martedì 6 novembre 2018

Il "Saggio del mese" - Novembre 2018


Il “saggio” del mese

NOVEMBRE 2018

Le prime conferenze dal nostro programma 2018/2019 dedicato al tema dei “FUTURI” hanno confermato la necessità di prestare la giusta attenzione ad alcuni possibili scenari negativi, o quanto meno problematici, legati alla irrefrenabile crescita della presenza della tecnologia nelle nostre vite, individuali e collettive. In particolare nella sfera, ormai onnicomprensiva ed onnipresente, della “Rete” e delle sue varie offerte di informazione, socialità, gestione di attività ed interessi. Il “Saggio” di questo mese aggiunge significativi elementi di riflessione proprio su questa tematica. Il suo autore, Michele Ainis, è da molti conosciuto per la sua frequente presenza sui media. Ma, a nostro modesto avviso e a suo pieno merito, a differenza di molti suoi “colleghi” non si atteggia mai a tuttologo. Esprime sempre, su giornali, riviste, o in programmi televisivi, opinioni meditate e collegate alla sua specifica competenza di giurista costituzionalista (è Docente di istituzioni di Diritto Pubblico all’Università di Roma, ed è membro dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato). Da questa sua competenza deriva in particolare una forte attenzione ai temi della “democrazia”, delle modalità e degli istituti che la concretizzano e la definiscono. Ed è quanto fa anche in questo saggio dedicato al tema di quanta democrazia, e libertà di pensiero, stiamo perdendo, consapevolmente ed inconsapevolmente, da quando la Rete, i social, i big data, sono diventati elementi costitutivi di molti aspetti delle nostre vite. Il suo è un segnale di allarme, un richiamo a prestare attenzione a quanta democrazia e a quanta socialità sono minacciate da queste presenze ingombranti, invasive, troppo spesso non trasparenti. Il Saggio di questo mese è…….

Per calarci subito a fondo nel discorso sviluppato da Michele Ainis ci affidiamo alla presentazione del tema che egli stesso fa nell’introduzione del saggio 

La libertà di manifestazione del pensiero rappresentava la “pietra angolare” della democrazia. Ma ormai non è più così: non siamo più liberi di pensare i nostri stessi pensieri. La trappola scatta il 4 dicembre 2009, quando Google avverte gli utenti che da allora in poi avrebbe personalizzato il proprio motore di ricerca. Significa che i risultati cambiano a seconda delle ricerche precedenti, del computer da cui stiamo interrogando Google, del luogo nel quale ci troviamo. Più che una riforma, una rivoluzione, che si propaga immediatamente agli altri giganti della Rete, da Apple a Microsoft, da Amazon a Facebook, a Twitter, a WhatsApp. Ciascuno di loro succhia dati mentre navighiamo online, carpisce i nostri gusti, le nostre opinioni, le nostre frequentazioni telematiche, per venderle poi agli inserzionisti, che in questo modo possono inseguirci con una pubblicità tagliata su misura. Queste tecniche di profilazione mettono in gioco la possibilità di rapportarci gli uni agli altri, d’aprirci al mondo esterno. I filtri che agiscono sul web tendono a proporci all’infinito le stesse fonti da cui già ci siamo alimentati, le stesse opinioni, le stesse informazioni. E la Rete diventa un po’ come uno specchio, una superficie riflettente dove non si moltiplica l’immagine del mondo bensì quella dei singoli individui. La nuova condizione umana è così una solitudine di massa che ci lascia senza democrazia, dato che quest’ultima si nutre del confronto tra punti di vista eterogenei. Quale regime potrà sostituirla? Il regno dell’Uroboro, serpente che si morde la coda, formando un cerchio chiuso. Il regno dell’autoreferenza. ……….dall’introduzione di Michele Ainis al suo saggio “Il regno dell’uroboro”

