Il
“saggio” del mese
NOVEMBRE 2018
Le prime conferenze dal nostro programma 2018/2019 dedicato
al tema dei “FUTURI” hanno confermato la necessità di prestare la giusta
attenzione ad alcuni possibili scenari negativi, o quanto meno problematici,
legati alla irrefrenabile crescita della presenza della tecnologia nelle nostre
vite, individuali e collettive. In particolare nella sfera, ormai
onnicomprensiva ed onnipresente, della “Rete” e delle sue varie offerte di
informazione, socialità, gestione di attività ed interessi. Il “Saggio” di
questo mese aggiunge significativi elementi di riflessione proprio su questa
tematica. Il suo autore, Michele Ainis, è da molti conosciuto per la sua
frequente presenza sui media. Ma, a nostro modesto avviso e a suo pieno merito,
a differenza di molti suoi “colleghi” non si atteggia mai a tuttologo. Esprime
sempre, su giornali, riviste, o in programmi televisivi, opinioni meditate e
collegate alla sua specifica competenza di giurista costituzionalista (è
Docente di istituzioni di Diritto Pubblico all’Università di Roma, ed è membro
dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato). Da questa sua
competenza deriva in particolare una forte attenzione ai temi della
“democrazia”, delle modalità e degli istituti che la concretizzano e la definiscono.
Ed è quanto fa anche in questo saggio dedicato al tema di quanta democrazia, e
libertà di pensiero, stiamo perdendo, consapevolmente ed inconsapevolmente, da
quando la Rete, i social, i big data, sono diventati elementi costitutivi di
molti aspetti delle nostre vite. Il suo è un segnale di allarme, un richiamo a
prestare attenzione a quanta democrazia e a quanta socialità sono minacciate da
queste presenze ingombranti, invasive, troppo spesso non trasparenti. Il Saggio
di questo mese è…….
Per calarci subito a fondo nel discorso
sviluppato da Michele Ainis ci affidiamo alla presentazione del tema che egli stesso
fa nell’introduzione del saggio
La
libertà di manifestazione del pensiero rappresentava la “pietra angolare” della
democrazia. Ma ormai non è più così: non siamo più liberi di pensare i nostri
stessi pensieri. La trappola scatta il 4 dicembre 2009, quando Google avverte
gli utenti che da allora in poi avrebbe personalizzato il proprio motore di
ricerca. Significa che i risultati cambiano a seconda delle ricerche
precedenti, del computer da cui stiamo interrogando Google, del luogo nel quale
ci troviamo. Più che una riforma, una rivoluzione, che si propaga
immediatamente agli altri giganti della Rete, da Apple a Microsoft, da Amazon a
Facebook, a Twitter, a WhatsApp. Ciascuno di loro succhia dati mentre
navighiamo online, carpisce i nostri gusti, le nostre opinioni, le nostre
frequentazioni telematiche, per venderle poi agli inserzionisti, che in questo
modo possono inseguirci con una pubblicità tagliata su misura. Queste tecniche
di profilazione mettono in gioco la possibilità di rapportarci gli uni agli
altri, d’aprirci al mondo esterno. I filtri che agiscono sul web tendono a
proporci all’infinito le stesse fonti da cui già ci siamo alimentati, le stesse
opinioni, le stesse informazioni. E la Rete diventa un po’ come uno specchio,
una superficie riflettente dove non si moltiplica l’immagine del mondo bensì
quella dei singoli individui. La nuova condizione umana è così una solitudine
di massa che ci lascia senza democrazia, dato che quest’ultima si nutre del
confronto tra punti di vista eterogenei. Quale regime potrà sostituirla? Il
regno dell’Uroboro, serpente che si morde la coda, formando un cerchio chiuso.
