L’Italia, gli
italiani
ed il voto del 4 Marzo scorso
A distanza di
diversi mesi dal voto del 4 Marzo scorso, sedimentate ormai le impressioni “a caldo”, è
diventata possibile, se non indispensabile, una riflessione su un risultato
elettorale che, al di là delle personali opinioni politiche, ha evidenziato un
profondo mutamento nel rapporto fra “gli italiani” , la politica
ed il sistema dei partiti fin qui conosciuto, lasciando prefigurare una
corrispondente profonda metamorfosi del paese “Italia” nel suo complesso, i cui esiti si
stanno ulteriormente manifestando in questi mesi successivi al voto. Per
affrontare, nel nostro blog di CircolarMente, questa riflessione ci affidiamo
ad una rigorosa analisi del voto e dei suoi significati svolta da un gruppo di
ricerca della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Urbino Carlo Bo.
I risultati di questa analisi sono stati condensati in un interessante libro a
firma di Bordignon Fabio, Ceccarini Luigi e Diamanti Ilvo, dei tre sicuramente
il più mediaticamente conosciuto, dal titolo “Le divergenze parallele”:

I tre autori hanno incrociato
i risultati elettorali con una consistente serie di dati socio-economici e con
una apposita indagine post-voto, effettuata dall’Istituto Statistico Demos
(diretto dallo stesso Ilvo Diamanti) su un campione significativo di votanti,
volta a individuare le ragioni e modalità alla base del voto espresso. Emerge
un quadro di profondo mutamento tale da implicare non poche considerazioni
sullo stato di salute della democrazia rappresentativa nel nostro paese. Ci
limitiamo in questo post, senza escludere eventuali ulteriori approfondimenti
sui “futuri” che da questo quadro potrebbero ulteriormente maturare, a estrapolare
dal testo di Bordignon, Ceccarini e Diamanti le considerazioni che di più ci
sono sembrate in grado di costruire la fotografia di quanto è emerso il 4
Marzo scorso.
Dis-continuità elettorale –
dis-ordine di sistema
La prima
indicazione, tanto importante quanto inoppugnabile, è quella che per molti
versi il
voto del Marzo 2018 rappresenta una netta cesura rispetto alle caratteristiche
del voto italiano visto sul lungo periodo precedente, in
particolare per il consolidato passaggio, per quanto concerne il sistema dei
partiti, da una situazione bipolare ad una tripolare, scombinando così ulteriormente
le basi sulle quali sono state finora costruite tutte le ipotesi di definitiva
(?) riforma del sistema elettorale. Un
cambiamento che ha in effetti accentuato e stabilizzato una tendenza già emersa
nel precedente voto del 2013, visto il successo al tempo ottenuto dalla lista
M5s: (22%). L’analisi dei flussi elettorali (che qui non verrà affrontata nello
specifico essendo tutto sommato già sufficientemente conosciuta) evidenzia inoltre
la collegata tendenza
ad un voto ormai strutturalmente più dinamico, fluido e concorrenziale ad ampio
raggio rispetto ai precedenti
trend di lungo periodo della storia elettorale. Lo testimonia la clamorosa
consistenza dei voti persi dalle due componenti sulle quali si era configurata
l’alternanza fra centrodestra e centrosinistra negli ultimi decenni: senza
considerare le già consistenti emorragie precedenti nel 2018 i voti persi, rispetto
al 2013, dal PD sono stati 2.600.000 (su 8.600.000) e quelli di FI 2.800.000
(su 7.300.000). Un ridimensionamento
così importante sancisce, al di là di specifiche spiegazioni contingenti, la definitiva
fine del “voto devoto” ed il passaggio ad un “voto liquido” (il
sottotitolo di “Le divergenze parallele”). Vedremo successivamente le modalità
con le quali si è determinata questa propensione, interessa per intanto evidenziare
che questa dis-continuità per essere meglio compresa deve però essere collocata
nella corrispondente tendenza, che sembra ormai avere caratteristiche sistemiche,
del continuo calo dell’affluenza alle urne:

Sicuramente
impressiona rivedere che per tutto il trentennio dal 1948 al 1976 la