Seguono alcuni articoli di commento e recensione che ci sono sembrati evidenziare li temi centrali del saggio di Michele Ainis in modo chiaro,  approfondito e decisamente concorde

In “Il regno dell’uroboro”
Articolo/commento di Davide D'Alessandro – Il Foglio
Clic. Basta un clic e la democrazia perde peso e sostanza, si affloscia, tramonta. “La democrazia non è mai stata così fragile come da quando siamo tutti connessi con un clic”, denuncia Michele Ainis, costituzionalista con il dono della scrittura intensa e godibile. Non è poco. Il regno dell’uroboro. Benvenuti nell’era della solitudine di massa è il suo ultimo libro, edito dall’intraprendente La nave di Teseo. Confesso: ho iniziato a leggerlo al contrario, da pagina 111, dall’ultimo capitolo, poiché i circoli viziosi mi affascinano. L’incipit è straordinario: “Si respira un’aria fiacca, stanca. Mancano gli stimoli, sono venute meno anche le forze. Una volta le traevi dalle idee, se non dagli ideali. E le idee sbucavano dai libri. Ma di che parlano, adesso, i libri? Parlano d’altri libri, non più della vita. Rimasticano pagine già scritte, dettandone l’ennesima variante. Raccontano una storia che non ha più il potere di sedurti, né di sorprenderti, perché la conosci già, e ciò che conosci non ti piace, o comunque non ti meraviglia. È dallo stupore che si genera la filosofia, diceva Aristotele. Ma il filosofo attinge a un’energia vitale, che a sua volta si trasmette con parole nuove, vergini. Le nostre parole, invece, parrebbero tutte consumate. E allora i libri si ritorcono in se stessi, diventano sempre più autoreferenziali, cadono nel vizio di Narciso”.  Be’, anche questa rubrica scrive di libri, tutti da pubblicare e tutti da leggere. Li scelgo con cura, perché non sono tutti uguali. Mi sorprendono e attivano la circolazione del sangue e del pensiero. Li leggo e ne scrivo per farli leggere. Comprendo l’aria fiacca e la stanchezza. Non sono anni felici. Eppure, basta cercare, scoprire e ti sorprendi, magari con piccole chicche, delizie che ti seducono, che hanno il potere di trascinarti altrove, lontano dal rumore di rito. Il regno dell’uroboro ci riesce, alimenta il sangue e il pensiero senza farci mordere la coda, ma guardando avanti, problematizzando l’infernale sconquasso della mente, gli innumerevoli bombardamenti che la Rete impone di subire alla vita, alla nostra vita. È vero, riteniamo di vedere e siamo visti. Riteniamo di scoprire e siamo scoperti. Riteniamo di spogliare e siamo spogliati. Nudi. Completamente nudi. “La Rete diventa un po’ come uno specchio, una superficie riflettente dove non si moltiplica l’immagine del mondo bensì quella dei singoli individui”. La solitudine di Narciso, la solitudine dei molti, comuni e non numeri primi, in un tempo di amicizie forzate, non volute, l’algoritmo al potere, perché “dietro lo schermo del nostro cellulare o del computer c’è un sarto invisibile, che ci cuce addosso un vestito su misura. Può farlo un governo, per migliorare l’erogazione dei servizi pubblici, calibrandoli in base alle esigenze dei propri cittadini. Lo fanno, ormai, tutte le imprese, allo scopo di offrire prodotti in linea con i gusti dei consumatori”. Siamo indifesi. Più vogliamo vedere, più siamo visti. Più vogliamo spogliare, più veniamo spogliati: “Per ricevere una app o per navigare dentro un sito bisogna accettare i cookie, questi Dracula elettronici che ci succhiano i dati personali”. Veniamo regolarmente scippati, truffati attraverso il dono. Continua Ainis: “Le big companies ci regalano le loro informazioni, noi gli regaliamo i nostri dati. Solo che il nostro regalo è inconsapevole, non ci rendiamo conto né del cassiere né del prezzo. Mentre il loro non è affatto un regalo, casomai uno scippo, sia pure in guanti gialli”. Gli esempi portati dall’autore a sostegno della tesi sono incontrovertibili. C’è spazio anche per Michel Foucault. Veniamo osservati e “frugati dentro e fuori, senza sapere chi ci osserva, senza incrociarne mai lo sguardo”. Siamo ingenui. Come tanti bambini davanti all’emozione del gioco senza fine. Prigionieri di un gioco, sporco, che non ha fine. Le strutture, inizialmente aperte, si sono trasformate in microcosmi chiusi: Google, Facebook, Twitter, Instagram. Libertà pubbliche e controlli privati: “Il nuovo che avanza non è un sapere diffuso, bensì un’ignoranza confusa”. Ainis, ovviamente, non può non emettere una radiografia puntuale su un’altra autoreferenzialità: quella degli pseudo-partiti, della capocrazia. Eppure, “la democrazia – diceva Kelsen, sulle orme di Platone – è assenza di capi”. Kelsen? Platone? Chi erano costoro? Qualcuno conosce Rousseau, ma è soltanto il logo di una piattaforma. Per il resto, è solitudine di massa. E un clic. Un semplice clic. Per fingere partecipazione, mentre la democrazia tramonta. Elementare, Ainis! Eccellente, Ainis!

