Costruire luoghi di libertà migliori e
diverse
Dove sono oggi i compagni di speranza?
Intervista a Enrico Donaggio a cura di Camilla
Emmenegger
(Enrico
Donaggio insegna Filosofia della storia all’Università di Torino e Figures du
pouvoir e Écrire et Penser all’Université Aix-Marseille)
Mai come oggi viviamo una vita
spezzata. Che crediamo solo nostra e invece ci accomuna a tanti. Viviamo
spezzati tra il desiderio di “dire di no” – a un mondo palesemente assurdo, a
un ordine delle cose indifferente all’umano... – e l’impotenza di «fare di sì».
Scissi tra una voce che ci dice «dì di no» e un’altra che replica “resistere
non serve a niente” E così, incapaci di ricomporre il gap tra la vita e la
critica, finiamo per evadere dal reale in modi che durano un weekend Non
mancano però esperienze dove si tenta di pensare e agire altrimenti. Piccole
enclave di umanità diversa dove i no provano ad aggregarsi, in nome di libertà
migliori. Non provando paura, ma speranza. provano ad aggregarsi, in nome di
libertà migliori. Non provando paura, ma speranza.
Nel
libro Direi di no. Desideri di migliori libertà (Feltrinelli, 2016) di Enrico Donaggio, filosofo che
insegna a Torino e Marsiglia e presidente dell’Associazione culturale Franco
Antonicelli, personaggi noti e meno noti – da Marx a Rustin Cohle di True Detective, dal conte di Montecristo
allo scrivano Bartleby – sono mobilitati per dare voce, e corpo, ad alcuni dei
nodi in cui sembrano strette le vite quotidiane di molti di noi:
l’impossibilità di agire come si riterrebbe giusto, l’incapacità di dire di no
al mondo in un modo che non si riveli sterile e solitario. L’affresco che ne
risulta è quello di individui scissi tra il sentimento di riprovazione verso un
mondo che non è come si vorrebbe, e l’incapacità di modificare in meglio, anche
se solo di poco, sfere circoscritte della propria esistenza. In cui il senso di
impotenza sembra annichilire alla radice la possibilità di agire in modo
congruente alle proprie convinzioni e in cui sempre in perdita risultano i
compromessi con il mondo.
Una
diagnosi che non lascia spazio a illusioni a buon mercato, ma che si rivela
tutt’altro che pessimistica. Come già nel libro precedente – C’è
ben altro. Criticare il capitalismo oggi (Mimesis, 2014), frutto di un
lavoro collettivo alla ricerca di possibili vie d’uscita (teoriche ma non solo)
dai ritratti neri, e monolitici, del presente – si tratta di non lasciarsi
andare a condanne apocalittiche e senz’appello. Nella convinzione, in questo
caso, che nei sogni a occhi aperti, nelle evasioni andata/ritorno che
costellano le nostre vite, si celino desideri di migliori libertà: i segni
incontestabili di una passione critica tutt’altro che spenta.
Si tratta allora – e qui risiede la
scommessa maggiore del libro – di rintracciare quegli spazi in cui la passione
critica è riuscita a tradursi in azione, a consolidarsi in pratiche quotidiane
e collettive: esperimenti più o meno riusciti, e mai solitari, di costruzione
di luoghi in cui «dire e fare di no» risulta possibile.
Un
presente che si accontenta di poco.
Il tuo libro Direi di no si avvicina
nella forma, più che al saggio filosofico, a un flusso di coscienza:
ragionamenti, immagini, personaggi si susseguono intorno ai temi della critica
e delle nuove forme di asservimento e libertà. Che cosa ti ha portato a
scrivere questo libro?
