Pubblichiamo con
piacere la sintesi, fatta da un amico di Circolarmente, Elvio Balboni, del
saggio di Enrico Donaggio (docente universitario presso la Facoltà di Filosofia
di Torino che contiamo di avere come futuro relatore) dal titolo “Direi di no”.
In tempi di campagna referendaria può sembrare un invito a schierarsi per il
NO, ma così non è. Si tratta di una riflessione a cavallo fra filosofia e
letteratura sulla necessità di opporsi alla tante ingiustizie del nostro tempo.
Se poi qualche lettore troverà ragioni per orientare la sua personale scelta
referendaria in un senso coerente al titolo non crediamo che la cosa possa
dispiacere allo stesso Donaggio
Direi di no
desideri di migliori libertà
saggio di
Enrico Donaggio (Feltrinelli - Giugno 2016)
Sintesi, accompagnata da qualche
riflessione, per un invito alla lettura integrale
a cura di Elvio Balboni
Viviamo in un mondo politico, la pietà scaraventata
a mare, la vita è un riflesso, la morte una maschera, ogni banca una
cattedrale.
Viviamo in un mondo politico, l'unico a
portata di mano è bene ordinato, non ha responsabili tocca crederci e ci
crediamo.
Viviamo in un mondo politico, appena svegli
ci trasciniamo, cerchiamo l'uscita più comoda, poi restiamo dove stiamo.
Mondo
politico - Bob
Dylan (traduzione di Francesco De Gregori)
L’autore ha la
capacità di sorprendere, non si tratta di un corposo saggio filosofico, quello che
si potrebbe attendere dal docente di filosofia dell’università di Torino,
invece nessuna pesantezza, neppure una nota a piè di pagina, la lettura scorre,
ci prende, ci porta via una giornata, restituita con un più di leggerezza e
consistenza nell’affrontare la nostra vita quotidiana.
Lo stupore si
attenua per chi ha avuto modo di seguire qualche suo corso, Donaggio non si
limita alla tradizionale lezione frontale, coinvolge gli studenti con
relazioni, le sue lezioni si svolgono in orari frequentabili anche da
lavoratori-studenti, promuove seminari interdisciplinari con altri docenti, stimola
la lettura degli scritti più interessanti e forse meno conosciuti dei
"maestri del pensiero".
Forte è la
provocazione, resa esplicita nella domanda: Desidera ancora qualcosa? Che dà il titolo alla quarta ed ultima parte
del libro, insomma una domanda che cela un grido d’allarme: ci riteniamo così
felici e soddisfatti al punto da non provare più desideri autentici? Oppure i
nostri desideri sono diventati così mediocri da poter essere soddisfatti senza
particolare dispendio?
L’autore
avverte il pericolo della scomparsa di un tipo di uomo poliedrico, irretito
dentro un'unica dimensione, quella economica, che produce felicità sempre più effimere.
Centocinquanta
pagine che mettono le nostre opinioni consolidate spalle al muro, che fanno
risuonare il rock di I can't get no satisfaction affiancato ad una
forte “passione
per il reale”, espressione ripresa
dal filosofo francese Alain Badiou, per lasciarsi alle spalle la
contrapposizione tra passione e ragione, e per mettere in tensione il polo
dell’utopia e quello del disincanto.
Che fare? Re-agire! Reagire
contro i tempi dello scoramento e dell’apatia, della delusione e
dell’impotenza, della servitù volontaria e dell’assoggettamento, del nuovo
furore dei crociati di tutte le religioni e dell’illimitata avidità di
ricchezza e di potere.
Risentire almeno il
desiderio di dire NO, no al pensiero unico, riassaporare il gusto della
critica per non “inchinarsi
davanti al fatto, per non accettare quello che esiste come il proprio ideale” ribellarsi alla realtà
non più contestabile della globalizzazione liberista espressa dall’acronimo
femminile TINA (there is not alternative) non c’è alternativa
anche se non è il migliore dei mondi possibili.