Il regno dell'uroboro
Articolo di Giovanni Boccia Artieri – Rivista on-line DoppioZero  
Viviamo online in modo paradossale. Non è mai esista una tale abbondanza di informazioni a rendere più trasparente il mondo, eppure molti dei processi algoritmici che governano Internet e i social media sono tutt’altro che trasparenti e rendono oscuro come diventi visibile ciò che vediamo. Online possiamo esercitare gradi elevati di controllo sul nostro racconto quotidiano, scegliendo le immagini e le parole con cui presentarci e decidendo con chi condividerli ed entrare in relazione; ma questi stessi contenuti diventano uno strumento di controllo nei nostri confronti da parte degli Stati (la lezione di Snowden è sempre attuale) e delle piattaforme che li trasformano in dati da mettere in relazione a fini di sorveglianza e predittivi. Al centro di questo scenario c’è l’ambivalenza con cui viviamo la privacy, contenti che le nostre vite sbuchino da Facebook, Twitter e Instagram diventando visibili e condivise così da ottenere commenti e like e pronti a risentirci quando qualche imbarazzo privato inaspettatamente viene alla luce. E anche su questo versante la nostra società vive un paradosso: di privacy “non ne abbiamo mai avuto così poca come da quado esistono norme, garanti e garanzie per proteggere i nostri dati personali”, come spiega Michele Ainis, costituzionalista e membro dell’Antitrust, nel suo “Il regno dell’uroboro” (La nave di Teseo). Perché, sostiene Ainis, le istituzioni non riescono a costruire una normativa capace di rispondere efficacemente alla combinazione tra: accelerazione delle tecnologie digitali con le corrispondenti trasformazioni in termini di possibilità comunicative; comportamenti sociali che hanno interiorizzato le forme di mediazione (e disintermediazione) delle relazioni sociali ed economiche e che portano ad aggregarsi attorno a piattaforme; una sorta di predisposizione antropologica connessa alla vita digitale che porta a preoccuparci poco della privacy a fronte dei vantaggi immediati che otteniamo nel creare profili che garantiscono navigazioni e servizi personalizzati e gratuiti.  Potremmo dire che siamo psicologicamente e socialmente indotti a dare il consenso alle piattaforme, a permettere di trattare i nostri comportamenti online e i nostri contenuti sotto forma di dati da raccogliere, accatastare e usare per una possibile profilazione a fini commerciali o di propaganda: “ogni contatto, ogni ricerca, ogni giudizio che ti scappa via su un social network si trasforma in merce, e la merce sei tu stesso, sono i frammenti della tua identità” (p. 50). È una realtà quella descritta che mette al centro del funzionamento dell’Internet delle piattaforme una logica dei “filtri” che selezionano per facilitare la personalizzazione dei servizi e delle informazioni che ci interessano, finendo per chiudere gli utenti in “bolle” in cui la probabilità di incontrare le opinioni che già si condividono è sempre più alta e che tengono selettivamente al di fuori la diversità. Questa prospettiva ha ricadute innegabili sui meccanismi democratici fondati su un fluido scambio di idee e su quella che è la democrazia deliberativa. Il contesto che Ainis descrive è quello di