Riprendiamo con questo post il tema della incomprensibile sostanziale indifferenza
umana ai rischi di totale collasso ambientale affrontati dal saggio “Il grido”
di Antonio Moresco scelto come “Saggio del mese” di Ottobre 2018
Come guarire dalla
grande cecità
grande cecità
Riscaldamento
globale e letteratura,
tecnologia e natura,
umano e non-umano
tecnologia e natura,
umano e non-umano
intervista
ad Amitav Ghosh (antropologo
indiano, scrittore e giornalista) di Matteo De Giuli (senior editor del Tascabile. Collabora con Radio3
Rai, al microfono a Radio3 Scienza. Co-autore di una newsletter che si chiama
MEDUSA) e Nicolò Porcelluzzi ( editor del Tascabile, ha scritto per Prismo,
l'Ultimo Uomo, Not e altre riviste. Co-autore di una newsletter che si chiama
MEDUSA) tratta dalla rivista on-line La Tascabile
Siamo a pochi passi da una catastrofe: nel lungo
periodo, nell’arco di decenni, andremo incontro a trasformazioni irreversibili.
La dimensione reale del problema del riscaldamento globale è difficile da
abbracciare con il pensiero. Spesso si è detto che il disinteresse generale che
ha aleggiato a lungo attorno a questi temi dipende dalla natura stessa del
nostro cervello o della nostra morale, strumenti inadeguati per avvertire
l’urgenza di problemi lontani nel tempo e nello spazio. Secondo qualcuno
insomma è colpa della natura umana, dei limiti cognitivi che ci confondono,
portandoci a sottovalutare problemi complessi e non immediati. Secondo altri è
colpa soprattutto del sistema capitalista. Le teorie economiche dominanti non
solo presumono che avremo un accesso perpetuo a fonti energetiche redditizie
come il carbone fossile, ma sembrano ignorare l’entità dei costi che non
possono essere recuperati: il cambiamento del clima appunto, e i conseguenti
squassi sociopolitici. Strutture cognitive o avidità? Probabilmente è un
concorso di colpe.
Negli ultimi due anni
ci siamo ritrovati più di una volta a rileggere La grande cecità di
Amitav Ghosh (uscito in Italia per Neri Pozza, traduzione di Anna Nadotti e
Norman Gobetti). Ghosh è indiano, vive a Calcutta e New York, e con il suo
saggio ha raggiunto un successo planetario. Il titolo originale del pamphlet è The
Great Derangement, il grande squilibrio: perché non solo siamo ciechi di
fronte a trasformazioni che superano le nostre capacità percettive, ma chi
dovrebbe raccontarle – scrittori, divulgatori, artisti in generale – le ignora.
O inizia a occuparsene con grave ritardo. Nel corso del tempo, la natura è
stata consegnata alla scienza, rimanendo preclusa alla cultura. L’abisso che
oggi divide natura e cultura è il risultato di uno degli impulsi originari
della modernità, secondo Ghosh – che riprende le idee di Latour. Una divisione
e un rimosso che hanno portato al distacco degli scrittori dalle questioni
scientifiche, degli intellettuali dalle questioni climatiche e, di riflesso,
degli scienziati dal dibattito culturale. Nel giro di poco tempo La grande
cecità è stato ripreso e citato da scienziati, ricercatori, artisti,
giornalisti e scrittori – che forse hanno sentito, per una volta, di essersi
trovati finalmente raccontati dalla stessa storia.
Nella Grande
cecità metti in discussione l’egemonia del romanzo borghese, cioè bianco e
agiato: è un’idea di letteratura – scrivi – che ha ignorato un problema urgente
e complesso come i cambiamenti climatici e ha represso le potenzialità
dell’invenzione letteraria.
La cultura
occidentale post-illuminista è stata spinta nella direzione di una sorta di
trionfalismo, nella convinzione che il mondo esterno fosse stato sconfitto e
addomesticato. Atteggiamenti borghesi che sono, ovviamente, intimamente
connessi con le questioni di razza, colonialismo e conquista – perché anche la
Natura è stata vista come un dominio da conquistare, da dominare e sfruttare.
È cambiato qualcosa
dalla pubblicazione del libro? La letteratura e le arti “mainstream” si sono
avvicinate ai temi del riscaldamento globale?