Pur non considerandomi un tipo
particolarmente radicale o estremista, neppure eccessivamente di sinistra, mi
ritrovo ormai quasi quotidianamente – in ogni situazione di lavoro, ma anche
solo ragionando un po’ con gli altri – a essere più o meno il solo a sostenere
come ovvie, nel senso di sacrosante ed evidenti – tutta una serie di cose che
sino a non troppo tempo fa avrebbero trovato l’accordo generale, scontato, di
un sacco di persone. Per fare solo l’esempio più banale, il fatto che non si
può far lavorare gratis la gente. Posizioni che vengono liquidate dai più
vecchi con una scrollata di spalle, con cinismo e rassegnazione: relitti di un
tempo andato e perduto per sempre. E che oggi vengono guardate da chi è giovane
come un curioso film di fantascienza: «Davvero è esistita in Italia un’epoca in
cui si poteva dire di no a cose del genere?», sembrano chiedersi, con la faccia
di chi scopre che le cose non sono sempre andate come dal giorno in cui sono
venuti al mondo: il ventennio berlusconiano e l’attuazione di quella distopia
neoliberista da parte di Renzi e del Pd. Tutta una serie di luoghi comuni e
dogmi dell’essere di sinistra – morali più che politici, nel più nobile senso
di questi termini – sono insomma stati completamente spazzati via. Una certa
idea di uomo e della sua dignità è scomparsa dalla faccia della terra, la
sinistra è morta. E chi non se ne è ancora reso conto – il sottoscritto – si
ritrova costantemente tra due fuochi. Tra un passato improponibile e un
presente che si accontenta di poco, quando non di pochissimo. Il futuro poi, a
quanto pare, è scomparso dai radar. Il che significa, semplicemente, che il
futuro dei nostri padri non esiste più e che a chi oggi è giovane tocca sognare
e progettare, cioè lottare, per un futuro diverso. Cosa facile da scrivere, ma
difficile da fare, in una situazione di precarietà generalizzata e di singolare
commistione tra gratitudine e ricatto generazionale in cui un conflitto dei
giovani contro i vecchi risulta quasi inconcepibile. Come si fa infatti a
contestare in modo serio ed efficace chi è simultaneamente quello che ti
mantiene fino a 60 anni, quello che ti frega il posto di lavoro e quello della
cui eredità, che ti piaccia o meno, camperai?
Oggi si dice di no, ma poi «si fa di
sì»
Quali sono le conseguenze di questa
situazione di appiattimento sull’esistente?
Da questa situazione deriva, mi pare, una
forma di vita spezzata. Che crediamo soltanto nostra, ma che invece ci accomuna
a moltissima gente che ci sta accanto o non troppo lontana, i nostri «compagni
per caso». È infatti come se tutto quel che diciamo e facciamo risultasse
scisso tra due piani, spaccato in due. Da un lato diciamo di no a quel che non
ci convince, ci offende, ci indigna. Simultaneamente, per tutta una serie di
ragioni opposte, «facciamo di sì». Se si volesse restituire con un’immagine la
malattia sociale tipica del nostro tempo, secondo me sarebbe proprio quella di
individui spezzati tra il desiderio di dire di no e l’impotenza di «fare di
sì». Questo ci rende deboli e fragili dal punto di vista individuale e
collettivo. Perché rende impossibili la coerenza e l’integrità morale – virtù o
facoltà che non sono da intendere in senso bacchettone, come rigidità, ma come
capacità di sentirsi soggetti interi, individui liberi. Gente degna di essere
presa in parola, perché sai che farà quel che dice e promette. Uomini e donne
capaci di mettere speranza a chi gli sta vicino e paura a chi gli sta di
fronte.
Puoi chiarire meglio che cosa
intendi con «vita spezzata»? È
una forma di ipocrisia questa incoerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa?
Di solito, quando c’è qualcosa che non ti
va, dici di no e agisci di conseguenza. Invece oggi per moltissimi di noi
risulta assai difficile mettere in atto questo rifiuto, essere coerenti con se
stessi, con le ragioni, i sentimenti e i valori che ci farebbero dire di no.