percentuale dei votanti sia rimasta su livelli superiori al 90%, che il calo
che da lì in poi si è manifestato sia comunque rimasto decisamente contenuto
fino al 1994, per poi accentuarsi nelle elezioni successive ma ancora restando,
fino al 2008, ancorato a percentuali superiori all’80%. Le elezioni del 2013
registrano la prima importante caduta al 75,0% che si accentua ulteriormente nel 2018
con il 72,9&, quando ormai più di un elettore su quattro non si presenta
alle urne. Inevitabile quindi il collegamento fra voto di
rottura e disaffezione elettorale, due fenomeni che si completano a vicenda e che
trovano, ambedue, conferma ed origine nel trend della fiducia verso le
istituzioni politiche e di governo nel loro insieme:

Anche per questo
aspetto impressiona il repentino drastico calo della fiducia verso le
istituzioni politiche (dal Comune, che
resta il più apprezzato, passando per lo Stato, e sue cariche istituzionali, la
UE per finire, al fondo della specifica graduatoria di sfiducia, al sistema dei
partiti) avvenuto in pochi anni dal 2005 al 2014 con un sostanziale
dimezzamento (dal 41% al 21%). La successiva ripresa non può essere di gran
conforto attestandosi, con caratteristiche ormai di strutturale stabilità,
attorno al 25%. In altre parole solo un cittadino su quattro esprime una convinta fiducia
verso gli istituti fondanti la democrazia rappresentativa. Il
tema della “crisi della democrazia” non è certo solo italiano, e non è una improvvisa
scoperta. Siamo di fronte ad un processo che parte da lontano, globale e in
accentuazione, che pone domande sempre più di fondo al centro di un ampio, ma
per ora improduttivo, dibattito. Non è certo questa la sede per affrontarlo,
così come non fanno i tre autori di “Le divergenze parallele” i quali prendono però
in esame l’incidenza su questa tendenza generale di alcune problematiche,
accentuatesi nell’arco temporale preso in esame 2005-2018, che, stante
l’incapacità, reale e/o percepita, delle istituzioni di affrontarle efficacemente,
hanno sicuramente contribuito, nel caso specifico italiano, a contribuire al
preoccupante calo di fiducia:
-
Immigrazione
straniera =
l’affermazione “gli immigrati sono un pericolo per la sicurezza e l’ordine
pubblico” registra una costante condivisione da diversi anni, ma registra un
salto molto significativo dal Dicembre 2012, punto percentuale più basso raggiunto
con il 26%, al picco
del 45% toccato nel Gennaio 2018 a ridosso quindi del voto del 4 Marzo. Si può certamente
discutere sulle ragioni, reali o “gonfiate”, che hanno portato a questo dato,
ma resta il fatto che quasi
un italiano su due ha vissuto, a ridosso del voto, con grande apprensione la
presenza dei migranti nel nostro paese
-
Insicurezza
legata alla criminalità = in questo caso i dati reali sull’effettivo
aumento dei reati nel nostro paese, che registra una sostanziale stabilità e
per alcuni tipi di reato addirittura una significativa flessione, legittimavano
una maggiore tranquillità diffusa. Così non è stato, anzi. La sensazione di
vivere in una situazione di “insicurezza”, legata in particolare alla
micro-criminalità e, anche in questo caso, alla presenza di “stranieri”, è
rimasta costante nell’ultimo decennio con pochi scostamenti da una media ormai
stabilizzata attorno al 40/41% (a
Dicembre 2017, tre mesi prima del voto, era del 41%).
- Insicurezza economica = nel Novembre 2008,
nel pieno della crisi economica più grave dal secondo dopoguerra, il 63% degli italiani si dichiarava
insicuro sulle proprie prospettive lavorative ed economiche. La stessa identica percentuale viene
registrata a Dicembre 2017, dieci anni dopo e sempre tre mesi prima
delle elezioni. Segnale indiscutibile di una atteggiamento ormai cronicizzato
difficilmente rimuovibile stanti le perduranti difficoltà del sistema economico
e produttivo e la ristrettezza di strumenti di intervento adeguatamente efficaci.