Tina
ci accompagna nel viaggio di una vita povera di legami sociali, trascorsa come divertissement,
da una distrazione all’altra, dai centri commerciali alle notti della movida,
dalle pagine virtuali di Facebook colme di selfie narcisisti, ai giochi
compulsivi dei nuovi cacciatori con Pokemon go.
Ma come è avvenuto
tutto ciò? Cosa è successo? A quale seduzione abbiamo ceduto?
E’ accaduto qualcosa
di sbalorditivo, che continuamente
torna a ripetersi non solo in occasione degli EXPO’ ma tutte le volte che il
consumatore medio, entrato in un moderno super-mercato del pianeta, percorre
quelle gallerie dove trova una quantità infinita di merci, esposte dietro alle
moderne lastre di vetro inaugurate nella Parigi dei passages di metà
ottocento, dove l’oscuro oggetto del desiderio diventa letteralmente
trasparente, a portata di mano, anche per quelle tasche che non possono
permettersi di acquistarlo.
Per lo più l’esodo
avviene di domenica, ormai consacrata al pellegrinaggio nei nuovi templi con sacerdoti
mondani, i commessi, sempre disponibili e sottopagati; altri acquirenti, soprattutto
i giovani inclini al software, acquistano on-line e a breve riceveranno la
merce che verrà recapitata da un drone, sempre da Amazon.
(La sola Walmart,
transnazionale super-market statunitense, conta 11.000 sedi in 15 nazioni,
oltre due milioni di dipendenti e un fatturato di circa 450 miliardi di
dollari, cioè superiore al PIL di oltre 150 paesi)
L’evento che diede
inizio a tutto questo, avvenne a Londra,
al Crystal Palace, il palazzo di cristallo costruito per l’esposizione
universale del 1851, e lì ripetuta nel 1862, destando una impressione enorme
allo sguardo profondo e psicologico di Dostoevskij: “lì si raduna una folla sterminata e trionfante, giunta da ogni
parte del globo, attratta da qualcosa di sbalorditivo, da una forza
irresistibile … tante piccole statuette, nuovi falsi dei che sostituiscono il
dio Baal (l’antico dio fenicio della fertilità) e come
un unico gregge essi si rannicchiano e rimpiccioliscono e al moderno Baal, il
dio sostituto, si inchinano” (Baal,
Note invernali di impressioni estive,1863).
Questi falsi dei,
queste piccole statuette, sono le moderne merci della società industriale, del
consumismo e dell’opulenza, la loro forza irresistibile viene descritta da Marx
come “feticcio, cosa
imbrogliatissima, fatta di materia sensibilmente sovrasensibile, piena di
sottigliezze metafisiche” singola merce che costituisce la cellula
elementare della moderna ricchezza “la
ricchezza si presenta nella società capitalistica come una immane raccolta di
merci”
(celebre incipit del Capitale, 1867)
Il pensiero critico
e maturo del rivoluzionario di Treviri e la cultura “conservatrice” del grande romanziere
russo, si uniscono nella denuncia del bagliore accecante dei nuovi idoli, capaci
di richiamare nella sconfinata e colossale London (capitale mondiale allora ed
anche oggi con i suoi 250 grattacieli e la Borsa) un incalcolabile numero di
persone giunte da ogni parte del mondo, riunite in un unico ideale in cui tutti vivono soddisfatti, o meglio:
in cui tutti quanti si sforzano di convincersi di essere soddisfatti ed
effettivamente felici … e li si son
fermati, tutto è fermo, tutto è come deve essere … soggiogati da un unico pensiero … lì si sta realizzando qualcosa di definitivo”.