Sappiamo tutti benissimo che cosa non funziona, ma ogni giorno subiamo o
compiamo atti contrari ai nostri princìpi. Diremmo volentieri di no, ma ci
sembra un gesto inutile, irresponsabile, pericoloso. Che situazione viene così
a crearsi? L’impossibilità che tra il piano dei convincimenti morali più
profondi di ciascuno di noi, la nostra identità morale, e il piano dell’agire
quotidiano si dia un bilancio di senso che torna. No, i conti non quadrano. È
come se l’agire quotidiano fosse costantemente in perdita dal punto di vista
morale. In una scissione e schizofrenia tra la vita e la critica. Questo
comporta l’impossibilità di essere soggetti integri, di riconoscersi nei propri
atti. Insomma una forma di grande fragilità, laddove invece potrebbe benissimo
darsi una grande forza.
Resistere non serve a niente?
Chi analizza questo fenomeno, nei libri o
nelle discussioni, di solito lo fa in due modi.
Uno
miserabile, che liquida questo problema come ipocrisia: la gente dice sempre
cose in cui non crede, e lo fa solo per smerciare agli altri e a se stessi una
certa immagine di sé idealizzata, molto più nobile e bella della sua reale e
meschina verità. Questa a me sembra una pista cinica, perdente e miserabile:
bisogna sempre dubitare di chi descrive gli uomini in questi termini,
ammazzando nella culla tutti i loro desideri migliori, cioè quelli di migliori
libertà. C’è qualcosa di terribilmente triste in chi la pensa così, addirittura
di morto. Ammazzano i sogni degli altri per vendicarsi di quel che è stato
fatto ai loro. C’è poi un secondo modo, che chiama in causa il fenomeno della
servitù volontaria. Servi volontari sono coloro che provano un certo assurdo
piacere nel servire, che per una sorta di strana infatuazione giocano dalla
parte del potere contro i propri compagni, addirittura contro se stessi.
Di
servitù volontaria si è parlato
qualche anno fa – in modo un po’ retorico – in riferimento al periodo
berlusconiano, ma anche, se si risale più indietro, durante il periodo
fascista. Al di fuori di questi specifici contesti storici, esistono secondo te
persone che amano servire?
Gente del genere esiste, eccome se esiste!
Ma per fortuna quelli seri sono una minoranza. In tutti gli ambienti che
frequento incontro una minoranza di persone pronte a morire per salvaguardare
lo status quo, per importelo e fartelo accettare, anche o proprio perché loro
ne sono state le prime vittime; gente che vive solo perché il loro capo o chi
ha il potere gli faccia una carezza. Sono i cani da guardia del potere, le guardie
del corpo del sistema, quelli che rendono il sistema invincibile. Gente di cui
bisogna davvero avere paura, molto più che dei loro padroni. Lo dice bene una
canzone dei Pink Floyd: «But whatever you
change, you know the dogs remain». Massima brutta e saggia come un monito a
cui non si scappa. Con la quale tocca fare i conti o si è spacciati. Puoi
dannarti per cambiare qualsiasi cosa. Ma i cani, alla fine, saranno sempre lì,
perché sono gli ultimi a mollare l’osso. Meglio non scordarlo e, nel dubbio, prendere
sempre a bastonate il cane che ci viene incontro scodinzolando per trasformarci
in suoi simili. Ma per gli altri, per noi, la maggioranza della gente normale,
il discorso è diverso e più articolato. Si tratta infatti di individui scissi
tra una voce che ti dice «dì di no» e una voce che ti dice «resistere non serve
a niente». L’azione congruente alla critica, al sentimento di riprovazione
verso una situazione, sembra spesso troppo difficile: alla portata di individui
rari o di chi non ha più nulla da perdere. Ci si sente impotenti, incapaci di
incidere in modo significativo sulla realtà e sulla propria vita. Ed
effettivamente oggi non si fa più paura al potere. E non che siano mancate in
questi anni manifestazioni oceaniche, di milioni di persone: che non hanno però
ottenuto nulla, non hanno fatto paura a nessuno. È un’enorme bugia che gli anni
in cui viviamo e quelli che li hanno preceduti siano stati un deserto della
critica. Il problema è che gli individui scissi sono individui impotenti, di
cui il potere non ha paura. Una delle domande all’origine del libro è proprio
questa: come si può tornare a fare paura a qualcuno, al potere, dicendo di no?
Perché il no è un’arma potente, che può e deve mettere paura.