Il regno dell’autoreferenza. ……….dall’introduzione
di Michele Ainis al suo saggio “Il regno dell’uroboro”
Seguono alcuni articoli di commento e recensione che ci
sono sembrati evidenziare li temi centrali del saggio di Michele Ainis in modo
chiaro, approfondito e decisamente
concorde
In “Il regno dell’uroboro”
Clic. Basta un clic
e la democrazia perde peso e sostanza, si affloscia, tramonta. “La democrazia
non è mai stata così fragile come da quando siamo tutti connessi con un clic”,
denuncia Michele Ainis, costituzionalista con il dono della scrittura intensa e
godibile. Non è poco. Il
regno dell’uroboro. Benvenuti nell’era della solitudine di massa è
il suo ultimo libro, edito dall’intraprendente La nave di Teseo. Confesso: ho
iniziato a leggerlo al contrario, da pagina 111, dall’ultimo capitolo, poiché i
circoli viziosi mi affascinano. L’incipit è straordinario: “Si respira un’aria
fiacca, stanca. Mancano gli stimoli, sono venute meno anche le forze. Una volta
le traevi dalle idee, se non dagli ideali. E le idee sbucavano dai libri. Ma di
che parlano, adesso, i libri? Parlano d’altri libri, non più della vita.
Rimasticano pagine già scritte, dettandone l’ennesima variante. Raccontano una
storia che non ha più il potere di sedurti, né di sorprenderti, perché la
conosci già, e ciò che conosci non ti piace, o comunque non ti meraviglia. È
dallo stupore che si genera la filosofia, diceva Aristotele. Ma il filosofo
attinge a un’energia vitale, che a sua volta si trasmette con parole nuove,
vergini. Le nostre parole, invece, parrebbero tutte consumate. E allora i libri
si ritorcono in se stessi, diventano sempre più autoreferenziali, cadono nel
vizio di Narciso”. Be’, anche questa
rubrica scrive di libri, tutti da pubblicare e tutti da leggere. Li scelgo con
cura, perché non sono tutti uguali. Mi sorprendono e attivano la circolazione
del sangue e del pensiero. Li leggo e ne scrivo per farli leggere. Comprendo l’aria
fiacca e la stanchezza. Non sono anni felici. Eppure, basta cercare, scoprire e
ti sorprendi, magari con piccole chicche, delizie che ti seducono, che hanno il
potere di trascinarti altrove, lontano dal rumore di rito. Il regno dell’uroboro ci
riesce, alimenta il sangue e il pensiero senza farci mordere la coda, ma
guardando avanti, problematizzando l’infernale sconquasso della mente, gli
innumerevoli bombardamenti che la Rete impone di subire alla vita, alla nostra
vita. È vero, riteniamo di vedere e siamo visti. Riteniamo di scoprire e siamo
scoperti. Riteniamo di spogliare e siamo spogliati. Nudi. Completamente nudi.
“La Rete diventa un po’ come uno specchio, una superficie riflettente dove non
si moltiplica l’immagine del mondo bensì quella dei singoli individui”. La
solitudine di Narciso, la solitudine dei molti, comuni e non numeri primi, in
un tempo di amicizie forzate, non volute, l’algoritmo al potere, perché “dietro
lo schermo del nostro cellulare o del computer c’è un sarto invisibile, che ci cuce
addosso un vestito su misura. Può farlo un governo, per migliorare l’erogazione
dei servizi pubblici, calibrandoli in base alle esigenze dei propri cittadini.
Lo fanno, ormai, tutte le imprese, allo scopo di offrire prodotti in linea con
i gusti dei consumatori”. Siamo indifesi. Più vogliamo vedere, più siamo visti.
Più vogliamo spogliare, più veniamo spogliati: “Per ricevere una app o per navigare dentro
un sito bisogna accettare i cookie,
questi Dracula elettronici che ci succhiano i dati personali”. Veniamo
regolarmente scippati, truffati attraverso il dono. Continua Ainis: “Le big companies ci regalano
le loro informazioni, noi gli regaliamo i nostri dati. Solo che il nostro
regalo è inconsapevole, non ci rendiamo conto né del cassiere né del prezzo.
