sabato 8 ottobre 2016

Commento al post "Direi di no" - a cura di Nives Enrietti


In luogo di un commento personale al post “Direi di NO. Desideri di migliori libertà” segnalo l’articolo di Nicolas Martino apparso su “Il Manifesto” del 12/09/2016 come recensione del saggio di Donaggio che propone, anche in forma, guarda caso, critica, ulteriori riflessioni sul tema della necessità di esercizio della critica. La lunghezza dell’articolo ha imposto di pubblicarlo come post a sé stante   Nives Enrietti



Nella conferenza Qu’est-ce que la critique? del 1978 Michel Foucault proponeva di definire la critica come l’arte di non essere eccessivamente governati. La critica sarebbe quindi una vera e propria forma di vita, un’attitudine etica nata nel XVI secolo, prima dell’Illuminismo e anche di Kant, il quale, se da una parte ha fatto sua questa attitudine, dall’altra ne ha attenuato la radicalità piegando la critica sui limiti della conoscenza più che su quelli del potere. Niente a che vedere allora con un sapere particolare gestito da una casta. Ma è anche possibile definire la critica come il gesto elementare di «dire» e «fare» di no. È così che la intende Enrico Donaggio nel suo saggio Direi di no. Desideri di migliori libertà dove ripercorre la storia di questo gesto, la parabola e la crisi di questa attitudine radicale che ha caratterizzato la cultura e la politica dell’Occidente moderno.«Dire» e «fare» di no è un atto fondamentale di soggettivazione e metamorfosi, sottolinea giustamente Donaggio, un’attitudine che oggi però, questa la tesi sostenuta, sarebbe entrata in crisi uscendo sconfitta dallo scontro con il capitalismo, una forma di vita che avrebbe dimostrato una straordinaria capacità di resilienza, ovvero un’abilità particolare nel sussumere e neutralizzare, o addirittura mettere a profitto e restituire in forma di merce, ogni gesto critico, anche quello più radicale. Se nella prima parte del libro Donaggio ripercorre la storia di questo gesto tipicamente moderno, nella seconda parte ne sonda lo stato di salute nel capitalismo contemporaneo, decretandone appunto l’asfissia. Non è tutto perduto però, un filo di speranza rimane, ed è legato alla costruzione di quelli che Donaggio chiama «luoghi comuni di umanità», ovvero «collettivi di pensiero e di azione organizzati per fare altrimenti», collettivi costituiti fuori dai grandi partiti di massa e fuori dalla sinistra, ma anche dal comunismo. Se il realismo della diagnosi è difficilmente contestabile e il disincanto è sempre salutare, non è però condivisibile il sentimento apocalittico e malinconico di marca francofortese che attraversa queste pagine e la declinazione «debole» che ispira la resistenza proposta. Il fatto è che occorre insistere ancora meglio sulla distinzione foucaultiana tra i due generi di critica e insistere sul fatto che se la critica è stata gesto fatto proprio da un ceto specifico, ovvero gli intellettuali – e Donaggio giustamente su questo insiste – esso è anche e da sempre costruzione collettiva di forme di vita. A essere in crisi allora non è la critica tout court, ma è senz’altro la critica in quanto prodotto teoretico dell’intellettuale separato, perché è l’intellettuale stesso, così come lo abbiamo inteso dal Settecento in poi, a essere in crisi, o meglio ancora, è la sua storia a essersi esaurita. Ed è bene sottolinearlo, questa storia si è esaurita grazie alla fine della separazione tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e all’emergere del lavoro cognitivo diffuso come prodotto delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, e come straordinariamente profetizzato da Hans-Jürgen Krahl, esponente particolarmente brillante del pensiero critico francofortese. Ma la scomparsa di questo «mostruoso» intellettuale non è qualcosa di cui rammaricarsi, e piuttosto che gettarci nel baratro del disorientamento apre invece all’organizzazione politica dell’intelligenza collettiva e alla costruzione delle sue specifiche forma di vita che non possono che essere contro il capitale, pur essendo prodotte nel capitale, perché la loro natura è in quel comune della cooperazione che esiste al di là di ogni appropriazione privata. La fine della critica in questo senso non ci condanna, con una certa rassegnazione, alla costruzione «debole» e «amicale» di luoghi comuni di umanità, ma apre alla critica come biopolitica, come organizzazione della potenza collettiva, certamente al di là della sinistra che come gli intellettuali si è anch’essa, evviva, dissolta. E se non si tratta di rifondare il comunismo con altri mezzi, come ricorda Donaggio, senz’altro si tratta di stare dentro la dimensione del comune. Si tratta di iniziare a raccontare un’altra storia, e in questo siamo d’accordo con l’autore quando sottolinea la straordinaria capacità di un visionario come Quentin Tarantino di riscattare nei suoi film la storia degli oppressi, donne, ebrei e neri. Si tratta di «saper vedere» resistenza, esodo e costruzione di alternative, si tratta di raccontare una liberazione e non una sconfitta. Si tratta, insomma, di esercitare la potenza del no nelle forme di vita che costruiamo, come già il Bartleby di Melville, ma anche e soprattutto di andare al di là della sola negazione puntando, in positivo, sulle capacità progettuali collettive.

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