In collegamento con il post precedente “Perché la
saggistica in Italia non trova gran spazio?” pubblichiamo questo nuovo post
scelto per due ragioni: perché è scritto da Gianluca Didino, lo stesso autore
del precedente articolo, e perché è un esempio di cosa si debba intendere per
(nuova) saggistica (ai tempi della Rete) ossia “interventi” comunque scritti, di medie
dimensioni, che affrontano tematiche trasversali, non meno che inusuali, che si aprono in più direzioni (non a caso ricchi di link, se in rete, o di note a piè pagina, se su carta stampata)
Una nuova idea di spazio
Le
mappe bidimensionali descrivono ancora la realtà?
Articolo di Gianluca Didino nel blog “Tascabile.com”
Da qualche anno, un
amico che abita a Milano mi ripete che dovrei visitare il capoluogo lombardo
perché, sostiene, finalmente è diventato “una città europea”. Intende dire che
Milano è diventata negli ultimi anni una global city secondo la famosa
formulazione che Saskia Sassen ne forniva nel suo libro del 1991: un luogo dove
si concentrano potere decisionale, una borsa valori e le sedi di diverse
compagnie multinazionali. Secondo questa definizione tuttavia Milano è una
città globale da diversi decenni, dunque chiedo al mio amico cosa sia cambiato
di recente. La sua risposta, sicura, arriva immediatamente: ora ci sono i
grattacieli. Qualcosa di simile era successo quindici anni prima a Londra,
quando uno skyline che aveva smesso di svilupparsi in altezza dai primi anni
Settanta aveva visto la comparsa di nove torri alte oltre 100 metri tra il 1999
e il 2004, tutte dislocate nei due centri della finanza della City e di Canary
Wharf. Con un ritmo in costante accelerazione, altre diciassette sarebbero
state erette dal 2012 in poi, con il tetto dei 300 metri finalmente rotto dallo
Shard di Renzo Piano, oggi il grattacielo più alto dell’Europa occidentale. Le
torri attualmente in costruzione nella capitale britannica sono trentotto,
mentre i progetti già approvati per il prossimo decennio ma non ancora iniziati
ammontano a sessantuno. Qualora tutti i progetti approvati a Londra venissero
effettivamente costruiti si tratterebbe di un aumento del numero di grattacieli
del 600% nel trentennio 1999-2029. Per quel che riguarda gli edifici supertall
e megatall, rispettivamente oltre i 300 e i 600 metri di altezza,
l’Europa è ultima tra i continenti: lo Shard, unico esempio di supertall
tower europea, si posizione al 107esimo posto di una classifica degli
edifici più alti del mondo che vede trionfare il mastodontico Burj Khalifa di
Dubai con i suoi 828 metri. Ancora per poco, tre anni per la precisione: fino
al giorno del 2020 in cui sarà completata la Kingdom Tower di Gedda, il primo
edificio a superare la soglia simbolica del chilometro di altezza. La
vertiginosa proliferazione di torri nell’ultimo decennio è solo l’aspetto più
evidente di una trasformazione dello spazio lungo un asse che la nostra
rappresentazione massicciamente orizzontale della geografia non ci permette di
cogliere: è questa la tesi centrale di Vertical: the City from Satellites to
Bunkers di Stephen Graham, una delle pubblicazioni più interessanti del 2016 nel ricco catalogo di
urbanistica e architettura dell’editore Verso. Graham, professore di
architettura all’università di Newcastle, si occupa da tempo del rapporto tra
asse verticale e pianificazione urbana. La sua posizione è volta a
“denaturalizzare ed esporre” il nostro approccio allo spazio come spazio
orizzontale (rappresentato dalle mappe lungo linee bidimensionali) e le
“metafore spesso invisibili e date per scontate della verticalità” (la
connotazione positiva che associamo all’alto e quella negativa che associamo al
basso, ad esempio nella dicotomia tra “alta” e “bassa” classe sociale). Per
fare questo, nel suo libro affronta il problema delle città discutendo
nell’ordine satelliti, aerei, droni, ascensori, grattacieli, città
multilivello, condotti fognari, bunker e miniere. L’effetto di questa analisi
che assomiglia a un volo in picchiata è una rappresentazione della città che
ribalta le certezze consegnateci da secoli di geografia piana, trasformando lo
spazio in un oggetto complesso e talvolta disorientante.
