domenica 22 novembre 2015

Commenti a margine della conferenza sulla Bosnia


Mercoledì 18 abbiamo ascoltato con molto interesse l’intervento della dott.ssa Donatella Sasso su “Il caso Bosnia” di cui i media parlano assai raramente. Abbiamo apprezzato la chiarezza con cui sono stati affrontati temi assai complessi resi ancora più ostici dalla nostra scarsa conoscenza delle dinamiche politiche e culturali dell’area balcanica. Partita da un doveroso inquadramento storico Sasso si è soffermata sui protagonisti: Milosevic, Tudjman e Izetbegovic accomunati dalla medesima appartenenza alla nomenclatura di regime. Quindi non uomini nuovi per una rifondazione della ex Iugoslavia, ma uomini noti, che secondo l’interpretazione proposta, hanno cercato una ricollocazione negli spazi di potere lasciati liberi dalla crisi interna e internazionale del comunismo. Costoro con l’aiuto del revisionismo storico non hanno esitato a cavalcare la tigre del nazionalismo identitario che tanti lutti ha prodotto in una terra ricca di intrecci etnici in cui nei precedenti 40 anni i matrimoni misti erano stata realtà piuttosto diffusa. L’ultima parte dell’intervento è stata dedicata alla presentazione dell’attuale Bosnia Erzegovina per come quest’ultima è uscita dagli accordi di Dayton del 21 novembre 1995. Gli accordi, che hanno portato la pacificazione, hanno nello stesso tempo introdotto in una Costituzione, che si definisce democratica, un principio di rappresentanza su base etnica che oltre a ledere i diritti di cittadinanza, che dovrebbero essere universali, rende farraginosa e inefficiente la macchina della politica ed eccessivo il peso della burocrazia. In questo quadro le tensioni e i conflitti vecchi e nuovi si riaccendono. Su questa ultima parte sarebbe interessante continuare l’approfondimento perché la conoscenza di un modello identitario fallito può metterci in guardia rispetto a coloro che vedono nello stato identitario/etnico la soluzione di tutti i mali che ci affliggono, intrecciando questa prospettiva con uno spunto fornito da Claudio Vercelli su cosa significhi essere uno stato democratico al tempo delle società multietniche prodotte dalla globalizzazione.

2 commenti:

  1. Come la maggior parte dei presenti alla conferenza della Dott. Sasso ho avuto modo, a suo tempo, di seguire direttamente le tragiche vicende nella ex Jugoslavia. E’ rimasto intatto, nel sentire la lucida ricostruzione della relatrice, lo sdegno per l’enormità delle crudeltà commesse, a poche centinaia di chilometri dalle nostre “tranquille” esistenze. E con lo sdegno si sono riaffacciate alcune mie “impressioni”. Già al tempo non avevo del tutto condiviso alcune interpretazioni e prese di posizione, penso ad esempio alla ricostruzione fatta da Rumiz (giustamente citato nel dibattito), che mi erano sembrate per certi versi “rassicuranti”, in quanto spiegavano l’intera vicenda come il risultato di studiate politiche, ciniche e crudeli, maturate in specifici ambiti (in tutte le parti coinvolte). Si salvava, così, l’idea di una residua anima “mite” del popolo, dei popoli, della “gente normale”, delle varie etnie. Non ho conoscenza approfondita della storia di quell’area, mi affido, oggi come allora, ad riferire di “impressioni”, basate su scarni elementi: pur concordando, ovviamente, che operazioni di “pulizia etnica”, così complesse e tragicamente lucide non possono non essere frutto di pianificazioni e gestioni mirate, credo che non si debba sottovalutare il persistere nel sentire comune (di comunità, etnie, popoli) di antichi odi, di conti rimasti in sospeso, di torti che reclamano vendette. Questo sentire comune è stato, anche nell’area balcanica, il terreno fertile nel quale quelle pianificazioni ed gestioni sono cresciute e grazie al quale si sono potute dispiegare. In questo senso ho letto il richiamo, fatto dalla stessa Sasso, del discorso di Milosevic, che diede inizio all’intera guerra, che richiamava vicende storiche di seicento (!) anni prima. I confini sono troppo spesso “invenzioni” geo-politiche che per nulla coincidono con i bagagli storici ed il sentire delle genti che da essi sono divise o raggruppate. E la storia dimostra che per eliminarli non bastano duri controlli di Stati dominanti (gli Imperi Austro-Ungarico ed Ottomano), non bastano unità statali fittizie e inevitabilmente temporanee, non bastano stili di vita che sembrano omogeneizzare tutto e tutti all’insegna del consumismo e della modernità. Non bastano nuove costruzioni identitarie se non hanno il coraggio di affrontare di petto il peso della storia. Il fuoco, come si dice, cova sotto la cenere. Occorrono i tempi lunghi di un dialogo continuo e coraggioso, di un lento riconoscimento delle idee e sensibilità altrui. Cosa che, la storia lo dimostra, lì non è mai avvenuta, e certo non avverrà mai se le nuove istituzioni statali ancora si basano sulle appartenenze etniche. Il peso della storia, che si legge solo guardando indietro sui tempi lunghi, non va mai sottovalutato. Mi pare che anche le attuali vicende terroristiche ne siano una tragica conferma.