una bubble democracy in cui “le correnti d’opinione si muovono in sciami dalle traiettorie imprevedibili e cangianti, alimentate per lo più da una carica di risentimento, non dal sentimento” (p. 70). Il riferimento alla polarizzazione della politica è qui più che evidente ed è palpabile per ogni lettore che si sia imbattuto nella circolazione di memi controversi, in discussioni su Facebook che tracimano nell’hate speech, in bufale che sono oggetto di sharing compulsivo perché, per quanto false, sanno rappresentare la condizione di risentimento e rabbia meglio di dati scientifici e notizie ben informate. Usando una buona analogia Ainis spiega come le eresie abbiano una funzione di aggregazione e collante sociale superiore all’ortodossia e, possiamo aggiungere, la loro forza eversiva ha capacità di iniettare dubbi sistemici che mettono a rischio la struttura stessa della democrazia. Quella delle fake news e della propaganda non è una realtà nuova nell’ambito della società in generale e della politica in particolare, la novità è data dall’intrecciarsi di diversi elementi che rendono la scala, la velocità e la magnitudo di questi fenomeni decisamente più rilevanti: le caratteristiche architetturali della Rete che, essendo policentrica, rende più facile e capillare la propagazione e più complesso strutturare forme di frenata e rettifica; le tendenze algoritmiche alla diffusione di ciò che risulta più condiviso, scambiandolo con ciò che è condivisibile; la sfiducia generalizzata rispetto a una serie di intermediari istituzionali, compresi i legacy media. È all’interno di questo circuito che “le nostre aspettative sui fatti finiscono per sostituirsi ai fatti”, celebrando l’era della post-verità. Ainis descrive in modo colto e documentato questo contesto in cui evoluzione mediale e comportamenti sociali si relazionano, correlandolo a uno scenario più ampio che vede i cittadini man mano uscire da una comfort zone democratica (se mai ci fosse stata!), in cui i corpi intermedi, come ci insegna la politologia, sono saltati e le “capocrazie” – forme di leadearismo più o meno estreme – caratterizzano una politica disintermediata. Una strada che secondo l’Autore è punteggiata da una condizione di solitudine dell’uomo contemporaneo caratterizzata da “un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che galleggia in mare aperto” (p. 106). Una tesi questa già esplorata dalle posizioni alla bowling alone di Robert Putnam o della “solitudine del cittadino globale” di Zygmunt Bauman, che mostrano il dissolversi della comunità e l’indebolimento del capitale sociale. Riflessioni che però devono tenere conto di una realtà diversa – che Internet e i social media modellano ma non determinano – che è fatta di comunità networked, frutto di profonde trasformazioni sociali, costruite attorno a rapporti specializzati mediati comunicativamente, in cui gli individui si muovono attraverso reti multiple agendo separatamente nei propri network per ottenere informazione, collaborazione, ordini, supporto, sociabilità e senso di appartenenza – come spiega ad esempio l’analisi sul networked individualism di Barry Wellman.  