In
luogo di un commento personale al post “Direi di NO. Desideri di migliori
libertà” segnalo l’articolo di Nicolas Martino apparso su “Il Manifesto” del
12/09/2016 come recensione del saggio di Donaggio che propone, anche in forma,
guarda caso, critica, ulteriori riflessioni sul tema della necessità di
esercizio della critica. La lunghezza dell’articolo ha imposto di
pubblicarlo come post a sé stante
Nives Enrietti
Nella conferenza Qu’est-ce
que la critique? del 1978 Michel Foucault proponeva di definire la
critica come l’arte di non essere eccessivamente governati. La critica sarebbe
quindi una vera e propria forma di vita, un’attitudine etica nata nel XVI
secolo, prima dell’Illuminismo e anche di Kant, il quale, se da una parte ha
fatto sua questa attitudine, dall’altra ne ha attenuato la radicalità piegando
la critica sui limiti della conoscenza più che su quelli del potere. Niente a
che vedere allora con un sapere particolare gestito da una casta. Ma è anche
possibile definire la critica come il gesto elementare di «dire» e «fare» di
no. È così che la intende Enrico Donaggio nel suo saggio Direi di no.
Desideri di migliori libertà dove ripercorre la storia di questo
gesto, la parabola e la crisi di questa attitudine radicale che ha
caratterizzato la cultura e la politica dell’Occidente moderno.«Dire» e «fare»
di no è un atto fondamentale di soggettivazione e metamorfosi, sottolinea
giustamente Donaggio, un’attitudine che oggi però, questa la tesi sostenuta,
sarebbe entrata in crisi uscendo sconfitta dallo scontro con il capitalismo,
una forma di vita che avrebbe dimostrato una straordinaria capacità di
resilienza, ovvero un’abilità particolare nel sussumere e neutralizzare, o
addirittura mettere a profitto e restituire in forma di merce, ogni gesto
critico, anche quello più radicale. Se nella prima parte del libro Donaggio
ripercorre la storia di questo gesto tipicamente moderno, nella seconda parte
ne sonda lo stato di salute nel capitalismo contemporaneo, decretandone appunto
l’asfissia. Non è tutto perduto però, un filo di speranza rimane, ed è legato
alla costruzione di quelli che Donaggio chiama «luoghi comuni di umanità»,
ovvero «collettivi di pensiero e di azione organizzati per fare altrimenti»,
collettivi costituiti fuori dai grandi partiti di massa e fuori dalla sinistra,
ma anche dal comunismo. Se il realismo della diagnosi è difficilmente
contestabile e il disincanto è sempre salutare, non è però condivisibile il sentimento
apocalittico e malinconico di marca francofortese che attraversa queste pagine
e la declinazione «debole» che ispira la resistenza proposta. Il fatto è che
occorre insistere ancora meglio sulla distinzione foucaultiana tra i due generi
di critica e insistere sul fatto che se la critica è stata gesto fatto proprio
da un ceto specifico, ovvero gli intellettuali – e Donaggio giustamente su
questo insiste – esso è anche e da sempre costruzione collettiva di forme di
vita. A essere in crisi allora non è la critica tout court, ma è senz’altro la
critica in quanto prodotto teoretico dell’intellettuale separato, perché è
l’intellettuale stesso, così come lo abbiamo inteso dal Settecento in poi, a
essere in crisi, o meglio ancora, è la sua storia a essersi esaurita. Ed è bene
sottolinearlo, questa storia si è esaurita grazie alla fine della separazione
tra lavoro manuale e lavoro intellettuale e all’emergere del lavoro cognitivo
diffuso come prodotto delle lotte operaie degli anni Sessanta e Settanta, e
come straordinariamente profetizzato da Hans-Jürgen Krahl, esponente
particolarmente brillante del pensiero critico francofortese. Ma la scomparsa
di questo «mostruoso» intellettuale non è qualcosa di cui rammaricarsi, e
piuttosto che gettarci nel baratro del disorientamento apre invece
all’organizzazione politica dell’intelligenza collettiva e alla costruzione
delle sue specifiche forma di vita che non possono che essere contro il
capitale, pur essendo prodotte nel capitale, perché la loro natura è in quel
comune della cooperazione che esiste al di là di ogni appropriazione privata. La
fine della critica in questo senso non ci condanna, con una certa
rassegnazione, alla costruzione «debole» e «amicale» di luoghi comuni di
umanità, ma apre alla critica come biopolitica, come organizzazione della
potenza collettiva, certamente al di là della sinistra che come gli
intellettuali si è anch’essa, evviva, dissolta. E se non si tratta di rifondare
il comunismo con altri mezzi, come ricorda Donaggio, senz’altro si tratta di
stare dentro la dimensione del comune. Si tratta di iniziare a raccontare
un’altra storia, e in questo siamo d’accordo con l’autore quando sottolinea la
straordinaria capacità di un visionario come Quentin Tarantino di riscattare
nei suoi film la storia degli oppressi, donne, ebrei e neri. Si tratta di
«saper vedere» resistenza, esodo e costruzione di alternative, si tratta di
raccontare una liberazione e non una sconfitta. Si tratta, insomma, di
esercitare la potenza del no nelle forme di vita che costruiamo, come già il
Bartleby di Melville, ma anche e soprattutto di andare al di là della sola
negazione puntando, in positivo, sulle capacità progettuali collettive.
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