lunedì 24 ottobre 2016

Commenti a margine del seminario: "Declinazioni dell'infinito nell'arte Moderna e Contemporanea" 
tenuto dal Prof. Valter Aloviso.
(sintesi di Enrica Gallo)


Porsi come meta del percorso le declinazioni dell’infinito nell’arte moderna e contemporanea - pur attraverso un sentiero già predisposto come quello allestito dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino - è certo impresa non semplice, a meno di non poter contare su di una guida d’eccezione come Walter Alovisio, che ha messo a disposizione la passione e la competenza che gli derivano dal suo essere artista e insieme insegnante e studioso in un seminario propedeutico alla visita vera e propria, inteso a creare la possibilità di un riconoscimento foriero di un più fecondo incontro con le opere esposte.
Con una scelta preliminare che non ha temuto di sacrificare la completezza e l’orizzontalità del percorso per entrare in profondità su alcuni temi e autori, il nostro relatore ha voluto far precedere all’ingresso virtuale nelle varie stanze della mostra un’introduzione atta a prepararci, attraverso un forte impatto emotivo e concettuale, all’incontro con un mondo artistico che intrattiene col tema dell’infinito un rapporto di continua interrogazione. Un breve “Prologo” in cui siamo passati dall’ambigua figura femminile sospesa fra terra e cielo dipinta da Magritte nel 1945 (“Black Magic”), che rende magistralmente l‘idea di un infinito che non deve risolversi in pura speculazione e in cui davvero i vuoti possano essere legati e i pieni slegati - come recita il titolo che il relatore ha scelto per il seminario - perché dentro di noi cielo e terra, pieni e vuoti coesistono e trapassano gli uni agli altri, per fermare poi la nostra attenzione sul simbolo matematico dell’infinito, quel doppio occhiello  individuato da John Walls nel 1655 (ma presente già come simbolo nei capitelli di  molte chiese romaniche) che può essere percorso senza fine  rappresentando l’andare e venire del tempo; ci siamo immersi nella palpitante visione di memoria della “Notte Stellata” di Van Gogh, in cui i fasci di luce splendenti vorticano nel cielo dando vita ad un’idea di infinito come eterno movimento, per porci poi di fronte alla dolente e quasi sovrumana bellezza della “Pietà Rondanini”, l’opera incompiuta  di Michelangelo in cui il non-finito diventa un infinito aperto, teso verso Dio. E così, attraverso l’emozione e l’intelligenza delle immagini scelte dal relatore, siamo entrati nel tema della mostra, accompagnati dai versi di Dino Campana (“Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte abbiamo gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità?”) e dal ricordo dell’infinito leopardiano, su tutto risonante.

PRIMA STANZA: L’INFINITO NELL’ESTETICA ROMANTICA
Rinforzati nella consapevolezza dell’esperienza artistica come domanda sul senso del nostro essere nel mondo, creature finite che aspirano all’infinito, siamo entrati virtualmente nella prima stanza in cui la nostra guida ha scelto di farci confrontare con due interpreti piemontesi della sensibilità romantica, declinata intorno alla metà dell’ottocento in chiave paesaggistica: Carlo Piacenza (“Il temporale”) e Francesco Gonin (“La rocca di Sapay presso Viù”). Artisti minori, certo, rispetto alla grande pittura romantica che ha trovato nel tedesco  Caspar David Friedrich (“Il monaco sulla spiaggia”, “Viandante sul mare di nebbia”, per citare alcune delle sue opere più note) una delle più compiute espressioni di una poetica che ponendo l’uomo nella sua fragile finitudine rispetto ad una natura grandiosa e potente privilegia il sublime sul bello, creando nello spettatore un senso di sgomento, secondo i principi  espressi filosoficamente da Edmund Burke  (ripresi poi  da Kant nella “Critica del Giudizio”).
                                                                  