Mentre il loro non è affatto un regalo, casomai uno scippo, sia pure in guanti
gialli”. Gli esempi portati dall’autore a sostegno della tesi sono
incontrovertibili. C’è spazio anche per Michel Foucault. Veniamo osservati e
“frugati dentro e fuori, senza sapere chi ci osserva, senza incrociarne mai lo
sguardo”. Siamo ingenui. Come tanti bambini davanti all’emozione del gioco
senza fine. Prigionieri di un gioco, sporco, che non ha fine. Le strutture,
inizialmente aperte, si sono trasformate in microcosmi chiusi: Google,
Facebook, Twitter, Instagram. Libertà pubbliche e controlli privati: “Il nuovo
che avanza non è un sapere diffuso, bensì un’ignoranza confusa”. Ainis, ovviamente,
non può non emettere una radiografia puntuale su un’altra autoreferenzialità: quella
degli pseudo-partiti, della capocrazia. Eppure, “la democrazia – diceva Kelsen,
sulle orme di Platone – è assenza di capi”. Kelsen? Platone? Chi erano costoro?
Qualcuno conosce Rousseau, ma è soltanto il logo di una piattaforma. Per il
resto, è solitudine di massa. E un clic. Un semplice clic. Per fingere
partecipazione, mentre la democrazia tramonta. Elementare, Ainis! Eccellente,
Ainis!
Il regno
dell'uroboro
Viviamo
online in modo paradossale. Non è mai esista una tale abbondanza di
informazioni a rendere più trasparente il mondo, eppure molti dei processi
algoritmici che governano Internet e i social media sono tutt’altro che
trasparenti e rendono oscuro come diventi visibile ciò che vediamo. Online
possiamo esercitare gradi elevati di controllo sul nostro racconto quotidiano,
scegliendo le immagini e le parole con cui presentarci e decidendo con chi
condividerli ed entrare in relazione; ma questi stessi contenuti diventano uno
strumento di controllo nei nostri confronti da parte degli Stati (la lezione di
Snowden è sempre attuale) e delle piattaforme che li trasformano in dati da
mettere in relazione a fini di sorveglianza e predittivi. Al centro di questo
scenario c’è l’ambivalenza con cui viviamo la privacy, contenti che le nostre
vite sbuchino da Facebook, Twitter e Instagram diventando visibili e condivise
così da ottenere commenti e like e pronti a risentirci quando qualche imbarazzo
privato inaspettatamente viene alla luce. E anche su questo versante la nostra
società vive un paradosso: di privacy “non ne abbiamo mai avuto così poca come
da quado esistono norme, garanti e garanzie per proteggere i nostri dati
personali”, come spiega Michele Ainis, costituzionalista e membro
dell’Antitrust, nel suo “Il regno dell’uroboro” (La nave
di Teseo). Perché, sostiene Ainis, le istituzioni non riescono a costruire una
normativa capace di rispondere efficacemente alla combinazione tra:
accelerazione delle tecnologie digitali con le corrispondenti trasformazioni in
termini di possibilità comunicative; comportamenti sociali che hanno
interiorizzato le forme di mediazione (e disintermediazione) delle relazioni
sociali ed economiche e che portano ad aggregarsi attorno a piattaforme; una
sorta di predisposizione antropologica connessa alla vita digitale che porta a
preoccuparci poco della privacy a fronte dei vantaggi immediati che otteniamo
nel creare profili che garantiscono navigazioni e servizi personalizzati e
gratuiti. Potremmo
dire che siamo psicologicamente e socialmente indotti a dare il consenso alle
piattaforme, a permettere di trattare i nostri comportamenti online e i nostri
contenuti sotto forma di dati da raccogliere, accatastare e usare per una
possibile profilazione a fini commerciali o di propaganda: “ogni contatto, ogni
ricerca, ogni giudizio che ti scappa via su un social network si