Google Earth ci restituisce uno sguardo sul mondo che pretende di essere
oggettivo, fallendo: spaccia la mappa per il territorio.
Un buon punto di
partenza per capire quest’opera di “denaturalizzazione” è uno strumento che
usiamo tutti i giorni: Google Earth. Il servizio di Google, secondo Graham, è
il trionfo su scala di massa di quella rappresentazione dello spazio dall’alto
che oggettivizza l’intero pianeta come un sistema informativo piatto e
completamente navigabile. Come i satelliti a cui si appoggia e come i droni,
Google Earth ci restituisce uno sguardo sul mondo che pretende di essere
oggettivo e che invece, come ogni rappresentazione, è il frutto dei pregiudizi
dei suoi creatori: spaccia la mappa per il territorio, per usare una metafora
borgesiana. Le implicazioni politiche di questo background diventano chiare
quando si pensa che il programma alla base di Google Earth era originariamente
proprietà della CIA (Mountain View l’aveva acquisito nel 2004) e che si basa su
un sistema di navigazione satellitare, il GPS, creato e mantenuto dal governo degli
Stati Uniti (che occasionalmente ne ha impedito l’accesso a determinate
popolazioni, come nel caso della guerra del Kargil (conflitto indo-pakistano) del 1999). Al contempo, Google
Earth e i sistemi di rappresentazione satellitare analoghi hanno contribuito a
trasformare in maniere inedite quello che i paesaggisti chiamano brandscape,
il luogo come brand da vendere sul mercato globale, come dimostra il caso delle
Palm Islands e del complesso The World di Dubai: progetti che traggono
la loro ragion d’essere dall’effetto che ottengono se fotografati dall’alto –
ad esempio dalla NASA. Oppure hanno dato vita ad azioni politiche come la
rivolta sciita in Bahrein del 2011, mostrando dall’alto le dimore faraoniche
della minoranza sunnita che controllava il 95% del territorio del paese in
un’opera di esposizione al pubblico sguardo dell’ingiustizia sociale. Questi
aspetti della verticalità introdotti da Google Earth (l’origine militare del
sistema, il territorio come brand, la suddivisione non equa delle risorse di un
paese) sarebbero stati trascurati dalle classiche mappe bidimensionali, oppure
sarebbero stati facilmente occultabili dalle élite politiche, come nel caso del
Bahrein. Ancora più radicalmente omessi dal discorso sono tutti quei casi, in
forte aumento nell’epoca del capitalismo globalizzato, in cui soggetti privati
o stati-nazione possiedono risorse al di sopra o al di sotto del suolo
formalmente amministrato da un altro stato: è il caso dei droni statunitensi
che pattugliano i cieli del Medio Oriente, ad esempio, ma anche delle compagnie
minerarie finanziate dallo stato cinese che operano in Africa. Quello che per
una mappa bidimensionale è territorio iracheno o del Madagascar è, nei fatti,
controllato da soggetti che operano al di fuori dei confini rappresentabili in
due dimensioni. Processi analoghi si trovano nelle città in rapida
trasformazione dell’America Latina. A Saõ Paulo, ad esempio, una dimostrazione
dell’importanza della verticalità nell’amministrazione del potere cittadino
viene fornita da Suketu Metha, che in un reportage per la New York Review of Books racconta come si sia sentito
rifiutare dalla polizia la richiesta di sorvolare in elicottero la favela non
pacificata di Ararà: poco tempo prima i traficantes avevano abbattuto un
velivolo della polizia con armi antiaeree, in una potente negazione del potere
governativo di osservare dall’alto e di rappresentare, per dirla con Graham,
“il mondo di sotto come nient’altro che un infinito campo di obiettivi da
identificare e distruggere”. D’altra parte Ararà, dove è in atto una vera e
propria guerra tra polizia e trafficanti, è solo l’altra faccia di una medaglia
che vede le favelas come ultima frontiera della gentrificazione (insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un'area urbana) (anche sulla scia di mega-eventi come i mondiali di calcio o le Olimpiadi)
a seguito di un altro processo di verticalizzazione: la crescente tendenza
della classe dei super-ricchi a rifuggire il pericolo delle strade delle città
sudamericane spostandosi in elicottero tra un attico e l’altro. Come in una
versione mai realizzata del futuro immaginato nelle metropoli occidentali negli
anni Cinquanta, città come Saõ Paulo contano oggi 420 eliporti privati – il 50%
in più rispetto al totale del Regno Unito. Allo stesso modo, a Guatemala City i
ricchi sono tornati a vivere nel centro delle città, ma non scendono mai nelle
strade infestate di criminalità, spostandosi solo tra un grattacielo e l’altro.