Note, queste di
Dostoevskij, che esprimono concetti come “fine della storia e l’ultimo uomo”, banalizzati nel
best seller di Francis Fukuyama, apparso dopo il 1989, dopo il crollo del
comunismo reale, che fa una apologia del migliore dei mondi possibili, quello
moderno del capitalismo globale, “non
possiamo raffigurarci un mondo che sia essenzialmente diverso da quello attuale” , abitato dall’ homo
democraticus, sostanzialmente privo di memoria e speranza, soddisfatto quel
tanto che basta per assopire qualsiasi virtù timotica, che non attua nessuna
denuncia delle disuguaglianze e delle contraddizioni, né immaginazione, né
ribellione, che al massimo tenta di limitare i “danni collaterali”.
I contrasti
laceranti della società, gli uni accanto agli altri, è come se appartenessero
ad un passato remoto, come se non continuassero a ripetersi nelle moderne
megalopoli, da Città del Messico a Mumbai, da Rio de Janeiro a Dubai, milioni
di cloni di quei “negri bianchi” ammassati nel formicaio in quei quartieri
terribili della city di metà ottocento, homeless che continuano a vagabondare
negli slums e nelle favelas di oggi “una
moltitudini, ubriaca, senza allegria, cupa e silenziosa … avida di preda, che
si getta con cinismo sul primo che capita … in una London dall’aria pregna di carbon fossile, con il Tamigi
inquinato, in un apparente disordine che in sostanza è invece l’ordine
borghese”.
A Dubai, simbolo
della sfida tecnologica sito in un luogo invivibile, temperature da 50 gradi di
calore a meno 40, dove sorge il grattacielo più alto del mondo, il 90% dei
residenti sono lavoratori stranieri per la maggior parte ridotti in schiavitù; ed
anche in città con disparità certamente meno accentuate e vistose, come la
nostra Torino, le nuove povertà, insieme alle quasi povertà, sfiorano il 10%
degli abitanti (dati Caritas) e la speranza di vita si differenzia tra i
residenti della periferia con quelli del centro con un meno 7 anni (fonte Iistat).
Così un secolo e
mezzo dopo la “schiavitù
nera e quella salariale” (ovvero l’ordine borghese, o ordo-liberalismo,
o neo-liberismo, o “nuova ragione del mondo”) continua a mietere le sue vittime,
fra le tante:
·
due
turni consecutivi di 8 ore alla Foxon cinese, oltre un milione di dipendenti,
per assemblare i componenti Apple, luci accecanti per tenerli svegli, reti di
protezione fuori dalle finestre per limitare i non pochi casi di suicidio;
·
piuttosto
che le condizioni massacranti di vita e lavoro dei minatori in Senegal per
estrarre il colton indispensabile per cellulari e computer;
·
piuttosto
che la brutale repressione dei minatori in sciopero nella miniera di platino a
Marikana – Johannesburg, là dove, il 16 agosto 2012, la polizia spara ai
minatori partecipanti ad una manifestazione causando 34 morti, all’indomani di
questo eccidio la multinazionale inglese Lonmin concederà 75 euro di aumento
mensili anziché i 500 richiesti, così i minatori superstiti, in cambio di un
lavoro massacrante, riscuoteranno una paga di 575 euro al mese.
Le altre forme che
assume il lavoro sono: delocalizzazione, riduzione del salario reale e del
reddito delle piccole impresa, imprese tascabili, partite IVA, realtà formalmente
autonome ma spesso soggette a condizioni capestro, prive di leggi che
regolamentino la sub-fornitura e i tempi di pagamento: dilaga così,
inevitabilmente, la corruzione e l’evasione fiscale.
Piuttosto che contratti
a termine, a chiamata, tutte realtà con minori diritti, minori tutele e scarse
risorse finanziarie.
E’ così arrivato “il quinto stato” dove “l’imprenditore di se stesso” anziché realizzarsi
si scopre in altre forme sottomesso, dove i pochissimi personaggi che arrivano
al successo si contano con le dita di poche mani, e sono quasi tutti figli
delle elites.
