Commenti a margine del seminario: "Declinazioni dell'infinito nell'arte Moderna e Contemporanea"
tenuto dal Prof. Valter Aloviso.
(sintesi di Enrica Gallo)
Porsi come meta del percorso le declinazioni
dell’infinito nell’arte moderna e contemporanea - pur attraverso un sentiero
già predisposto come quello allestito dalla Galleria d’Arte Moderna di Torino -
è certo impresa non semplice, a meno di non poter contare su di una guida
d’eccezione come Walter Alovisio, che ha messo a disposizione la passione e la
competenza che gli derivano dal suo essere artista e insieme insegnante e studioso
in un seminario propedeutico alla visita vera e propria, inteso a creare la
possibilità di un riconoscimento foriero di un più fecondo incontro con le
opere esposte.
Con una scelta preliminare che non ha temuto di
sacrificare la completezza e l’orizzontalità del percorso per entrare in
profondità su alcuni temi e autori, il nostro relatore ha voluto far precedere
all’ingresso virtuale nelle varie stanze della mostra un’introduzione atta a
prepararci, attraverso un forte impatto emotivo e concettuale, all’incontro con
un mondo artistico che intrattiene col tema dell’infinito un rapporto di
continua interrogazione. Un breve “Prologo” in cui siamo passati dall’ambigua
figura femminile sospesa fra terra e cielo dipinta da Magritte nel 1945 (“Black Magic”), che rende magistralmente
l‘idea di un infinito che non deve risolversi in pura speculazione e in cui
davvero i vuoti possano essere legati e i pieni slegati - come recita il titolo
che il relatore ha scelto per il seminario - perché dentro di noi cielo e terra,
pieni e vuoti coesistono e trapassano gli uni agli altri, per fermare poi la
nostra attenzione sul simbolo matematico dell’infinito, quel doppio
occhiello individuato da John Walls nel
1655 (ma presente già come simbolo nei capitelli di molte chiese romaniche) che può essere
percorso senza fine rappresentando
l’andare e venire del tempo; ci siamo immersi nella palpitante visione di
memoria della “Notte Stellata” di Van
Gogh, in cui i fasci di luce splendenti vorticano nel cielo dando vita ad
un’idea di infinito come eterno movimento, per porci poi di fronte alla dolente
e quasi sovrumana bellezza della “Pietà
Rondanini”, l’opera incompiuta di Michelangelo
in cui il non-finito diventa un infinito aperto, teso verso Dio. E così,
attraverso l’emozione e l’intelligenza delle immagini scelte dal relatore,
siamo entrati nel tema della mostra, accompagnati dai versi di Dino Campana (“Qual ponte, muti chiedemmo, qual ponte
abbiamo gettato sull’infinito, che tutto ci appare ombra di eternità?”) e
dal ricordo dell’infinito leopardiano, su tutto risonante.
PRIMA STANZA: L’INFINITO NELL’ESTETICA ROMANTICA
Rinforzati nella consapevolezza dell’esperienza
artistica come domanda sul senso del nostro essere nel mondo, creature finite
che aspirano all’infinito, siamo entrati virtualmente nella prima stanza in cui
la nostra guida ha scelto di farci confrontare con due interpreti piemontesi
della sensibilità romantica, declinata intorno alla metà dell’ottocento in
chiave paesaggistica: Carlo Piacenza (“Il
temporale”) e Francesco Gonin (“La
rocca di Sapay presso Viù”). Artisti minori, certo, rispetto alla grande
pittura romantica che ha trovato nel tedesco
Caspar David Friedrich (“Il monaco
sulla spiaggia”, “Viandante sul mare
di nebbia”, per citare alcune delle sue opere più note) una delle più
compiute espressioni di una poetica che ponendo l’uomo nella sua fragile
finitudine rispetto ad una natura grandiosa e potente privilegia il sublime sul
bello, creando nello spettatore un senso di sgomento, secondo i principi espressi filosoficamente da Edmund Burke (ripresi poi
da Kant nella “Critica del
Giudizio”).