Quindi un paese
intero e la sua base elettorale, demotivati, distaccati (il Censis nel Rapporto
2017 ha parlato, non a cuor leggero, di vero e proprio “rancore”
dell’elettorato diffuso verso il sistema dei partiti, e in particolare verso
quelli più connessi a ruoli di governo) insicuri (l’insicurezza totale, determinata dal
sommarsi delle specifiche insicurezze, si è attestata, dal 2008 al 2018, su
percentuali che variano di poco in una forbice che va dal 75% all’80%, otto italiani
su dieci quindi si dichiarano comunque “insicuri”)
fisiologicamente alla ricerca di un “nemico” su cui scaricare la tensione così
cresciuta. Lo trovano, con variazioni legate alla cronaca, nel migrante, nel
diverso, nell’Europa e, inevitabilmente, nei “partiti”, specie quelli storici
(la casta, l’elite, l’establishment). Non stupisce quindi il consolidarsi di un
clima antipolitico, fenomeno peraltro che va ben oltre i confini nazionali e
che si manifesta, con accentuazioni specifiche ma sulla base di un sentire
comune, in tutti i paesi occidentali. Restando a casa nostra sono quanto mai
indicativi i livelli di adesione a queste due affermazioni:


Le risposte ai due
quesiti periodicamente posti nel corso dell’ultimo decennio da Demos
sintetizzano bene il “sentimento dell’antipolitica” che ormai si è sedimentato
nel nostro paese (il calo nel primo grafico di sei punti percentuali per la
condivisione di una democrazia “senza partiti” si spiega con il successo di
liste che dell’antipolitica hanno fatto una bandiera catalizzandola così verso
un “anomalo” sostegno ai partiti, mentre per il secondo grafico non deve trarre
in inganno l’andamento visivo della curva, la percentuale di chi ritiene che
fra i partiti non ci siano più differenze veleggia ormai stabile dal 2005 al 2018
attorno al 65%. E’ questo in sostanza il quadro di base entro cui guardare per
tentare di capire non solo ciò che è avvenuto il 4 Marzo ma anche possibili
prossimi “futuri”
Tra (in)decisione di voto e
discussione pre-elettorale
All’interno di
questo contesto “Le divergenze parallele” evidenzia alcuni aspetti di dettaglio
non meno importanti, utili in particolare per meglio comprendere attraverso
quali “percorsi” si sia concretizzato il passaggio dal “voto devoto” al “voto
liquido” di cui si è detto in precedenza. Lasciando da parte le ragioni più
“politiche” che possono aver determinato il “distacco” è in effetti importante
cercare di mettere a fuoco quali tempistiche, quali strumenti, quali fonti
hanno inciso sulla effettiva scelta elettorale compiuta da quella consistente fetta
dell’elettorato che, ad iniziare dal 2013, ma in modo compiuto nel 2018, si è
ritenuta non più vincolata al voto, più o meno “devoto”, fin lì espresso. Si
tenga conto, per meglio comprendere la portata del cambiamento, che già in
diverse occasioni precedenti si erano verificati voti “critici”, che però
restavano comunque nel perimetro dell’appartenenza di “area”, questa volta non
è stato più così, le analisi dei trend elettorali evidenziano spostamenti
anche, se non soprattutto, di “area” (ad esempio dal PD più verso M5s e Lega
che verso LEU, da FI non solo verso la Lega ma anche verso il M5s). La domanda che “le divergenze parallele” ha
posto è: quali
sono diventati i tempi di decisione del voto effettivo di questo elettorato
così “liquido”? Quando tempo prima è maturata la scelta del voto poi espresso?

Solo un elettore su due nel 2018 dichiara
di “non aver mai avuto dubbi” su chi votare un mese prima del voto. Ed il quadro
complessivo che emerge da questa rilevazione conferma una notevolissima
crescente rapidità dei cambiamenti nelle tempistiche di maturazione della
scelta elettorale La discesa dal 66% del 2006 al 50% è stata davvero molto repentina.
Va detto inoltre che, se comunque la tendenza alla “liquidità” del voto appare
già così sufficientemente dimostrata, quel 50% non rappresenta solo lo zoccolo
duro del precedente voto “devoto”, al suo interno ha già una sua consistenza la
stessa quota di elettori definibili “liquidi”, anche se, come da tradizione, il
voto già certo tempo prima delle elezioni premia maggiormente i partiti più
grandi. Il grado di “fedeltà” rilevabile il 4 marzo 2018 vede infatti queste
percentuali:
grado
di fedeltà rilevato
|
PD
|
62%
|
M5s
|
58%
|
Lega
|
55%
|
FI
|
54%
|
Sono dati che per
essere debitamente interpretati richiederebbero l’incrocio con diverse altre
rilevazioni, interessa qui, in relazione alle tematiche al centro della nostra
attenzione ed escludendo quindi ogni constatazione “di parte”, sottolineare che
se il 62% del PD (a fronte dei 2.600.000 voti persi rispetto al 2013 e con la
conferma venuta dall’ulteriore calo rilevato dai sondaggi successivi al voto) è
in buona misura identificabile come “zoccolo
duro”, questo però si ferma ormai a poco
più di un elettore su due. Peggio ancora per FI, all’ultimo posto in questa
particolare graduatoria, che, dopo aver perso 2.800.000 voti rispetto al 2013 e
colpita, in base a successivi sondaggi, da un sostanziale ulteriore
dimezzamento, non può certo vantare come un successo quel 54% reclutabile come “voto
devoto”. Viceversa il risultato del M5s sembra dimostrare che dal 2013 al 2018,
in contemporanea con il balzo generale in avanti, sia diventata al contempo consistente
la quota di elettori definibili come fedeli. Ancor più rilevante il dato della
Lega, ma in un'altra ottica: se solo un elettore su due di quelli che l’hanno
votata il 4 Marzo proviene dall’area dei già “fedeli”, il consistente balzo dal
4% al 17% ottenuto alle elezioni è quindi in gran misura frutto della conquista
di nuovi consensi. Il dato complessivo più significativo resta ad ogni buon
conto la crescita esponenziale della quota di intenzioni di voto maturate nel
corso dell’ultimo mese: dal 34% del 2006 si è passati al 50% del 2018, e di
questi ben il 13% decide per chi votare la mattina stessa del voto o poco prima.
