(sintesi di Enrica Gallo)
Partendo dall’assunto che la memoria del passato sia
fondamentale per costruire quel sentimento di appartenenza che sta alla base di
una cittadinanza consapevole, Giovanni De Luna ha impostato una riflessione su
come è stata costruita la memoria pubblica nel nostro paese, intendendo con
essa il patto con cui ci si accorda su cosa trattenere e cosa lasciar andare
degli eventi del nostro passato: esso è infatti la risultante di una
costruzione culturale, di una serie di scelte con cui si stabiliscono le
priorità nell’uso pubblico della storia (i pilastri, per così dire, su cui si
elaborano i programmi scolastici, si stabiliscono le date canoniche delle
festività laiche, si eleggono i luoghi monumentali come presenze concrete e
insieme simboliche senza le quali nessuna comunità può davvero reggere).
Questo patto memoriale è naturalmente qualcosa di
dinamico e mobile, che viene rinnovato di volta in volta a mano a mano che
cambiano i contraenti, scandendo le diverse fasi storiche. Il problema sta
peraltro nel fatto che nel nostro paese, dopo la fase “eroica” del dopoguerra
in cui i partiti storici della Prima Repubblica hanno scelto come fulcro della
nostra religione civile l’antifascismo, considerando la resistenza come momento aurorale della
nuova democrazia e impostando su questi valori la Carta costituzionale, i nuovi
contraenti che si sono presentati via via sulla scena (in particolare i partiti
nati dopo l’implosione del biennio 92-94) si sono rivelati a suo giudizio
totalmente inadeguati, e incapaci di proporre un nuovo patto memoriale in grado
di reggere l’urto secessionistico della Lega e di contrastare la seduttività
del nuovo e potente costruttore di memorie e di identità rappresentato dal
mercato.
In un contesto in cui lo Stato, esposto dall’alto ai flussi della
globalizzazione e dal basso alle istanze della privatizzazione, è stato
costretto a ritirarsi progressivamente, il mercato è diventato infatti sempre
più invasivo, scegliendo come elemento caratterizzante più o meno esplicito la
celebrazione del dolore e del lutto che scaturiscono dal ricordo delle vittime
(della mafia, del terrorismo, della Shoah, delle foibe, del dovere, delle
catastrofi naturali…), foriero di emozioni trasformabili in merce.
E’ cominciata così quella che De Luna ha definito
“l’era del testimone”, in cui la memoria privata ha preso via via il posto di
quella pubblica, e il rapporto fra memoria e storia è andato sempre più
spostandosi a favore della prima, mentre le emozioni venivano a sovrapporsi
alle argomentazioni con una dilatazione dello spazio simbolico non certo
funzionale a costituire una religione civile unificante: a suo giudizio infatti
la centralità delle vittime, esasperata da quella “televisione del dolore” che
ad esse si richiama e che ha finito col trasformare il nostro spazio pubblico
in una sorta di “Repubblica del dolore“ (da qui il titolo del libro assai
avvincente che De Luna ha scritto su questi temi), indebolisce i legami di
cittadinanza anziché rafforzarli, e soprattutto non suscita vere istanze di
cambiamento trasformando le ormai molteplici “giornate della memoria” in
occasioni istituzionali retoriche ed
esposte al rischio di insignificanza.
Da qui, le domande che l’autore si è posto nel testo
e che sono parimenti risuonate nei molti interventi del pubblico, intesi ad
aprire una discussione su come contrastare questa tendenza e su cosa sostituire
a questa memoria esposta a suggestioni emotive assai fluttuanti e comunque
troppo deboli per contrastare quei nuovi e pericolosi costruttori di memorie
nazionalistiche e regressive che sono rappresentati dalle destre populiste. A
giudizio di De Luna i materiali per la rifondazione di una nuova religione
civile non mancano ed è certo possibile rivitalizzare quelli approntati dalla
tradizione, ma occorre soprattutto ampliare lo sguardo, uscendo dai nostri
confini nazionali e facendo dell’Europa un nuovo spazio memoriale più inclusivo
e dinamico.
Avevo al tempo letto, condividendone l’analisi fatta, il saggio “Repubblica del dolore”. Che ho ancor più apprezzato nell’esposizione, lucida e coinvolgente, fatta nella conferenza tenuta dal Prof. De Luna. In particolare nella sconsolata, ma non rassegnata, denuncia del vuoto di “memoria collettiva” che interessa il nostro Paese e l’Europa intera, e nei gravi limiti costitutivi di quel poco che si è costruito negli ultimi decenni. Mi ha però colpito una domanda venuta dal pubblico che sosteneva la necessità di accompagnare la giusta memoria con uno sguardo rivolto al futuro. Mi ha colpito perché, seppure del tutto comprensibile per certi versi, dimostrava la confusione, che ritengo molto diffusa, attorno al rapporto tra passato, presente e futuro. Un rapporto sicuramente dialettico. La relazione del Prof. De Luna aveva infatti ben ribadito che un paese guarda al proprio passato sia per recuperare in esso simboli, certezze e valori coerenti con il futuro che già intende perseguire sia proprio per costruire, congiuntamente con la lettura del presente, quel futuro. Mi ha colpito in particolare proprio perché, pur nella sua inconsapevole semplificazione storica, in qualche modo aiuta a meglio comprendere una delle ragioni dell’attuale vuoto e degli attuali limiti della “memoria collettiva”. Guardiamo poco e male, al passato perché non abbiamo una adeguata idea di futuro. Recuperiamo in esso deboli, se non ingannevoli, simboli e valori perché la costruzione che stiamo facendo del futuro è altrettanto debole, altrettanto ingannevole. Un paese con un futuro che guarda al breve, brevissimo, periodo, che si accontenta di chiudere alcune falle di un presente non ben decifrato e supinamente vissuto, che poggia su idee di corto respiro legate ad una fantomatica “crescita”, peraltro declinata esclusivamente in termini economici, non è certo in grado di interrogare in modo proficuo il proprio passato. De Luna lo ha ben evidenziato nel denunciare la vuota proliferazione delle “giornate della memoria”. In questo senso quella domanda aveva un suo valore: è possibile la ricostruzione di una memoria collettiva, di una religione civile condivisa, per usare le parole di De Luna, solo recuperando una visione di un futuro degna del termine. Operazione sicuramente complessa, visto il quadro sociale e culturale del nostro paese, e dell’intera Europa, che potrà sperare in una adeguata solidità, tornando alla relazione dialettica di cui dicevo, anche riflettendo sul, e imparando dal, nostro passato. Partendo, perché no, proprio dalla consapevolezza della perdita della nostra “memoria collettiva”.
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