Se
detto bene, il no è un’arma.
Eppure oggi si tende a considerare
il «no» come una forma sterile di opposizione, se non addirittura come una
difesa conservativa dei propri privilegi. Che cosa vuol dire per te dire di no?
E in che modo il «no» può diventare un’arma della critica?
L’idea che mi sono fatto leggendo un po’ di
libri di psicologi – la produzione sterminata di testi che ti spiegano quanto
sia difficile, importante, bello, ti aiuti a crescere... dire di no – è che
«no» sia un monosillabo fatale, come «io», «tu», «noi». Che dire no e dire io sia più o meno la stessa cosa. Il dire di no viene spesso visto
male, come una forma di rifiuto sterile, senza proposte, debole. Dire di no può
in effetti essere qualcosa di sterile, persino qualcosa di mostruoso. Il no
sterile è quello di Bartleby: il famoso scrivano del racconto di Melville il
cui mantra «I would prefer not to»
era sui muri e gli striscioni dei vari Occupy e di altri recenti movimenti di
protesta. Bartleby improvvisamente comincia a dire di no a qualunque cosa gli
si chieda e poi muore d’inedia, si spegne e consuma quasi come un minerale.
Muore come una pietra o un altro oggetto della natura. C’è poi il no mostruoso,
che è il no di Rustin Cohle, protagonista cinico e disilluso della serie True Detective, un eroe del mio
libro; è un no amaro, della posizione snob e disperata, dell’isolamento di chi
non capisce di non essere solo nella sua condizione, ma circondato da compagni
per caso che si dibattono nella stessa difficoltà. È il no che porta a
considerare mostruosi gli altri: il no che tutti noi pronunciamo quando c’è
qualcosa che non va e ci pare di essere membri di una piccola legione di eletti
circondati da un’umanità raccapricciante.
Ma
c’è anche un no che, se detto bene, può essere un’arma. È un no detto quando il
diavolo vuole comprarti l’anima e tu gli dici di andare a farsi fottere, che si
tenga pure i suoi soldi e il suo potere perché tu non sapresti che fartene.
Perché hai di meglio e di ben altro da fare. Un no fertile, fecondo, un no
pieno di vita. Il no può essere un’arma a patto che sia in qualche modo
preludio a un sì più grande: a un sì di libertà, di emancipazione. Pensa anche
solo al primo no che dice un bambino, a cosa diventa la sua vita e quella dei suoi
genitori da quel momento in poi. Si tratta dell’inizio dell’identità e della
libertà, del tracciare la linea che ti separa, ma anche ti unisce agli altri.
Una cosa di una potenza vitale straordinaria, che non deve essere spezzata o
prosciugata. Il no – per fare il verso a uno slogan usurato – non deve essere
una passione triste.
In ogni uomo brucia una passione
critica
Anzi, in quest’ultimo senso dire di
no rivela una passione critica – una passione che, come affermi nel libro,
abita ogni individuo, almeno una volta nella vita.
Il no è alla base della passione critica, un
sentimento e un modo di stare nel mondo di cui tutti siamo capaci. Non è
infatti corretto pensare che il monopolio della critica spetti agli
specialisti, ai martiri e agli eroi. Oggi sembra invece che solo queste figure
siano in grado di incarnare lo spirito critico: individui eccezionali che ormai
non esistono più.
La mia idea è che ciascun essere umano sia
capace di passione critica: che l’uomo sia un animale capace di dire no perché
è l’unico animale che nutre desideri di libertà migliori di quelle che ha già.
Non è vero che la libertà non c’è, che la nostra società è come un campo di
concentramento, come dicono pensatori molto, troppo radical chic. Ma è vero che
un sacco di gente vorrebbe una libertà decisamente migliore di quella che c’è
già. E questo è il lavoro e l’effetto della passione critica. Di tutte quelle
reazioni davanti al male del mondo, davanti a ciò a cui si dice no, che non si
placano con l’indifferenza, con la rassegnazione, con il cinismo, con
l’egoismo. La passione critica si può manifestare in qualunque modo o forma noi
prendiamo distanza dal mondo. Pagando un prezzo di ascesi, di rinuncia al
piacere e alla libertà che già ci sono. In ogni uomo brucia una passione
critica e questa passione critica non è minimamente monopolizzata dalla teoria;
per cui è falso, è un alibi dire che oggi la gente è rassegnata perché mancano
grandi discorsi, narrazioni, prospettive, ideologie. La teoria è solo uno dei
tantissimi modi – come l’arte, lo sport, la mistica, la danza, la musica – in
cui la passione critica si manifesta e si esprime.