trasforma in merce, e la merce sei tu stesso, sono i frammenti della tua
identità” (p. 50). È una realtà quella descritta che mette al centro del
funzionamento dell’Internet delle piattaforme una logica dei “filtri” che
selezionano per facilitare la personalizzazione dei servizi e delle informazioni
che ci interessano, finendo per chiudere gli utenti in “bolle” in cui la
probabilità di incontrare le opinioni che già si condividono è sempre più alta
e che tengono selettivamente al di fuori la diversità. Questa prospettiva ha
ricadute innegabili sui meccanismi democratici fondati su un fluido scambio di
idee e su quella che è la democrazia deliberativa. Il contesto che Ainis
descrive è quello di una bubble democracy in cui “le correnti d’opinione
si muovono in sciami dalle traiettorie imprevedibili e cangianti, alimentate
per lo più da una carica di risentimento, non dal sentimento” (p. 70). Il
riferimento alla polarizzazione della politica è qui più che evidente ed è
palpabile per ogni lettore che si sia imbattuto nella circolazione di memi controversi,
in discussioni su Facebook che tracimano nell’hate speech, in bufale che
sono oggetto di sharing compulsivo perché, per quanto false, sanno
rappresentare la condizione di risentimento e rabbia meglio di dati scientifici
e notizie ben informate. Usando una buona analogia Ainis spiega come le eresie
abbiano una funzione di aggregazione e collante sociale superiore
all’ortodossia e, possiamo aggiungere, la loro forza eversiva ha capacità di
iniettare dubbi sistemici che mettono a rischio la struttura stessa della
democrazia. Quella delle fake news e della propaganda non è una realtà nuova
nell’ambito della società in generale e della politica in particolare, la
novità è data dall’intrecciarsi di diversi elementi che rendono la scala, la
velocità e la magnitudo di questi fenomeni decisamente più rilevanti: le
caratteristiche architetturali della Rete che, essendo policentrica, rende più
facile e capillare la propagazione e più complesso strutturare forme di frenata
e rettifica; le tendenze algoritmiche alla diffusione di ciò che risulta più
condiviso, scambiandolo con ciò che è condivisibile; la sfiducia generalizzata
rispetto a una serie di intermediari istituzionali, compresi i legacy
media. È all’interno di questo circuito che “le nostre aspettative sui fatti
finiscono per sostituirsi ai fatti”, celebrando l’era della post-verità. Ainis
descrive in modo colto e documentato questo contesto in cui evoluzione mediale
e comportamenti sociali si relazionano, correlandolo a uno scenario più ampio
che vede i cittadini man mano uscire da una comfort zone democratica (se mai ci
fosse stata!), in cui i corpi intermedi, come ci insegna la politologia, sono
saltati e le “capocrazie” – forme di leadearismo più o meno estreme –
caratterizzano una politica disintermediata. Una strada che secondo l’Autore è
punteggiata da una condizione di solitudine dell’uomo contemporaneo
caratterizzata da “un sentimento collettivo d’esclusione, di lontananza
rispetto alle vite degli altri, come se ciascuno fosse un’isola, una boa che
galleggia in mare aperto” (p. 106). Una tesi questa già esplorata dalle
posizioni alla bowling alone di Robert Putnam o della “solitudine del
cittadino globale” di Zygmunt Bauman, che mostrano il dissolversi della
comunità e l’indebolimento del capitale sociale. Riflessioni che però devono
tenere conto di una realtà diversa – che Internet e i social media modellano ma
non determinano – che è fatta di comunità networked, frutto di profonde
trasformazioni sociali, costruite attorno a rapporti specializzati mediati