Difficile, per definire questa situazione, ricorrere ad un termine diverso da
“liquido”. Liquidità peraltro testimoniata anche dalla rilevazione di chi, di
cosa, abbia influito su questa scelta così a ridosso del voto, peraltro in una
campagna elettorale che è stata ampiamente seguita, visto che il 90% degli
elettori (effettivi) ha dichiarato di averlo fatto, non fosse altro che per la
sua crescente spettacolarizzazione mediatica. In questo contesto appare
interessante la combinazione fra le modalità di acquisizione delle informazioni
e quelle della loro elaborazione per la scelta del voto. Mantenendo lo sguardo
analitico concentrato sull’ultimo mese prima del voto, divenuto come si è visto
decisivo, le fonti di informazione più utilizzate sono state in questi ultimi
trenta giorni:
Da quali fonti ha ricevuto informazioni nel corso
dell’ultimo mese prima del voto?
|
|
In %
|
Variazione su 2013
|
Televisione
|
88
|
-
2
|
Da amici, parenti, colleghi
|
65
|
+ 10
|
Giornali
|
60
|
-
3
|
Social media
|
53
|
+ 14
|
Radio
|
48
|
+
1
|
Volantini, manifesti,
depliant
|
44
|
-
3
|
Settimanali, periodici
|
41
|
-
1
|
Messaggi su cellulare
|
22
|
n.r.
|
Manifestazioni politiche
|
19
|
+ 1
|
Contattato da candidati
|
14
|
-
1
|
Mail ricevute
|
13
|
-
2
|
La televisione, seppure in leggera
flessione, resta la principale fonte di informazione. Contribuisce non
poco, in un generale processo di spettacolarizzazione del dibattito politico,
il ruolo dei talk show, spesso ripresi sui cellulari. Ed appare perciò evidente
che in un contesto di elettori che decidono chi votare a ridosso del giorno
delle elezioni “vincere” in un talk show, piuttosto che mettere in campo
strategie accattivanti di fronte alle telecamere diventa un elemento decisivo.
Occorre tenere conto, per meglio comprendere queste dinamiche, che sono stati
presi in considerazione elettori che hanno comunque deciso di votare, un
elemento che diventa centrale per capire il ruolo della seconda fonte di informazione:
amici/parenti/colleghi. In aggiunta alla quale, a completare
l’importanza della discussione personale, è stato rilevato che chi aveva
deciso che comunque avrebbe votato, e che ha definito il suo voto nel corso
dell’ultimo mese, mediamente ha discusso “spesso o abbastanza spesso” in
famiglia, sul lavoro, fra amici. Un
interessante trend in crescita: lo ha fatto infatti il 72% nel 2008, il 74% nel
2013 ed il 78% nel 2018. Oltretutto ciò è avvenuto in ambiti dove solo il 37%
era orientato politicamente in modo omogeneo, il restante 63% era composto da
idee contrastanti se non divergenti. Studi non solo italiani, la situazione
appena descritta ha analogie significative con molti altri paesi
dell’Occidente, evidenziano poi che in questi canali di informazione/discussione hanno un
ruolo centrale soggetti, tecnicamente definiti “leader di opinione intermedi”,
ossia coloro che nelle cerchie di conoscenza sanno far valere il maggior grado
di informazione. Il che rimanda però a quali fonti di informazione vengono a
loro volta utilizzate da questi leader, non si può infatti escludere, in un
simile contesto, una diffusione partigiana e sfalsata di dati e notizie. Fatte
salve queste due prime, per incidenza, fonti di informazione va rilevato che i nuovi
canali della Rete pesano in misura importante: l’incrocio fra social –
messaggistica su cellulare – mail ha ormai assunto una rilevanza notevole, in
particolare per le fasce di elettorato più giovani. Fatto 100 il
dato di quanti si sono informati in Rete nel 2008 si è passati a 169 nel 2013
per poi salire ancora nel 2018 a ben 230. Sebbene “Le divergenze parallele” non
affronti questa problematica appare evidente che, in questo ambito, il peso
delle “fake news” assume una valenza molto significativa. Continua, seppure in
modo ancora abbastanza contenuto, il calo del ruolo dei media cartacei e delle
forme più tradizionali di propaganda politica, peraltro ormai in via di disuso
da diverse tornate elettorali. Tornando al ruolo avuto dalle
informazioni/discussioni fra amici/parenti/colleghi l’indagine Demos ha
evidenziato un interessante collegamento con i tempi della decisione effettiva
di voto (vedi grafico precedente)

Ancora dubbi sulla
“liquidità”, temporale e di sostanza, del voto?