Pensa
ad esempio a chi percorre a piedi i chilometri del cammino di Santiago o agli
eserciti di corridori che affollano i parchi di ogni metropoli. Lo sguardo
classico vede queste cose come una forma di intontimento, di consumo o di
spreco agitato da parte di nevrotici sessualmente complessati. Differente è lo
sguardo che ha pietà per i mostri, che riconosce in tutti questi fenomeni dei
tentativi di creazione di distanza tra la propria vita ordinaria e una
possibile vita migliore, perché in quelle esperienze si sperimenta qualcosa di
meglio. La passione critica non è insomma monopolio di chi scrive libri, di chi
si fa fucilare da un regime autoritario, di Gramsci che muore in galera. C’è
invece in circolo nella società una quantità di passione critica mostruosa e la
teoria serve solo a far passare la critica da una generazione all’altra. È uno
dei luoghi, tra i tanti, in cui la passione critica può essere elaborata. Il
discorso sulla morte della critica, sugli individui incapaci di passione
critica, non riesce a vedere gli altri luoghi, le altre forme, in cui la
passione critica si manifesta.
Evasioni della durata di un weekend
Una passione che sembra però
incapace di tradursi in atto: di incidere in modo significativo sul reale e
sulla vita delle persone...
Il problema è di come la gestisci, questa
passione. Qui si ritorna al tema della scissione tra vita e critica. Siamo
ancora capaci di provare passione e di prendere distanza dalle cose così come
sono, dalla società così com’è, per metterla in questione e in dubbio, per
trasformarla. Dopodiché la gestione di questa sfasatura, di questa non
coincidenza con lo status quo che la passione critica ti consente, è qualcosa
di complicato.
Si tratta infatti di un andare e venire. Di
un alternarsi tra giorni feriali, in cui fai magari un lavoro schifoso, e di
momenti in cui ti chiami fuori, vai lontano. Ma non per una vacanza o per
stordirti, ma per sperimentare libertà migliori e diverse, per cui sei disposto
a pagare un prezzo – non solo e non anzitutto economico – anche molto alto. Vai
a correre la maratona di New York, te ne vai in cima al Monte Bianco... Questi
sono ormai fenomeni di una magnitudo talmente eclatante che non si possono
negare, perché hanno cambiato il modo di vivere della gente. Sono modi, ormai
di massa, di creare una distanza critica tra sé e il mondo; non sono
semplicemente una fuga dalla realtà, ma un modo per mettere la propria vita e
la propria epoca in prospettiva, allontanandosene quanto basta per osservarle e
giudicarle dall’esterno. Evasioni di tipo inedito, a tempo determinato, di
solito della durata di un weekend. Ma comunque innervate da una disciplina
della distanza, perché chi le attua dimostra la tenacia e il rigore di chi dice
no al mondo. Pratiche in cui è richiesta una immane quantità di muscoli,
coraggio, fiato, impegno; in cui viene sprigionata un’energia psicofisica
mostruosa. Ma che terminano la sera, quando si torna a casa. E a quel punto
devi decidere cosa fare. Chiunque torni dal cammino di Santiago non può più
vedere il proprio lavoro, la propria famiglia e la propria routine come le
vedeva prima di partire. Adesso che è tornato deve decidere come muovere la
testa e il corpo. Dire di no o girare la testa dall’altra parte. Nel momento in
cui si prende distanza dal mondo si pone la grande opzione tra la critica e
l’indifferenza. E molto spesso è quest’ultima a prevalere. A questa lotta tra
la critica e l’indifferenza nella vita di ciascuno di noi il libro dedica molte
pagine, in cui si tenta di capire anche quale ruolo svolgano in questo
conflitto tutti quei dispositivi – smartphone, tablet... – e quelle pratiche –
selfie, facebook... – che con l’indifferenza hanno un legame
Praticare
la libertà con dei compagni
Il
problema consiste allora nel costruire qualcosa a partire da questa passione
critica, evitando che si riduca all’esperienza effimera di un weekend e si
polverizzi nel suo contrario, l’indifferenza. E questo mi riconduce a una
questione centrale del libro, cioè a come sperimentare e praticare la libertà.