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  2. Concordo con la preoccupazione di Giancarlo relativa al peso della storia, che può essere compreso solo riferendosi ai tempi lunghi ma il cui riverbero fortemente preme sul nostro presente. Lo ha ben evidenziato la dottoressa Sasso nella sua conferenza sulla Bosnia, anche se non è stato possibile cogliere durante il suo intervento l’occasione per riflettere su ciò che sta avvenendo nei conflitti odierni e in particolare in quello che incendia il Medio Oriente (del resto sappiamo bene che i nostri incontri pubblici sono orientati prevalentemente ad offrire spunti di riflessione, lasciando gli eventuali approfondimenti ai gruppi di studio che via via possono formarsi sui singoli temi). In un suo recente articolo, scritto dopo che la cosiddetta tomba di Giuseppe a Nablus è stata incendiata da manifestanti palestinesi, Silvia Ronchey notava, per l’appunto – commentando la spirale di violenza che sta nuovamente insanguinando quelle terre tormentate - come questo gesto insieme molto concreto e fortemente simbolico ci aiuti a spostare la nostra attenzione dalla geografia reale e dalle sue frontiere contrastate e sofferte ad una faglia più profonda: il confine, in questa accezione, non si presenta dunque più come una linea orizzontale, ma verticale, non guarda al presente e al futuro, ma al passato e alle sue cicatrici. Su questa sovrapposizione fra presente e passato credo ci possano venire delle conferme interessanti, nonostante non siano giocate sull’oggi (anzi, forse proprio grazie a questo) da uno dei testi su cui alcuni di noi hanno lavorato come gruppo di studio all’interno di “Circolarmente” e che saranno al più presto inseriti nella nostra sezione di documentazione. Nel suo “La mente del viaggiatore” Eric J. Leed ragiona infatti su ciò che è avvenuto nell’incontro fra gli europei e i nativi americani, in cui le differenze di spazio sono state lette come differenze nel tempo assimilando i nativi agli uomini primitivi, rispetto ai quali gli europei hanno potuto ritenersi i veri e i soli “adulti“: non più figli ed eredi delle grandi civiltà antiche, come prima si sentivano, ma rappresentanti di una civiltà al suo acme rispetto alla quale questi “altri” non potevano che essere figli, con tutte le sfumature che il termine comporta e che ben conosciamo. A suo giudizio dunque l’idea di un tempo lineare ed evolutivo utilizzato come strumento ordinatore ha effetti perversi: il tempo, dice, può risultare di fatto ottuso perché distrugge il presente, e negando la contemporaneità ci rende di fatto ciechi all’altro. Questa sovrapposizione fra presente e passato è tuttora ben operante: sempre Silvia Ronchey osserva come il vero bottino della riscossa islamista non sia il presente, ma il passato. E’ sul passato, sui suoi lasciti, sui suoi monumenti che si gioca una partita mortale, vuoi distruggendoli vuoi rifacendosi ai vari miti dell’origine. E qui la Bosnia sicuramente ha qualcosa da insegnarci …Non saprei dire come si può uscire da questa sovrapposizione distorcente, foriera di ferite che talvolta con il tempo si rimarginano ma in altri casi suppurano e non riescono mai a chiudersi del tutto. Una delle cose che possiamo ragionevolmente fare, conoscendo la nostra stessa storia, è di stare attenti ai meccanismi proiettivi – non fare del nemico la nostra immagine rovesciata e deformata, nell’intento di allontanare da noi ogni possibile Ombra (mi auguro che Alessandro Croce possa darci utili spunti in materia, quando interverrà su questo tema). Questo naturalmente non vuol dire che non dobbiamo difendere ad ogni costo quel percorso democratico compiuto faticosamente dalla nostra civiltà occidentale, ma che dobbiamo anzitutto inverarlo. Per il resto, penso sia importante continuare a fare quello che già da alcuni anni facciamo, come Circolarmente, e cioè promuovere riflessioni culturali in contesti pubblici e amicali, nel rispetto delle nostre interne differenze che sono motivo di arricchimento.

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