SECONDA STANZA: INFINITE COMBINAZIONI E VALENZE DEL COLORE
In questa seconda stanza, intesa a farci ripercorrere il novecento e le avanguardie in un’ottica nazionale, abbiamo potuto apprezzare una metodologia di presentazione volta a far dialogare fra loro autori diversi, offrendoci un panorama sfaccettato e mosso e dando così una maggiore intensità relazionale all’incontro con gli artisti. Abbiamo infatti visto a confronto Giuseppe Pellizza da Volpedo con Piero Dorazio: l’uno che mette a sintesi, ne “Lo specchio della vita” del 1889, l’impianto ancora naturalistico con la ricerca analitica ottenuta attraverso il cosiddetto “divisionismo”, in cui il colore invece di mescolarsi  si spezzetta in linee e punti per ottenere una particolare luminosità; l’altro che a partire dal dopoguerra, seguendo una linea radicalmente diversa dal realismo socialista di un Guttuso, si fa alfiere di una pittura che rifiuta la figurazione esprimendosi invece in una ricerca di tessiture quasi monocromatiche, oppure intrecciate di fili diversi di colore che acquistano così un particolare risalto in luce e  movimento.
 E ancora, nella ricerca di un assoluto artistico quasi privo di forme materiali o comunque profondamente originale nel suo disporle, abbiamo potuto vedere alcune opere di Yves Klein, che negli anni 50 abbandona gli schemi visivi per ricercare, attraverso una nuova tecnica di fissazione dei pigmenti, la profondità e l’essenza del colore (in particolare, di un “blu oltremare” che colora le tele, si spande sui corpi lasciando su di essi tracce d’ infinito, respira nelle spugne imbevute, si staglia sul puro oro coprendo i calchi di gesso di figure amicali…) in un percorso artistico che rappresenta davvero, secondo il nostro relatore, un salto nell’idea metafisica di un vuoto che possa esistere al di là di ogni nostra rappresentazione;  a dialogare con lui Ettore Spalletti, un artista che si è proposto, a partire dagli anni settanta, di solcare i confini della pittura e della scultura creando, con linee semplici ma di grande effetto plastico, installazioni che si staccano dalle pareti immergendosi nel vuoto della sala, ricercando a sua volta una bellezza metafisica  attraverso la rarefazione di tessiture monocromatiche, giocate fra gli azzurri che ovunque ci avvolgono anche se non possiamo toccarli, i rosa dell’incarnato che muta a seconda degli stati d’animo, i grigi  dell’accoglienza in cui tutto può sostare…

TERZA STANZA: MANCANZA DI CONFINI
Nella terza stanza lo smarrimento leopardiano di fronte all’infinito ha fatto da sfondo alla dimensione dell’oltre che la abita. Qui la nostra guida ci ha fatto incontrare Giulio Paolini, un artista torinese che è stato ed è tuttora uno dei maggiori esponenti della cosiddetta “arte concettuale”: una definizione, questa, certo ambigua perché tutta l’arte lo è, atta nondimeno a dare il senso di una ricerca che non si appunta sulla produzione di oggetti ma è invece intesa a suscitare una riflessione sull’arte stessa; un metalinguaggio che comporta nel suo caso uno sfondamento della prospettiva, un rispecchiamento degli sguardi (“Ritratto di giovane" di Lorenzo Lotto), un interrogarsi come di fronte ad un oracolo (“Delfo”), operando una rottura degli schemi tradizionali non diversa da quella che Pirandello ha prodotto a sua volta con i “Sei personaggi in cerca d’autore” e destinata pertanto a provocare uno spaesamento, come tutto ciò che costringe lo spettatore ad entrare in gioco uscendo dalla finzione. Un’impossibilità della rappresentazione artistica che non comporta ovviamente la fine della ricerca stessa, di cui il nostro relatore ha segnalato un altro momento importante avvenuto negli anni 50 con i gesti provocatori di Lucio Fontana, che imprimendo nelle sue tele monocromatiche buchi, ferite e tagli  ha inteso far dialogare il dentro e il fuori, lasciando entrare lo spazio nella tela e creando a sua volta una sensazione di infinito.  

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