Le disuguaglianze di
reddito e patrimoni sono tornate ad essere quelle di inizio novecento, a tutti
i livelli, in ogni luogo del pianeta:
·
il
due/terzi della popolazione mondiale possiede il 3% della ricchezza totale,
mentre l’8% ne possiede più del 80%, in questo solo dato si incarna la società
dell’opulenza;
·
il
40% della popolazione mondiale vive con un solo dollaro al giorno, mentre lo
0,7% più ricco, circa 35 milioni di persone, si accaparra il 41% della
ricchezza totale cioè 99 trilioni di dollari (dati centro studi Credit Suisse
al 2012).
Una realtà sociale in stridente antitesi con il
primo articolo della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”
della rivoluzione francese: “le distinzioni sociali non possono che
fondarsi sull’utilità comune” Parigi 1789.
Donaggio non si
dilunga sui dati sopra riportati ed i riferimenti alle innumerevoli metafore
sono stringati, percorre a volo radente gli aspetti più vivi dei grandi
pensatori, i quali, come abbiamo visto, avevano ben presente le condizione
materiali di vita della classe operaia e del popolo, parte dalla necessità di
ridefinire i concetti di “critica” e di “libero pensiero” .
Nel primo capitolo
dal titolo "Pietà per i
mostri" invita a non separare l’indispensabile
coerenza critica dalla necessaria pietas nei confronti di coloro che praticano,
o subiscono, le ideologie dominanti, perché così facendo si cadrebbe nell’errore
più grave: una divisione manichea tra bene e male, ma al tempo stesso sollecita
a non limitarsi al "tutti
hanno il diritto alle proprie opinioni" che rivela una tolleranza ipocrita
dietro la quale si celano conformismo e indifferenza.
“Critica“ è senza dubbio l'espressione più
usata da Karl Marx, sin dai primi scritti sulla filosofia del diritto di Hegel,
(la “Sacra famiglia”, scritta con Engels, ha come sottotitolo “Critica
della critica critica”, nel 1859 pubblica “Per
la critica dell'economia politica” ,la sua opera più
famosa, “Das Capital”, nel sottotitolo
specifica nuovamente “Critica dell'economia politica”.
Donaggio,
nell’esaminare gli scritti giovanili di Marx, sottolinea che "il suo pathos essenziale è l'indignazione,
il suo compito essenziale è la denuncia" e precisa "la critica non è la passione del
cervello, è il cervello della passione": dal pathos al logos.
Come primo step,
pone quindi l'accento sulla critica che Marx rivolge alla religione il "presupposto di ogni critica”, essa rivela che il
mondo in cui viviamo è un mondo capovolto, nel quale sono le cose che dominano
gli uomini, è il capitale che li comanda, non si tratta di un mondo naturale, è
un mondo politico, con le sue relazioni sociali e istituzionali e la storicità
dei suoi modi di produzione.
La religione da un
lato è la coscienza capovolta di questo mondo, gli uomini vivono a testa in giù
con dentro idee false, falsi idoli e dogmi superstiziosi, promesse di salvezza
nell'al di là per compensare una vita di sacrifici e sopportazioni, per altro
verso è "religione della
vita quotidiana"
dove i concetti di alienazione e feticismo rivelano una sottomissione non più a
Dio, ma agli stessi oggetti creati dalla mano dell'uomo, le moderne statuette
sostituti del dio Baal.
Non basta cambiare
le coscienze, esse sono il riflesso di un mondo capovolto che genera il bisogno
di oppio, che produce le religioni.
Ciò che conta è
cambiare il mondo, non solo interpretarlo come fino ad ora hanno
fatto i filosofi,
occorre una forza materiale che susciti la partecipazione delle masse, una
passione per il reale capace
di far agire le armi della critica con la stessa potenza della critica delle
armi, in modo tale che la critica delle armi sia l'ultima delle possibili
scelte, un pensiero radicale memore che "la radice per l'uomo è l'uomo stesso".
Secondo step: il libero
pensiero, l’emancipazione kantiana, la fuoriuscita dallo stato di minorità che
l’uomo deve imputare a se stesso, senza la guida di un altro, autorità o
tradizione, sono ciò che si deve intendere per “Illuminismo”: pensare con la propria testa, tenere la schiena
dritta.