Tu dici: non da soli.
Occorre trovare e unirsi a chiunque intorno
a noi abbia la sensibilità e il coraggio di ammettere la propria scissione tra direi di no e faccio di sì. I nostri «compagni per caso». In ogni epoca la
domanda politica decisiva, quella delle cento pistole, è sempre la stessa: «Chi
sono oggi i miei compagni? Chi i miei nemici?». E con loro si può provare a
lottare insieme. Contro cosa?
Nel
libro uso un’immagine di Italo Calvino, che parla di una fortezza le cui mura
si assottigliano quanto più aumenta la speranza di uscire, ma s’ispessiscono
quanto più si è disillusi. Si tratta della sua riscrittura de Il conte di Montecristo, contenuta nella
raccolta T con zero. L’immagine serve
a contestare l’idea che ci sia un’umanità completamente vergine di fronte al
mostro. Il rapporto tra individuo e società è invece di tipo simbiotico: è una
sindrome, in cui uno si nutre vicendevolmente dell’altro. È difficilissimo
tirare una linea che separa te dalla società, distinguere i fili che ti tengono
in vita dai fili che ti opprimono e ti alimentano. Al bando comunque qualsiasi
visione demoniaca. Perché si tratta sempre di una simbiosi, di una complicità.
Ma il collettivo, il fatto di avere dei compagni, resta la base perché i no
individuali abbiano un senso e una forza, perché non restino fragili e deboli.
La critica è una passione democratica, un privilegio democratico, ed è una cosa
che non si può fare da soli. Si deve dunque mettere completamente in crisi il
modello dello spirito libero. Del tipo stravagante e lunatico che spezza le
consuetudini e rompe gli schemi. Roba che si vende bene, ma che non serve
politicamente a nulla.
Tentativi
di liberazione dal basso e tra pari
Nel libro parli di «luoghi comuni di
umanità» come luoghi in cui, insieme con dei compagni, si pratica la passione
critica, la si traduce in qualcosa d’altro. Puoi fare degli esempi, anche
tratti dalla tua esperienza?
Un luogo comune di umanità – così io lo
chiamo nel libro – è uno spazio d’esperienza collettiva in cui si possa tentare
di pensare e agire altrimenti. Dove dire e fare di no dimostrino ancora un
qualche senso ed effetto, poco importa se limitato. Dove ci si possa sentire
meno soli e sbandati, impotenti e disarmati, quando si viene colpiti da certi
desideri di migliori libertà. Per il sostegno che si può ricevere da compagni,
incontrati anche per caso, a loro volta sensibili alla critica come passione. E
da un sapere, antico o recente, fatto di pratiche e racconti. Risorse umane che
consentono di prendere corpo e parola, cioè posizione, contro l’ordine del
discorso e della realtà dominante. Per giocarsela alla pari, almeno sul piano
della rappresentazione del mondo, non certo su quello dei rapporti di forza,
con chi ripete, come un martello pneumatico puntato al cuore e alla testa, che
le cose non possono andare altrimenti. E che se non ti sta bene, in fondo è un
problema tuo. Un luogo comune di umanità è insomma una situazione in cui una
minoranza di persone abbastanza normali può compiere cose relativamente
eccezionali, in rapporto al periodo in cui si trova a vivere. Esperimenti di
reciproca emancipazione e riconoscimento, tentativi di liberazione dal basso e
fra pari. Ho in mente esperienze precise che sono, ad esempio, per come le ho
viste e conosciute dai protagonisti, quelle dei lavoratori che si riprendono le
loro fabbriche (ci sono dei film su queste vicende, come Dell’arte della guerra e Comme
des lions). Sono storie meravigliose: di esseri umani normalissimi, ma
completamente diversi. Orgogliosi, contenti, pieni di vita. Gente che è
riuscita, attraverso il lavoro, a riprendersi in mano la propria vita. Che
stava per essere spazzata via da una multinazionale, da un sindacato corrotto,
dalla rassegnazione.
