole e fatti, tra domande e risposte. Le parole non sembrano più in grado, da sole, di superare questo iato, eppure non è pensabile altro percorso se non quello di parlarne, anche di parlare dell’impotenza delle parole. E’ inoltre ormai evidente che la gente non sceglie un governo che metta sotto controllo il mercato, ma è il mercato che condiziona i governi affinchè assoggettino la gente al suo controllo. Dal rapporto tra questi due aspetti emerge l’attualità del pensiero gramsciano ed il suo richiamo alla “prassi” coniugato con l’obbligo del realismo, fermo restando l’ottimismo della volontà. Diceva….la sfida della modernità è vivere senza illusioni e senza diventare disillusi…..In questo senso non è del tutto corretto immaginare che ci si muove solo lungo percorsi predeterminati dalla “necessità”, il mondo degli uomini è un regno di possibilità/probabilità, certamente, come indica Gramsci, da scegliere realisticamente nella “prassi”.  Vero che le possibilità sono limitate, condizionate dal “pensiero dominante”, l’egemonia gramsciana, in particolare dalla straordinaria abilità del consumismo di ricondurre tutte le vie al “consumo”, di aver trasformato il “cittadino” in “consumatore”, cioè una persona che si aspetta di “comprare” un governo accettabile, non di partecipare alla sua formazione; con il risultato che quando il “mercato” offre, come si è già evidenziato, solo governi incapaci di incidere sulla realtà il cittadino consumatore se ne allontana, non compra, o se compra sceglie sulla spinta di sentimenti di frustrazione, di rancore, di voglia di “punire”, non di “costruire”. Non per nulla quel poco che resta di lotta “politica” si è ridotto ad una competizione di personalità che giocano tutto sull’abilità di “apparire”.

EM = Eppure l’egemonia culturale trova nella “necessità” una base importante. La necessità, spacciata per lo stato naturale delle cose, diventa inattaccabile, viene prima della politica. Forse l’individuo non è predeterminato, possiede l’arma della scelta, della prassi, ma il contesto in cui ci muoviamo quello sì può essere predeterminato, perlomeno nei termini di una “manipolazione delle probabilità, delle possibilità”. Una manipolazione che opera alzando il grado di difficolta di alcune scelte piuttosto che abbassando quello di altre, ovviamente in modo funzionale a chi tira le fila della crisi. Si crea, così facendo, un sentire comune diffuso, installato a piccole dosi, funzionale al potere. In sostanza l’egemonia non è più evidente, sfacciata, ma subdola, apparentemente invisibile; viviamo in una egemonia che pare non avere mandanti, che si manifesta, per l’appunto, come lo stato naturale delle cose, come “necessità”.  Non decidendo il contesto, stiamo diventando semplici “spettatori” di un copione scritto da altri, alimentato da fuori, con l’inevitabile risultato che esso diventa immodificabile. Vero è che il singolo voto alle elezioni vale sempre meno, è sempre meno uno valore efficace, ma un “like” postato in rete vale ancora di meno

ZB = Diceva Marx “ siamo noi che facciamo la storia, ma in condizioni che non abbiamo creato”. Certo, l’individuo non è predeterminato, ma si può predeterminare il contesto, il sentire comune. Ed è quanto si sta verificando, in modo dolce, sotterraneo. Gli individui, nella società dei consumi, sono “tentati”, “sedotti”; non serve più ricorrere al potere forte dell’imposizione, è sufficiente questo potere dolce sulla sfera delle scelte, delle responsabilità. Ed è difficile averne coscienza. Ulrich Beck ammonisce che gli abitanti della “tarda modernità”, tutti noi, non sono in grado di vedere ad occhio nudo i pericoli della manipolazione. Per averne evidenza devono appoggiarsi ad “esperti”, a qualcuno che sa. E molti, la maggioranza, trovano comoda, questa de-responsabilità. Finendo, ad ulteriore conferma, per ridursi a spettatori, a fruitori di quegli esperti che sempre più trovano nella rete, nel loro essere continuamente connessi. In questo quadro, che vale soprattutto per le nuove generazioni, sono saltate non solo le ideologie, ma piuttosto le “appartenenze” messe in moto dalle ideologie. Si ha quasi l’impressione, tirando le fila di queste considerazioni, di avere di fronte un cambiamento che avrà le forme di una evoluzione naturale, logica, inevitabile, tutt’altro che imposta. Non è solo un’altra svolta nella storia, ma un modo nuovo di fare la storia.

 
 
 

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