Interpretazione del voto
Ma quali sono stati
i fattori che hanno inciso maggiormente sulla scelta del voto il 4 Marzo
scorso, che abbiamo visto essere liquido, coinvolgere sempre meno elettori, e
su cui incidono talk show, Rete, e amici/parenti/colleghi?
Il primo dato,
oggettivo, che emerge è rappresentato dalla scelta delle due forze “vincenti,
M5s e Lega, di puntare molto sui tre elementi di insicurezza,
migranti-sicurezza-crisi economica, evidenziati in precedenza. Al di là delle
opinioni politiche, è bene ribadirlo ancora una volta, il voto ha senza ombra di dubbio
premiato chi ha assunto questi tre fattori come componenti centrali della
proposta politica. Scelta premiata dall’elettorato non solo in
una visione “positiva”, ossia legata al fatto che erano temi ben presenti nel
programma prescelto, ma anche in una versione “negativa” di condanna verso le
altre forze politiche che di meno avevano assunto come centrali questi temi. E
d’altronde la protesta, il voto “contro”, sollecitato non solo dai tre temi
suddetti, ma anche da quel “rancore” evidenziato dal Censis, è stato un fattore importante il 4
Marzo. Il
29% dei votanti, quasi uno su tre, posto di fronte alla domanda secca: “voto
per” oppure “voto contro” ha scelto questa seconda modalità. E
entrando nel dettaglio dei voti alle liste, sempre prendendo in considerazione
i quattro partiti maggiori (che raccolgono l’80% dei voti) si coglie ancora
meglio l’incidenza di questo orientamento

La lettura di questo
grafico è immediata ed evidenzia come per le due forze vincitrici il peso del
sostegno al programma presentato, con le maggiori attenzioni prestate ai
fattori di “sfiducia”, si sia comunque accompagnato ad una notevole incidenza
del “voto contro”, molto spesso abilmente sollecitato ma altrettanto spesso già
presente del suo negli umori diffusi degli elettori. La domanda di fondo che sembra opportuno
porsi, ragionando su possibili “futuri”, è se il peso del voto di protesta, nel
contesto ormai acquisito di “voto liquido”, non possa diventare l’elemento
determinante per le scelte degli elettori. Il che significherebbe elevare una semplice,
si fa per dire, “liquidità” al rango di “discontinuità costante” di
orientamento elettorale, ossia nella possibilità di una turbolenza
continua di consensi elettorali orientati più a punire che a premiare, e quindi
legati ad ondeggiamenti umorali creati da situazioni contingenti, quando non di
breve periodo.
Un secondo fattore
che in questi ultimi anni sembra, con unanime consenso, aver caratterizzato la competizione elettorale
è rappresentato dal peso del “leader”. Sono stati versati fiumi di inchiostro
sul fenomeno, universale e crescente, della personalizzazione del confronto
elettorale; ed è innegabile che la scelta del candidato leader, la sua capacità di
rappresentare un valore aggiunto, quando non esclusivo, per una proposta
politica sia diventata una opzione fondamentale. Il voto del
italiano del Marzo non smentisce questo trend: l’insieme degli elettori di
tutti i partiti hanno messo in ordine di importanza come ragione per il voto espresso:
1)
– il
programma elettorale = 23%
2)
– il
leader = 22%
3)
– le
proprie idee politiche = 20%
4)
– la
fiducia nel partito = 16%
Non c’è quindi dubbio che il 4 Marzo abbiano
giocato un ruolo importante, in positivo ed in negativo, le capacità attrattive
di Salvini, di Di Maio, di Berlusconi, piuttosto che la mancanza di un leader chiaramente
indicato nel PD, è però necessario per meglio capire misurare la loro specifica
incidenza su questo voto al di là quindi del dato aggregato di tutti i partiti.
L’indagine Demos ha pertanto messo a fuoco dati finalizzati a meglio capire se il peso del leader abbia assunto
il valore di un “di più” per una scelta già del suo davvero indirizzata verso
un partito piuttosto che un valore “a sé stante” (e quindi potenzialmente
spendibile persino “al di fuori” di quel contenitore partito/programma. Per farlo è stato
ovviamente necessario guardare ogni singolo rapporto leader/partito (sempre
prendendo in esame i quattro maggiori partiti):

Sembra difficile
ricavare da questi dati una precisa indicazione su linee di tendenza in atto,
le condizioni specifiche del voto del 2018 hanno inciso in modo evidente, così
come contano i diversi percorsi storici dei singoli partiti. Non sorprende
quindi il dato di FI, fin dalla sua nascita un partito/persona, così come non
stupisce, anche se in senso completamente opposto, quello del PD pur sempre
erede di una concezione del partito che va oltre il ruolo del leader. Più
vicina, fatte salve le abissali differenze di base, alla situazione del PD è
quella del M5s, un “movimento/partito” che sembra avere nel Dna di costituzione
un orientamento preferenziale verso il ruolo del “partito/movimento”. Difficile
al contrario negare, visto il dato molto vicino a quello di FI, che il cambio
di nome da Lega Nord a “Lega per Salvini” abbia in effetti rappresentato un
traino significativo. Sembra però possibile sostenere che, nel complesso, ferma
la sua innegabile rilevanza, la figura del leader sia allo stato attuale più un
valore aggiunto al peso del partito che non una prerogativa dotata di valore
autonomo.