D’altra parte il quadro tratteggiato da Ainis vuole dipingere quello che è il “regno dell’uruboro”, conducendoci, per metafora, a una figura chiusa a cerchio che rimanda all’idea di auto-referenza. Auto-referenza della politica, auto-referenza legislativa e auto-referenza dell’individuo, che fa delle nuove reti sociali in cui è immerso – anche attraverso Internet – la sua gabbia dorata. Non è qui questione di pessimismo o di ottimismo ma di capire se e come queste letture possano essere funzionali a una fondata critica dell’attuale condizione politica e delle vite connesse. La caduta delle ideologie e dei corpi intermedi non è, ad esempio, correlabile alla perdita di capitale sociale e alla solitudine di massa (sottotitolo del libro). Lo spiega Putnam nel suo lavoro con Feldstein Better Together quando afferma che “il capitale sociale “non rappresenta un’alternativa al conflitto sociale, ma un modo per rendere produttive le controversie”. D’altra parte il moltiplicarsi di aggregati online razzisti e xenofobi, per non parlare di comunità connesse antiscientiste, sono l’espressione di nerwork sociali in qualche modo coesi: il capitale sociale può essere utilizzato anche verso scopi moralmente ripugnanti, non ha un orientamento puramente etico. In definitiva il peccato originale di questo agile volume sta nella sua forza, quella di parlare in modo chiaro a un pubblico italiano di lettori che in qualche modo rappresentano una élite, sia per la scelta del genere saggistico sia perché il lettore di libri è sempre più una nicchia mediamente benestante e matura che probabilmente condivide generazionalmente con Ainis le preoccupazioni per le trasformazioni che vede prodotte dal digitale. Sono gli stessi lettori che partecipano a un dibattito pubblico che in Italia è sempre stato piuttosto povero e che vive di suggestioni giornalistiche, pronte a cogliere e divulgare solo alcuni aspetti della ricerca scientifica relativa al digitale e ai comportamenti sociali relativi. Dibattito che tende a essere polarizzato nei legacy media riconducendo le posizioni in campo a tecno-ottimismo o a tecno-pessimismo, cadendo quindi nello stesso limite che viene attribuito ai contesti online. Non che le preoccupazioni di Ainis non siano condivisibili, ma le condizioni di possibilità che generano il contesto attuale e le ragioni dei fenomeni che esplora meritano di essere comprese più alla radice. Quello che stiamo affrontando, a mio parere, è una frattura epistemica che non può essere compresa cercando continuità e discontinuità con la condizione precedente, ad esempio confrontando verità e post-verità, democrazia e democrazia elettronica, free speech e hate speech. O meglio lo si può fare ma a condizione che si colga il fatto che questi non sono altro che sintomi di una differenza di valori e atteggiamenti che si è prodotta tra gruppi sociali: pensiamo a quella fra globalisti e sovranisti, e che ha prodotto universi culturali non solo distinti ma che confliggono tra loro. La verità, la politica, la tecnologia sono tutti terreni di scontro tra semantiche diverse, fra forme diverse di rappresentazione del mondo che gli individui utilizzano come terreno espressivo per la propria identità e per costruire grumi sociali e vischiosità in una società raccontata come liquida.