Terzo step: il
rifiuto a considerare il reale come ciò che appare nella sua struttura
immediata e quotidiana, occorre andare oltre il determinismo economico per cogliere
"il disagio della civiltà", sulle orme di Freud, ossia il “remoto segreto”, ma senza illuderci,
ricadendoci, né con il “sol
dell’avvenire”
né con “le magnifiche e
progressive sorti” poiché “la storia non lavora più per noi”, consapevolezza già colta da Pasolini nella
bellissima poesia “le
ceneri di Gramsci”
e nella critica all’idea di progresso raffigurata nell’angelo della storia di
Walter Benjamin.
Il secondo capitolo Da
lontano nessuno è normale rovescia la nota frase dello psichiatra
Basaglia “visto da vicino nessuno è normale”, che potete trovare
scritta sul muro salendo la scala di ingresso del Caffè Basaglia, circolo ARCI
di Torino, luogo di interessanti occasioni culturali e conviviali.
La distanza dagli
accadimenti fu necessaria per l’avvio della riflessione filosofica.
Oggi è ancora possibile
osservare il naufragio, metafora del tumulto storico, dalla terra ferma sulla
quale poggiano i piedi ben saldi (episteme) di Lucrezio, forte della filosofia
di Epicuro? Non siamo ormai tutti dentro la stessa barca?
Esposti alle
intemperie in mare aperto come esplicita Pascal?
Nel pianeta non vi
sono più luoghi incontaminati, irraggiungibili, sconosciuti, immuni da altri
accadimenti, tutti siamo coinvolti in tutto ed è sempre più difficile
raggiungere un porto sicuro dove fermarsi per riparare la nave.
Possiamo limitarci a
interpretare il mondo senza porci l’obiettivo di cambiarlo?
Non corriamo così il
pericolo che il mondo continui a cambiare senza di noi? Senza la presenza in
esso della specie umana?
E per converso una
simile lontananza non ci preclude una comprensione autentica degli accadimenti
relegandoci nella torre d’avorio del distacco intellettuale?
La lettura di questa
seconda parte fa sorgere un flusso continuo di domande, non vi anticipo i contenuti, vi lascio alla piacevole
lettura.
Nella terza parte, la
sindrome di Montecristo, Donaggio mette in evidenza il
fatto che tutti viviamo come se ci trovassimo rinchiusi dentro ad una unica
fortezza, prigione e gabbia, le cui pareti sono però diventate fluide e avvolgenti
consentendo una prigionia confortante, metafora di una società nella quale più
trascorre il tempo della nostra presenza in essa, più diventa difficile
scorgere una via di fuga.
Il racconto cui si
fa riferimento e da cui trae spunto è “Il conte di Montecristo” , però non quello originario di Dumas, ma quello,
assai breve, rivisitato da Italo Calvino: in esso Edmond Dantes e l’abate Faria escogitano
differenti ed opposte strategie di evasione, contrapponendo razionalità
esasperata e prassi ostinata, due vie di uscita alternative ma nel contempo tra
di esse coessenziali in un intrigante rapporto per riuscire a lasciarsi alle
spalle la fortezza di IF, sita nella baia di Marsiglia, a poca
distanza da quelle meravigliose Calanques, luoghi di una arrampicata plasir
immersi nella splendida natura mediterranea.
Questa voglia di
riscatto, di libertà, di ricchezza di vita, simbolo di una società priva di
muri e ricca di tesori nascosti e di nuove opportunità, finirà per rovesciarsi nel
fallimento del socialismo reale, nel progressivo spegnersi della spinta
propulsiva fino al suo inevitabile crollo: “è questa l’ossessione di chi si è considerato di sinistra, …
dalla presa della Bastiglia alla caduta del muro di Berlino.”