Perdenti e vincenti (della
globalizzazione)
Due fotografie
riassumono bene la cesura rappresentata dal voto del 4 Marzo. La prima, a tutti
nota da subito dopo le elezioni perché sintetizza visivamente l’esito
elettorale, è quella del colore politico dell’Italia, un perfetto bicolore con
una macchia verde pressochè uniforme al Nord-Centro ed una gialla altrettanto
omogenea al Sud-Centro. Interrompono queste due colorazioni poche zone rosse
nel Centro. La seconda è meno nota, ma è decisamente importante, perché evidenzia
i movimenti elettorali dei ceti sociali protagonisti della grande migrazione
dal “voto devoto” al “voto liquido”. Gli stessi grandi numeri di questa
migrazione dimostrano infatti che non sono mutati voti indistinti, generici, la
grande cesura è avvenuta proprio nelle basi sociali che hanno tradizionalmente
costituito le aree “certe” del voto devoto, in particolare quelle della sinistra.
Quella che segue è la tabella che riassume, enucleando in particolare la
situazione dei quattro partiti maggiori, la ripartizione, in percentuale, dei
voti ottenuti fra i vari profili della condizione socio-professionale
|
PD
|
M5s
|
LEGA
|
FI
|
altri
|
Operaio
|
9%
|
41%
|
20%
|
12%
|
18%
|
Tecnico/Impiegato/Funzionario/Dirigente
|
18%
|
33%
|
16%
|
10%
|
23%
|
Libero professionista
|
17%
|
27%
|
15%
|
11%
|
30%
|
Commerciante/artigiano/Imprenditore
|
11%
|
35%
|
29%
|
13%
|
12%
|
Studente
|
16%
|
36%
|
15%
|
12%
|
21%
|
Casalinga
|
11%
|
35%
|
24%
|
19%
|
11%
|
Disoccupato
|
9%
|
57%
|
12%
|
14%
|
8%
|
Pensionato
|
35%
|
38%
|
15%
|
18%
|
4%
|
Altro
|
13%
|
26%
|
13%
|
12%
|
36%
|
Le percentuali del
voto “operaio” e dei “disoccupati” sul totale dei consensi ottenuti dal PD
spiega meglio di molte valutazioni “di linea politica” la rivoluzione
elettorale del 4 marzo, ancor più se messa a raffronto con quelle raccolte dal
M5s negli stessi ambiti sociali. Ma questo dato rappresenta una ulteriore conferma
della liquidità del voto, proprio per quanto concerne la sua relazione con le
basi sociali di riferimento, quelle che erano storicamente le protagoniste del
“voto devoto”. Un secondo importante aspetto viene dalla lettura complessiva
dei dati della tabella: escludendo infatti il 57% del voto dei “disoccupati” al
M5s (per il quale è evidente l’incidenza della provenienza geografica ed il
collegamento alla proposta elettorale del reddito di cittadinanza) tutti i
quattro partiti maggiori esprimono una sostanziale omogeneità di consensi fra
le varie figure sociali, ossia più nessuno presenta un evidente profilo di
rappresentanza “forte” di determinate aree sociali. Tutti
pescano, con maggiore o minore successo, fra tutti. Segnale di un proposta
politica ormai socialmente indifferenziata? O del prevalere di linee di
divisione elettorale non più collegabili a quelle di divisione sociale?