"Il regno dell’Uroboro",.
 Articolo/cpmmento  di Maurizio Ferraris - La Repubblica
Tutto, ricorda Michele Ainis ne Il regno dell’Uroboro — volume che raccoglie suoi recenti articoli e saggi brevi, alcuni dei quali apparsi, in forma leggermente diversa, su Repubblica — inizia meno di nove anni fa, il 4 dicembre 2009, quando Google avvisa che comincerà a personalizzare gli avvisi in base agli utenti: se cerchi “calcio”, in base alle tue navigazioni ti può venir fuori “Juve” o “Roma” (e se cerchi spread, reddito di cittadinanza, vaccini, Junker che barcolla, avrai risposte coerenti con le tue abitudini). Perché tutto questo ha un valore epocale? Perché da quel momento si è compreso che la funzione capitale del web era registrare molto più che comunicare. Chi accede al web ha fisicamente l’impressione di guardare la televisione, ma in realtà tra il guardare un video in tv o sul telefonino ha luogo una rivoluzione copernicana. Nel primo caso, siamo noi che guardiamo il video. Nel secondo, per così dire, è il video che guarda noi, nel senso che annota quello che guardiamo, i commenti che facciamo, le persone a cui inviamo il link, la frequenza con cui ci ritorniamo. Il grandissimo merito di Ainis è di isolare lucidamente le conseguenze di questa rivoluzione, e di farlo con grandissima concisione, il che è un merito in sé, ma anche comparativamente, se si considera la pletora di libri che escono sul web, prima entusiastici, ora per lo più critici, ma che lasciano l’impressione di non aver colto il punto. Le conseguenze della rivoluzione riguardano essenzialmente il sapere, la politica e il lavoro. Sul piano del sapere, abbiamo una sorta di monadizzazione della conoscenza, cioè la «solitudine di massa» di cui parla il sottotitolo del libro di Ainis. Ognuno di noi è una monade nel senso che si rappresenta il mondo, il world wide web, da una prospettiva, la sua, personalissima. Così che la “Rete ampia come il mondo” diviene la descrizione di casa nostra. E noi tutti viviamo in mondi diversi. È facile vedere come, nell’ambito della politica, questa frammentazione sia il terreno di coltura ideale per la crescita delle convinzioni identitarie, della rappresentazioni dogmatiche, delle teorie del complotto. Se nella tua echo camber sono convinti che la Luna è fatta di formaggio ti apparirà naturale pensare che chi dice che è fatta di pietra è parte di un complotto. E questo non vale ovviamente solo per la Luna, ma viene a toccare elementi più sensibili come il funzionamento dei mercati, le conseguenze delle manovre economiche, le conseguenze socioeconomiche delle migrazioni. Ma mentre gli elettori hanno informazioni molto parziali, perché monadiche, gli eletti (purché abbiano i soldi per pagarsi le informazioni, soldi ben spesi) ne hanno di molto esatte, almeno sulle credenze degli elettori. Da una parte, i politici sono visibilissimi, ma questi sono fatti loro, se lo scelgono attraverso una frequentazione compulsiva dei social. Dall’altra, ed è più significativo e drammatico, abbiamo il passaggio dei politici da classe dirigente a classe diretta, perché quello a cui rispondono non è una opinione pubblica vaga e impalpabile, ma una rappresentazione esatta del gradimento e dei desideri degli elettori. E se prevale, poniamo, la dottrina della luna fatta di formaggio, allora sarà politicamente doveroso dar vita alla lega del formaggio e al movimento della luna. Di solito, le idee balzane e i sentimenti complottisti sono il frutto immaginario di disagi paure reali, per esempio rispetto al lavoro. È un fatto che c’è sempre meno lavoro e non è chiaro come potrà tornare. Da questo punto di vista, bisognerebbe distogliere gli occhi dal complotto della luna e dei mercati e considerare un fatto a cui pochi prestano attenzione. Mentre soddisfiamo i nostri bisogni ed esprimiamo le nostre idee, creiamo enormi archivi su noi stessi, sulle nostre abitudini, sulle nostre regole e sui nostri strappi alla regola. Così facendo, lavoriamo, gratis e senza saperlo, perché produciamo una ricchezza molto superiore a quella dei soldi. Un capitale che non si limita a dare informazioni su quanto possiamo spendere, ma su quello che siamo e quello che vogliamo. Mentre rinunciamo spensieratamente alla privacy, produciamo ricchezza. Ora, la privacy non ha prezzo, e non è chiaro come possa essere tutelata. Ma il lavoro che produciamo un prezzo ce l’ha, può essere quantificato, e deve essere pagato dalle piattaforme senza gravare sui bilanci degli Stati. Riducendo lo scontento sociale, e magari rendendo più onorevole, fattibile, e gratificante, il compito politico di servire un popolo meno impaurito e arrabbiato.

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