Sì, penso che
qualcosa sia cambiato in questi due anni; c’è una consapevolezza sempre più
grande del fatto che i cambiamenti climatici non sono solo un problema
economico o tecnologico, che anche la cultura ha un ruolo centrale, sotto ogni
punto di vista. Un cambiamento che può essere, almeno in parte, risultato degli
effetti quotidiani del riscaldamento globale, che sono diventati sempre più
visibili e gravi negli ultimi anni – incendi, siccità, alluvioni stanno
colpendo la vita delle persone in un modo nuovo, immediato, impossibile da
ignorare.
A quali scrittori
stai pensando, in particolare?
Per quanto riguarda
la narrativa, uno degli sviluppi maggiori di quest’anno è stata la
pubblicazione di Overstory di Richard Powers, un romanzo magistrale, che
è rigidamente ambientato ai giorni nostri (ovvero quelli dell’Antropocene). Il
libro affronta, in una maniera creativa e brillante, la sfida fondamentale
della nostra epoca: dare voce al non-umano. Al tempo stesso, giustamente, Overstory
non è stato marginalizzato come romanzo “di genere”. Al contrario, è stato
inserito nel flusso della narrativa mainstream ed è stato trattato come un
romanzo che merita la considerazione critica più profonda e seria (è finito
anche nella short-list del Booker Prize). Questo è un segnale, credo,
del fatto che qualcosa sia effettivamente cambiato nella letteratura
“tradizionale”.
Pensi che la
letteratura debba per forza contenere una riflessione sociale? Che debba per
forza servire a qualcosa?
Per
come la vedo io, la scrittura non può essere programmatica – diciamo così.
Dalla scrittura che ha come prima intenzione quella di servire come megafono di
una causa, raramente nasce buona letteratura. Allo stesso tempo, com’è ovvio,
scrittori e artisti non possono ignorare o evitare le questioni più urgenti dei
loro tempi. Quello che rende buona un’opera d’arte o di letteratura – come per
esempio Overstory – è fondamentalmente un mistero, nel senso almeno che
non abbiamo a disposizione nessuna formula precisa.
Insisti
molto sul concetto di riconoscimento del non-umano come parte dell’umano,
sull’importanza di creare un dialogo tra noi e la vita che ci circonda sul
pianeta. Però parli spesso anche di spaesamento, della natura come materia
perturbante, uncanny, unheimlich: come possiamo davvero tutelare
qualcosa che ci fa paura?
Rigiro la domanda,
perché l’antropocentrismo della letteratura contemporanea non è, nella mia
mente, una causa: è il sintomo di uno spostamento culturale più ampio. Moby
Dick di Melville, per esempio, non era centrato sull’essere umano come invece
tanti romanzi contemporanei. Oggi mettiamo l’uomo al centro delle narrazioni in
gran parte come effetto di ciò che chiamiamo “sviluppo” o “modernità”. In città
non dobbiamo più fare i conti con molti aspetti non-umani di ciò che ci
circonda, cosa che invece, ancora oggi, sono costrette a fare le persone che
dipendono dall’agricoltura, dalla caccia e dalla pesca. In altre parole, lo
stesso processo che pompa gas serra nell’atmosfera sembra anche averci privato
della vista delle conseguenze delle nostre azioni, serrando la nostra
attenzione solo sull’umano.
Scrivere un libro
come La grande cecità significa scrivere un libro di storia, di
antropologia, di letteratura, di urbanistica perfino. Al fuori del giro
letterario, come è stato accolto negli altri campi, come è stato letto da
ricercatori e scienziati?