Nel breve racconto
di George Steiner “Il correttore” si svolge un intenso dialogo
tra alcuni compagni italiani, prima nel P.C.I. poi espulsi perché accusati di
troskismo e anarchismo, capaci però di cogliere l’essenza nefasta e suicida del
socialismo reale.
Padre Carlo, l’unico
prete tra i compagni della cellula e Tullio, il correttore di bozze dalla cura maniacale
per correggere gli errori, detto il Professore, non si arrendono all’idea che
una gloriosa storia di lotte degli oppressi, una storia di sconfitte riscattate
dalla rivoluzione, di tante vite spese per il nobile ideale di “liberi tutti, qui ed ora“, si sia rovesciato in
tragedia per milioni di persone.
Come è potuto
accadere? Perché?
Carlo si aggrappa al
messaggio di Cristo, al senso delle sconfitte legato al millenarismo, al futuro
riscatto, alla redenzione, una escatologia cristiana e proletaria, la nuova
Gerusalemme sempre posticipata “nell’indomani,
dopo l’indomani di domani”.
Tullio lo interrompe
tagliente: “sai che cos’è
realmente il socialismo? E’ impazienza. Impazienza. Ecco cosa è il socialismo,
la furia dell’adesso”.
Volere la
liberazione dell’uomo e la realizzazione del socialismo ad ogni costo, pensare
l’utopia come perfezione, impone una sorta di assurda ortopedia: pretendere di raddrizzare quel legno
storto che è l’uomo con la violenza.
Per anni non si
seppe che nella Cina di Mao per superare la produzione dell’acciaio inglese i
passeri divennero i nuovi nemici di classe: con l’obiettivo di incrementare il
raccolto agricolo per sfamare i lavoratori dell’industria furono infatti sterminati
milioni di passeri, ma così facendo si diede spazio al riprodursi di altri
animali ed insetti ancor più nocivi per il raccolto ed in pochi anni circa
trenta milioni di cinesi morirono di carestia.
Queste
argomentazioni di “Direi di no,” si rivolgono contro tutte le forme di
asservimento e di sfruttamento e contro le scorciatoie che eliminano le
libertà, mettono in guardia dai dogmi che si celano sotto le vesti del
missionario o del rivoluzionario di professione, entrambi auto-proclamati liberatori di noi tutti in
realtà coltivano la morale del gregge.
L’espressione Direi
di no,
me ne ha immediatamente ricordata un'altra, “i would prefer not to” avrei preferenza di
no.
Questo è il modo,
secondo alcuni critici, un po’ manierato e laconico, di Bartleby (Bartleby
lo scrivano
di Herman Melville, lo scrittore conosciuto per il celebre romanzo “Moby Dick”)
di declinare tutti gli inviti a lui rivolti dall’avvocato per il quale lavora
per svolgere lavori d’ufficio che non si scostano “dall’usuale pratica di un
copista e dal comune buon senso”.
Si tratta solo un
formale manierismo? O piuttosto, come sostengono altre interpretazioni, un mite,
ma risoluto e irrevocabile NO? Oppure ancora nasconde un energia potenziale che
si esprime con maggior forza nel silenzio anziché nella parola o nella
scrittura?
Per Bartleby pare
non esistere più alcuna possibilità di salvezza, appena dietro al suo luogo di
lavoro, come dietro lì l’ufficio” di ciascuno, non vi è che l’immagine di un
deserto, solitudine, atomismo e desolazione, sono gli effetti dell’utilitarismo
economico che prosciuga e dissolve i legami sociali da ogni linfa vitale.
Questa inerzia,
questo riserbo, è ciò che l’utilitarismo considera il male del mondo, la non
immediata disponibilità, le pause, l’ozio, la vita senza scopo produttivo, il
pensiero che riposa silenziosamente in noi.
Il rifiuto di
Bartleby è un amara decisione, esprime la volontà di preservare la nostra
irriducibile individualità dall’uniformità dei deserti, che incontriamo appena
fuori mettiamo il naso fuori dal nostro ufficio, una società che si rivela
sempre più insensata, nella quale finiamo per condurre una vita appiattita
sulla dimensione economica, abitudinaria, banale, ripetitiva, piatta,
inconsistente.