Piuttosto che del prevalere di fattori di scelta non più determinati dalla
collocazione sociale? Bordignon,
Ceccarini e Diamanti avanzano una differente interpretazione che recupera una
“lettura di classe” del voto aggiornata però a una diversa linea di
demarcazione: quella di un voto diversificato dall’essere, e dal sentirsi, “perdenti”
o “vincenti” della globalizzazione. In effetti la “liquidità”
del voto non può essere ascritta, con una relazione troppo riduttiva, unicamente
alle inadeguatezze di determinate proposte politiche, essa non può non essere collegata
ai mutamenti intervenuti nella composizione sociale ed al parallelo esaurirsi delle
visioni ideologiche basate sulla storica divisione di classe. Per riprendere il
titolo di questo post sono, negli ultimi tre decenni, sicuramente cambiati gli
italiani, ed è diverso fin nelle sue fondamenta il sistema paese Italia. Ciò à avvenuto
in coincidenza con il pieno realizzarsi di due trasformazioni, politiche,
culturali ed economiche, epocali: la fine della divisione fra i due blocchi Est
– Ovest, ma soprattutto la planetaria trasformazione
dei sistemi produttivi ed economici riassunta in un unico nome atto a sancirne
l’identità, la natura: per l’appunto la globalizzazione. Interessa qui recuperarne
in particolare la ricaduta relativa alla composizione di classe. Lo stare sotto
o sopra, nella scala sociale, assieme a forme sempre più accentuate di
disuguaglianza economica, si è saldato, lungo una linea di demarcazione che ha
attraversato tutte le figure sociali, con lo stare al riparo, o al contrario
con l’esserne investiti, dalle ricadute, interne ad ogni paese, della
globalizzazione. Si è sempre, in parole povere, disoccupati, operai, impiegati,
artigiani e via discorrendo, e queste differenze sociali mantengono un loro
peso generale, ma non tutti i disoccupati, gli operai, gli impiegati e gli
artigiani hanno vissuto allo stesso modo la globalizzazione, alcuni ne sono
stati investiti in pieno, altri meno, alcuni hanno percepito di esserlo stati,
altri no. E questa “frattura interclassista” ha modificato, assieme ad una
diversa concreta condizione economica, la coscienza di appartenenza di classe,
e con essa il fondamento del “voto devoto”. E’ questa la tesi di “Le divergenze
parallele” per spiegare gli shock elettorali avvenuti, in moltissimi paesi
occidentali ed in successione quasi simultanea, in questi ultimi anni, e nel
nostro in particolare il 4 Marzo scorso. Riprendiamo testualmente da “Le
divergenze parallele” ……..Detto in altri termini la globalizzazione ha creato un
nuovo cleavage (frattura, spaccatura) che si apre lungo il solco dello sviluppo
globale. Ha preso forma un diverso segmento della perifericità sociale. I
left-behind, ossia quei soggetti rimasti indietro sul piano economico e
spaesati su quello culturale. Si tratta di soggetti che si sentono esclusi
dalle dinamiche che hanno coinvolto e ridefinito i confini del mondo in senso
globale. E’ una linea di frattura che si estende oltre quelle tradizionali o,
quanto meno, le ridefinisce e le esaspera. Secondo questa prospettiva due
sarebbero le figure idealtipiche protagoniste di questa nuova linea di
distinzione: i vincenti ed i perdenti della globalizzazione……. I
vincenti sono coloro che hanno tratto vantaggi dai cambiamenti, o che
quantomeno non ne hanno subito troppi danni, i secondi quelli che ne sono stati
investiti in pieno. I vincenti sono quelli che non si sono sentiti retrocessi,
i perdenti sono quelli che convivono con la convinzione di essere esclusi. Si
tratta peraltro di una percezione che ha una conferma molto concreta nei dati Istat
sulla crescita della povertà assoluta e relativa in Italia. Caratteristiche
queste che si sono definite con un processo lungo, come si è detto, all’incirca
un trentennio e che ha avuto una accelerazione decisiva negli ultimi dieci anni
post crisi 2008, una crisi che se è oggettivamente ascrivibile, soprattutto nei
suoi risvolti finanziari, alla globalizzazione, è stata comunque percepita come
tale in modo diffuso. Venendo alle specifiche ricadute elettorali Bordignon,
Ceccarini e Diamaanti sostengono, dati alla mano e con un rapporto che
capovolge i due estremi, che in generale i “perdenti della globalizzazione” si
sono orientati in maggioranza verso i partiti che il 4 marzo hanno vinto, viceversa
i “vincenti della globalizzazione” sono
rimasti più legati ai partiti che il 4 marzo hanno perso.
Per meglio comprendere
questa affermazione occorre collegare a cascata fra di loro alcuni dati
acquisiti dall’indagine Demos, iniziando da quelli che definiscono, rispetto ai
due temi centrali della soddisfazione economica e del rapporto con l’immigrazione,
la (auto)collocazione fra vincenti e perdenti
Quanto si ritiene soddisfatto della situazione economica (del
paese e della famiglia) con un voto da 1 a 10?
Insoddisfatti e
soddisfatti, in totale, si attestano
sulla medesima percentuale a testimonianza di una frattura che ha diviso a metà
gli italiani
Rispetto al tema
dell’immigrazione non esistono invece dubbi, la grande maggioranza degli
italiani esprime una posizione di netta chiusura.