Devo essere sincero,
l’accoglienza che ha avuto il mio libro mi ha meravigliato. È stato recensito
in maniera ampia e indulgente. È stato adottato nelle università di molti
Paesi. Un’importante rivista accademica, il Journal of Asian Studies, ha
pubblicato un forum speciale che partiva dal libro. Ha vinto dei premi, come il
primo Utah Award in Environmental Humanities. Ma soprattutto ha acceso
conversazioni lungo tutto lo spettro culturale, nelle arti, in architettura, in
urbanistica e anche nelle scienze dure. Il tema del padiglione polacco alla
Biennale d’architettura di Venezia di quest’anno era ‘Amplifying Nature; the
Planetary Imagination of Architecture in the Anthropocene’ e coinvolgeva in
maniera profonda il mio libro. In maniera simile vari artisti e critici mi
hanno chiesto di collaborare, e anche i ricercatori hanno avuto una reazione
calorosa. Adam Sobel, per esempio, professore di scienze dell’atmosfera alla
Columbia University, mi ha confessato di aver iniziato un progetto per
analizzare le minacce dei cambiamenti climatici a Mumbai come risultato diretto
di una conversazione che abbiamo avuto sul mio libro. E i suoi studi potranno
avere un impatto sulla gestione delle emergenze a Mumbai, che è, come sappiamo,
una città molto vulnerabile. Tutto questo, ovviamente, ha superato di gran
lunga le mie aspettative sulla Grande cecità.
Nell’ultimo capitolo
analizzi il dizionario vuoto, volutamente vago, degli accordi e delle
conferenze mondiali sui cambiamenti climatici, come la COP24 in corso in questi giorni in
Polonia. Possiamo ancora aspettarci qualcosa di positivo
dalla diplomazia del clima?
Quest’anno, dopo tre
decadi di conferenze climatiche, c’è stata una notevole impennata di emissioni
di gas serra. Direi che è una prova sufficiente del fatto che la diplomazia ha
fallito. Questo significa che dobbiamo rassegnarci? No, ovviamente – perché
anche se alcune conseguenze dei cambiamenti climatici sono ormai inevitabili, è
ancora possibile scongiurare gli scenari peggiori.
Chi soffrirà di più
per le conseguenze dei cambiamenti climatici? I paesi ricchi o le nazioni in
via di sviluppo?
Non penso ci sia una
risposta semplice. Ovviamente le persone povere saranno duramente colpite. Ma è
sempre più chiaro che anche le persone agiate andranno incontro a conseguenze
serie, inaspettate. Prendi per esempio Houston, una città molto ricca, che ha
dovuto affrontare l’uragano Harvey, oppure Malibu, circondata dalla
devastazione degli incendi. O anche la stessa Italia, un paese del “primo
mondo”, che negli ultimi mesi ha registrato diversi eventi climatici estremi. Sotto
molti punti di vista, comunque, chi è più a rischio è forse in generale la
classe media, che ha come risorsa finanziaria principale case e appartamenti.
Per due ragioni. La prima è che, sotto la minaccia della catastrofe, si è visto
in diversi casi come i proprietari di case siano restii ad abbandonare i propri
appartamenti, preferendo mettere a rischio le proprie vite. La seconda è che,
ovviamente, una volta persa la casa hanno perso ogni risorsa.
La tecnologia ci
potrà venire in soccorso in qualche modo? Pensiamo per esempio alle tecniche,
ancora embrionali, di cattura dell’anidride carbonica.
Non credo che la
tecnologia ci possa salvare, credo anzi che la fede nelle soluzioni
tecnologiche sia essa stessa parte del problema più ampio, parte di ciò che ci
ha impedito di riconoscere la vera dimensione della sfida che avevamo davanti.
E, peggio ancora, sembra quasi inevitabile, adesso, che alcune “soluzioni
tecnologiche”, sotto forma di geo-ingegneria, ci verranno imposte nei prossimi
anni, che ci piaccia o no. È ironico, perché queste scelte ci verranno
presentate come inevitabili. Come scrive Isabelle Stengers, il dibattito si
ridurrà alla forma sterile “O così, o sei parte della catastrofe climatica”.
Uno dei precetti fondativi della modernità è che la tecnologia fornirà sempre
una soluzione; un credo che è stato quasi letteralmente inserito anche
nell’accordo sul clima firmato alla COP di Parigi nel 2015. Ma è sempre più
chiaro il fatto che non c’è ancora una tecnologia affidabile che possa
catturare e stoccare l’anidride carbonica, non alla scala richiesta. Forse una
tecnologia del genere verrà inventata e perfezionata un giorno, ma è
improbabile che possa succedere all’interno della piccola finestra di tempo che
ci rimane prima di entrare in un periodo di completa incontrollabilità
climatica.
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