Mettersi insieme a fare delle cose
Io
ho la fortuna di sperimentare una cosa in certo modo analoga a Marsiglia. Lì un
gruppo di ricercatori, dopo essere stati sconfitti nella protesta contro una
legge identica alla legge Gelmini, ha deciso che avrebbe creato un corso di
laurea basato su regole, materie, norme di comportamento completamente estranee
all’università neoliberale che quei disegni di legge, con la rassegnazione o
l’opportunismo di docenti e studenti, stanno creando in tutta Europa. Hanno
inventato da zero materie completamente diverse; hanno fatto il patto che
nessuno di loro avrebbe fatto carriera, né per sé né ai danni degli altri;
hanno stabilito che l’unica cosa che conta è l’insegnamento e la relazione con
gli studenti. Quando sono arrivato lì credevo di essere sbarcato sulla luna.
Questa cosa esiste, funziona, arrivano ragazzi dalla Cina, dal Sud America. Ma
ci sono anche pescatori che si organizzano in cooperative, ereditando e
attualizzando speranze e solidarietà del movimento operaio, o squadre di calcio
femminile che decidono di farsi un campionato. O, se si cercano esempi mitici
nel passato, la rivoluzione di Basaglia, che inizia non a caso con un «E mi no firmo», la prima risposta data
dopo l’arrivo a Gorizia a chi gli chiedeva di sancire con un gesto della penna
che tutto sarebbe andato avanti come prima. L’unica cosa che tutte queste
esperienze, così diverse, hanno in comune è che non sono solitarie, che
sperimentano un modo di fare, di lavorare diverso, che cercano in qualche modo
di essere delle piccole enclave di umanità diversa. Sono in qualche modo votate
al fallimento, non si condannano a vita eterna, sanno quello che vogliono, ma
sono pronte a perderlo in qualunque momento se andare avanti comportasse uno
snaturamento. E danno alla gente che le mette in atto una gioia di vivere, una
forza, un piacere. Queste persone sono vitali, giovani, sorridenti, s’incazzano
anche se hanno settant’anni. Hanno ripreso in mano il proprio destino, in una
piccola – non bisogna esagerare – regione della propria esistenza. L’idea di
fondo è dunque questa: tu devi aggregare i tuoi no e i tuoi desideri di
migliori libertà sull’unico terreno su cui oggi tu e questi desideri contano
ancora qualcosa. E l’unico terreno su cui tutti contiamo ancora qualcosa –
anche se appena più di zero – è il lavoro. Dal lavoro devi cominciare a
togliere tutte quelle forme di servitù volontaria, autosfruttamento, zelo che
oggi lo devastano e connotano. Devi creare luoghi di umanità condivisa in cui
chiudi il gap tra la vita e la critica. Non ci deve essere un’ideologia. Perché
si tratta di roba contagiosa. Perché la libertà è contagiosa. Se entri in
contatto con uno di questi posti, lo senti, lo capisci dalle persone. E non
riesci più a tornare al tuo lavoro come prima, come se niente fosse successo.
Attribuire
una funzione centrale al lavoro evoca una prospettiva marxista, per
la quale il lavoro racchiude un portato emancipativo – una posizione oggi un
po’ fuori moda. Perché per te il lavoro è così importante?