SECONDA STANZA: INFINITE COMBINAZIONI E VALENZE DEL
COLORE
In questa seconda stanza, intesa a farci
ripercorrere il novecento e le avanguardie in un’ottica nazionale, abbiamo
potuto apprezzare una metodologia di presentazione volta a far dialogare fra
loro autori diversi, offrendoci un panorama sfaccettato e mosso e dando così
una maggiore intensità relazionale all’incontro con gli artisti. Abbiamo
infatti visto a confronto Giuseppe Pellizza da Volpedo con Piero Dorazio: l’uno
che mette a sintesi, ne “Lo specchio
della vita” del 1889, l’impianto ancora naturalistico con la ricerca
analitica ottenuta attraverso il cosiddetto “divisionismo”, in cui il colore
invece di mescolarsi si spezzetta in
linee e punti per ottenere una particolare luminosità; l’altro che a partire
dal dopoguerra, seguendo una linea radicalmente diversa dal realismo socialista
di un Guttuso, si fa alfiere di una pittura che rifiuta la figurazione
esprimendosi invece in una ricerca di tessiture quasi monocromatiche, oppure
intrecciate di fili diversi di colore che acquistano così un particolare
risalto in luce e movimento.
E ancora,
nella ricerca di un assoluto artistico quasi privo di forme materiali o
comunque profondamente originale nel suo disporle, abbiamo potuto vedere alcune
opere di Yves Klein, che negli anni 50 abbandona gli schemi visivi per
ricercare, attraverso una nuova tecnica di fissazione dei pigmenti, la
profondità e l’essenza del colore (in particolare, di un “blu oltremare” che colora le tele, si spande sui corpi lasciando su
di essi tracce d’ infinito, respira nelle spugne imbevute, si staglia sul puro
oro coprendo i calchi di gesso di figure amicali…) in un percorso artistico che
rappresenta davvero, secondo il nostro relatore, un salto nell’idea metafisica
di un vuoto che possa esistere al di là di ogni nostra rappresentazione; a dialogare con lui Ettore Spalletti, un
artista che si è proposto, a partire dagli anni settanta, di solcare i confini
della pittura e della scultura creando, con linee semplici ma di grande effetto
plastico, installazioni che si staccano dalle pareti immergendosi nel vuoto
della sala, ricercando a sua volta una bellezza metafisica attraverso la rarefazione di tessiture
monocromatiche, giocate fra gli azzurri che ovunque ci avvolgono anche se non
possiamo toccarli, i rosa dell’incarnato che muta a seconda degli stati
d’animo, i grigi dell’accoglienza in cui
tutto può sostare…
TERZA STANZA: MANCANZA DI CONFINI
Nella
terza stanza lo smarrimento leopardiano di fronte all’infinito ha fatto da
sfondo alla dimensione dell’oltre che la abita. Qui la nostra guida ci ha fatto
incontrare Giulio Paolini, un artista torinese che è stato ed è tuttora uno dei
maggiori esponenti della cosiddetta “arte concettuale”: una definizione,
questa, certo ambigua perché tutta l’arte lo è, atta nondimeno a dare il senso
di una ricerca che non si appunta sulla produzione di oggetti ma è invece
intesa a suscitare una riflessione sull’arte stessa; un metalinguaggio che
comporta nel suo caso uno sfondamento della prospettiva, un rispecchiamento
degli sguardi (“Ritratto di giovane" di Lorenzo Lotto), un interrogarsi come di fronte ad un oracolo
(“Delfo”), operando una rottura degli
schemi tradizionali non diversa da quella che Pirandello ha prodotto a sua
volta con i “Sei personaggi in cerca
d’autore” e destinata pertanto a provocare uno spaesamento, come tutto ciò
che costringe lo spettatore ad entrare in gioco uscendo dalla finzione.
Un’impossibilità della rappresentazione artistica che non comporta ovviamente
la fine della ricerca stessa, di cui il nostro relatore ha segnalato un altro
momento importante avvenuto negli anni 50 con i gesti provocatori di Lucio
Fontana, che imprimendo nelle sue tele monocromatiche buchi, ferite e
tagli ha inteso far dialogare il dentro
e il fuori, lasciando entrare lo spazio nella tela e creando a sua volta una
sensazione di infinito.
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