Nel documentario Um Lugar ao Sol di Gabriel Mascaro, in una scena ambientata a Recife si vede la moglie di un
miliardario commentare le scie lasciate in cielo dai proiettili traccianti
provenienti da uno slum vicino paragonandole a “fuochi d’artificio” e
definendole “bellissime”. Oppure l’accesso ai simboli del potere verticale può
trasformarsi nel suo opposto, com’è successo nel celebre caso della Torre di
David a Caracas, il secondo grattacielo più alto del paese e il centro
finanziario della città la cui costruzione fu abbandonata nel 1994 in seguito
al collasso del sistema bancario venezuelano. Tra il 2007 e il 2014, in una
parabola a metà strada tra J.G. Ballard e il Paul Mason di Postcapitalismo,
i 190 metri della torre sono stati occupati da 5000 squatters gettati sulla
strada dalla crisi abitativa che il paese attraversava dall’inizio degli anni
duemila. Gli occupanti sono infine stati sgomberati, ma la loro esperienza ha
rappresentato un caso unico nella storia di comune autogestita lungo un asse
verticale. Il caso della Torre di David è ancora più emblematico se si pensa
alle conseguenze sociali che la proliferazione di grattacieli pensati come
dimore dei super-ricchi e attrazioni di lusso comportano per gli abitanti di
una grande città. Con un rapido incremento delle torri adibite a scopo
turistico o abitativo (alberghi, ristoranti e appartamenti di lusso) e una
spietata competizione planetaria per attrarre gli investimenti delle élite dei
multimilionari apolidi, la progettazione di uno skyline iconico e
inconfondibile si tramuta nell’immagine da cartolina della crisi abitativa che
ne consegue: privatizzazione di interi settori della città, aumento dei prezzi
degli affitti nelle zone più vicine ai distretti finanziari o che possono
godere di vedute sulla “foresta di grattacieli”, conseguente marginalizzazione
delle classi più povere ai limiti (geografici e non) della vita cittadina. Il
motivo per cui i grattacieli tendono a finire nel mirino dei critici del
capitalismo liberista, come anche l’11 settembre ci ha tragicamente insegnato,
non ha soltanto radici freudiane ma anche motivazioni pratiche, e va ricercato
in quello che Maria Kaika ha definito il carattere di “icone autistiche” delle torri costruite dagli architetti
di grido: per la studiosa rappresentano i vertici di una rete avvolta intorno
al mondo da coloro che controllano i processi della globalizzazione
neoliberista e che operano in un network di città globali rifiutando le
limitazioni e le responsabilità implicate da una cittadinanza permanente (come capitava
ancora con i Rockefeller e i Guggenheim nel XX secolo). Per questo, secondo
Graham, è ancora più importante mettere in luce le relazioni che intercorrono
tra il segno più e il segno meno dell’asse verticale – le altezze sempre più
vertiginose dei grattacieli e le profondità sempre più abissali del sottosuolo
(ad esempio i sotterranei della New York post 11 Settembre nelle fotografie di Julia
Solis) e soprattutto dalle miniere dalle quali vengono estratte le materie
prime utilizzate negli interni di lusso di grattacieli come il Burj Khalifa. Questa
è l’idea degli high-rise come inverted minescapes, “panorami minerari al
contrario”, coniata dal geografo Gray Brechin: la
rappresentazione su scala tridimensionale di come il potere economico delle
élite sia fondato sul lavoro semi-schiavile (ad esempio dei migranti indiani e
bengalesi impiegati nella costruzione degli impianti per Quatar 2022 (per i Campionati Mondiali di football ) e sullo sfruttamento
delle risorse naturali – anche se questa connessione con il “basso” è proprio
ciò che il capitalismo finanziario vuole farci dimenticare. Non stupisce quindi
che la stessa tecnologia che ha reso possibile i grattacieli, l’ascensore (la
cui prima applicazione data il 1857 nella città dei grattacieli per eccellenza,
New York) è la stessa che ha reso possibile la pratica dell’ultra-deep
mining, gli scavi minerari a una profondità di oltre 2.5 chilometri. Né
stupisce che Forbes possa aprire un articolo del 2007 scrivendo che “se vuoi
sapere dove sono le economie più calde del mondo (…) tutto quello che devi fare
è rispondere a una domanda: dove sono gli ascensori più veloci?”