E’ nei confronti di
questa non-vita che Ismahel in Moby Dick sceglie, per netta opposizione, una
vita avventurosa, imbarcandosi sulla Pequod alla scoperta del globo
terracqueo per scacciare lo spleen , la noia, la
malinconia e l’umor nero.
Invece per l’anima
sofferente dello scrivano Bartleby non rimane che il ritiro dal mondo e dalla
vita, con imperturbabile dignità.
La sesta ed ultima
delle sei lezioni previste per l’università di Harvard, le Lezioni americane, Italo Calvino, non poté tenerla per
l’improvvisa morte, il titolo previsto era Consistenza, sappiamo
che avrebbe fatto riferimento a Bartleby.
E’ la mancanza di consistenza che accomuna i
reiterati “avrei preferenza di no” di Bartleby e il direi di no a questa situazione, per puntare a migliori
libertà, di Donaggio.
Italo Calvino
propone, nel ciclo delle Lezioni
Americane,
soprattutto due opzioni culturali: leggerezza e consistenza, la prima e l’ultima
delle sei riflessioni magistrali.
La leggerezza del
volo di Perseo contro l’insostenibile peso dell’esistenza, la capacità di non
guardare Medusa in modo diretto ma solo nel riflesso dello scudo, altrimenti ne
rimarremmo pietrificati, così come succede a coloro che idolatrano gli dei,
rappresenta la premessa per un altro approccio al mondo: “devo invece cambiare il mio approccio,
devo guardare il mondo con un'altra ottica, un'altra logica, altri metodi di
conoscenza e di verifica”.
Non farsi
schiacciare dal peso della materia, questa è la preoccupazione di Lucrezio, gli
atomi invisibili di Epicuro dissolvono la compattezza del mondo, e le loro
declinazioni libere e casuali consentono al Marx della tesi di laurea di
preferirlo al rigido determinismo di Democrito.
Si tratta di una
leggerezza gaia e pensosa, che si associa con la precisione e la
determinazione, e non con la vaghezza e l’abbandono al mero caso, allo stesso
modo della scelta del percorso da seguire e della rapidità del gesto che compie
l’alpinista per sottrarsi alla forza di gravità.
Donaggio nel libro
non fa alcun esplicito riferimento a Bartleby o alle “Lezioni americane” di
Calvino, ma sono evidenti le affinità accompagnate da qualche divergenza,
ritroviamo infatti nel suo argomentare un atteggiamento più risoluto nella
negazione ed una forte critica all’ideologia neo-liberista estesa alle
politiche di austerità, all’inclusione dei pareggi di bilancio nella
costituzione, alle forze politiche di sinistra per la loro subalternità alle
idee dominanti, sia nella versione social-democratica ridotta alla gestione
dell’esistente, sia in quella radicale che però si limita di fatto alla
testimonianza, alla rendita di posizione.
Insomma per entrambe
si può dire: “di rosso soltanto l’ombra”.
La differenza
sostanziale, con l’atteggiamento dello scrivano Barteby, poggia però soprattutto
sulla consapevolezza della necessità di passare da una presa di posizione del
singolo, irrinunciabile nella sua libertà e individualità, alla costruzione di
una presa di posizione collettiva se posso dirla con il filosofo esistenzialista Albert Camus: “mi rivolto, dunque siamo”.
Saremo capaci di
affiancare leggerezza e consistenza alla posizione
critica di Direi di no perché diventi, come
auspicato da Donaggio, un “primo
gesto di autostima”
al quale potranno così seguire dei SI in grado di farci superare quella
condizione malinconica dovuta alla perdita del “sogno di una cosa” , evitando
in tal modo di ricadere sia
nella furia dell’adesso sia
nell’attesa messianica della terra promessa?
Rivoli,
settembre 2016.
Elvio Balboni
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