Guarda cosa stava succedendo in Francia
prima che gli attentati bloccassero tutto. Manifestazioni enormi, represse con
una violenza orrenda. Perché mai un presidente di sinistra sconfitto ricorre a
norme che sono state applicate solo in guerra per far passare una riforma del
lavoro che è poi fondamentalmente il Jobs Act? L’interessante non è tanto
capire perché in Italia la riforma è passata senza nessuna protesta e in
Francia si stanno ribellando, ma per quale motivo per tutti i governi europei
distruggere un certo tipo di organizzazione del lavoro è la cosa più importante
che c’è, letteralmente questione di vita o di morte. Perché il lavoro è
importante e fa ancora paura al potere.
Sul
piano dei rapporti di forza come su quello della costruzione dell’identità,
della realizzazione dei soggetti, io non riesco a immaginare un’altra forma di
esperienza che da un lato renda i soggetti così pericolosi per il potere,
dall’altro trasmetta loro la sensazione di fare, contare, creare, costruire,
organizzare qualcosa. Inoltre, se oggi esiste un luogo di umiliazione
universale della vita, questo è proprio il lavoro: è la più democratica forma
di umiliazione – sia per chi ce l’ha che per chi non ce l’ha. Faccio fatica a
immaginare che un terreno del genere possa essere completamente lasciato in
mano all’avversario. Nel dibattito della cosiddetta sinistra radicale italiana
il tema viene invece completamente abbandonato in nome dei beni comuni, del
reddito minimo garantito. C’è una forma assurda di snobismo che considera il
lavoro soltanto come repressione, sfruttamento, calvinismo borghese. Un
pregiudizio radical chic da figli di papà, dello spirito o del conto in banca.
Il lavoro resta invece fondamentale: è l’unica forza che hanno i senza forza.
Non riesco a immaginare un altro ambito in cui chi non conta niente possa
contare qualcosa sul piano dei rapporti di forza. Bisogna mettersi insieme a
fare delle cose, non soltanto trovarsi a parlare, a discutere, a bere e
mangiare.
La critica è una promessa di
felicità
Nel libro enumeri alcune
caratteristiche fondamentali dei «luoghi comuni di umanità». Mi vorrei
soffermare su due in particolare. Il primo tratto è l’onerosità: la pratica
della libertà non è una cosa facile, immediata. Il secondo è la felicità:
l’esercizio di critica, il dire di no collettivo e continuato, racchiude una
forma di felicità. Puoi chiarire la tensione tra felicità e onerosità?
Spesso
si dice: che senso ha criticare, che senso ha opporsi, se non c’è una
prospettiva, un’alternativa? Questa secondo me è una convinzione che andrebbe
smontata. Il gesto in sé ha una vitalità e un portato di senso tale da rendere
la vita più bella. È il concetto di integrità: se tu ricomponi alcuni pezzi di
te stesso, ti rendi conto che puoi incidere sulla realtà. È chiaro che non
incidi in una prospettiva palingenetica, di rivoluzione, ma cambi di un grado
la tua vita, la vita dei tuoi compagni più o meno per caso, di chi ti sta
vicino e lavora con te. Il nemico deve essere la rinuncia preventiva. Una
valanga di gente non ci prova nemmeno. Il successo è nel fare le cose, nel dire
di no, non nell’ottenere qualcos’altro.
Ma può naturalmente trattarsi di
un’esperienza onerosissima, che si espone al rischio di fagocitare l’intera
vita. Come ai rischi della setta, della tribù ipermorale. Quelli che Luca
Rastello ha giustamente denunciato ne I
buoni. Per chi cerca felicità lievi
non è dunque esattamente la cosa più interessante o attraente del mondo. Però
l’impressione è che oggi di felicità leggere non ce ne siano poi tante in giro.
Adattarsi
e mandare giù bocconi amari, fare finta che tutto vada bene, credere che
resistere non serva a niente, o che il mondo si riduca al perimetro del tuo
muso fotografato senza tregua con uno smartphone, come in una roulette russa,
non costa meno, semmai più fatica che dire di no. Ecco, questa forse è una
possibile conclusione incoraggiante per i cacciatori di felicità: la fatica che
comporta creare luoghi comuni di umanità è spesso inferiore a quella di stare
al mondo perennemente spaccati tra i no che desidereremmo dire e i sì che,
nostro malgrado, ci escono di bocca.