comunicativamente, in cui gli individui si muovono attraverso reti multiple
agendo separatamente nei propri network per ottenere informazione,
collaborazione, ordini, supporto, sociabilità e senso di appartenenza – come
spiega ad esempio l’analisi sul networked individualism di Barry
Wellman. D’altra parte il quadro tratteggiato da Ainis vuole dipingere
quello che è il “regno dell’uruboro”, conducendoci, per metafora, a una figura
chiusa a cerchio che rimanda all’idea di auto-referenza. Auto-referenza della
politica, auto-referenza legislativa e auto-referenza dell’individuo, che fa
delle nuove reti sociali in cui è immerso – anche attraverso Internet – la sua
gabbia dorata. Non è qui
questione di pessimismo o di ottimismo ma di capire se e come queste letture
possano essere funzionali a una fondata critica dell’attuale condizione
politica e delle vite connesse. La caduta delle ideologie e dei corpi intermedi
non è, ad esempio, correlabile alla perdita di capitale sociale e alla
solitudine di massa (sottotitolo del libro). Lo spiega Putnam nel suo lavoro
con Feldstein Better Together quando afferma che “il capitale sociale
“non rappresenta un’alternativa al conflitto sociale, ma un modo per rendere
produttive le controversie”. D’altra parte il moltiplicarsi di aggregati online
razzisti e xenofobi, per non parlare di comunità connesse antiscientiste, sono
l’espressione di nerwork sociali in qualche modo coesi: il capitale sociale può
essere utilizzato anche verso scopi moralmente ripugnanti, non ha un
orientamento puramente etico. In definitiva il peccato originale di questo
agile volume sta nella sua forza, quella di parlare in modo chiaro a un
pubblico italiano di lettori che in qualche modo rappresentano una élite, sia
per la scelta del genere saggistico sia perché il lettore di libri è sempre più
una nicchia mediamente benestante e matura che probabilmente condivide
generazionalmente con Ainis le preoccupazioni per le trasformazioni che vede
prodotte dal digitale. Sono gli stessi lettori che partecipano a un dibattito
pubblico che in Italia è sempre stato piuttosto povero e che vive di
suggestioni giornalistiche, pronte a cogliere e divulgare solo alcuni aspetti
della ricerca scientifica relativa al digitale e ai comportamenti sociali relativi.
Dibattito che tende a essere polarizzato nei legacy media riconducendo
le posizioni in campo a tecno-ottimismo o a tecno-pessimismo, cadendo quindi
nello stesso limite che viene attribuito ai contesti online. Non che le
preoccupazioni di Ainis non siano condivisibili, ma le condizioni di
possibilità che generano il contesto attuale e le ragioni dei fenomeni che
esplora meritano di essere comprese più alla radice. Quello che stiamo
affrontando, a mio parere, è una frattura epistemica che non può essere compresa
cercando continuità e discontinuità con la condizione precedente, ad esempio
confrontando verità e post-verità, democrazia e democrazia elettronica, free
speech e hate speech. O meglio lo si può fare ma a condizione che si
colga il fatto che questi non sono altro che sintomi di una differenza di
valori e atteggiamenti che si è prodotta tra gruppi sociali: pensiamo a quella
fra globalisti e sovranisti, e che ha prodotto universi culturali non solo
distinti ma che confliggono tra loro. La verità, la politica, la tecnologia
sono tutti terreni di scontro tra semantiche diverse, fra forme diverse di
rappresentazione del mondo che gli individui utilizzano come terreno espressivo
per la propria identità e per costruire grumi sociali e vischiosità in una società
raccontata come liquida.
"Il regno dell’Uroboro",.