L’incrocio fra le
risposte a queste due domande, quelle centrali per comprendere come sono
percepite le ricadute della globalizzazione, consente di articolare alcune
caratteristiche riferibili ai “vincenti” ed i “perdenti”, che definiscono quattro
tipologie, due pure e due miste:
-
Vincenti
(puri) =
sono per una società aperta e sono soddisfatti della situazione economica = valgono il 21%
-
Vincenti (comunitari) =
sono per una società chiusa e sono soddisfatti della situazione economica = valgono
il 36%
-
Perdenti
(cosmopoliti) = sono per una società aperta e sono insoddisfatti della
situazione economica = valgono
il 15%
-
Perdenti
(puri) = sono per una società chiusa e sono insoddisfatti della
situazione economica = valgono
il 28%
Un ulteriore
incrocio con altri dati raccolti consente di tracciare un idendikit di queste
quattro tipologie tipi agganciandole al genere, all’età, alla condizione
sociale, all’istruzione, all’area geografica. Si tratta ovviamente di indicazioni che
riassumono le caratteristiche “medie” prevalenti, al cui interno è sicuramente
ampia la casistica reale, ma che sono comunque in grado di fornire gli elementi
“visivi” di una tipologia standard:
vincenti puri
|
vincenti comunitari
|
perdenti cosmopoliti
|
perdenti puri
|
|
|
uomini anziani
|
uomini
|
donne
|
donne anziane
|
|
istruzione elevata
|
Istruzione bassa
|
mista
|
Istruzione media
|
|
Dirigenti, impiegati, professionisti, studenti, pensionati
|
pensionati, impiegati
|
Studenti, disoccupati
|
Operai, disoccupati, lavoratori
autonomi, casalinghe
|
|
Nord-Ovest Centro-Sud
|
Nord-Est Centro-Nord
|
Nord-Ovest Sud e isole
|
Sud e Isole
|
|
Un ultimo passaggio dell’indagine
svolta consente infine di ribaltare sugli orientamenti politici, sempre
riferiti ai quattro partiti maggiori, la suddivisione dei quattro tipi così
definiti individuando la presenza in percentuale sul totale dei voti raccolti delle
quattro tipologie di elettore “post-globalizzazione”

Il dato del PD non
presenta dubbi: la somma di vincenti puri (ben il 43%) e dei vincenti
comunitari (34) evidenzia che più di tre suoi elettori su quattro rientrano nelle
tipologie di coloro che non vivono il presente come una minaccia; a
dimostrazione di una capacità di un buon rapporto con le componenti più dinamiche
della società italiana, pagata però, con la sola eccezione dell’appoggio
consolidato di una buona percentuale degli anziani, con la perdita del consenso
dei settori sociali più marginali, quelli tradizionalmente più legati alla
sinistra. Nel centrodestra il travaso di voti da FI alla Lega non ha comportato
un cambiamento della base sociale di riferimento, ambedue questi partiti
continuano a rappresentare un elettorato la cui caratteristica prevalente è
quella della chiusura sulla comunità di appartenenza, un elettorato che vale il
38% di FI e ben il 49% della Lega. L’obiettivo della difesa della comunità di
appartenenza trascina con sé anche una percentuale importante di perdenti puri,
in buona misura composti da figure sociali (lavoratori autonomi, casalinghe) da
sempre loro consolidato bacino elettorale, che vivono la globalizzazione come
una minaccia.
Il M5s è invece
quello che presenta una ripartizione fra le quattro tipologie più equilibrata,
a conferma di una sua caratteristica di forza politica trasversale, in grado di
intercettare consensi da tutti i settori sociali, ai quali si presenta in modo
multi-ideologico, a volte di sinistra, a volte di destra, giocando ancora molto
sulla sua caratteristica di forza ultima arrivata sulla scena con una forte
valenza “anti-casta”.
Il dato in qualche modo riassuntivo sembra
pertanto confermare l’assunto che i due partiti risultati perdenti insieme ottengono
i consensi del 60% dei “vincenti”, risultato che si rovescia nel suo opposto
con il 60% dei “perdenti” che premiamo i due partiti risultati vincenti.
Una situazione
riassumibile con quello che va inteso come un semplice slogan (peraltro citato
molto, non a caso, dalle due forze vincenti) “noi, il popolo contro loro, l’establishement”;
è presto
per dire se questo stato di cose è
destinato a restare a lungo la chiave di lettura del rapporto fra l’Italia, gli
italiani, e la politica, sono troppi i fattori in evoluzione che
potranno incidere nel prossimo futuro su un voto ormai strutturalmente “liquido”,
fluido e dinamico, di sicuro è quello che ha detto il voto del 4 Marzo.
……….certo è che le
elezioni del 2018 hanno spinto ancora di più la democrazia italiana lungo quella strada che assieme alle altre democrazie
(occidentali) aveva da tempo imboccato verso la “popolocrazia”………(da
“Le divergenze parallele)