Nell’iperspazio
postmoderno cooperano forze umane e non umane, come i satelliti e i droni,
oggetti naturali e artificiali, laddove una linea di demarcazione ancora
esiste.
Sempre per questo
motivo il problema della verticalità si confonde con il problema del
capitalismo tout court, e più nello specifico con l’uso che il
capitalismo fa della natura profondamente antropizzata che fornisce il
substrato materiale dei suoi successi finanziari. La classe dei super-ricchi
che si sposta in elicottero tra i grattacieli di Guatemala City è la stessa che
importa la sabbia australiana per estendere artificialmente la lunghezza delle
spiagge di Dubai, una città che sorge come un miraggio nel centro del deserto,
o che a Pechino edifica una cupola intorno al satellite dell’esclusivo Dulwich
College di Londra per far sì che i figli dei facoltosi espatriati non vengano
contaminati dallo smog che le aziende nelle quali i padri hanno interessi
multimilionari hanno contribuito a creare nella metropoli cinese. Le
conclusioni a cui arriva Graham nel suo studio non sono rassicuranti, ma non
mancano di fascino. La proposta è quella di abbandonare la semplificazione
della geografia piana per immergersi pienamente in quello che Frederic Jameson
aveva definito già nel 1984 un “iperspazio postmoderno”, uno spazio disorientante dove “viene meno la nozione di un orizzonte
stabile e dotato di fondamento”. In questo spazio cooperano forze umane e non
umane, come i satelliti e i droni, oggetti naturali e artificiali, laddove una
linea di demarcazione ancora esiste (è naturale l’aria prodotta da circuiti di
ventilazione completamente chiusi nelle città multi-livello come Hong Kong? È
naturale la neve di Ski Dubai, conservata a -6 °C contro i picchi di 52 °C
della temperatura esterna? Sono naturali le guerre per la sabbia in paesi
pressoché completamente desertici?). In un famoso passaggio di The Language
of Post-Modern Architecture del 1977, il critico dell’architettura Charles
Jencks scriveva che “fortunatamente è possibile datare con precisione la morte
dell’architettura moderna (…). L’architettura moderna è morta a St. Louis,
Missouri, il 15 luglio 1972 alle 15:32, quando al famigerato complesso di Pruitt-Igoe (una mega speculazione edilizia avvenuta negli USA a Saint Louis negli anni sessanat) era stato dato il colpo di grazia per mezzo della dinamite”.
Pruitt-Igoe non era un grattacielo, ma un complesso di case popolari, e la sua
demolizione in diretta televisiva è diventata la prima di una lunga serie – un
genere che ha i suoi sottogeneri, i suoi canali YouTube dedicati e la sua
schiera di entusiasti. Un’altra demolizione in diretta TV, questa volta
di due grattacieli, ha chiuso l’epoca postmoderna l’11 settembre 2001. A
differenza del caso di Pruitt-Igoe, che ha messo anche la parola fine al
trentennio di edilizia popolare negli Stati Uniti e in Europa, l’attacco al WTC
ha però solo rafforzato la spinta alla costruzione di grattacieli nelle nostre
metropoli – e tuttavia per la prima volta dal 1311, quando la cattedrale di
Lincoln in Inghilterra ha superato in altezza la piramide di Giza in Egitto,
oggi l’edificio più alto del mondo si trova fuori dai confini occidentali.
Questo nuovo iperspazio veramente globale ha bisogno di nuove categorie per
essere compreso, per non cadere nell’errore di attenerci a una mappa che non
rappresenta più alcun territorio reale.
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