Articolo/cpmmento
di Maurizio Ferraris - La Repubblica
Tutto,
ricorda Michele Ainis ne Il regno dell’Uroboro — volume che raccoglie suoi
recenti articoli e saggi brevi, alcuni dei quali apparsi, in forma leggermente
diversa, su Repubblica — inizia meno di nove anni fa, il 4 dicembre 2009,
quando Google avvisa che comincerà a personalizzare gli avvisi in base agli
utenti: se cerchi “calcio”, in base alle tue navigazioni ti può venir fuori
“Juve” o “Roma” (e se cerchi spread, reddito di cittadinanza, vaccini, Junker
che barcolla, avrai risposte coerenti con le tue abitudini). Perché tutto
questo ha un valore epocale? Perché da quel momento si è compreso che la
funzione capitale del web era registrare molto più che comunicare. Chi accede
al web ha fisicamente l’impressione di guardare la televisione, ma in realtà
tra il guardare un video in tv o sul telefonino ha luogo una rivoluzione
copernicana. Nel primo caso, siamo noi che guardiamo il video. Nel secondo, per
così dire, è il video che guarda noi, nel senso che annota quello che
guardiamo, i commenti che facciamo, le persone a cui inviamo il link, la
frequenza con cui ci ritorniamo. Il grandissimo merito di Ainis è di isolare
lucidamente le conseguenze di questa rivoluzione, e di farlo con grandissima
concisione, il che è un merito in sé, ma anche comparativamente, se si
considera la pletora di libri che escono sul web, prima entusiastici, ora per
lo più critici, ma che lasciano l’impressione di non aver colto il punto. Le
conseguenze della rivoluzione riguardano essenzialmente il sapere, la politica
e il lavoro. Sul piano del sapere, abbiamo una sorta di monadizzazione della
conoscenza, cioè la «solitudine di massa» di cui parla il sottotitolo del libro
di Ainis. Ognuno di noi è una monade nel senso che si rappresenta il mondo, il
world wide web, da una prospettiva, la sua, personalissima. Così che la “Rete
ampia come il mondo” diviene la descrizione di casa nostra. E noi tutti viviamo
in mondi diversi. È facile vedere come, nell’ambito della politica, questa
frammentazione sia il terreno di coltura ideale per la crescita delle
convinzioni identitarie, della rappresentazioni dogmatiche, delle teorie del
complotto. Se nella tua echo camber sono convinti che la Luna è fatta di
formaggio ti apparirà naturale pensare che chi dice che è fatta di pietra è
parte di un complotto. E questo non vale ovviamente solo per la Luna, ma viene
a toccare elementi più sensibili come il funzionamento dei mercati, le
conseguenze delle manovre economiche, le conseguenze socioeconomiche delle
migrazioni. Ma mentre gli elettori hanno informazioni molto parziali, perché
monadiche, gli eletti (purché abbiano i soldi per pagarsi le informazioni,
soldi ben spesi) ne hanno di molto esatte, almeno sulle credenze degli
elettori. Da una parte, i politici sono visibilissimi, ma questi sono fatti
loro, se lo scelgono attraverso una frequentazione compulsiva dei social.
Dall’altra, ed è più significativo e drammatico, abbiamo il passaggio dei
politici da classe dirigente a classe diretta, perché quello a cui rispondono
non è una opinione pubblica vaga e impalpabile, ma una rappresentazione esatta
del gradimento e dei desideri degli elettori. E se prevale, poniamo, la
dottrina della luna fatta di formaggio, allora sarà politicamente doveroso dar
vita alla lega del formaggio e al movimento della luna. Di solito, le idee
balzane e i sentimenti complottisti sono il frutto immaginario di disagi paure
reali, per esempio rispetto al lavoro. È un fatto che c’è sempre meno lavoro e
non è chiaro come potrà tornare. Da questo punto di vista, bisognerebbe
distogliere gli occhi dal complotto della luna e dei mercati e considerare un
fatto a cui pochi prestano attenzione. Mentre soddisfiamo i nostri bisogni ed
esprimiamo le nostre idee, creiamo enormi archivi su noi stessi, sulle nostre
abitudini, sulle nostre regole e sui nostri strappi alla regola. Così facendo,
lavoriamo, gratis e senza saperlo, perché produciamo una ricchezza molto
superiore a quella dei soldi. Un capitale che non si limita a dare informazioni
su quanto possiamo spendere, ma su quello che siamo e quello che vogliamo.
Mentre rinunciamo spensieratamente alla privacy, produciamo ricchezza. Ora, la
privacy non ha prezzo, e non è chiaro come possa essere tutelata. Ma il lavoro
che produciamo un prezzo ce l’ha, può essere quantificato, e deve essere pagato
dalle piattaforme senza gravare sui bilanci degli Stati. Riducendo lo scontento
sociale, e magari rendendo più onorevole, fattibile, e gratificante, il compito
politico di servire un popolo meno impaurito e arrabbiato.
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